BORSELLINO/gli scritti

Borsellino a matita

 

Borsellino a matita

I GIORNI DI GIUDA Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 Ore dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo, Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a far il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlano, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della repubblica di Palermo dove a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter lì continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler far lui per Palermo. E in fin dei conti se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge anche nei momenti di maggiore successo le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare. Soprattutto, per consentirgli di ritornare – a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché forse ripensandoci quando Caponnetto dice “cominciò a morire nel gennaio del 1988” aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per poter continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura. Il 25 Giugno 1992 Paolo Borsellino interviene ad una manifestazione promossa da MicroMega presso la Biblioteca di  Palermo in data 25 giugno 1992. E’ il suo ultimo intervento pubblico prima di essere ammazzato

IL VOLTO ECONOMICO DELLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA   Intanto vorrei è la campagna elettorale in corso che mi deve impedire di esprimere in proposito il mio pensiero. E il mio pensiero è che in realtà non può contestarsi che negli ultimi periodi sembra che il governo, e in genere il potere legislativo, abbia mostrato di prendere contezza di quanto è importante il problema da affrontare e di quanto sia necessario organizzarsi per affrontarlo seriamente. Le riforme legislative cui si è accennato, cui accennava il moderatore, sono riforme verso le quali va il mio giudizio sicuramente positivo. Tuttavia sono estremamente preoccupato perché queste riforme rischiano in questo momento di diventare una nuova tabella messa sull’entrata di un edificio che rimane sempre lo stesso. Perché se si decide di affrontare effettivamente, almeno sul piano repressivo, perché per ora mi sto occupando solo di questo, il problema della criminalità mafiosa questa decisione deve essere una decisione globale perché non si può istituire, come meritoriamente si sono istituiti, nuovi strumenti per la lotta alla criminalità mafiosa – uno di questi è la Direzione Distrettuale Antimafia, che ha premettere, riallacciandomi alle osservazioni introduttive del moderatore, che questo dibattito lo stiamo facendo nel corso della campagna elettorale ma l’avremmo potuto fare in qualsiasi altro momento, in quanto non tratta di problemi che interessano specificamente la campagna elettorale ma tratta di problemi che interessano il Paese e lo interessano in ogni momento, anche quando si è lontani dalle elezioni. Ho voluto dirlo perché mi è giunta notizia, non appena io sono arrivato in questo edificio che non conoscevo, che addirittura ci sarebbe stata una definizione di questo incontro come “cocktail di magistrati”. A parte il fatto che in questo tavolo di magistrati in attività di servizio ci sono soltanto io, c’è qualcuno che aspira ad andarsene e gli faccio tutti i miei auguri perché ritengo che potrà portare nella nuova sede, nelle nuove funzioni a cui aspira, tutta la competenza, tutto l’ardore della sua attività e vorrei aggiungere anche tutta la sua simpatia. Ce ne è qualcuno che aspira, estremamente contrastato, a rientrarci in magistratura ed egualmente mi auguro che al più presto possa rientrarci e ce ne è qualche altro, ce ne è un altro che a quanto pare, e anche questa è una notizia che ho appreso stasera, si appresta anch’egli a rientrarci. Però, in questo momento, magistrato in attività di servizio sono soltanto io. E ci sono io non per partecipare, sia ben chiaro, a una manifestazione che abbia qualcosa a che fare con la campagna elettorale ma ci sono io perché sono stato sollecitato, e ho aderito di buon grado a questa sollecitazione, a trattare problemi di cui sempre mi sono occupato, problemi che mi affascinano e che mi tormentano, problemi dei quali ho parlato in tante e in ben altre occasioni e ne parlo pure in questa occasione perché non già cominciato ad operare e la Direzione Nazionale Antimafia, che ancora invece non opera -,  senza accompagnare queste decisioni da una volontà globale che sia diretta soprattutto a fare funzionare queste nuove strutture. E se il potere legislativo e il potere esecutivo affrontano questi problemi, istituiscono la Direzione Distrettuale Antimafia ma, contemporaneamente, ad esempio, continuano in modo forsennato a mal distribuire i giudici sul territorio… Perché è un bel dire che è colpa soltanto delle leggi che regolano i trasferimenti dei magistrati, è un bel dire… Quindi nel riversare queste responsabilità soltanto sul Consiglio Superiore… Perché non dimentichiamo che mentre si applicavano le leggi, mentre si emanavano le leggi sulla Direzione Distrettuale Antimafia e sulla Direzione Nazionale Antimafia e sulla Direzione Investigativa Antimafia il Parlamento continuava in modo forsennato a creare nuovi Tribunali, mal distribuendo, continuando a mal distribuire i giudici sul territorio. Credo che in contemporanea alla istituzione della Direzione Distrettuale Antimafia sono stati creati in Italia credo altri cinque Tribunali. E creare altri cinque Tribunali, cioè continuando in senso esattamente contrario a quello che si è fatto con la istituzione delle direzioni distrettuali che tendono invece ad accentrare a livello regionale le indagini, continuando invece a suddividere ancora le già piccole circoscrizioni dei Tribunali italiani, regolati secondo concetti geografici che risalivano al secolo scorso, significa creare problemi di riempimento con le forze necessarie a questi Tribunali perché ora ci vorrà un Procuratore della Repubblica in più a Barcellona Pozzo di Gotto, un Procuratore della Repubblica in più a Nocera Inferiore, un Procuratore della Repubblica in più negli altri tre o quattro Tribunali che sono stati istituiti. Questo evidentemente è indice del fatto che il potere legislativo e il potere esecutivo continuano in questa materia a camminare in modo schizofrenico, nonostante il mio giudizio sia estremamente positivo su queste nuove strutture per combattere la criminalità mafiosa dal punto di vista della repressione. Concordo pienamente con quanto detto nell’ultima parte dell’intervento di Aldo Rizzo sul fatto che la lotta alla criminalità mafiosa non può essere ristretta al momento repressivo perché la criminalità mafiosa ha delle caratteristiche particolari e delle radici socio-economiche così precise che se non si incide sulle radici del fenomeno l’intervento repressivo, sia quello delle forze di polizia, sia quello giudiziario, sarà destinato a un intervento a ripetersi continuamente perché non sarà altro che una fatica di Sisifo fatta da persone che hanno il solo compito di accertare la consumazione di reati, di individuare i presunti colpevoli, condannarli se colpevoli, se accertata la loro colpevolezza, assolverli se la loro colpevolezza non viene accertata. Questo con il fenomeno ha poco a che fare. Sperare che un rafforzamento, un perfezionamento delle istituzioni repressive sia sufficiente ad incidere seriamente sul fenomeno mafioso è una speranza sicuramente vana ed è una sorta… anzi, l’enfatizzare questo tipo di interventi finisce per diventare uno dei termini di un pericoloso ricatto: cioè noi vi abbiamo dato gli strumenti, voi non li avete saputi usare quindi voi siete i responsabili.  Tavola rotonda dal titolo “Criminalità, giustizia” tenutasi a Palermo, in vista delle elezioni politiche, il 27 marzo del 1992. Da archivio sonoro Radio Radicale Ca n° 104989. Trascrizione a cura di Monica Centofante.  La trascrizione è fedele al documento sonoro, con alcuni interventi a discrezione dell’operatore: 1) l’apposizione della punteggiatura; 2) l’inserimento di parole, comprese in parentesi quadre, per aiutare la comprensibilità del testo; 3) la correzione delle deformazioni fonetiche dialettali.

ROCCO CHINNICI – UN UOMO CHE ANDAVA CONTRO CORRENTE L’umiltà, la saggezza, la serietà e l’amore di Paolo Borsellino verso il suo prossimo e i suoi fraterni colleghi Chinnici e Falcone si evidenziano chiaramente anche in questa prefazioneHo riletto con intensa emozione questi brevi scritti di Rocco Chinnici, che mi hanno fatto ricordare altri suoi interventi pubblici e tante altre conversazioni quotidiane che avevo con lui, di cui purtroppo è rimasta traccia solo nella mia memoria ed in quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo. Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall’interno, come poi fu possibile nella stagione dei “pentiti”. Eppure la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 (è questo l’anno di ben tre dei quattro scritti pubblicati) di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali. Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici, risalenti ad un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze ed ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla convivenza.  Eppure, né generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la collusione, scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una volta mi disse, la “religione del lavoro”. Egli era divenuto, alla fine degli anni ‘70, dirigente dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. E proprio in quegli anni divampò la così detta “guerra di mafia” e si verificarono, non i primi, ma sicuramente i più clamorosi delitti eccellenti. A capo della struttura giudiziaria più esposta d’Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza. Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto “pool antimafia”. Ci prospettò lucidamente le difficoltà ed i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: ché allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, così si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla “palude” al nostro lavoro.  Credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l’opera di Rocco Chinnici e ne realizzò il disegno, pur avendo una personalità completamente diversa dall’altro, ma animato da eguale tensione morale e spirito di sacrificio. Un sereno spirito di sacrificio animò sempre la vita di Rocco Chinnici, il quale non cessò mai di essere consapevole, molto più di quanto sia ragionevole credere, dell’altissimo rischio personale connesso alla sua attività. Egli “sapeva” che la stessa sua vita era un pericolo per le organizzazioni mafiose ed i loro fiancheggiatori e quindi ben presagiva la sua fine. Sapeva che con la sua uccisione si sarebbe tentato di spazzar via le conoscenze e la sua volontà di riscatto e lucidamente non si stancò mai di trasmettere le une ed infondere l’altra sia ai suoi più stretti collaboratori sia a chiunque con cui potesse venire in contatto. E ciò faceva quasi affannosamente, pressato dall’urgenza dei tempi, poiché sentiva montare attorno a lui la minaccia che già aveva prodotto i suoi tragici effetti con Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, le cui uccisioni lo avevano profondamente addolorato ma non impaurito né demotivato.  Chi gli visse accanto in quell’ultimo tragico anno della sua esistenza sa con quale impegno ed abnegazione, giorno e notte, con orari impossibili, continuò a lavorare nell’istruzione di quel procedimento, allora detto “dei 162”, che costituì l’embrione iniziale del primo maxiprocesso alle cosche mafiose, oggi giunto alla sua seconda verifica dibattimentale. Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebbene talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia. Era convinto che solo con un grande sforzo, inteso ad affrontare unitariamente l’esame del fenomeno, cercando di cogliere tutte le interconnessioni fra i grandi delitti, fosse possibile fare su di essi chiarezza, individuandone le cause e gli autori. Sforzo giudiziario reso necessario dalla inerzia investigativa del precedente decennio, la quale aveva creato un vuoto che lui ed i suoi giudici erano chiamati a colmare. Questa fu poi la ragione ispiratrice del maxiprocesso: non astratto modello di indagine giudiziaria, non scelta fra diverse metodologie istruttorie, ma via obbligata da perseguire in quel determinato momento storico, nel quale mancava del tutto una risposta giudiziaria che costituisse punto di riferimento certo per le successive attività investigative. Ma gli erano chiari altresì i limiti invalicabili della risposta giudiziaria alla mafia. Profondamente giudice, ben sapeva che suo compito istituzionale era esclusivamente quello di accertare l’esistenza di reati ed individuarne i colpevoli. Attività non idonea a debellare le radici socio-economiche e culturali della mafia, così profondamente inserita nella realtà del paese da trovare la forza di riprendersi, con accentuata ferocia, dopo ogni “successo” giudiziario nei suoi confronti. Per questo non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sdradicamento. Sono questi concetti che oggi sentiamo continuamente ripetere nei convegni e nelle tavole rotonde e leggiamo frequentemente sulle colonne dei giornali. Ma all’inizio del decennio era già difficile fare accettare il concetto della esistenza stessa della mafia, spesso definita, ed anche in sede autorevole, “volgare delinquenza” ed è merito di pochi, e di Chinnici in prima linea, l’averne intuito la profonda essenza e pericolosità. Analogamente dicasi per la diffusione delle droghe e della tossicodipendenza. Forse in questa legislatura si giungerà finalmente alla modifica delle ormai inadeguate norme della legge del 1975 (aspramente criticata da Chinnici nella conferenza al Rotary Club del 29 luglio 1981), che se non ha favorito ha sicuramente consentito l’espandersi a dismisura del consumo delle sostanze stupefacenti. Quasi dieci anni fa, in periodo di sostanziale sottovalutazione, se non di indifferenza al fenomeno, Chinnici, ben consapevole di andare contro corrente, intuì la pericolosità di una legge permissiva ed il decisivo valore della prevenzione, assumendosene in prima persona il carico. Innumerevoli furono i suoi interventi in tutte le scuole cittadine, i suoi incontri con professori e studenti, i più esposti alla diffusione del flagello, presiedendo dibattiti, partecipando a tavole rotonde, rispondendo a tutte le domande che gli venivano rivolte, sempre, come sua abitudine, citando dati a casi concreti appresi durante la sua lunghissima esperienza giudiziaria nella materia. “Dove trova il tempo?” ci domandavamo talvolta i suoi collaboratori, che ben sapevamo come questa attività non scalfiva affatto le sue capacità di smaltire velocemente e proficuamente enormi quantità di lavoro giudiziario. Lo trovava, lo inventava, con la sua radicata e vorrei dire religiosa convinzione che anche quello era suo indefettibile compito di cittadino; che una lunga e defatigante istruttoria su un omicidio di mafia o su un traffico internazionale di stupefacenti non avrebbe avuto senso compiuto se insieme egli non avesse profuso tra i giovani, che con la sua attività giudiziaria cercava di difendere, anche quei frutti della sua esperienza e della sua cultura che, se ben recepiti, li avrebbero messi in grado di difendersi da se stessi. E questa lezione ai giovani è quella che ha dato più frutti. Il suo risultato è sicuramente il più stabile punto di non-ritorno dell’azione antimafia di Rocco Chinnici, proseguita poi tra mille difficoltà da Antonino Caponnetto e da molti altri, primo tra tutti Giovanni Falcone, non a caso anche lui vittima designata, e fortunatamente scampata, di analogo attentato. Al di là dei sempre incerti esiti giudiziari delle grandi inchieste di mafia, la loro stessa celebrazione e la diffusione dei loro principi ispiratori hanno prodotto nei giovani una nuova coscienza, impensabile nelle precedenti generazioni, che rifiuta la mafia e la tentazione di convivere con essa. Già nel luglio 1983, in una lettera al Presidente della Repubblica, pubblicata nell’appendice di questo libro, giovani studenti palermitani manifestavano fermamente il loro desiderio di liberazione ed invocavano l’intervento globale dello Stato. Appena due anni dopo altri giovani studenti, tutti studenti palermitani, colpiti nelle loro carni dalla terribile tragedia di via Libertà, della quale chi scrive fu involontario protagonista, dimostravano, e lo dimostrano ancora, il livello della loro profonda e sofferta maturazione, non cedendo a comprensibile rabbiosa reazione ma invocando l’instaurarsi delle condizioni di una vita onesta, ordinata, civile. Questi giovani sono gli eredi spirituali di Rocco Chinnici, che tanto amò i suoi figli ed i loro coetanei. Sono i possessori di un lascito duraturo. Ad essi si riferisce il cardinale Pappalardo nella sua omelia funebre del 30 luglio 1983: “Conosce il Signore la via dei buoni, la loro eredità durerà nei secoli”.

CONVERSAZIONI SULLA MAFIA  – Ricordo che, quando ero io un ragazzo, invidiavo un compagno di scuola che asseriva di avere il padre o il nonno “ntisu” (leggi letteralmente: “ascoltato”, ma intendi: “riverito”, “obbedito”. Si tratta di una forma di obbedienza assoluta ad ordini non ostentati, appena pronunciati sia pure sotto forma di consigli o di desideri, ma la cui esecuzione non poteva essere impunemente ignorata). Evidentemente ignoravo che in quegli anni già Cosa Nostra agiva con inaudita ferocia, uccidendo senza pietà anche miei coetanei (ricordo per tutti Paolino Riccobono). Occorre che i giovani sappiano cos’è la mafia perché non accettino mai di vivere con essa. Rispetto al passato, ora si è registrato un passo avanti, in Sicilia, come nel resto del paese, per quanto riguarda la maggiore consapevolezza dell’esistenza e della pericolosità del fenomeno mafioso. Basti pensare che sino a qualche anno fa non era raro trovare chi addirittura negasse l’esistenza della mafia. Non vi è però una corrispondente diminuzione allo stato della pericolosità di Cosa Nostra, che nonostante gli indubbi successi conseguiti dall’apparato repressivo condiziona ancora l’ordinato svolgersi della vita sociale e grava pesantemente sull’economia, non solo isolana. Per fare un rapido excursus va ricordato che già le indagini della prima Commissione antimafia avevano dimostrato l’inconsistenza delle riduttive e spesso interessate opinioni, secondo cui la “mafia” sarebbe soltanto un modello subculturale e “mafioso”, un particolare atteggiarsi di certi soggetti non necessariamente inseriti a pieno titolo nel mondo della criminalità organizzata. Quelle indagini infatti avevano messo in luce l’esistenza di una vera e propria organizzazione criminale, con struttura verticistica e unitaria, pur articolata in numerose “famiglie” mafiose operanti su determinati territori dai quali prendevano nome. Queste conoscenze si dispersero nel decennio 1970-1980 e, scemata del tutto l’attenzione al fenomeno, si consentì all’organizzazione di assumere le pericolosissime proporzioni attuali. Oggi, anche a seguito della ponderosa indagine istruttoria condotta a Palermo, peraltro contestuale a nuova attenzione al fenomeno da parte del legislatore, anche a causa dell’impressionante numero di delitti di sangue verificatisi a Palermo nel biennio 1981-1982, non è più seriamente dubitabile, innanzitutto, che “mafia” in senso stretto null’altro è che l’associazione criminosa “Cosa Nostra” articolata in varie famiglie palermitane, siciliane e campane, che, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle particolari condizioni di assoggettamento ed omertà che ne deriva, commette delitti, principalmente contro la persona ed il patrimonio, ha acquisito il monopolio del grande traffico internazionale di stupefacenti, gestisce e controlla, riciclando il “denaro sporco”, attività economiche cosiddette paralecite. Altre similari associazioni, operanti in altre zone del territorio statuale ed anche all’estero, aventi analoghe caratteristiche, possono dirsi di “tipo mafioso” ed assumono varie denominazioni, quali principalmente “ndrangheta” e “camorra”. Essendo la mafia organizzazione criminale, come ho precedentemente detto, cresce attorno ad essa, come l’acqua attorno al pesce, una miriade di persone, coinvolte comunque negli interessi dell’organizzazione pur non facendone istituzionalmente parte; costoro, che nella migliore delle ipotesi sono coloro che alimentano la convinzione delle possibilità di “convivenza” con la mafia, costituiscono la vera forza dell’organizzazione. Qualcuno, certamente sprovveduto e certamente in buona fede, fino a poco tempo fa continuava a vagheggiare romanticamente una vecchia mafia che dispensava giustizia quando lo Stato era assente e nessuno difendeva il debole dal sopruso del forte. Per non continuare a far vivere suggestive immagini destituite di verità, va detto con la massima forza e chiarezza che, in ordine alle caratteristiche criminali-associative, non vi è alcuna differenza tra la cosiddetta vecchia mafia e la nuova. Vi è stato invece un enorme dilatarsi degli interessi e dei profitti (soprattutto a causa della monopolizzazione del grande traffico di droga) e, quindi, un maggior uso della violenza per assicurarne il conseguimento; violenza che si è più frequentemente rivolta anche contro i rappresentanti delle pubbliche istituzioni, che hanno tentato di affrontare più radicalmente il fenomeno. Io stesso ho sperimentato la forza arrogante del potere mafioso, assistendo per lunghi anni ad una vera e propria strage di colleghi, collaboratori ed amici, proditoriamente uccisi dal piombo mafioso. La subdola e sottile capacità di penetrazione della mafia l’ho accertata da un canto attraverso le indagini che ho condotte. Ne ho sentito personalmente gli effetti nei tentativi anche inconsci fatti da persone conoscenti appartenenti agli ambienti più vari per infondermi sfiducia sulla reale utilità del mio lavoro. Non sono in pochi a sostenere che lo Stato è colpevole, sia pure per mera assenza o disattenzione grave. La vera colpa principale dello Stato è stata quella di aver visto sempre la “mafia”, salvo per brevissimi periodi storici e con accentuati quanto rapidi riflussi, come un problema regionale, non avente come tale gravità sufficiente da sollecitare uno sforzo sia preventivo che repressivo. Altra colpa è quella di aver pensato che essa era un problema della sola magistratura e che, una volta assicurato a questa mezzi e strutture, il problema era da considerarsi chiuso. I fatti hanno dimostrato che non è così. Attualmente infatti (e stiamo, a mio parere, proprio attraversando un’altra perniciosa fase di riflusso) vi è la tendenza degli organi statuali centrali e di certa opinione pubblica ad identificare il problema della lotta alla mafia con quello concernente lo svolgimento del cosiddetto “maxiprocesso”, dimenticando, intanto, che il momento giudiziario non è l’unico né il più importante (perché ha la limitata funzione di scoprire e punire delitti già commessi) e che, per altro, certamente non tutta la mafia è dentro l’aula-bunker e va sostenuta e incoraggiata con sforzi continui e costanti (senza emergenze o normalizzazioni) l’attività di indagine e quella di controllo del territorio ove opera Cosa Nostra. A chi da sempre sostiene che la mafia è attecchita e prospera solamente in Sicilia per la grande presenza di una forte disoccupazione quindi dalla facilità di reperire manovalanza criminale, può obiettarsi – dati alla mano – che non vi è un rapporto costante tra il prosperare degli affari di Cosa Nostra e l’espandersi o il permanere di larghe fasce di emarginazione sociale. Ne è prova l’attecchire delle “famiglie” mafiose (o della loro attività) in centri di grossa concentrazione di ricchezza, quali ad esempio la Lombardia ed il Piemonte. E’ vero comunque che la manovalanza impiegata nelle azioni omicide, nelle estorsioni, nel traffico di droga, etc., viene più facilmente reperita nelle fasce più emarginate della popolazione ed una azione di profondi interventi sociali non può non avere in questo campo che risultati positivi. La vera terra bruciata però può farsi soltanto attaccando il cuore di Cosa Nostra, cioè le sue attività economiche e gli illeciti profitti conseguiti. E’ questo lo spirito della legge Rognoni-La Torre per il cui funzionamento tuttavia occorre trovare modi e sistemi per rendere indagini bancarie e patrimoniali più sollecite e penetranti. In Sicilia, pur con le remore dovute a fattori storici anche estranei all’attività di Cosa Nostra, esiste certamente anche ora un’attività economica onesta che non si riallaccia ad interessi mafiosi. Non c’è dubbio tuttavia che la presenza massiccia di capitali provenienti da attività illecite e gestiti dalle famiglie mafiose, tendenzialmente operanti anche in attività paralecite, in regime di monopolio, finisce per condizionare gran parte delle attività economiche, sia per il più facile reperimento di capitali da parte del mafioso-imprenditore, che già di per sé provoca una marginalizzazione dell’impresa non mafiosa, sia perché anche nelle attività apparentemente lecite il mafioso è portatore di una carica di violenza, utilizzata anche per l’emarginazione della concorrenza. Un passo in avanti compiuto dalle forze sane dello Stato va individuato nella già dimostrata tangibilità del mito dell’omertà: è decisamente già un fattore positivo. Occorre però liberarsi del tutto da certi atteggiamenti subculturali e dalla filosofia del “farsi i fatti propri”. Ma occorre anche qualcosa di più: sostenere con movimenti di opinione e con le più opportune iniziative l’opera dell’apparato repressivo dello Stato e vigilare perché il “riflusso” non riassorba ciò che di positivo si è ottenuto. Occorre aver chiaro il concetto che compito della magistratura e finalità, quindi, dei processi è quello di accertare la consumazione di reati ed applicare le relative pene. Dalle indagini, comunque, emergono spesso episodi di “contiguità” tra personaggi politici, potentati economici e sociali e ambienti mafiosi. Tali episodi raramente integrano gli estremi di reato e danno quindi luogo ad incriminazioni. Tuttavia in presenza di essi è dovere della classe politica o degli ambienti sociali ed economici fare pulizia al loro interno, non trincerandosi dietro la mancata iniziativa giudiziaria. Non credo comunque nelle misure eccezionali o addirittura extralegalitarie assunte dallo Stato sia pure a fin di bene. Lo sforzo statuale, ripeto, deve essere continuo e costante, ma nell’ambito delle leggi generali e nel rispetto delle garanzie del cittadino. Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIA Duemila novembre 2000

I  GIOVANI SONO LA MIA SPERANZA Sono nato a Palermo e qui ho svolto la mia attività di magistrato. Palermo è una città che a poco a poco, negli anni, ha finito per perdere pressoché totalmente la propria identità, nel senso che gli abitanti di questa città, o la maggior parte di essi, hanno finito per non riconoscersi più come appartenenti a una comunità che ha esigenze e valori uguali per tutti. E questo è dimostrato dal fatto che questa città, dove ci sono molte abitazioni, al loro interno ricche e ben curate, ha strade in pessime condizioni com’è facile vedere. E i monumenti, che ricordano il passato regale, sono nelle stesse condizioni di disfacimento. Questa è la situazione in cui Palermo si è venuta a trovare per tante ragioni: perché è stata una delle città più danneggiate dai bombardamenti, e già questo provocò una fuoriuscita degli abitanti dal centro storico, cioè dai luoghi in cui riconoscevano la propria identità. Ma a questa perdita d’identità hanno contribuito anche le attività delle organizzazioni mafiose. Avendo deciso, in un determinato periodo della loro storia, di sfruttare a pieno le aree edificabili attorno a Palermo, hanno fatto sì che anche l’asse geografico della città si spostasse. Molti abitanti del centro storico (e io sono stato uno degli ultimi a lasciarlo) sono finiti in quartieri periferici privi di servizi dove vivono in condizioni di profondo degrado ambientale. Tuttavia a Palermo, dall’inizio degli anni Ottanta e a causa dei gravissimi delitti della guerra di mafia che turbarono ferocemente l’ordine pubblico, e a causa anche del clamore delle inchieste giudiziarie iniziate subito dopo dal pool antimafia, cominciò a crescere una notevole rinascita della coscienza civile. Nel senso che a un certo punto vi è stata una parte della città che si è reinterrogata su se stessa e in qualche modo, talvolta anche un po’ arruffone, ha cercato di reagire. E la maggior parte di coloro che cominciano a domandarsi chi sono, e come debbono portare avanti questa città, sono giovanissimi. E’ una constatazione che io faccio all’interno della mia famiglia, perché sono stato più volte portato a considerare quali sono gli interessi e i ragionamenti dei miei tre figli, oggi tutti sui vent’anni, rispetto a quello che era il mio modo di pensare e di guardarmi intorno quando avevo quindici – sedici anni. A quell’età io vivevo nell’assoluta indifferenza del fenomeno mafioso, che allora era grave quanto oggi. Addirittura mi capitava di pensare a questa curiosa nebulosa della mafia, di cui si parlava o non si parlava, comunque non se ne parlava nelle dichiarazioni degli uomini pubblici, come qualcosa che contraddistinguesse noi palermitani o siciliani in genere, quasi in modo positivo, rispetto al resto dell’Italia. Invece i ragazzi di oggi (per questo citavo i miei figli) sono perfettamente coscienti del gravissimo problema col quale noi conviviamo. E questa è la ragione per la quale, allorché mi si domanda qual è il mio atteggiamento, se cioè ci sono motivi di speranza nei confronti del futuro, io mi dichiaro sempre ottimista. E mi dichiaro ottimista nonostante gli esiti giudiziari tutto sommato non soddisfacenti del grosso lavoro che si è fatto. E mi dichiaro ottimista anche se so che oggi la mafia è estremamente potente, perché sono convinto che uno dei maggiori punti di forza dell’organizzazione mafiosa è il consenso. È il consenso che circonda queste organizzazioni che le contraddistingue da qualsiasi altra organizzazione criminale. Se i giovani oggi cominciano a crescere e a diventare adulti, non trovando naturale dare alla mafia questo consenso e ritenere che con essa si possa vivere, certo non vinceremo tra due-tre anni. Ma credo che, se questo atteggiamento dei giovani viene alimentato e incoraggiato, non sarà possibile per le organizzazioni mafiose, quando saranno questi giovani a regolare la società, trovare quel consenso che purtroppo la mia generazione diede e dà in misura notevolissima. E’ questo mi fa essere ottimi. Mi sono fatto questa convinzione non solo attraverso le indagini sui miei figli, ma anche a seguito di un episodio accaduto qualche tempo fa: una delle macchine che mi scortava, uccise involontariamente due ragazzi davanti ad un liceo palermitano, il Meli (lo stesso che avevo frequentato in gioventù). Questi giovani, che sul momento si erano messi a picchiare coi pugni la mia macchina, quando si resero conto della situazione dimostrarono di capire che quello, purtroppo, era il prezzo da pagare per combattere le organizzazioni mafiose: in quel momento il prezzo era la difesa del magistrato che se ne occupava e la situazione della scorta che, forse inopportunamente correva troppo. Questi giovani mi furono vicinissimi, sollevandomi in parte dalla crisi morale che l’incidente mi provocò. Loro, quei giovani avevano capito appieno qual era la battaglia che si stava conducendo, quali prezzi altissimi si dovevano pagare e quali prezzi bisognava accettare. Da Epoca del 14 ottobre 92

CONFERENZA DI PAOLO BORSELLINO  – Agrigento 10.Gennaio 1989   Non c’è popolo del vecchio continente che viva, almeno in apparenza, con più entusiasmo di quello italiano questa vigilia della maggiore integrazione europea. Il 1992, anno al cui termine scatteranno alcune importantissime misure comunitarie, è ormai divenuto in Italia riferimento quasi mitico, costantemente indicato in discussioni, convegni e dibattiti. La recente consultazione referendaria, abbinata al rinnovo del Parlamento europeo, ha dimostrato, con i suoi risultati, che gli italiani ritengono di essere un popolo profondamente europeista, pronto a riversare in una entità sovranazionale, che abbracci gran parte del continente, le proprie particolarità regionali, spegnendo ogni residuo sussulto nazionalistico. Si ha tuttavia talvolta l’impressione che in Italia molto si parli, in termini, come ho detto, entusiastici dell’Europa e poco si faccia per costruirla. Poco si faccia, e non tanto per carenza di una azione di governo tendente alla edificazione ed al rafforzamento delle istituzioni comunitarie e dei meccanismi di integrazione. E’ noto, invece, che i governanti italiani sono in proposito fra i più attivi a spingere in questa direzione, come è dimostrato dal recente incontro di Madrid. Si ha l’impressione che poco si faccia in altro senso. Poco si faccia cioè per creare o rafforzare in Italia le condizioni economico-sociali che debbono mettere il nostro paese in situazione di affrontare senza tragici traumi l’appuntamento, direi quasi la scommessa, del 1992 e degli anni successivi. E da parte sua l’opinione pubblica, pur entusiasticamente europeista, par quasi attendere che i benefici della maggiore integrazione ci vengano calati dall’alto, automaticamente risolvendo i nostri numerosi e difficilissimi problemi e gratificandoci gratuitamente di una accentuata e desiderata sprovincializzazione. Le cose purtroppo non stanno così. Non è certo facile diventare europei. Occorre uno sforzo duro, sia da parte dei governanti che da parte degli aspiranti cittadini di questa sognata realtà sovranazionale. Poiché altrimenti, presentandoci impreparati all’appuntamento, rischiamo di entrare sì in Europa ma di farvi ingresso in condizioni così precarie da porre l’intera nazione o sue vaste aree geografiche in situazione di rapida marginalizzazione. Non sono esperto in problematiche comunitarie ed avrei quindi poco da aggiungere a queste brevi osservazioni di carattere generale, se non qualche richiamo, anch’esso generico o meramente elencativo, ai gravi problemi monetari legati all’enorme dilatazione del deficit pubblico, alla necessità di una rapida ristrutturazione delle imprese per renderle competitive a fronte degli agguerriti partners continentali, al problema del ridimensionamento radicale della massa di popolazione assistita e così via dicendo. Non continuo l’elencazione e non entro nei particolari dei vari problemi perché in merito sono per certo non competente, pur intuendo la gravità delle questioni. Ho però bastante esperienza in materia criminale per occuparmi di un aspetto, non fra i più trascurabili, del problema, che è quello della compatibilità fra una proficua integrazione europea e l’esistenza in Italia di agguerrite e specifiche forme di criminalità organizzata. Ed in Sicilia in particolare. Certo, la criminalità organizzata è nel nostro scorcio di secolo, e principalmente nelle società industrializzate dell’Occidente, un fenomeno ormai endemico, probabilmente insopprimibile, con il quale tutti i paesi debbono fare i conti, per contenerla in termini accettabili, e che, almeno nel nostro continente, non crea ad uno Stato problemi sostanzialmente diversi rispetto agli altri, tanto da porlo in condizioni sfavorevoli nella competizione internazionale. Agisce però in Italia, e nelle nostre terre quasi indisturbata, una particolare forma di criminalità, quella mafiosa, che lungi dall’essere un fenomeno estraneo ai canoni della normale ed ordinata convivenza sociale, sì che il suo contenimento sia possibile attraverso i normali strumenti di repressione poliziesca e giudiziaria, è nel tessuto sociale profondamente e prepotentemente inserita, tanto da condizionarne grandemente lo sviluppo. Ci vuol poco allora a capire che questa criminalità, la mafiosa, non è compatibile con una effettiva integrazione europea delle nostre regioni, perché, condizionandone gravemente l’economia a scopi e finalità diversi da quelli di interesse generale, rischia di porle (le regioni che affligge) in condizioni di rapida marginalizzazione nel teatro della competizione europea, che per tanta parte sarà regolato dal libero mercato. Ecco perché su questa specifica realtà criminale si appunta l’attenzione e la preoccupazione della più responsabile opinione pubblica europea, come è dimostrato dal fatto che il primo settimanale europeo “The European”, stampato per la prima volta a Londra alla fine dello scorso anno, recava in prima pagina una notizia riguardante la Sicilia “Sei omicidi di mafia, tra Gela e Palermo, alla vigilia di una giornata di protesta contro la mafia”. E chi sa quanti, nello stesso periodo, ce ne erano stati, di omicidi, in Inghilterra. Che stampa nazionale ed internazionale continuino a sottolineare la tragica realtà criminale siciliana non è, però, circostanza che deve di per sé dispiacere e scatenare inapprezzabili reazioni di malriposto meridionalismo. Mi sembra che i gravissimi fatti verificatisi in questo decennio e le ponderose inchieste giudiziarie espletate abbiano quanto meno prodotto la nascita di una nuova consapevolezza sulla esistenza e pericolosità del fenomeno mafioso, che non giustifica più offese campanilistiche ma impone un globale impegno collettivo, il quale è bene venga sostenuto dalla costante attenzione della opinione pubblica, nazionale ed internazionale. E, a loro volta, i cittadini di queste regioni non debbono temere affrettate e superficiali generalizzazioni allorché denunciano ad alta voce essi stessi i loro mali, chiamando le loro città “capitali della mafia”, perché le spaccature e le prese di distanza sono insostituibili momenti di crescita civile ed oltremodo necessarie sono le distinzioni tra onesti e malavitosi, tra insofferenti alla convivenza con la mafia e succubi della tentazione alla coesistenza. Se tuttavia le grandi inchieste giudiziarie degli anni ’80 hanno prodotto, al di là dei loro specifici esiti processuali, questa crescita della coscienza collettiva sul fenomeno e sulla sua pericolosità, la rinnovata recente virulenza delle organizzazioni mafiose ha cagionato il venire meno di una periodosa illusione, spesso alimentata ad arte e, comunque, sempre denunciata proprio da chi era più impegnato nella repressione delle attività criminali. Mi riferisco all’opinione secondo cui la penetrante azione di contrasto di magistratura e forze dell’ordine avrebbe di per sé sola prodotto la sconfitta della mafia e la sua scomparsa dallo scenario meridionale. Pericolosa illusione che è alla radice della inammissibile delega agli organi di repressione di occuparsi essi soli del problema e della ancor più inaccettabile delega alla magistratura giudicante di sancire in pubblico processo la fine di Cosa Nostra. Vero è che lo strumento repressivo, in genere, e giudiziario in particolare non avrebbe mai potuto da solo risolvere il problema della criminalità mafiosa o contenerlo in limiti accettabili, e non soltanto per limiti, direi istituzionali, propri di siffatte azioni repressive (volte soltanto all’accertamento dei reati ed alla irrogazione delle relative sanzioni), ma soprattutto a causa delle profonde radici storiche e socio-economiche che la criminalità mafiosa ha nella realtà meridionale e siciliana, sicché, non incidendo a fondo su tali radici, con interventi che vanno ben al di là di quelli meramente repressivi o giudiziari, la mafia è destinata sempre a perpetuarsi, adattando la sua sostanzialmente immodificabile natura ai mutevoli aspetti della realtà socioeconomica. La mafia, purtroppo, non è soltanto una organizzazione criminale dedita, come altre nel mondo, al traffico di droga. Non si vuole ovviamente negare che da detto traffico dipenda soprattutto l’enorme potenza raggiunta negli ultimi anni dalla organizzazione mafiosa, che proprio in conseguenza di tali commerci ha esteso l’ambito della propria attività ben oltre gli angusti limiti dei confini isolani. Vero è però che essa esisteva ancor prima del traffico di droga e verosimilmente continuerà ad esistere ancor dopo, se gli sforzi congiunti di una organizzazione di contrasto a livello mondiale riuscirà a liberarci un giorno del flagello degli stupefacenti. Anche nei periodi di maggiore espansione e di maggiori profitti derivanti dal commercio della droga l’organizzazione mafiosa, ben consapevole della sua peculiare natura, non ha mai rinunciato a quel rigido controllo del territorio che fa della “famiglia” di Cosa Nostra un vero Stato nello Stato, perché il territorio e la supremazia su di esso sono indispensabili per l’esistenza stessa del nucleo criminale mafioso come per quella di qualsiasi istituzione statuale. Controllo del territorio che si esercita pesantemente nei meccanismi di distribuzione delle risorse, con le tangenti, con l’accaparramento degli appalti, con lo sfruttamento delle aree, con l’infiltrazione, per condizionarli a suo favore, negli organi del pubblico potere, politico e burocratico. Constatata quindi la poca incisività delle mere azioni repressive della tracotanza mafiosa, sempre risorgente dalle sue apparenti ceneri, è necessario si prenda atto che il fenomeno va affrontato alle sue radici con una globale risposta delle istituzioni, senza inammissibili ed esclusive deleghe a questa o quella parte del pubblico apparato. Più Stato. Certo più Stato, ma attenzione. Una risposta statuale intesa in termini meramente quantitativi di impiego di risorse umane o finanziarie non risolve il problema ed anzi spesso lo aggrava. Tutti abbiamo appreso delle polemiche scatenatesi in ordine alla profusione di risorse finanziarie nei territori campani terremotati, che hanno finito per scatenare gli appetiti della camorra, trasformando quelle terre, per il loro accaparramento, in un tragico teatro di sangue. Ed è noto quali timori si nutrono a Palermo per l’attenzione immancabile di Cosa Nostra ai finanziamenti pubblici che interessano quella città. Bisogna prendere atto che il sottosviluppo economico non è o non è da solo responsabile della tracotanza mafiosa, che ha radici ben più complesse, tanto da farla definire in recenti studi non il prezzo della miseria ma il costo della sfiducia. Per altro, già nel lontano 1876, Leopoldo Franchetti, nello scrivere quello che ancor oggi rimane uno dei più pregevoli studi sulla mafia siciliana, individuava due insiemi di cause tra loro collegati: l’assenza di un sistema credibile ed efficace di amministrazione della giustizia (specie quella civile) ed una mancanza di fiducia di tipo economico. Ambedue le cause, che possiamo ritenere ancor oggi operanti, importano l’assenza di un apparato statuale credibile, sia nel dirimere le controversie naturalmente nascenti dalle private contrattazioni, sia nell’assicurare che tali contrattazioni possano svolgersi in clima di reciproca affidabilità. A sua volta l’arretratezza economica chiude ogni altra via di sfogo all’attività dei privati. L’unico fine, osserva Franchetti, che ciascuno propone alla propria attività od ambizione è quello di prevalere, sopra i propri pari. Quando è congiunto all’assenza di uno Stato credibile, non può condurre alla normale concorrenzialità di mercato: la pratica che si diffonde non è quella di far meglio dei propri rivali, ma quella di “farli fuori”. E quanto ciò sia compatibile con l’ordinata crescita economica, postulato indispensabile della maggiore integrazione europea, lascio a voi giudicare. In questo contesto, continua Franchetti, si cominciano a capire i motivi per cui i mafiosi non agiscono come delinquenti comuni che operano isolatamente, in conflitto con la popolazione. Parte della opinione pubblica li ritiene in Sicilia più che altro uomini capaci di esercitare privatamente quella giustizia pubblica su cui nessuno più conta. Quanto di questi concetti conservino ancor oggi gran parte della loro validità emerge in modo inquietante da talune ricorrenti invocazioni alla mafia o a suoi supposti qualificati esponenti verificatesi in occasioni di pubbliche dimostrazioni per protestare contro asserite ingiustizie sociali od economiche. Analogo aspetto quello della compenetrazione tra delinquente e vittima che tipicamente si realizza in una delle attività più caratteristiche della mafia, cioè l’offerta di protezione a scopo estorsivo. Infatti l’aspetto più singolare della estorsione mafiosa è la difficoltà di distinguere le vittime dai complici ed il fatto che tra protetti e protettori si stabiliscano legami piuttosto ambigui. La violenza dell’estorsione e gli interessi personali delle vittime tendono a confondersi ed a formare un insieme inestricabile di motivi per cooperare. Il vantaggio di essere amici di coloro che estorcono denaro o beni non è quindi solo quello di evitare i probabili danni che seguirebbero un rifiuto, ma in certi casi, può estendersi ad un aiuto per sbarazzarsi di concorrenti scomodi. E, quanto ai rapporti con la Pubblica Amministrazione, quale migliore alleato di colui o di quella organizzazione che garantisce un rapporto di “fiducia” nei confronti di un apparato ritenuto non credibile o non affidabile. In proposito, è abbastanza recente la denuncia della più alta autorità regionale, secondo la quale “ci troviamo in presenza in molte USL ed in molti comuni di spinte fortissime, dirette o ravvicinate, da parte di centri criminali che tentano di intervenire come gruppi di pressione, decisivi addirittura nella formazione degli esecutivi. L’obbiettivo è il controllo del notevole flusso di risorse che questi organismi decentrati amministrano. C’è una pressione sempre maggiore che aree di criminalità organizzata realizzano nei confronti dei punti di decisione ed utilizzo delle risorse”. In tale situazione, così autorevolmente denunciata, quale migliore brodo di coltura per organizzazioni che traggono la loro forza dalla inefficienza dell’apparato pubblico e dalla sua incapacità ad esser ritenuto meritevole di imparziale “fiducia”? Il nodo è pertanto essenzialmente politico. La via obbligata per la rimozione delle cause che costituiscono la forza di Cosa Nostra passa attraverso la restituzione della fiducia nella Pubblica Amministrazione, la cui perdurante inefficienza è oggi incompatibile con l’ordinato svolgersi della vita civile e rischia, protraendosi nel tempo di compromettere gravemente le possibilità della popolazione, specie isolana, di inserirsi nel circuito europeo senza rischiare la completa emarginalizzazione. Nessun impiego, anche massiccio, di risorse finanziarie produrrà benefici effetti se lo Stato e le pubbliche istituzioni in genere non saranno posti in grado e non agiranno in modo da apparire imparziali detentori e distributori della fiducia necessaria al libero ed ordinato svolgersi della vita civile. Continuerà altrimenti il ricorso e non si spegnerà il consenso, espresso o latente, attorno ad organizzazioni alternative in grado di assicurare egoistici vantaggi. Fiducia nello Stato significa anche fiducia in un efficiente amministrazione della giustizia, sia penale, sia soprattutto civile. Occorre registrare con evidente soddisfazione l’introduzione del nuovo codice di Procedura Penale, sia perché sostituisce un insieme di norme di rito ormai sclerotiche e disorganiche, sia perché l’adozione del sistema accusatorio, che entrerà in vigore tra qualche mese, costituisce fuor di ogni dubbio una conquista di civiltà giuridica. Tuttavia sia ben chiaro che il nuovo rito non potrà funzionare e la sua adozione creerà gravissimi problemi se non sarà accompagnata da un adeguato potenziamento delle strutture e da una razionalizzazione del sistema. La magistratura associata e le organizzazioni forensi hanno anche recentemente, con atti sofferti e clamorosi quale lo sciopero, indicato un nucleo di problemi la cui risoluzione costituisce un minimum indispensabile per ridare credibilità ad una amministrazione della giustizia cui nelle condizioni attuali più nessuno fa affidamento, col rischio, specie in Sicilia, che si perpetui e consolidi il ricorso ad un sistema alternativo e criminale di risoluzione delle controversie. Fiducia nelle istituzioni significa soprattutto affidabilità delle amministrazioni locali, quelle cioè con le quali il contatto del cittadino è immediato e diretto e che attualmente risultano incapaci di gestire la cosa pubblica senza aggrovigliarsi negli interessi particolaristici e nelle lotte di fazioni partitiche. La loro riforma non è più procrastinabile, poiché altrimenti, come è emerso dalle allarmate denunce del Presidente della Regione, resteranno i veicoli principali delle pressioni mafiose e delle lobbies affaristiche loro contigue. Passano anche attraverso queste vie obbligate le direttrici di lotta alla criminalità mafiosa. Una sfida che lo Stato deve vincere in tempi rapidi perché è in grado di farlo, se non prima del fatidico 1992, ormai alle porte, almeno in tempi che ci consentano di affrontare la maggiore integrazione europea forti di una sana ed ordinata vita civile. 

CRIMINALITÀ, POLITICA E GIUSTIZIA   Io sono sempre stato estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non tanto parallelo, ma piuttosto alternativo al sistema dello Stato ed è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. In particolare nell’ordinamento del nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, e sebbene organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi siano anche negli altri stati, il nostro mi pare sia l’unico paese in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. Probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticarlo, come un sistema alternativo, che offre dei servizi che lo Stato non riesce ad offrire. Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua a trarre, anche se probabilmente in misura minore – i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti coloro che abbiamo partecipato a quell’esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, anche in quei momenti ed anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia, se non migliaia di miliardi dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali della criminalità mafiosa, perché la droga non lo era e non lo è mai stata. La caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire di essere il territorio, così come il territorio è parte dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, dato che esso è una sua componente essenziale. La famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena. Naturalmente si determina un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, seppure con mezzi diversi. Questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma attraverso il condizionamento o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni. La soluzione finale del problema, la finalità cui devono tendere le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso i quali la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, di coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, viene condizionata da queste istituzioni alternative. Chiudere come? Ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che spesso le istituzioni pubbliche non vengano considerate dalle forze politiche come istituzioni dove inviare i migliori che vadano ad impersonarne la volontà, ma piuttosto teatri di lobbies che si azzuffano e si scornano per impossessarsi quanto più possibile di fette di potere per esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di interessi particolari. Questa è l’accusa che da più parti viene fatta alla “partitocrazia”, a quella che da tutti dispregiativamente è così chiamata, ma da tutti sostanzialmente sopportata. L’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche delle istituzioni pubbliche crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni si formino volontà che non sono dirette al bene pubblico ma ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, significa evidentemente chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno delle organizzazioni dello Stato. Certamente questo deve farsi salvando i principi democratici che reggono oggi tutte le nostre istituzioni. La sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono le legislazioni che regolano, ad esempio, gli enti locali è chiaramente una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto nel migliore dei modi, impedirà l’accesso all’interno degli enti locali di quelle lobbies che vanno lì dentro per provocare, come normalmente provocano, affinché la volontà di coloro che gestiscono le istituzioni sia rivolta non al bene pubblico ma agli interessi di questo o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa. PALERMO 27 MARZO 1992  PALAZZO TRINACRIA – TAVOLA ROTONDA 

DIETRO IL PARAVENTO DELLA NORMALIZZAZIONE  Ancora una volta, purtroppo, nel pieno di una estate palermitana carica di tensioni, è doveroso ricordare, in coincidenza con la ricorrenza annuale, un’altra tragica estate tra le numerose che hanno visto consumarsi per mano mafiosa le vite di fedeli servitori dello stato ed insieme a loro distruggersi l’immenso patrimonio di conoscenze, di volontà, di coraggio ed abnegazione di cui erano portatori. Cadevano un anno fa vittime della mafia Beppe Montana, Ninni Cassarà e l’agente Antiochia, vittime altresì di pericolose altrui illusioni e gravi omissioni. E mi sia consentito spiegarmi partendo da due struggenti ricordi personali che li riguardano. Con Beppe Montana avevamo da qualche mese scoperto la nostra comune passione per il mare e nelle pause dei nostri frequenti incontri di lavoro non mancavamo di informarci scambievolmente sulle prestazioni delle nostre barchette di impiegati statali. In una di queste occasioni Montana mi confidò che le poche ore libere che avrebbe dovuto trascorrere spensieratamente sul mare, lontano dagli assillanti problemi di lavoro ed, in particolare, di ricerca dei latitanti (servizio che gli era affidato) le dedicava a procedere con la sua barca e col carburante pagato di tasca sua ad appostamenti ed avvistamenti, che altrimenti, per la scarsezza, se non per l’inesistenza, dei mezzi e degli uomini da impiegare all’uopo, non avrebbero potuto essere effettuati. E questo è stato il primo struggente pensiero che mi ha assalito allorché una sera, alla luce delle lampare e dei riflettori, ho visto il corpo martoriato di Beppe Montana disteso tra barche ed attrezzi marinari, in costume da bagno, sul litorale di Porticello. Mi aveva accompagnato Ninni Cassarà, con il quale anni di comune lavoro avevano cementato una affettuosa amicizia, consolidatasi specialmente durante una comune missione in Brasile nel novembre del 1984. In quella occasione avevo avuto più che mai modo di apprezzarne le straordinarie doti di umanità, che per altro ben conoscevo dapprima, e la purezza d’animo, quasi da fanciullo, che traspariva dalla espressione del suo viso, intelligente e pulito. Ebbene, questo Ninni Cassarà, sempre allegro ed ottimista come tutti i fanciulli puri di cuore, nel riaccompagnarmi a casa dopo il pietoso e doloroso ufficio della visita al cadavere di Montana, nel salutarmi in fretta per recarsi a riprendere il suo incessante lavoro investigativo, mi disse questa frase, che fu l’ultima che ascoltai da lui, poiché dopo qualche giorno mi toccava rivederlo nel lago del suo stesso sangue, proteso verso le scale di casa sua, quasi in un impossibile estremo e vano tentativo di riabbracciare i suoi cari. Mi disse, dunque, in quella occasione Ninni Cassarà: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”. Qualche giorno più tardi la sua disperata profezia si sarebbe avverata su di lui. “Dei cadaveri che camminano”. Era la fine di una illusione che, in verità, nessuno di coloro che seriamente si occupano e si occupavano allora di faccende di mafia aveva mai nutrito. Ricordo gli sforzi costanti, successivi alle clamorose tappe del cosiddetto maxiprocesso (in particolare i mandati di cattura conseguenti alle rivelazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno) per smorzare i facili trionfalismi, per avvertire che la mafia non era sconfitta, che ancora lungo era il cammino da percorrere per contenere il fenomeno, che lunghi anni di vigili e penetranti indagini attendevano l’apparato investigativo e repressivo statuale, che non poteva concedersi sosta alcuna o allentamento di tensione senza rischiare di trovarsi dopo breve periodo nella stessa situazione di partenza, poiché le organizzazioni mafiose sono ancora in grado di ricostituire i loro organigrammi con la stessa velocità con la quale da parte delle organizzazioni statuali riesce a seguirsi l’evolversi delle vicende criminose ed infliggere seri colpi alla criminalità organizzata. L’illusione di aver sconfitto la criminalità mafiosa costò negli anni ‘70 un vuoto di indagini di un decennio, al termine del quale, non per scelta ma per necessità inderogabile, divenne indispensabile tentare di recuperare il tempo perduto con lo strumento del maxiprocesso, i cui denigratori farebbero bene a ricordare che “maxi” esso non sarebbe stato se non fosse stato necessario affrontare il problema di una organizzazione criminale di proporzioni gigantesche, cresciuta a dismisura tra l’indifferenza generale o l’assuefazione alle più efferate forme di violenza, esplose in una città dove ogni giorno dell’anno aveva il suo omicidio ed ogni settimana la sua “lupara bianca”, per trascurare le altre minori forme di criminalità. Coloro i quali avevano, superficialmente o forse anche in mala fede, salutato le iniziative giudiziarie a cavallo degli anni 1984 e 1985, non come l’inizio di una adeguata risposta statuale allo straripare incontrollato della violenza e della potenza di Cosa Nostra, bensì come una conclusiva risposta alla “emergenza mafiosa” avevano finito per alimentare una pericolosissima illusione, poiché da una siffatta erronea impostazione del problema discendeva  un inevitabile corollario, ai nostri giorni ormai chiaramente enunciato da certi manipolatori di opinioni: cessata l’emergenza (sono diminuiti gli omicidi, vengono catturati i latitanti ed il maxiprocesso procede regolarmente nelle sue tappe dibattimentali) è venuta meno la necessità di una straordinaria risposta dello Stato ed occorre ripiegare sulla “normalizzazione”. Noi rifiutiamo il concetto di “emergenza” nella lotta alla criminalità mafiosa e riteniamo pertanto senza significato valido i costanti richiami alla “normalizzazione”. La risposta dello Stato deve essere continua e costante nel rispetto doveroso delle garanzie del cittadino. Non sono consentiti allentamenti di impegno e di tensione, non perniciose illusioni di cessata pericolosità solo in presenza di un calo statistico degli episodi di violenza, per altro niente affatto scomparsi. All’inizio dell’estate 1985 non era difficile incontrare chi parlava di mafia sconfitta o di mafia che sarebbe stata definitivamente sconfitta sol che fosse stata assicurata la conclusione, ormai allora alle porte, della indagine istruttoria in corso (la sentenza – ordinanza, come è noto, venne depositata l’8 novembre 1985) e la celebrazione del relativo dibattimento. Con l’uccisione di Montana, Cassarà e Antiochia, Cosa Nostra dimostrò di avere ancora pressoché intatte tutte le sue capacità decisionali ed operative, se è vero che in tal modo palesò di essere in grado di adottare così terribili decisioni e tradurle in atto a mezzo di potentissimo gruppo di fuoco. E gli avvenimenti successivi ne danno conferma, anche con riferimento ai traffici di sostanze stupefacenti, in ordine ai quali basta accennare agli ingenti sequestri di eroina operati nel corso di quest’anno sulla tratta aerea Palermo-Roma-New York, sulla linea cioè di tradizionale sviluppo dei traffici internazionali di droga gestiti da Cosa Nostra che è impensabile siano in così breve tempo caduti in gestione di mani diverse, nonostante il coinvolgimento in tali indagini, in prevalenza, di soggetti insospettabili di estrazione non mafiosa: circostanza, anzi, che induce a ritenere intatte, se non addirittura accresciute, le capacità di reclutamento della organizzazione mafiosa. Ad un anno di distanza dalle stragi del luglio e agosto 1985 e nonostante gli indubbi successi conseguiti dalle forze dell’ordine con la cattura di numerosi latitanti, resta, pertanto, ancora pienamente valida la richiesta del massimo sforzo statuale per il massimo possibile potenziamento dell’apparato investigativo e repressivo. Perduranti omissioni in proposito si rivelerebbero grandemente perniciose. Ho parlato all’inizio di omissioni che resero più agevole il compito degli assassini di Cassarà, Montana e Antiochia. Omissione dei responsabili organi statuali centrali è stata certo quella che rese possibile l’identificazione della squadra mobile di Palermo, cronicamente carente di uomini e di mezzi sin dai tempi dell’assassinio di Boris Giuliano, nella persona di Ninni Cassarà, tanto da far concepire alle organizzazioni criminali il proposito, freddamente e barbaramente attuato, di azzerare di colpo con l’omicidio del funzionario e per diversi mesi a venire ogni seria capacità investigativa della polizia a Palermo, come del resto erasi già in modo identico verificato con l’omicidio del vice questore Giuliano nel 1979. Omissione dei responsabili organi statuari centrali è stata certo quella che costringeva Beppe Montana a ricercare pericolosissimi latitanti, avvalendosi di mezzi personali ed esponendosi costantemente in prima persona per la mancata disponibilità di adeguato numero di collaboratori. Perdurante omissione sarebbe quella che sulla scia della invocata “normalizzazione” continuasse a mantenere insufficiente l’apparato investigativo e repressivo palermitano, senza considerare che la stagione dei grandi processi deve considerarsi appena iniziata, mentre occorre sollecitamente già procedere ad un aggiornamento della mappa del potere e delle attività mafiose, essendo rimasto fermo il quadro conosciuto (e delineato nella sentenza ordinanza dell’8 novembre 1985) al primo biennio degli anni ‘80. Sul piano strettamente giudiziario è necessaria l’immediata istituzione a Palermo di una terza sezione di Corte d’Assise, poiché, delle due esistenti, una rimarrà impegnata sino alla metà del 1987 nella celebrazione del primo maxiprocesso e presso l’altra è stata già fissata la celebrazione di altri gravissimi procedimenti concernenti anche la criminalità mafiosa, quale ad esempio quello per la strage di piazza Scaffa. Occorre pertanto un’altra sezione, da istituire, che si occupi del secondo poderoso stralcio del maxiprocesso, la cui sentenza istruttoria è in corso di deposito in questi giorni e concerne circa 100 imputati.  La necessità di celebrazione di detti procedimenti e le conseguenti misure di sicurezza da adottare distoglieranno altro rilevante numero di uomini e mezzi dall’attività repressiva ed investigativa, per cui ulteriori poderosi interventi in tale campo si rivelano indispensabili. Gli enti, le associazioni ed i comitati che si sono dati come finalità nobilissima quella della lotta alla criminalità mafiosa hanno il gravoso e meritorio compito di tenere ora come non mai desta l’attenzione dell’opinione pubblica sugli accennati problemi, affinché dietro il paravento della cosiddetta “normalizzazione” non si pervenga invece ad una frettolosa “smobilitazione” dell’apparato antimafia e coloro che, doverosamente e dolorosamente, hanno ritenuto in questa lotta di trovarsi in prima fila non vengano addirittura additati, come recentemente è avvenuto, alla pubblica esecrazione. Intervento durante il dibattito organizzato dal coordinamento antimafia, CGIL Sicilia, nell’anniversario dell’assassinio di G. Montana, N. Cassarà e R. Antiochia, Palermo, 28 luglio 1986.

IL CONSENSO DELLA SOCIETA’ CIVILE PER LO STATO, ARMA CONTRO LA MAFIA  La domanda che oggi ci poniamo, o meglio vi ponete, è che cosa interessa a voi della mafia. Perché è interessante che voi sappiate e parliate di mafia? E a questa domanda bisogna dare subito una risposta cruda: perché se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura, e ai giovani della scuola fregherebbe ben poco, se non come interesse generale a che la criminalità organizzata venisse comunque repressa. E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia sino a qualche tempo fa perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia, nessuno pensava di entrare nelle scuole a parlare di mafia, nessuno pensava di parlare di mafia addirittura all’interno delle famiglie. E allora avveniva qualcosa di strano. Avveniva che, proprio perché la mafia non è e non è soltanto una forma di criminalità organizzata, i giovani siciliani crescevano in una curiosa situazione, quella di non sentirsi parlare mai di mafia da nessuno. […] Sino a qualche tempo fa […] in Sicilia […] il discorso sotteso era che la mafia se esisteva, e sempre ammesso che esistesse, era qualcosa che riguardava soltanto l’attività repressiva dello Stato, cioè magistratura, polizia e carabinieri […] Addirittura si riteneva che la giustizia fosse sostanzialmente amministrata in modo più veloce e più efficace […] da quella organizzazione alla quale ci si poteva anche rivolgere […] per recuperare un credito invece di iniziare lunghe e defatiganti cause giudiziarie. Ci si rivolgeva a qualcuno che con la violenza riusciva a farci ottenere ragione ed ecco che si creava questo consenso diffuso nei confronti di questa organizzazione storicamente sorta in Sicilia la quale fingeva, o faceva credere, di poter assicurare queste faccende. Non vi sembri un discorso tanto lontano perché anche recentemente a Palermo, penso che non sia passato neanche più di un anno, in occasione di alcune manifestazioni economiche fatte da scioperanti, ora non ricordo bene il caso, a Palermo si sfilava con i cartelli con scritto: Viva la mafia, Viva Ciancimino. E non era un fatto soltanto provocatorio perché a Palermo è stata diffusa sino a ieri – non sino all’altro ieri, se non forse in alcuni ambienti sino ad oggi – l’impressione che le organizzazioni mafiose, una volta che fossero riuscite ad attirare i narcodollari in Sicilia, potessero creare addirittura una possibilità di sbocco, di crescita economica perché creavano e portavano una ricchezza che lo Stato non riusciva ad assicurare. In realtà si trattava e si tratta, sia nel campo della giustizia, sia nel campo della sicurezza, sia nel campo dell’economia, di mistificazioni di enorme portata perché soltanto apparentemente le organizzazioni mafiose sono riuscite, storicamente, a distribuire questo tipo di sicurezza, questo tipo di giustizia, questo tipo di economia. Sono riuscite a distribuirle ad alcuni, a pochi, togliendole ad altri. Sono cioè riuscite ad amministrare un tipo di fiducia a somma algebrica zero perché non è possibile a parti di organizzazioni diverse dalle istituzioni pubbliche assicurare fiducia a tutti bensì soltanto ad alcuni togliendola agli altri. Si poteva fare giustizia a qualcuno creando ingiustizia alla quasi totalità, si poteva portare all’arricchimento di alcuni, marginalizzando invece quelli che volevano lavorare onestamente. Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia nelle nostre regioni è stato questo senso di sfiducia nello stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che, diciamocelo francamente e non vergogniamocene come siciliani, se siamo siciliani che vogliamo reagire a questo stato di cose, ha vissuto a lungo in un consenso generalizzato. Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi. E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi, il consenso deve andare verso lo stato, il consenso deve andare verso le istituzioni pubbliche e non verso le istituzioni che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale. E perché è necessario parlare anche ai giovani di altre regioni d’Italia di queste cose? E’ necessario perché in un determinato momento storico la mafia, che non era e non è soltanto – ancora è un grosso errore ritenerlo – traffico di droga, si impossessò di questo traffico che non nacque con la mafia, nacque con i contrabbandieri di tabacchi. La mafia però fiutò il business, si impossessò del monopolio del traffico degli stupefacenti, cooptò all’interno della mafia coloro i quali già questo traffico facevano in modo estremamente lucroso e, pur non cambiando affatto la sua struttura, cioè quella di istituzione alternativa esterna e interna allo stato […], ebbe in mano questo enorme potere derivato dalla possibilità di avere tali traffici. Ripeto: la mafia non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti, se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso che ha il traffico delle sostanze stupefacenti in mano. Questo le ha dato una forza incredibile, le ha dato un’enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi, questi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos’altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose. Oggi c’è il grosso, enorme pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d’olio tutta l’Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d’Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma la ha resa così potente in Sicilia. [Tanto potente] che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l’acqua in cui questo immondo pesce nuota. E l’acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto ai cittadini. […] E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso, vado spesso a parlare in paesi dell’interno o del Belice […][e mi viene detto]: “ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose”. Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro. La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente. Soltanto che questo è solo metà del cammino perché quand’anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa, sotto questo profilo, allo stato sarebbe stato fatto metà del cammino. Perché l’altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l’interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, [sino a quando] occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire. Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall’altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell’interesse di tutti e non l’interesse né dei singoli né delle fazioni.4 maggio del 1989  – liceo Visconti di Roma. Conferenza incentrata sul tema dell’importanza dei giovani nella lotta alla “mentalità mafiosa”.

QUANDO LA MAFIA ALTERNATIVA ALLO STATOIo sono sempre stato estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non tanto parallelo, ma piuttosto alternativo al sistema dello Stato ed è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. In particolare nell’ordinamento del nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, e sebbene organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi siano anche negli altri stati, il nostro mi pare sia l’unico paese in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. Probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticarlo, come un sistema alternativo, che offre dei servizi che lo Stato non riesce ad offrire. Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua a trarre, anche se probabilmente in misura minore – i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti coloro che abbiamo partecipato a quell’esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, anche in quei momenti ed anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia, se non migliaia di miliardi dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali della criminalità mafiosa, perché la droga non lo era e non lo è mai stata. La caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire di essere il territorio, così come il territorio è parte dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, dato che esso è una sua componente essenziale. La famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena. Naturalmente si determina un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, seppure con mezzi diversi. Questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma attraverso il condizionamento o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni. La soluzione finale del problema, la finalità cui devono tendere le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso i quali la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, di coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, viene condizionata da queste istituzioni alternative. Chiudere come? Ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che spesso le istituzioni pubbliche non vengano considerate dalle forze politiche come istituzioni dove inviare i migliori che vadano ad impersonarne la volontà, ma piuttosto teatri di lobbies che si azzuffano e si scornano per impossessarsi quanto più possibile di fette di potere per esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di interessi particolari. Questa è l’accusa che da più parti viene fatta alla “partitocrazia”, a quella che da tutti dispregiativamente è così chiamata, ma da tutti sostanzialmente sopportata. L’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche delle istituzioni pubbliche crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni si formino volontà che non sono dirette al bene pubblico ma ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, significa evidentemente chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno delle organizzazioni dello Stato. Certamente questo deve farsi salvando i principi democratici che reggono oggi tutte le nostre istituzioni. La sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono le legislazioni che regolano, ad esempio, gli enti locali è chiaramente una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto nel migliore dei modi, impedirà l’accesso all’interno degli enti locali di quelle lobbies che vanno lì dentro per provocare, come normalmente provocano, affinché la volontà di coloro che gestiscono le istituzioni sia rivolta non al bene pubblico ma agli interessi di questo o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa. 27 marzo 1992 a Palazzo Trinacria, a Palermo, in occasione della tavola rotonda su “Criminalità, politica e giustizia”.

IL POTERE, LO STATO NON HA MAI VOLUTO COMBATTERE SERIAMENTE LA MAFIASono anche presidente della sezione di Palermo dell’Associazione Nazionale Magistrati, la quale ha da tempo sollecitato un ampio dibattito parlamentare sui problemi della giustizia. E mi sembra che l’ultima volta che questa esigenza fu prospettata al Ministro della Giustizia e al Presidente del Consiglio dei ministri la risposta sembrò essere che la Camera era troppo intasata da altri lavori. E allora, anche se sotto il patrocinio di un gruppo parlamentare può svolgersi un interessante dibattito del genere con l’intervento, oltre che dei parlamentari, di chi può dare un modesto contributo, come me, è un fatto comunque auspicabile, è un fatto comunque di cui ringraziare gli organizzatori di questo convegno. Il cui titolo: “Stato e criminalità organizzata: chi si arrende?” comporta risposte estremamente semplici perché che non si sia arresa la criminalità lo vediamo ogni giorno su tutti i giornali, sia sotto il profilo dei gravi attentati all’ordine pubblico, che avvengono sulle nostre strade, meridionali, soprattutto, e non, sia sotto il profilo dell’ordine istituzionale. Perché delle infiltrazioni mafiose nelle istituzioni, soprattutto locali di Sicilia e Calabria, sono stati pieni i giornali, addirittura in occasione delle ultime elezioni amministrative. Ma erano state denunciate anche, tempo fa, addirittura dal presidente della regione siciliana il quale parlava di indebite pressioni per condizionare gli esecutivi delle Usl e dell’Ente locale comunale. Verrebbe ironicamente da dire che non si arrende neanche lo Stato perché forse per arrendersi occorre aver prima seriamente tentato di combattere. E su questo, sebbene probabilmente non si possa affermare che non si sia mai combattuto, dobbiamo dire qualcosa anche sui termini di questa lotta tra virgolette, come diceva il collega Alibrante. Io ho esperienze […][nel campo] della criminalità organizzata di tipo mafioso e simili, Camorra, ‘ndrangheta, […] ma diverso, ad esempio, potrebbe essere il discorso in materia di criminalità terroristica dalla quale probabilmente il potere si sentì attaccato e [quindi] reagì in modo molto migliore. Perché abbiamo tutti la sensazione, possiamo essere polemici quanto vogliamo, ma in materia di criminalità terroristica mi sembra che i discorsi siano più rosei. E quando mi riferisco al potere, tanto per intenderci, […][vorrei citare] un articolo dell’agosto ’88 dell’avvocato Tarantino, che poco fa ho visto ma che ora purtroppo forse si è allontanato. […] Questo articolo fu […][scritto] in occasione di una violenta polemica esplosa per una mia improvvida intervista del luglio ’88, e l’avvocato Tarantino scriveva sul Secolo d’Italia, il 17 agosto ’88: “E allora un imbroglione c’è, sta a Roma in un palazzo nel centro e lo chiamano potere. Ma è solo un vecchio ipocrita, un cinico mercante, se ne frega dei siciliani onesti, dei figli e dei nipoti. Le occasioni non mancano e a promettere che il nemico non passerà. Un solo dubbio: chi è il nemico, chi loro amico?” Orbene, che questo potere non abbia mai, non dico avute serie intenzioni, ma non ha avuto probabilmente mai intenzioni profonde di combattere la criminalità mafiosa, lo dicono le esperienze di quella prima commissione antimafia che tanto opportunamente, poco fa, è stata richiamata dall’on. Franchi. Perché a leggersi quei volumi della prima commissione antimafia, che operò fino all’inizio degli anni ’70, a leggersi quei volumi – per chi ha avuto la pazienza di leggerli -, ma era una lettura estremamente interessante, si trova tutto. Quando nel 1984 Buscetta andò a raccontare ai giudici di Palermo l’esistenza di un’organizzazione verticistica che si chiamava mafia, composta da “famiglie” con determinate caratteristiche, con determinati riti addirittura, quando Buscetta si fermò sulla soglia dei rapporti tra la mafia e il mondo politico, le indagini di quella commissione antimafia non si fermarono. Perché quelle erano una serie di conoscenze che individuavano perfettamente quali erano le caratteristiche del fenomeno. E che cosa avvenne? Mi sembra che sia stato detto che è restato tutto nei cassetti. Il potere non prese quelle iniziative che l’aver accertato l’esistenza di una situazione così pericolosa doveva comportare. E non solo non le prese, ma quelle stesse conoscenze che erano state così tanto lodevolmente acquisite dalla prima commissione antimafia si dispersero totalmente, a livello di conoscenze comuni, di conoscenze culturali degli operatori del settore. Tant’è che, quando sorse la stagione delle grandi indagini del pentitismo, sembravano conoscenze nuove. Ma […][leggendo] gli atti della prima commissione antimafia [ci si accorgeva che] nuove non erano. Non fu cioè utilizzato questo sforzo di conoscenza che fece il Parlamento; e poi chi ne aveva il dovere, chi muoveva le leve politiche, statuali di allora non utilizzò quelle conoscenze perché si intervenisse nel modo in cui si doveva intervenire, poi accennerò brevemente. E dopo ci fu un periodo di dieci lunghi anni di silenzio. Ma per […][farvi immaginare] di che silenzio si tratta io vi posso soltanto citare di quanto poco fosse sensibilizzata la stessa opinione pubblica a reagire a questo fenomeno impressionante che già la prima commissione antimafia aveva evidenziato. Per dirvi di che silenzio si tratti e come coinvolgeva addirittura gli operatori privilegiati del settore, cioè anche i magistrati, io vi cito la mia esperienza all’ufficio istruzione di Palermo, iniziata nel 1975, finita poi nel 1986. Dal 1975 al 1980 in quell’ufficio istruzione, nel centro principale della mafia, nella capitale della mafia – qualcuno non lo vuol sentir dire, io la penso così – in quell’Ufficio istruzione, in quei cinque anni, non si fece nessun processo di mafia. Nessuno. E quando nel 1980 fu fatta la prima grossa inchiesta, quella condotta dal collega Falcone, il cosiddetto processo Spatola-Inzerillo si dice, io non ne ho le prove, ma si è detto abbondantemente che una delegazione di avvocati si recò dal Consiglio istruttore, o da qualche altro, dicendo: “ma non c’era l’accordo che processi per associazioni per delinquere non se ne facessero più?” Credo che sia scritto nei diari di Chinnici, qualcosa del genere. Vi furono cioè dieci anni di assoluta insensibilità e per la mafia questi dieci anni che cosa rappresentarono? Per la mafia questi dieci anni rappresentarono il passaggio dalla dimensione meramente parassitaria a una dimensione imprenditoriale in cui essa diventò produttrice, tra virgolette, di ricchezza. Nel senso che creò i grandi capitali mafiosi e l’enorme pericolo che questi capitali mafiosi rappresentano, perché danno un’enorme forza, un enorme potere di contrattazione alla mafia e quando vengono utilizzati nelle attività paralecite tendono a danneggiare l’economia. Purtroppo questa è una materia che io conosco poco ma mi sembra chiaro che quando si presenti sul libero mercato un’impresa che ottiene capitali facilmente e facilmente li spende, li paga poco o nulla, questa tende naturalmente a marginalizzare l’impresa che invece deve ricorrere ai sistemi normali di mercato per procurarsi il relativo denaro. La mafia quindi, in questi dieci anni di silenzio, diventò potentissima. Subentrò poi, all’inizio del 1980 una breve stagione di profonda attenzione alla criminalità mafiosa. E viene da domandarsi: allora all’inizio del 1980 quel potere si era svegliato, lo stato era intervenuto, aveva deciso, aveva capito [che era necessario] mettere in essere quegli strumenti, quelle conoscenze che avevamo sulla mafia, acquisite tanto lodevolmente dalla prima commissione antimafia, che era ormai [giunto] il momento di partire all’attacco di questo problema e di risolverlo. [E invece no], non è stata una decisione riferibile al potere. Non è che lo stato nella sua globalità avesse deciso, a un certo punto, di intervenire nei confronti di questo gravissimo fenomeno il quale, per crisi interne, era diventato un gravissimo problema anche di ordine pubblico. A Palermo e in altre città siciliane. No, non è lo stato. Perché tutti sanno che l’inizio delle indagini antimafia di questo decennio, anzi del decennio trascorso perché siamo nel novanta, non fu la risultanza di una decisione dello stato inteso nella sua globalità, del potere, tanto per intenderci, di coloro che muovono le leve dello stato. Quello strumento attraverso il quale furono condotte le più importanti indagini antimafia, tanto per intenderci il pool antimafia, nacque per germinazione spontanea, nacque per iniziative successive di Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto, per l’estremo impegno del collega Falcone e di alcuni che gli stemmo accanto, ma nacque sostanzialmente non perché a un certo punto lo stato disse: “bisogna fare queste indagini che non sono state fatte nei dieci anni precedenti e quindi organizziamo un ufficio giudiziario in modo che queste indagini si possa farle, compriamo una macchina da scrivere o una fotocopiatrice che non c’è, compriamo una macchina che non hanno tanto che comincino a lavorare”. No! Nacque per germinazione spontanea utilizzando i pochissimi mezzi a disposizione, ritagliandosi uno spazio all’interno di uffici giudiziari decrepiti e sclerotici e operò per qualche anno attraverso strumenti dolorosissimi quale quello del maxiprocesso. Dico dolorosissimi perché mi rendo perfettamente conto anche dei danni del maxiprocesso. Fu uno strumento dolorosissimo perché per ripigliare le fila di dieci anni di assenza di indagini occorse creare questo strumento che non era un modello di strumento, non era dovuto a una scelta, era dovuto a una grossa necessità di ripigliare le fila di questa situazione. Nacque con l’intento di essere l’ultimo, di non porsi affatto come modello processuale ma pur necessario. Fu inventato perché in realtà lo stato, e quando parlo di stato intendo sempre dire lo stato nella sua globalità, nella sua possibilità di interventi, non interveniva e allora bisognò inventare artigianalmente qualcosa. E quando questo cominciò a dare i suoi frutti, perché i pentiti vennero dopo questo impegno, perché i pentiti se non vedono l’impegno dall’altra parte delle barricate non parlano, i pentiti parlano soltanto quando ritengono che ci sia qualcuno che li ascolti, e […] che ci sia qualcuno […] in grado di ascoltarli per saper discernere il grano dall’olio, ma, [dicevo], vennero dopo la creazione di questi strumenti nati per germinazione spontanea. E allora non appena i primi successi tra virgolette, non si tratta di successi, i primi risultati giudiziari si cominciarono a ottenere ci fu un momento in cui lo stato ritenne di impegnarsi pesantemente. Il presidente Giordano fu il protagonista di quella fase, non mi riferisco tanto al protagonista del processo, ma perché ricorderà che in quel momento, per esempio, si riuscì a realizzare a Palermo qualcosa che poi soltanto i mondiali hanno consentito: ad esempio un’aula bunker abbastanza sofisticata – […] non si era mai visto a Palermo costruire qualcosa così velocemente, le costruzioni in genere si iniziano e non si finiscono più – arrivarono poliziotti da tutti i lati, arrivarono mezzi, non sapevamo più dove metterli, noi giudici istruttori avevamo tante di quelle macchine da poterci permettere di cambiarne due al giorno, le fotocopiatrici, le macchine da scrivere che non c’erano mai state si contavano, i computer, addirittura, arrivarono addirittura i computer. Però a che prezzo? Contemporaneamente cominciò a montare una delega inammissibile. Cioè fu fatto sostanzialmente credere all’opinione pubblica che in quell’aula di maxiprocesso si processava la mafia e si doveva decretare in pubblico dibattimento la fine della mafia. Sostanzialmente fu affidata alla magistratura e alle forze di polizia una delega che la magistratura e le forze di polizia, con queste modalità, non avevano nessun diritto né nessun dovere di accettare. Perché in realtà la lotta alla mafia non era quella. Quello era un processo, importante quanto si vuole ma era un processo dove si doveva cercare, e fu fatto egregiamente, di valutare la posizione processuale di imputati, non di mafiosi, perché mafiosi si diventa almeno ufficialmente dopo la condanna. Valutare la posizione di imputati, condannarli se colpevoli, assolverli se innocenti. Non si processava la mafia in quel processo, come sostanzialmente si tentò di far credere ma non da parte dei magistrati, perché magistrati e forze di polizia posero l’accento sin da allora sul fatto che questa delega fosse inammissibile; la lotta alla mafia non era un fatto privato fra magistrati e mafiosi o fra polizia e mafiosi, la mafia bisognava affrontarla soprattutto affrontando le radici socioeconomiche che la generano. Perché altrimenti, accertata l’esistenza di cento mafiosi colpevoli e condannati cento mafiosi colpevoli ne riemergono altri duecento, perché è il sistema perverso che genera il perpetuarsi del fenomeno mafioso. Perché la mafia è qualcosa di diverso dalla banda Vallanzasca o dalla banda Epaminonda. Perché per la banda Vallanzasca si fanno le indagini, si scopre Vallanzasca, si arresta Vallanzasca ed è finita la banda Vallanzasca. E lo stesso vale anche per Epaminonda, anche se Epaminonda aveva qualche contatto con le menti mafiose. Ma la mafia è qualcosa di più. La mafia è una istituzione alternativa che opera sul territorio ponendosi in alternativa allo stato, non lottando con lo stato andando all’assalto dei palazzi comunali o dei palazzi delle regioni, ma cercando di conquistarli dall’interno con il sistema della collusione, della corruzione, della contiguità. Esiste perché ha consenso, perché dove lo stato è debole o non si sa presentare con la forza imparziale delle leggi, il consenso non va allo stato, va a qualcuno che risolve i problemi o che può risolvere i problemi in modo alternativo allo stato. Perché la forza della mafia si basa soprattutto su questo. La forza della mafia si basa sulla capacità di offrire o di apparire offerente di servigi che lo stato non riesce a dare. E basta pensare, e ogni siciliano lo sa, alla giustizia, la mafia appresta anche il servizio di giustizia. Perché qualsiasi siciliano sa che è inutile ricorrere ad un tribunale per riscuotere una cambiale non pagata, perché la causa si vincerà fra dieci anni. Ma il don Tano, il don Peppe, ora non si chiama più don, comunque il capo mafioso a cui ci si rivolge, te la fa recuperare in 24 ore. Il servizio lavoro, la mafia riesce a trovare lavoro e lo stato invece non riesce a fare i concorsi e il servizio d’ordine pubblico, anche la mafia lo fa. Si dice in Sicilia, si dice spesso che quando i capi, i grossi capi mafiosi sono in galera la piccola criminalità dilaga e da fastidio. Perché la signora la sera deve rientrare a casa con la pelliccia e non può essere messa in balia dei piccoli rapinatori. Solo che la mafia questi servigi li offre a somma algebrica zero. Cioè fa una giustizia ma deve contemporaneamente fare un’ingiustizia, da un lavoro a uno ma lo deve necessariamente togliere a un altro. Non li assicura cioè in modo imparziale. Sono queste forme apparenti di assicurare quelle che sono le principali funzioni dello stato quelle su cui la mafia attira consenso. E sono quelle che però creano questo humus fertile per la mafia e la prova si ha, non sto parlando di cose antiche, la prova si ha a Palermo quando si inalberano i cartelli [recanti le scritte] viva la mafia, viva Ciancimino in occasione di manifestazioni di operai licenziati da non so quale  [impresa]. E’ avvenuto anche recentemente. E non è [un atto] provocatorio, come ha detto qualche giornale. Quelli dicevano: viva la mafia, viva Ciancimino perché volevano dire viva la mafia, viva Ciancimino. Perché la mafia si regge soprattutto su questo. La droga è un incidente della mafia, la mafia è un’altra cosa, la mafia si sta occupando di droga, è potente anche la droga ma la mafia è un’altra cosa. E’ un’istituzione alternativa allo stato che ha per avventura, anzi è, perché i costituzionalisti ci insegnano che il territorio è parte essenziale dello stato e non è il possesso dello stato, la mafia è un territorio. La famiglia mafiosa è un’istituzione che è un territorio o agisce su un territorio in alternativa con l’istituzione pubblica che per avventura agisce sullo stesso territorio. E allora lo scontro come avviene? Non avviene scontro, la mafia risolve i suoi problemi di rapporto con l’istituzione legittima quale è lo stato cercando di condizionarla dall’interno. Ecco il perché del fatto che il rapporto mafia e politica è un rapporto essenziale. La mafia ha bisogno di questo rapporto, ha bisogno di condizionare i politici, cioè coloro che vanno a occupare le istituzioni. E dico occupare a ragion veduta perché fino a quando dureranno questi sistemi di spartizione, lottizzazione di ogni cosa, di enti locali prima di tutto, la mafia avrà il normale veicolo per inserirsi. Sino a quando non si proverà una riforma istituzionale seria e radicale degli enti locali la mafia avrà la strada aperta per inserirsi all’interno di questi enti locali, addirittura con suoi esponenti (in Campania e in Calabria succede). Esponenti mafiosi che in un paese si erano divisi i partiti: uno democristiano, uno comunista, uno socialista, non so se uno missino non voglio offendere nessuno… ognuno di una famiglia, ci stavano tutti. E si erano inseriti personalmente nelle associazioni o hanno mandato propri uomini – caso Ciancimino ad esempio, almeno secondo l’accusa – nelle istituzioni. Oppure le hanno condizionate attraverso le collusioni e le concussioni che trovano terreno fertile in un sistema partitico come quello attuale in cui i partiti, o gli uomini di partito, non è che ritengono di andare a servire le istituzioni ma ritengono, in qualsiasi campo, di andare a occupare le istituzioni. Una volta che le vanno a occupare [queste diventano] di loro proprietà, diventano i normali veicoli di infiltrazione mafiosa nelle istituzioni. Quindi il problema della lotta alla mafia non è che sia un problema prevalentemente giudiziario, o repressivo, o preventivo dal punto di vista giudiziario. Il problema della lotta alla mafia è un problema istituzionale, è un problema socioeconomico. [Necessitiamo] di interventi istituzionali, di interventi socioeconomici che impediscano le ragioni per cui la mafia ha linea nel territorio. E in questa materia che cosa è stato fatto? Non debbo dire nulla, ma debbo dire sicuramente poco. Su questo siamo tutti d’accordo a qualsiasi partito, a qualsiasi ideologia si appartenga. Però lo stato, oltre ad aver fatto poco o nulla con riferimento a questo tipo di interventi non giudiziari, né polizieschi, bensì […] socioeconomici e istituzionali per debellare  le vere radici della mafia, dall’epoca della celebrazione del maxiprocesso in poi cominciò a fare ben poco con riferimento all’aiuto concreto che si dava ai magistrati e alle istituzioni per combattere la mafia. O comunque per affrontare il problema della mafia sotto il profilo repressivo, poliziesco. Perché da quel momento, dal 1986/87 l’impegno, anche sotto questo limitatissimo profilo, che è quello giudiziario – perché io sono convinto che si tratti di un intervento limitatissimo perché il più importante è l’altro – cominciò a scemare. Già nel 1986, ricordo che io ne parlai per la prima volta in occasione del primo anniversario dell’uccisione di Ninni Cassarà – nella sala del Consiglio comunale di Palermo fu fatta la commemorazione – e per la prima volta dovetti affrontare il tema della normalizzazione, che io chiamai smobilitazione […][dal momento] che si stava squagliando già tutto. Poi, nel 1988, scoppiò la crisi del pool antimafia che, nonostante le apparenze del documento votato dal Consiglio superiore della magistratura nel settembre di quell’anno, in realtà si è concluso nella smobilitazione anche del pool antimafia. Che era stata l’unica struttura seria creata dalla base e non dal vertice, dal potere. [Perché non fu il potere] che lo volle, bensì coloro che ne fecero parte. […]  fu smontato anche quello. In occasione delle polemiche aspre sorte a seguito della mia intervista del luglio ’88 circa la smobilitazione del pool antimafia, il ministro Vassalli intervenne, con un articolo se non piglio errore su Epoca e disse: “beh, tutta questa polemica riconduciamola nei temi istituzionali, probabilmente occorre una legge che regoli il lavoro di équipe, cioè i pool antimafia”. Poi ha fatto il codice ed era l’occasione migliore per inserire in questo codice di procedura penale una regolamentazione dei pool antimafia. Troviamo invece quell’articolo, che non ricordo perché io con i numeri ho scarsa dimestichezza, quell’articolo che è stato citato non so da chi a proposito del coordinamento, e l’altro giorno, in occasione di una audizione della commissione antimafia a cui ho partecipato assieme a quasi tutti i procuratori della repubblica e ai procuratori generali d’Italia, eravamo tutti d’accordo [nel dire] che è inutile fare questa norma sul coordinamento visto e considerato che esso è basato soltanto sull’adesione volontaria dei singoli partecipanti. E io citai il caso di avere invaso l’Italia di talune dichiarazioni importanti che riguardavano fatti avvenuti in Sicilia, a Milano, a Roma ecc. dicendo a tutti i miei corrispondenti Procuratori della repubblica: “visto che abbiamo una fonte comune prendiamo contatti, coordiniamoci per gestirla per evitare che ognuno faccia danno agli altri”. Mi rispose solo […] il Procuratore della repubblica di Reggio Calabria che non era il destinatario dei verbali contenenti i fatti più importanti. E in quella riunione si venne alla triste considerazione che questo coordinamento non è niente. Perché è inutile che una norma dica che i pubblici ministeri si devono coordinare tra loro, e se non si voglio coordinare? O se uno di loro non si vuole coordinare l’altro che strumenti ha? Nessuno. Non esistono strumenti per costringere a coordinarsi. Ed è una cosa importante perché, sempre per tornare al fatto dei pentiti, se io ho un pentito che mi dice fatti che riguardano me, fatti che riguardano altri, faccio i dovuti riscontri, faccio le dovute indagini, poi a un certo punto scopro la fonte perché chiedo i provvedimenti cautelari. Faccio quella che ormai si chiama, con termine americano, discovery. Ma se non sono coordinato con l’altro a cui vengono gli atti gli posso far danno perché può essere che lui è più avanti o è più indietro di me e ha necessità ancora alla segretazione. Dico solo per questo. Anche per queste cose [è necessario il coordinamento], non solo per dirigere indagini assieme ma anche per evitare gravi danni a queste indagini. Il codice di procedura penale non contiene niente di tutto questo. […] L’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale ben poco se non niente, almeno per ora, ha ottenuto e lo sapete che significa che non ha ottenuto niente? Che in Italia viviamo in un periodo che rasenta l’assenza non della giustizia ma della giurisdizione. Perché? Perché non basta il momento normativo perché si cominci a operare con il nuovo codice, al cui tessuto normativo mi riservo, se ho tempo, di fare pochissime critiche. Occorre che il nuovo codice entri in vigore allorché vi siano le strutture adeguate per farlo funzionare, e le strutture non erano adeguate nemmeno a fare funzionare il vecchio. Figuriamoci il nuovo. Che per altro si è rivelato, nonostante le dichiarazioni di principio, si sta rivelando nella pratica estremamente formalistico con riferimento proprio a quella parte delle indagini, cioè quelle di parte del pubblico ministero che dovevano invece essere le più snelle e le più veloci possibili e invece sono infarcite di adempimenti. L’altro giorno facevamo i conti con il gip di Marsala [e siamo arrivati alla conclusione] che per far trascrivere una brevissima intercettazione telefonica avevamo bisogno di tre o quattro mesi, o qualcosa del genere. Per una serie di adempimenti. E’ bene che il legislatore tenga presente questo fatto e sollevi il pubblico ministero soprattutto da questo tipo di adempimenti minuti che prevede il codice. Perché sono veramente per la maggior parte inutili, non sono garantisti, non assicurano nessuna difesa a nessuno, servono soltanto perché l’esasperato formalismo, forse degli italiani, tende a complicare necessariamente le cose. Ma la cosa più grave è quella di carattere generale. Lasciamo stare il codice, probabilmente è uno dei migliori codici che siamo mai venuti fuori nella storia del mondo, ma chi lo sta attuando? Ebbene siccome io, come poco fa accennai, sono procuratore della repubblica non di Trapani ma di Marsala, e questo ha la sua importanza perché Marsala – lo prendo come esempio non perché voglio tirare acqua comunque al mio mulino – pur essendo un circondario più grosso di quello di Trapani che ha più abitanti e ha soprattutto la maledetta zona del Belice – con grossissima presenza mafiosa – […] ha dovuto subire quella che è la conseguenza di una legge, entrata in vigore assieme al nuovo codice di procedura penale, che è la modifica dell’ordinamento giudiziario il quale, pochi sanno, ha diviso l’Italia in tribunali di serie A e tribunali di serie B. Nel senso che non essendoci magistrati a sufficienza per istituire il nuovo organo di procuratore della repubblica presso le preture, nei tribunali di serie B, cioè quelli non capoluoghi di provincia, senza tenere conto se si trattava di tribunali piccoli, tribunali grossi, tribunali impegnati nella lotta alla criminalità organizzata oppure no, il Procuratore della repubblica presso il tribunale, cioè io nella fattispecie ma anche il collega di Termini Imerese, anche il collega di Locri e di Palmi, con la criminalità agguerrita che esiste in quelle zone, assomma in se provvisoriamente, e tutti sappiamo che in Italia non c’è nulla di più definitivo che il provvisorio, anche le funzioni di Procuratore della repubblica presso la pretura. E allora da un giorno all’altro, in questi tribunali di Locri, di Palmi, di Termini Imerese consentitemi anche di Marsala, un ufficio che deve interessarsi mediamente di un omicidio alla settimana, perché questa è per difetto la media, uffici che debbono dirigere le indagini riguardanti associazioni criminose estremamente agguerrite vengono immediatamente travolti da una massa di assegni a vuoto, illecite edilizie, contravvenzioni per il 650 del codice penale, guida senza patente, e chi più ne ha più ne metta. I numeri: un tribunale come il mio, che trattava una media di 4.000 procedimenti l’anno, di colpo ne tratta 40.000 senza avere neanche un uomo in più. Ma […][per uomo non intendo] un magistrato in più [ma anche solo] un dattilografo in più. Questo è il modo in cui è entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale. E che questa sia stata una scelta logica per Lodi o per Legnano, dove probabilmente si è pensato: “Beh, sono piccoli tribunali, lavorano poco, quanto meno facciamogli fare anche il lavoro pretorile”, [non discuto]. Ma è stata una scelta incredibilmente tragica per le zone dove opera la più feroce criminalità organizzata. E dove la struttura giudiziaria della procura della repubblica, che ora ha avuto la delega, deve dirigere sin dal primo momento le indagini di polizia – e indagini di polizia dietro le spalle del magistrato non se ne fanno più -, queste procure sono state travolte da questa massa di carte che non si ha il tempo neanche di scrivere i registri. Registri i quali furono mandati caoticamente lo stesso giorno in cui iniziava a entrare in vigore il codice. Perché ora si è arrivati alla condizione che mentre prima i giudici erano accusati di non riuscire a portare a termine i processi ora non li riescono più neanche ad iniziare. Brevemente perché vi ho tediato troppo. Noi, l’Associazione Nazionale magistrati, nell’ultimo incontro con il Presidente del consiglio dei ministri, il ministro Vassalli, oltre a quel dibattito parlamentare sui problemi della giustizia, abbiamo chiesto che si ponesse subito mano quantomeno a due riforme: dell’ordinamento giudiziario l’una e di diritto sostanziale l’altra. Cose di cui non parla più nessuno. Una è l’istituzione del giudice di pace. Il magistrato deve essere sollevato […] dalle miriadi e miriadi di faccende bagattellari dalle quali oggi viene sommerso. E’ vero che i magistrati italiani sono molti ma mai, in nessun paese del mondo come in Italia, la legislazione penale, soprattutto, si occupa di tante sciocchezze. Oggi qualsiasi fatto, anche se non provoca nessun tipo di allarme sociale, viene immediatamente penalmente sanzionato. Perché è la strada più breve. Ma il magistrato deve essere sollevato da questi fatti perché altrimenti giustizia in Italia non se ne farà più. Perché solo se si depenalizzassero gli assegni a vuoto, l’emissione di assegni a vuoto, la giustizia italiana verrebbe sollevata probabilmente del 70% del suo carico di lavoro. Il ministro Vassalli una volta mi confidò in una sua venuta a Marsala che la relazione del progetto di legge per la depenalizzazione di assegni a vuoto… che è un fatto importantissimo! Devono essere depenalizzati! Perché altrimenti la giustizia italiana, per questa sciocchezza, non funzionerà più, perché noi siamo travolti nel nostro lavoro per il 70% almeno da questo. Sono sciocchezze, ma moltiplicando per 1.000, per 2.000, per 3.000, per 4.000, per 10.000 un lavoro, anche ripetitivo, che però si è costretti a fare, ci accorgiamo che non si trova più il tempo di fare il resto. Ebbene, il ministro Vassalli mi confidò che la proposta di legge, o il disegno di legge, non so che cos’era, era stata dimenticata dal relatore nel cassetto essendo il relatore diventato intanto sottosegretario o qualcosa del genere. Mi disse: “la abbiamo dovuta ripescare”. Forse era un paradosso, un’iperbole ma intanto sta di fatto che non se ne parla. Basterebbero soltanto queste due iniziative per ridare fiato a una giustizia la quale si alimenta di meno dell’1% del bilancio nazionale. E con i pattini […] non si può correre né la mille miglia né questa gravissima gara e importantissima scommessa, una gara di Formula Uno, che è il funzionamento della giustizia nel momento della riforma del codice di Procedura penale. Convegno “Stato e criminalità organizzata: chi si arrende?”- 22 giugno 1990.  Da archivio sonoro di Radio Radicale – Trascrizione a cura di Monica Centofante.  La trascrizione è fedele al documento sonoro, con alcuni interventi a discrezione dell’operatore: 1) l’apposizione della punteggiatura; 2) l’inserimento di parole, comprese in parentesi quadre, per aiutare la comprensibilità del testo; 3) la correzione delle deformazioni fonetiche dialettali.

LA NOSTRA RESPONSABILITA’ DI FRONTE ALLA MAFIA  Ho ascoltato gli interventi di coloro che mi hanno preceduto e ho colto, così, non per polemizzare ma soltanto per puntualizzare ancora di più, certi aspetti del problema mafioso. La mafia. Responsabilità di tutti noi. Il pubblico ministero, impersonato dall’ottimo amico dott. Paino, ha detto: noi abbiamo collaborato, col nostro silenzio. Da giudice dico che non sono completamente d’accordo con lui. Non si può accusare di collaborazionismo una cittadinanza che ha visto uccidere il titolare dell’albergo Costa Smeralda – mi pare che si chiamava Jannì – che aveva collaborato. Non si può accusare di collaborazione una cittadinanza che non ha alcuna protezione nel potere, una cittadinanza che è stata abbandonata dal potere, una cittadinanza che vede la mafia padrona quasi assoluta della vita, dei beni, degli interessi economici della società. In queste condizioni io assolverei per insufficienza di prove e non condannerei. In queste condizioni io direi che semmai si può parlare di paura. Paura che avvinghia. Paura che attanaglia. Paura che fa preferire i tre mesi di carcere per falsa testimonianza o per favoreggiamento, purché si continui a vivere, se vita può essere quella di coloro i quali sono costretti a subire giornalmente la violenza mafiosa. Ebbene, la parola del cardinale Pappalardo, che ha avuto un’eco profonda nelle coscienze dei cattolici e dei non cattolici, che è stata fatta propria dalla più alta autorità spirituale del mondo, da questo papa che sentiamo tutti vicino a noi per questa grande umanità che caratterizza la sua personalità; bene, questa presa di posizione delle autorità ecclesiastiche è di conforto, perché servirà, forse, a dare quel coraggio che il potere costituito, che avrebbe il dovere di dare, non ha saputo dare. Non ha saputo dare. E si potrebbe dire – e qui divento pubblico ministero io – non ha voluto dare. Quando io, quale relatore, partecipai, nel 1978, al convegno di Grottaferrata, un mio collega, il giudice Guarino, palermitano, ascoltando la mia relazione si soffermò, nel pormi una domanda, su una mia espressione, che è questa: “il potere ha un rapporto spregiudicato di do ut des con la mafia”. “E allora, mi ha detto Guarino, come può il potere, se ha questo rapporto, combattere la mafia?”. Un’osservazione intelligente e acuta che mi ha messo in imbarazzo nel dare la risposta. Se la mafia ha legami col potere, se a volte diventa potere, come può il potere combattere se stesso? Non lo può. E allora dobbiamo dire – e qui è un’altra puntualizzazione -: noi non possiamo parlare di responsabilità di tutti i partiti politici. Noi dobbiamo parlare di responsabilità di quei partiti politici che fino ad oggi hanno detenuto il potere. Non si può fare di tutte le erbe un fascio. Dobbiamo essere sereni e obiettivi nel formulare i nostri giudizi.  Le leggi che si fanno – ma io parlerei di leggi che non si fanno. Che leggi ci ha dato il potere dopo le conclusioni cui è pervenuta la Commissione antimafia? Nessuna legge. Ed allora: come non possiamo muovere questo gravissimo appunto al potere: ci avete dato leggi atte a combattere il fenomeno mafioso? Non ce le avete date. Non sappiamo le ragioni: questo non spetta a me giudice, non voglio ergermi a giudice del potere. Però questa constatazione io la debbo fare. Noi abbiamo dei discorsi commemorativi. Abbiamo lapidi per i magistrati, i funzionari, gli ufficiali che cadono. Ma per la gente che non ha un ruolo ben definito, che rimane vittima della mafia – che poi vittima della mafia è tutta la società nella quale viviamo – che cosa c’è, che cosa c’è stato in passato? Niente. Il silenzio. I cento morti di Palermo, che sono più di cento: dobbiamo aggiungere ai morti ufficiali le lupare bianche. Dobbiamo aggiungere i ragazzi vittime della droga: e non sono questi ragazzi uccisi dalla mafia? Il moderatore mi ha tirato in ballo per la questione della droga.  Guardate, io dico questo: nessuno che abbia una sensibilità normale può esimersi, oggi, dal dare un contributo, quale esso sia, alla lotta contro la droga, che poi significa lotta alla mafia. Perché oggi il binomio è inscindibile: mafia – droga, droga – mafia. Come si può rimanere insensibili di fronte ai ragazzi morti a Palermo?  Quest’anno ne abbiamo avuto tredici. Tredici sono quelli che si sanno: e quei ragazzi che pietosamente vengono indicati come morti per epatite, morti per altre cause, ma che noi sappiamo tutti essere pure vittime della droga? E di questi ragazzi non ci sentiamo noi tutti responsabili? Ecco, a questo punto io devo dire: veramente mi sento responsabile di queste morti. Perché sono convinto – dobbiamo essere convinti – che nessuno di noi ha fatto quanto era in suo potere per combattere questa che è la più odiosa delle attività mafiose. E di quei ragazzi tossico dipendenti?… Devo raccontare un episodio, e finisco. Ho partecipato giorni fa a un convegno su Nietzsche.Il moderatore, un uomo estremamente colto ed intelligente, col senso dell’humor, forse quell’humor sottile inglese, pensando che in un convegno di tanta elevatezza culturale un giudice… ma che ci stava a fare un giudice? che può dire in un convegno di alti studiosi di filosofia!, annunciò il mio intervento dicendo che avrei parlato di droga. Lo ha detto quasi con… con ironia certamente. Allora io, lì per lì fui tentato – tanto più che l’uditorio era costituito da ragazzi, principalmente da giovani studenti – di parlare di droga. Poi invece ho preferito – il tema era “Morale, politica e cultura” – inserire l’argomento droga nel problema morale: il problema morale di cui oggi tanto si parla. E perché i politici fanno continuamente richiamo al problema morale? Qual è la ragione? Perché oggi il politico si caratterizza per la amoralità.  Quando non si affrontano questi gravi problemi della mafia, quando non si affronta con la dovuta energia il problema della lotta alla droga, allora non siamo noi soli, noi cittadini, responsabili – noi lo siamo per quella indifferenza che ha caratterizzato il nostro comportamento – ma il politico, che avrebbe avuto il dovere di fare e non ha fatto nulla. Ecco perché quasi un po’ il rimorso, il senso di colpa, il problema morale, che devono essere sentiti da tutti ma specialmente da coloro i quali noi mandiamo col voto al parlamento per darci le leggi. Le leggi che il politico non ci dà. Le leggi che il legislatore non ci dà. E allora le colpe su chi? Beh, sui giudici, sulla polizia, su chi è chiamato istituzionalmente ad applicare le leggi. Ma se non ce le danno, quali leggi dobbiamo applicare noi? Un codice di procedura penale, sul quale non esprimo giudizi, ma che potrebbe sortire effetti negativi anziché positivi, e che pure è da dieci anni in cantiere e non ci hanno ancora dato! Il garantismo. Certo, il giudice non può condannare se non c’è una legge. Ma le leggi ce le devono dare. Un’ultima considerazione, prendendo un po’ di spunto da quello che ha detto il prof. Renda sul fascismo. Ma il fascismo non ha combattuto la mafia! Mi consenta professore. Io sono un attento osservatore, non sono uno storico. Però io devo dire che quando Mori affermò di avere debellato la mafia in Sicilia, ingannava per primo se stesso. Storicamente noi ora abbiamo saputo che il fascismo colpì la mafia, diciamo, piccola. Ma la grande mafia, quella che ha sempre imperato sotto tutti i governi e con tutti i regimi, aderì al fascismo, e non fu toccata, non fu mandata al confino di polizia: la grande mafia, quella che dopo l’ingresso degli americani diventò potere di nuovo, dopo quella breve parentesi. E dobbiamo dire che anche nel ventennio i mafiosi più astuti, più furbi e più intelligenti, con l’adesione al fascismo continuarono a comandare. E la frase “abbiamo distrutto la mafia”, era come quella “abbiamo sette milioni di baionette”. Anche quello fu un bluff. E allora, signori miei, il rimedio. Ecco: la mobilitazione delle coscienze, la voce ammonitrice del cardinale e del papa. Questo convegno. Io trovo più efficaci queste prese di posizioni. Perché solo così, quando tutti noi saremo sensibilizzati, quando tutti noi uscendo da qui avremo detto o ci diremo: non è stata una riunione accademica, non abbiamo fatto “cultura”, da questo momento in poi noi ci sentiamo solidali con chi è caduto, noi avvertiamo imperioso il bisogno di compiere il nostro dovere di cittadini: solo così si potrà dare un contributo per la lotta contro la mafia e contro la droga. da: Rocco Chinnici, L’illegalità protetta, La Zisa, Palermo, 1990.

RIFORME E INDIPENDENZA DELLA MAGISTRATURA  Secondo le più recenti dichiarazioni del ministro di Giustizia egli non si sarebbe mai sognato di sfiorare il problema della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo di cui semmai si discuterà nell’ambito della revisione costituzionale demandata al prossimo Parlamento. Il problema tuttavia risulta non solo sfiorato, ma affrontato di petto da parte di autorevoli esponenti dello staff ministeriale che, con elaboratissime argomentazioni, lo sollevano su prestigiose riviste specializzate come Giustizia Penale, non omettendo di accusare l’Associazione Nazionale Magistrati di rigide chiusure corporativistiche. Gli argomenti, oltre all’insistente richiamo di diritto comparato ad altri ordinamenti statuali, sono sostanzialmente tre: la necessità che si ponga rimedio alla non soddisfacente distribuzione di magistrati del Pubblico Ministero sul territorio; la considerazione secondo cui i magistrati del pm operano già oggi scelte discrezionali in ordine all’esercizio dell’azione penale senza però risponderne ad alcuno e il difettoso coordinamento tra gli stessi organi inquirenti non realizzabile in maniera ottimale se non sottoponendolo a una unica autorità che dirigendoli possa coordinarli effettivamente nella conduzione delle indagini, specie in materia di criminalità organizzata. Questo è l’argomento preferito dalla Direzione Affari Penali del Ministero, che ne ha fatto oggetto di un articolato questionario, inviato a tutte le procure generali della Repubblica sollecitando suggerimenti e prese di posizione che comunque sono suggerite in modo abbastanza trasparente dallo stesso interrogante. E poiché il problema del coordinamento tra pubblici ministeri nella lotta alla criminalità organizzata viene ormai in modo abbastanza palese sollevato proprio insistentemente da coloro che mirano ad un assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo, non è più esorcizzabile trincerandosi in difesa, soltanto in difesa, di già riconosciute garanzie costituzionalmente sancite. Si rischia altrimenti di perdere un’altra decisiva battaglia analoga a quella referendaria sulla responsabilità civile, che è riuscita nell’unico risultato di trasformare in un pronunciamento popolare contro la magistratura e la sua credibilità quello che i fatti successivi mi sembra lo abbiano dimostrato era un problema tutto sommato risolvibile con non dirompenti concessioni da parte della magistratura associata. Mi auguro pertanto che i Procuratori Generali e quelli della Repubblica offrano spassionatamente alla Direzione Affari Penali il loro contributo fermo nel rispetto dei principi, ma flessibile negli accomodamenti di un sistema che i principi non tocchi. Peraltro che il problema del coordinamento delle indagini nei confronti della criminalità organizzata e di quella mafiosa in particolare sia stato risolvibile, all’interno del sistema giudiziario attuale o a quello recentemente passato, senza sottoporlo a radicali sconvolgimenti, è dimostrato proprio dalle vicende, o quantomeno dalla prima fase di esse, concernenti i cosiddetti pool antimafia, con i quali senza interventi legislativi e comunque dall’alto, ma per iniziativa degli stessi magistrati, per germinazione spontanea vorrei dire, si realizzò non soltanto il coordinamento ma addirittura l’unificazione di tutte le indagini sulla criminalità mafiosa o di gran parte di essa. Sono stati commessi certamente errori di valutazione risoltisi purtroppo in una dirompente crisi di rigetto. Ma ciò, a mio parere, non perché il sistema non fosse funzionante, perché furono acquisite conoscenze prima di allora impensabili, ma a causa della supina accettazione da parte della magistratura della cosiddetta delega che il potere politico in genere ha lasciato loro, incoraggiandone il lavoro. Li lasciarono rappresentando all’opinione pubblica la lotta alla criminalità mafiosa come qualcosa che avrebbe potuto risolversi nelle aule di giustizia decretando in pubblico dibattimento, o meglio, in maxidibattimento, la fine di Cosa Nostra. Naturalmente le iniziative giudiziarie, pur incoraggiate e condotte con determinazione, non potevano incidere seriamente sulla consistenza del fenomeno che andava invece contemporaneamente e radicalmente affrontato alle sue radici con mezzi diversi da quelli meramente repressivi, con interventi sociali, economici, culturali e istituzionali dei quali non si vide traccia in quegli anni come non se ne vede seriamente traccia tuttora. Prese allora abbondantemente campo una virulenta crisi di rigetto verso quegli esperimenti che tanta parte ha avuto nella formulazione di taluni paralizzanti principi del nuovo codice di procedura penale. Basti pensare, come esempio lampante, alla drastica riduzione delle ipotesi di connessione che da un lato obbliga a processi separati anche nel caso di assoluta unicità di prova, dall’altro costringe a riproporre all’interno di ogni singolo processo la prova inerente ai fatti criminosi non più commessi ma solo collegati e comunque rilevanti per la decisione. Le pochissime autorità giudiziarie che attualmente celebrano processi per criminalità mafiosa sanno che ormai ogni processo è diventato necessariamente un maxiprocesso. Per certo la crisi della giustizia esisteva ancor prima del nuovo codice di procedura, ma non v’è dubbio che il nuovo contesto normativo e la realtà giudiziaria all’interno della quale esso è stato intempestivamente introdotto hanno cagionato, sommandosi, i paralizzanti effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Ma a fronte di questa desolante realtà, ormai unanimemente riconosciuta e non modificabile con meccanismi previsti dalla legge delega che anzi, anche per il succedersi incessante di decreti e modifiche di decreti, aggrava ancor più la situazione invece di affrontare il radicale problema ponendo mano a radicali riforme di taluni principi sanciti dal legislatore delegante, si è innescata, secondo un disegno già da alcuni ampiamente previsto, una dissennata campagna contro l’obbligatorietà dell’azione penale, contro l’attuale posizione istituzionale del pubblico ministero, sottolineando innanzitutto la carenza di collegamenti tra i vari organi inquirenti dispersi sul territorio nazionale.  Ed accusando la magistratura associata di inammissibili resistenze corporative all’ipotesi di radicali riforme in questa direzione. Resistenze asseritamente corporative che in realtà si risolvono nella doverosa difesa di principi costituzionalmente garantiti. L’obbligatorietà dell’azione penale indispensabile per assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge non è, senza gravissimi danni, removibile dal nostro sistema, a nulla rilevando in contrario i dotti richiami di diritto comparato riferibili a sistemi politici costituzionali profondamente diversi dal nostro. Ed a nulla vale l’ossessivo richiamo alla cosiddetta discrezionalità di fatto che indurrebbe il Pubblico Ministero a operare comunque scelte discrezionali delle quali non risponderebbe ad alcuno. E’ vero che l’estensione a dismisura della tutela penale conseguentemente all’enorme numero di procedimenti che grava sul sistema giudiziario penale impedisce di fatto agli organi di accusa di perseguire ogni caso con eguale sollecitudine, ma resta sempre da dimostrare che da parte dei pm vengano di fatto operate vere e proprie scelte discrezionali, nel senso che l’attività repressiva venga deliberatamente omessa in casi nei quali potrebbe realmente essere dispiegata. Solo scelte siffatte potrebbero essere correlate ad una responsabilità politica quale è quella prefigurata dall’organo di accusa mentre invece la soluzione sta a monte espellendo dal sistema penale le miriadi di piccoli reati che estendono a dismisura una tutela che dovrebbe essere riservata, secondo quanto ci hanno insegnato, ai fatti di più apprezzabile rilevanza. E d’altra parte un legislatore, abituato da decenni a vanificare con ricorrenti provvedimenti di amnistia, l’incessante lavoro della magistratura per tener dietro a migliaia di ipotesi di reato ben più efficacemente perseguibili in via amministrativa, non è poi per certo legittimato ad addebitare alla magistratura la responsabilità di avere adottato asserite irresponsabili scelte che in realtà sono poi soltanto la risultante di un’intollerabile sproporzione fra quantità di casi penali da un lato, termini e mezzi per occuparsene dall’altro. Se pertanto è pretestuoso invocare la cosiddetta discrezionalità di fatto, cui può porsi rimedio per altra più accettabile via, per richiamare invece ad una responsabilità politica del pm e se pertanto l’azione penale è, e deve restare obbligatoria, non vi è più motivo che un organismo soggetto soltanto alla legge debba essere invece posto alle dipendenze dell’esecutivo. Resta però, specie in materia di indagini sulla criminalità organizzata, il problema del collegamento fra i vari organi del pm, che in tale indagine hanno l’obbligo della direzione. Ma il problema è tecnico, non politico, a meno che l’insofferenza verso qualsiasi forma di direzione dell’esecutivo, e anche verso quelli che non intacchino l’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero, non finisca per precludere alla magistratura associata qualsiasi possibilità di manovra. La criminalità organizzata spazia con la sua attività ben oltre i limiti angusti delle circoscrizioni, che nella quasi totalità dei casi sono addirittura meno ampie delle stesse province. Il pool antimafia di Palermo intuì questa innegabile realtà con riferimento a Cosa nostra e ritenne di risolvere il problema attuando quella radicale forma di collegamento costituito dalla unificazione di tutte le indagini su questa più grave forma di criminalità. A seguito di note decisioni della Suprema Corte, si ritornò al nefasto sistema delle indagini parcellizzate e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante le promesse del ministro Vassalli, il problema dei pool, che è poi quello del collegamento delle indagini, non venne affrontato legislativamente se non con inconcludenti disposizioni del nuovo codice di procedura penale esortanti al coordinamento volontario. Nessuno tuttavia può realmente coordinare, se non dirigendo. Il radicale ridimensionamento contenuto nel nuovo codice di procedura penale e dei principi gerarchici all’interno degli uffici di procura, fra le procure generali e quelli della repubblica, ha reso di fatto impossibile coordinare alcunché. Queste gerarchie vanno ricostituite, almeno a livello di procure generali, esistenti su base regionale, ove dovrebbero essere accentrate, ripristinando i poteri di allocazione, le indagini sulla criminalità organizzata operante oltre le sedi circoscrizionali. Il rifiutare anche questi accomodamenti interni irrispettosi dei principi in cui tutti crediamo rischia di avere un unico sbocco, che è quello perseguito, più o meno dichiaratamente, dal potere politico. (7 giugno 1991 Vasto Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati “il giudice fra crisi della giurisdizione e problemi…”) di Paolo Borsellino Io sono stato sempre estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non lo chiamerei tanto parallelo, lo chiamerei alternativo al sistema dello Stato perché è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. E in particolare nell’ordinamento, nel nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, così come organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi sono negli altri stati, ma il nostro, mi pare, che sia, credo, l’unico stato in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. E perché? Perché probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente, e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticare, che si continua a porre come un sistema alternativo, un sistema alternativo che offre dei servigi che lo Stato non riesce ad offrire. Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua, anche se probabilmente in diminuzione – traeva i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti quelli che abbiamo partecipato a quella esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, tanto che anche in quei momenti, anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia di miliardi, se non migliaia, dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali, perché la droga non lo era e non lo è mai stata, essenziale alla criminalità mafiosa. Cioè quella di continuare ad esercitare, quella che è la caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, e che comunque si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire io di essere un territorio, così come il territorio è parte essenziale dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, perché è una sua componente essenziale, dico la famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena. Poiché si determina naturalmente un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, con mezzi diversi ma una analoga sovranità, si determina questo conflitto. E questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma normalmente si compone attraverso il condizionamento dall’interno delle persone, o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere, delle persone fisiche atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni. Naturalmente, naturalmente la risoluzione finale del problema, consiste nel chiudere… naturalmente la risoluzione finale del problema, la finalità a cui deve tendere chi veramente intende, cioè le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere, di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso il quale la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, o coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, vengono condizionate da questa istituzione alternativa. Il chiudere come? Perché ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che tutti abbiamo talvolta la sensazione che le istituzioni pubbliche non vengano considerate tanto dalle forze politiche organizzate in partiti come quelle istituzioni dove andare attraverso i partiti a scegliere i migliori che vanno a impersonarne la volontà di queste istituzioni, ma le istituzioni pubbliche vengono considerate normalmente come teatri o agoni di lobbies che li dentro si azzuffano e si scornano per impossessarsi, quanto più possibile, di fette di questo potere e di esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di esercitarlo in funzione di interessi particolari. E questo è l’accusa che da più parti politicamente si fa a quella che viene chiamata, da tutti dispregiativamente, ma da tutti sostanzialmente sopportata, “partitocrazia”. Cioè l’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche, delle istituzioni pubbliche il che naturalmente crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni pubbliche si formino quelle volontà che non sono dirette al bene pubblico ma sono dirette ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, evidentemente significa chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno di questo tipo di organizzazione. E sicuramente questo deve farsi salvando, è logico, i princìpi democratici che reggono, oggi, pressoché tutte le nostre istituzioni. Però, ad esempio, la sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono la legislazione che regola, ad esempio, gli enti locali è chiaro che è una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto al migliore dei modi, trancerà, chiuderà, impedirà l’accesso all’interno di questi enti locali di queste lobbies che andranno lì dentro, o di queste lobbies o comunque di queste infiltrazioni che possono provocare, provocano normalmente la possibilità che… le volontà di persone a cui è attribuito il potere di esprimere la volontà di queste istituzioni siano rivolte non al bene pubblico, ma siano rivolte agli interessi particolari di questa o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa. (27 marzo 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino in occasione di una tavola rotonda sul tema mafia, criminalità, giustizia, magistratura, superprocura). di Paolo Borsellino La domanda che oggi ci poniamo, o meglio vi ponete, è che cosa interessa a voi della mafia. Perché è interessante che voi sappiate e parliate di mafia? E a questa domanda bisogna dare subito una risposta cruda: perché se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura, e ai giovani della scuola fregherebbe ben poco, se non come interesse generale a che la criminalità organizzata venisse comunque repressa. E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia sino a qualche tempo fa perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia, nessuno pensava di entrare nelle scuole a parlare di mafia, nessuno pensava di parlare di mafia addirittura all’interno delle famiglie. E allora avveniva qualcosa di strano. Avveniva che, proprio perché la mafia non è e non è soltanto una forma di criminalità organizzata, i giovani siciliani crescevano in una curiosa situazione, quella di non sentirsi parlare mai di mafia da nessuno. […] Sino a qualche tempo fa […] in Sicilia […] il discorso sotteso era che la mafia se esisteva, e sempre ammesso che esistesse, era qualcosa che riguardava soltanto l’attività repressiva dello Stato, cioè magistratura, polizia e carabinieri […] Addirittura si riteneva che la giustizia fosse sostanzialmente amministrata in modo più veloce e più efficace […] da quella organizzazione alla quale ci si poteva anche rivolgere […] per recuperare un credito invece di iniziare lunghe e defatiganti cause giudiziarie. Ci si rivolgeva a qualcuno che con la violenza riusciva a farci ottenere ragione ed ecco che si creava questo consenso diffuso nei confronti di questa organizzazione storicamente sorta in Sicilia la quale fingeva, o faceva credere, di poter assicurare queste faccende. Non vi sembri un discorso tanto lontano perché anche recentemente a Palermo, penso che non sia passato neanche più di un anno, in occasione di alcune manifestazioni economiche fatte da scioperanti, ora non ricordo bene il caso, a Palermo si sfilava con i cartelli con scritto: Viva la mafia, Viva Ciancimino. E non era un fatto soltanto provocatorio perché a Palermo è stata diffusa sino a ieri – non sino all’altro ieri, se non forse in alcuni ambienti sino ad oggi – l’impressione che le organizzazioni mafiose, una volta che fossero riuscite ad attirare i narcodollari in Sicilia, potessero creare addirittura una possibilità di sbocco, di crescita economica perché creavano e portavano una ricchezza che lo Stato non riusciva ad assicurare. In realtà si trattava e si tratta, sia nel campo della giustizia, sia nel campo della sicurezza, sia nel campo dell’economia, di mistificazioni di enorme portata perché soltanto apparentemente le organizzazioni mafiose sono riuscite, storicamente, a distribuire questo tipo di sicurezza, questo tipo di giustizia, questo tipo di economia. Sono riuscite a distribuirle ad alcuni, a pochi, togliendole ad altri. Sono cioè riuscite ad amministrare un tipo di fiducia a somma algebrica zero perché non è possibile a parti di organizzazioni diverse dalle istituzioni pubbliche assicurare fiducia a tutti bensì soltanto ad alcuni togliendola agli altri. Si poteva fare giustizia a qualcuno creando ingiustizia alla quasi totalità, si poteva portare all’arricchimento di alcuni, marginalizzando invece quelli che volevano lavorare onestamente. Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia nelle nostre regioni è stato questo senso di sfiducia nello stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che, diciamocelo francamente e non vergogniamocene come siciliani, se siamo siciliani che vogliamo reagire a questo stato di cose, ha vissuto a lungo in un consenso generalizzato. Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi. E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi, il consenso deve andare verso lo stato, il consenso deve andare verso le istituzioni pubbliche e non verso le istituzioni che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale. E perché è necessario parlare anche ai giovani di altre regioni d’Italia di queste cose? E’ necessario perché in un determinato momento storico la mafia, che non era e non è soltanto – ancora è un grosso errore ritenerlo – traffico di droga, si impossessò di questo traffico che non nacque con la mafia, nacque con i contrabbandieri di tabacchi. La mafia però fiutò il business, si impossessò del monopolio del traffico degli stupefacenti, cooptò all’interno della mafia coloro i quali già questo traffico facevano in modo estremamente lucroso e, pur non cambiando affatto la sua struttura, cioè quella di istituzione alternativa esterna e interna allo stato […], ebbe in mano questo enorme potere derivato dalla possibilità di avere tali traffici. Ripeto: la mafia non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti, se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso che ha il traffico delle sostanze stupefacenti in mano. Questo le ha dato una forza incredibile, le ha dato un’enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi, questi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos’altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose. Oggi c’è il grosso, enorme pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d’olio tutta l’Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d’Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma la ha resa così potente in Sicilia. [Tanto potente] che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l’acqua in cui questo immondo pesce nuota. E l’acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto ai cittadini. […] E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso, vado spesso a parlare in paesi dell’interno o del Belice […][e mi viene detto]: “ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose”. Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro. La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente. Soltanto che questo è solo metà del cammino perché quand’anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa, sotto questo profilo, allo stato sarebbe stato fatto metà del cammino. Perché l’altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l’interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, [sino a quando] occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire. Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall’altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell’interesse di tutti e non l’interesse né dei singoli né delle fazioni. di Paolo Borsellino Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 Ore dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo, Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a far il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della repubblica di Palermo dove a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter lì continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler far lui per Palermo. E in fin dei conti se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge anche nei momenti di maggiore successo le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare. Soprattutto, per consentirgli di ritornare – a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché forse ripensandoci quando Caponnetto dice «cominciò a morire nel gennaio del 1988» aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per poter continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura  PALERMO 25 giugno 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino al congresso “Ma è solo mafia?

MAFIA: IL NODO POLITICO E’ recentissima la notizia della pubblicazione del primo quotidiano europeo, The European, stampato a Londra, che nel suo numero zero porta in prima pagina una notizia che riguarda la Sicilia: sei omicidi di mafia tra Gela e Palermo, alcuni giorni fa.

Sei uccisi, titola il giornale, alla vigilia di una protesta contro la mafia. Ancora una volta, dunque, pesantemente, la Sicilia è notizia da prima pagina per fatti di mafia, triste primato europeo, se non mondiale, che la nostra isola condivide con le altrettanto tormentate regioni di Campania e Calabria, cioè con quei territori dove, secondo autorevolissime e ufficiali opinioni, il possesso del territorio da parte delle organizzazioni criminali è totale, con la conseguenza che è proprio lo stato che deve, in ogni modo e con tutta l’energia possibile, tentare e riuscire ad infiltrarsi. Che stampa nazionale e internazionale continuino a porre così frequentemente l’accento su tale situazione non è circostanza che deve di per sé dispiacere e scatenare inapprezzabili reazioni di malriposto meridionalismo, del tipo di quelle che in un recente passato eravamo abituati ad ascoltare dalle bocche di autorevoli personaggi, anche investiti di pubbliche funzioni, secondo i quali a Trapani, Catania, Pagani, Reggio Calabria o altrove non c’era mafia ma comune criminalità, eguale a quella di tante altre città del nord, dove invece i giornali e altri manipolatori di pubblica opinione insistevano e insistono ancora nel rappresentare la Sicilia e le altre terre meridionali come luogo di dominio incontrastato di organizzazioni malavitose. Mi sembra che gli anni ‘80, i fatti gravissimi verificatisi in questo decennio e le poderose inchieste giudiziarie espletate abbiano quanto meno prodotto la nascita di una nuova consapevolezza sulla esistenza e pericolosità del fenomeno mafioso, che non giustifica più offese e rigurgiti campanilistici ma globale impegno collettivo, il quale è bene venga sostenuto dalla costante attenzione della pubblica opinione nazionale, che non denigra certo la Sicilia o le altre regioni meridionali quando denuncia i mali che le affliggono, invocandone i rimedi. E, a loro volta, i cittadini di queste regioni, non debbono temere affrettate o superficiali generalizzazioni allorché denunciano ad alta voce essi stessi i loro mali chiamando le loro città “capitali della mafia”, perché le spaccature e le prese di distanza sono insostituibili momenti di crescita civile e oltremodo necessari sono gli steccati da creare tra onesti e malavitosi, tra insofferenti alla convivenza con la mafia e succubi della tentazione alla coesistenza. Ben vengano, pertanto, le denunce e le spaccature. Solo dividendoci aspramente e guardandoci in faccia troveremo la forza di crescere e imboccare la strada per liberarci dai mali che ci affliggono.

2 Se tuttavia le grandi inchieste giudiziarie degli anni ‘80 hanno prodotto, al di là dei loro specifici esiti processuali, questa crescita della coscienza collettiva sul fenomeno e sulla sua pericolosità (e la magistratura siciliana ne rivendica il merito), la rinnovata virulenza delle organizzazioni mafiose, che si rivelano oggi più agguerrite e pericolose di prima, ha cagionato il venir meno di una perniciosa illusione, spesso alimentata ad arte da chi ne aveva interesse e, comunque, sempre denunciata proprio da quei magistrati più impegnati nella repressione delle attività criminali. Pericolosa illusione, secondo cui la penetrazione e incisiva azione di contrasto di magistratura e forze dell’ordine avrebbe di per sé sola prodotto la “sconfitta” della mafia e la sua scomparsa dallo scenario meridionale. Da qui la inammissibile delega agli organi di repressione di occuparsi, essi soli, della risoluzione del problema e la più inaccettabile delega alla autorità giudiziaria giudicante di sancire in pubblico processo la fine di Cosa Nostra, portando a termine il mastodontico dibattimento di Palermo, organizzato con particolare e spettacolare impiego di mezzi. E alla fine l’ipocrita sorpresa: nonostante il grosso sforzo organizzativo e le laceranti polemiche, cagionate anche dagli interventi legislativi fatti a “bocce in movimento” per consentire l’esito dibattimentale, le organizzazioni criminose si riaffacciavano sulla scena più forti di prima, ancora morti a centinaia e la pubblica tranquillità sconvolta anche in zone ove prima la vita scorreva in modo, almeno apparentemente, più tranquillo. Facile a questo punto insinuare il dubbio che le potenzialità investigative a disposizione erano state sprecate o male indirizzate. Facile sostenere la sostanziale inutilità di così massiccia opera repressiva, facendo intendere che si era soprattutto occupata di archeologia criminale, trascurando gli aspetti più attuali del fenomeno. Facile svalutare l’apporto importantissimo dei cosiddetti “pentiti”, avanzando il sospetto che erano riusciti a strumentalizzare polizia e magistratura indirizzando la loro azione verso boss ormai in disarmo a vantaggio di nuovi equilibri. Facile, infine, disconoscere, se non a parole sicuramente nei fatti, la validità degli strumenti operativi che, nell’assenza di una adeguata legislazione e realizzando delicatissimi equilibri, la magistratura era riuscita a darsi, raggiungendo dopo vuoti investigativi durati troppo a lungo gli unici risultati apprezzabili riscontrabili in tale materia. Verità è che lo strumento repressivo, in genere, e giudiziario in particolare, non poteva e non avrebbe mai potuto da solo risolvere il problema della criminalità mafiosa e neanche contenerlo in limiti accettabili. E non soltanto per i limiti, direi istituzionali, proprio di siffatte azioni repressive (volte all’accertamento dei reati, alla individuazione dei loro autori e alla irrogazione delle relative sanzioni), ma soprattutto a causa delle profonde radici storiche e socio-economiche che la criminalità mafiosa ha nella realtà meridionale e particolarmente siciliana, sicché, non incidendo a fondo su tali radici, con interventi che vanno ben al di là di quelli meramente repressivi e giudiziari, la mafia è destinata sempre a risorgere, anzi a perpetuarsi, adattando la sua sostanzialmente immodificabile natura strutturale e organizzativa ai mutevoli aspetti della realtà socio-economica, per sfruttarne al massimo, a fini di illecito profitto, le disponibili risorse.

3 Mi lasciano, pertanto, estremamente perplesso talune affermazioni, anche recentemente e autorevolmente ribadite, secondo cui l’attuale struttura della mafia sarebbe mal conciliabile con una visione semplificata, quale quella monolitica rigidamente dipendente da alcuni soggetti.

Secondo tale assunto, sarebbe più verosimile ritenere che la “nuova mafia” non è più circoscritta nei limiti dei confini siciliani e che altrove si è spostato il vero centro motore, essendosi ridotta la Sicilia a provincia privilegiata di un più vasto universo mafioso, una sorta di “santuario” mantenuto in vita solo al fine di poter contare su luoghi sicuri per la penetrazione in Italia e in Europa di droga pesante. Tali considerazioni, a mio parere, sono frutto di un equivoco: quello cioè di tenere ormai realizzata appieno l’equazione mafia = traffici di droga, così essendosi ridotta Cosa Nostra a mera organizzazione criminale, anche se di vastissima pericolosità, dedita, come tante altre, in Italia e altrove, alla commercializzazione delle sostanze stupefacenti. Tanto che si è avanzata da taluni dilettanti di criminologia la bislacca idea che la liberalizzazione del consumo di droga comporterebbe, con il venir meno degli enormi profitti che se ne ricavano, la sicura fine di Cosa Nostra. Orbene, nessuno vuole negare che la enorme potenza raggiunta negli ultimi decenni dalla organizzazione mafiosa dipenda soprattutto dalla gestione degli enormi capitali lucrati nel traffico delle sostanze stupefacenti. E nessuno può sognarsi di negare che prevalentemente in dipendenza da tali traffici l’ambito di attività di Cosa Nostra si sia esteso oltre gli angusti limiti dei confini isolani impegnando uno scenario nazionale ed internazionale. Vero è, però, che la mafia esisteva ancor prima di impossessarsi del monopolio di tali traffici, gestiti in un primo tempo in Italia dalle organizzazioni contrabbandiere, e verosimilmente continuerà ad esistere ancor dopo, se gli sforzi congiunti di una organizzazione di contrasto a livello mondiale riuscirà a stroncarli. Anche nei periodi di maggiore espansione e di maggiori profitti derivanti dal traffico della droga l’organizzazione mafiosa, ben consapevole della propria peculiare natura, non ha mai rinunciato a quel rigido controllo del territorio che fa della “famiglia” di Cosa Nostra un vero stato nello stato, perché il territorio e la supremazia su di esso è essenziale per l’esistenza stessa del nucleo criminale come per quella della istituzione statuale. Controllo del territorio che si esercita inserendosi pesantemente nei meccanismi di distribuzione delle risorse, con le tangenti, coi pizzi, con l’accaparramento degli appalti e delle pubbliche commesse, con lo sfruttamento delle aree, con l’infiltrazione, per condizionarli a suo favore, negli organi del pubblico potere, sia politico che burocratico.

4 I colpi giudiziari e repressivi inferti alla mafia, lungi dallo scompaginarne a lungo le fila, hanno invece provocato un fenomeno che è stato definito di “implosione”.

La struttura criminale è divenuta più unitaria e più rigida proprio per assicurare maggiormente un controllo monopolistico del territorio e delle sue risorse, sia perché, come si è detto, Cosa Nostra senza tale controllo non sarebbe più mafia, sia forse per il progressivo diminuire dei proventi dipendenti dal traffico di droga, conseguente non all’abbandono del traffico medesimo, sempre monopolisticamente gestito come recentissime inchieste dimostrano, bensì al ridursi dell’attività di raffinazione, quella cioè che assicurava maggiormente la moltiplicazione dei profitti. Diminuzione dei proventi, non del traffico che ha reso per Cosa Nostra necessario rivolgere nuovamente l’attenzione, mai per altro distolta, a quelle attività meramente parassitarie che un tempo, pur se in ambito economico più angusto, costituivano l’unica fonte di alimentazione dell’affare mafioso. L’implosione verificatasi nell’universo di Cosa Nostra ha comportato probabilmente anche un accentuato processo di semplificazione, non solo all’interno ma anche all’esterno di essa. Non più spazi di autonomia   di gruppi o “famiglie” accanto al gruppo egemone e, quindi, la progressiva eliminazione dei precedenti alleati interni e, soprattutto, in periferia, la progressiva riduzione degli spazi di attività storicamente riservati o concessi a gruppi criminali esterni. Mi sembra sia questa la ragione di fondo dell’inarrestabile stillicidio di omicidi che hanno insanguinato vaste aree delle province limitrofe al palermitano, specie quelle di Trapani e Caltanissetta, ormai giunte ai vertici delle lugubri classifiche nazionali sia per valori assoluti sia, con più sinistra evidenza, in valori relativi. Se, pertanto, le più incisive azioni giudiziarie e repressive in genere non sono in grado di infierire decisivi colpi alla tracotanza mafiosa, che ineluttabilmente risorge sempre dalle sue apparenti ceneri, è necessario si prenda atto che il fenomeno va affrontato incidendo a fondo nelle sue radici con una risposta globale dello stato, senza inammissibili ed esclusive deleghe a questa o quella parte del suo apparato e meno che mai a magistratura e forze dell’ordine, la cui sovraesposizione, per tali cause, ha raggiunto in questo decennio limiti intollerabili, con un prezzo di sangue che continua intollerabilmente a essere pagato da coloro i quali finiscono in questa lotta per trovarsi in condizioni di obiettivo isolamento. Più stato. Certo più stato, ma attenzione! Una risposta statuale intensa in termini meramente quantitativi di impiego di risorse umane o finanziarie non risolve il problema e anzi spesso lo aggrava. In un recente incontro svoltosi in Campania ho ascoltato qualificatissimi oratori dichiarare la loro profonda diffidenza verso una profusione di risorse finanziarie che hanno finito per scatenare gli appetiti della camorra, trasformando quelle terre, per il loro accaparramento, in un tragico teatro di sangue. Leggo dei quasi mille miliardi, in valuta di oggi, spesi a Gela dalla Cassa per il Mezzogiorno e di altri 1.873 in arrivo e considero quanto poco queste immani risorse abbiano seriamente contribuito alla rimozione delle cause che danno origine o rendono sempre più tracotanti le organizzazioni mafiose, che scatenano invece sanguinose battaglie per inserirsi pesantemente nei meccanismi di redistribuzione. Ed è noto quali timori si nutrono a Palermo per l’attenzione immancabile di Cosa Nostra al fiume di finanziamenti che si apprestano a riversarsi sulla città.

5 In realtà bisogna prendere atto che il sottosviluppo economico non è, o non è da solo, responsabile della tracotanza mafiosa, che ha radici ben più complesse, tanto da far definire in studi recenti la mafia non il prezzo della miseria ma il costo della sfiducia.

Per altro già nel lontano 1876 Leopoldo Franchetti, nello scrivere quello che ancor oggi rimane uno degli studi più coerenti ed esaurienti sulla mafia siciliana e il suo ambiente, individuava due insiemi di cause tra loro collegate. Il primo riguarda l’assenza di un sistema credibile ed efficiente di amministrazione della giustizia. Il secondo si riferisce a una mancanza di fiducia di tipo economico. Ambedue le cause, che possiamo ritenere ancor oggi operanti, importano l’assenza di un apparato statuale credibile sia nel dirimere le controversie naturalmente nascenti dalle private contrattazioni, sia nell’assicurare che tali contrattazioni possano svolgersi in clima di reciproca affidabilità. A sua volta l’arretratezza economica chiude ogni altra via di sfogo all’attività dei privati. L’unico fine, osserva Franchetti, che ciascuno può proporre alla propria attività o ambizione è quello di prevalere sopra i propri pari (“il nemico è chi fa il tuo mestiere”, sostiene un proverbio siciliano). Il desiderio di prevalere sopra i propri pari, congiunto all’assenza di uno stato credibile, non può condurre alla normale concorrenzialità di mercato: la pratica che si diffonde non è quella di far meglio dei propri rivali ma di farli fuori. In questo contesto, osserva Franchetti, si cominciano a capire i motivi per cui i mafiosi non emergono come delinquenti comuni che agiscono isolatamente in conflitto con la popolazione. Parte della pubblica opinione li ritiene in Sicilia più che altro degli uomini capaci di esercitare privatamente quella giustizia pubblica su cui nessuno più conta. Quanto di questi concetti conservino ancor oggi gran parte della loro validità emerge in modo inquietante da talune ricorrenti invocazioni alla mafia o a suoi supposti qualificati esponenti verificatesi in occasione di pubbliche dimostrazioni indette per protestare contro asserite ingiustizie sociali o economiche. Analogo aspetto è quello della compenetrazione tra delinquente e vittima che tipicamente si realizza in una delle attività più caratteristiche della mafia, cioè l’offerta di protezione a scopo estorsivo. Infatti, l’aspetto più singolare della estorsione mafiosa è la difficoltà di distinguere le vittime dai complici e il fatto che tra protetti e protettori si stabiliscano legami piuttosto ambigui. La violenza dell’estorsione e gli interessi personali delle vittime tendono a confondersi e a formare un insieme inestricabile di motivi per cooperare. Il vantaggio di essere amici di coloro che estorcono denaro e beni non è quindi solo quello di evitare i probabili danni che seguirebbero un rifiuto ma, in certi casi, può estendersi a un aiuto per sbarazzarsi di concorrenti scomodi. E quanto ai rapporti con la pubblica amministrazione, quale migliore alleato di colui o di quella organizzazione che garantisce un rapporto di “fiducia” nei confronti di un pubblico apparato ritenuto non credibile o non affidabile? Secondo quanto riferito dalla stampa, proprio la più alta autorità regionale ha denunciato “che ci troviamo in presenza in molte Usl e in molti comuni di spinte fortissime, dirette e ravvicinate, da parte di centri criminali che tentano di intervenire come gruppi di pressione, decisivi addirittura nella formazione degli esecutori. L’obiettivo è il controllo del notevole flusso di risorse che questi organismi decentrati amministrano. C’è una pressione sempre maggiore che aree di criminalità organizzata realizzano nei confronti dei punti di decisione e di utilizzo delle risorse”. In tale situazione, così autorevolmente denunciata, quale migliore brodo di colture per organizzazioni che traggono la loro forza dalla inefficienza dell’apparato pubblico e dalla sua incapacità di essere ritenuto meritevole di imparziale “fiducia”?

6 Il nodo è pertanto essenzialmente politico. La via obbligata per la rimozione delle cause che costituiscono la forza di una organizzazione criminale (ora anche militarmente ed economicamente potentissima perché detentrice dei proventi del traffico di droga) passa attraverso la restituzione della fiducia nella pubblica amministrazione.

Nessun impiego, anche massiccio, di risorse finanziarie produrrà benefici effetti se lo stato e le pubbliche istituzioni in genere non saranno posti in grado e non agiranno in modo da apparire imparziali detentori e distributori della fiducia necessaria al libero e ordinato svolgimento della vita civile. Continuerà altrimenti il ricorso e non si spegnerà il consenso, espresso o latente, attorno a organizzazioni alternative in grado di assicurare egoistici vantaggi. Fiducia nello stato significa innanzi tutto fiducia in una efficiente amministrazione della giustizia, sia penale sia civile. Registriamo evidentemente con soddisfazione, l’introduzione del nuovo codice di procedura penale, sia perché sostituisce un insieme di norme di rito ormai sclerotiche e disorganiche, sia perché l’adozione del sistema accusatorio, che entrerà in vigore alla fine del 1989, costituisce fuori di ogni dubbio una conquista di civiltà giuridica. Tuttavia sia ben chiaro che il nuovo rito non potrà funzionare e la sua adozione creerà gravissimi e irrisolvibili problemi se non sarà accompagnata da un adeguato potenziamento delle strutture e da una razionalizzazione del sistema. La magistratura associata ha da tempo posto questi problemi all’ordine del giorno e registra con particolare soddisfazione che sulla gravità di essi concordano le organizzazioni degli avvocati e i sindacati di categoria degli ausiliari di giustizia, unitamente ai quali è stata indetta “una giornata nazionale della giustizia” con assemblee che si svolgeranno in tutti i distretti sui seguenti argomenti: provvedimenti relativi al personale amministrativo; provvedimenti urgenti per il processo civile; patrocinio dei non abbienti; revisione delle circoscrizioni; edilizia giudiziaria; programma di informatizzazione giudiziaria. Trattasi di un nucleo limitato di problemi, la cui risoluzione costituisce tuttavia un minimum indispensabile per ridare credibilità a una amministrazione della giustizia cui nelle condizioni attuali più nessuno fa affidamento, col rischio, specie in Sicilia, che si perpetui e consolidi il ricorso ad un sistema alternativo criminale di risoluzione delle controversie. Fiducia nelle istituzioni significa soprattutto affidabilità delle amministrazioni locali, quelle cioè con le quali il contatto del cittadino è immediato e diretto e che attualmente risultano incapaci di gestire la cosa pubblica senza aggrovigliarsi negli interessi particolaristici e nelle lotte di fazioni partitiche. La loro riforma non è più procrastinabile, poiché altrimenti, come emerge dalle allarmate denunce del presidente della regione, resteranno i veicoli principali delle pressioni mafiose e delle lobbies affaristiche loro contigue. Passano anche attraverso queste vie obbligate le direttrici di lotta alla criminalità mafiosa. Una sfida che lo stato deve vincere perché è in grado di farlo e perché questo aspettano le nuove generazioni, che tutte ormai si dimostrano, anche clamorosamente, desiderose di vivere in un mondo migliore del nostro. Esse ci richiedono questi impegni e questi sacrifici. Relazione svolta al Convegno organizzato dalla “fondazione Costa” sul tema “Trasformazione  e sviluppo: una sfida alla mafia”, Gela, 17 novembre 1988

IL MIO RICORDO DI GIOVANNI FALCONE  Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta [il pentito Tommaso Buscetta, ] egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa. Questa stagione del «tifo per noi» sembrò durare poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che finì per invocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottimali condizioni del suo lavoro. Per poter continuare a «dare». Per poter continuare ad «amare». Venne accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Menzogna! Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece! Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi. La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio. Dal sacrificio della sua donna. Dal sacrificio della sua scorta. Molti cittadini, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro. Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia. Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”. Parole pronunciate alla Veglia per Giovanni Falcone, nella chiesa di Sant’Ernesto, a Palermo il 23 giugno 1992. estratto da: LE ULTIME PAROLE DI FALCONE E BORSELLINO

Appunti integrali di Paolo BORSELLINO che diede origine al celebre discorso sulla “Bellezza del Fresco Profumo di Libertà”, pronunciato nella Chiesa di San Domenico il 20 maggio 1992, a Palermo.

  • «Percorso da dove è nato Falcone (piazza Magione) a dove ha concluso con l’ultimo saluto la sua esistenza terrena (S. Domenico).
  • Percorso che attraversa parte significativa di questa città degradata e disperata che tanto non gli piaceva, che gli cagionava sentimenti di ripulsa e avversione per lo stato in cui era ridotta e si andava riducendo.
  • Città che proprio per questo, perché tanto non gli piaceva, egli amava e amava profondamente, proprio come nel famoso detto di José Antonio Primo de Rivera “nos queremos Espana porque no nos gusta” (amiamo la Spagna perché non ci piace).
  • Sì, egli amava profondamente Palermo proprio perché non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto “dare” per lui e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura amore verso Palermo ha avuto ed ha il significato di dare ad essa qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la Patria cui essa appartiene.
  • Lavorare a Palermo, da magistrato, con questo intento, fu sempre, sin dall’inizio, nei propositi di Giovanni Falcone anche durante le sue peregrinazioni professionali nell’est e nell’ovest della Sicilia.
  • Qui era lo scopo della sua vita e qui si preparava ad arrivare per riuscire a cambiare qualcosa. Qui ci preparavamo ad arrivare e ci arrivammo, dopo lungo esilio provinciale, proprio quando la forza mafiosa, a lungo trascurata e sottovalutata, esplodeva nella sua più terrificante potenza [morti ogni giorno, Basile, Costa, Chinnici, Dalla Chiesa].
  • Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo, e non solo nelle tecniche di indagine, ma perché consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno.
  • La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte, (perché prive o meno appesantite dai condizionamenti e dai ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col “male”), a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
  • Ricordo la felicità di Falcone e di tutti noi che lo affiancavamo quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice (simile affermazione è anche di Di Pietro).
  • Significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la forza di essa.
  • Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco perché ben presto sembrò sopravvenire il fastidio e l’insofferenza al prezzo che la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini. Insofferenza legittimante il garantismo di ritorno che ha finito per legittimare provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia (nuovo codice) o hanno fornito un alibi a chi, dolosamente o colposamente di lotta alla mafia non ha più voluto occuparsene.
  • In questa situazione Falcone va via da Palermo. Non fugge ma cerca di ricreare altrove le ottimali condizioni del suo lavoro. Viene accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Non è vero! Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il suo lavoro di dieci anni.
  • Lavora incessantemente per rientrare in condizioni ottimali in magistratura per fare il magistrato indipendente come lo è sempre stato. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato, hanno perso il diritto a parlare.
  • Nessuno tuttavia ha perso il diritto anzi il dovere sacrosanto di continuare questa lotta. La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora.
  • Molti cittadini (ed è la prima volta) collaborano con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro.
  • Occorre dare un senso alla morte di Falcone, di sua moglie, degli uomini della sua scorta.
  • Sono morti per noi, abbiamo un grosso debito verso di loro. Questo debito dobbiamo pagarlo – gioiosamente – continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere.
  • Rispettando le leggi anche quelle che ci impongono sacrifici. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro).
  • Collaborando con la giustizia.
  • Testimoniando i valori in cui crediamo anche nelle aule di giustizia.
  • Accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità.
  • Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo».

LO STATO SI È ARRESO: DEL POOL ANTIMAFIA SONO RIMASTE MACERIE  “La lotta alla mafia? I segnali non sono certo molto incoraggianti. Per almeno tre ragioni: il giudice Falcone non è più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxi-processo, la polizia non sa più nulla dei movimenti dentro Cosa Nostra, e poi ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione e della procura della Repubblica di Palermo. Stiamo rischiando di creare un pericoloso vuoto, stiamo tornando indietro, come dieci, venti anni fa…”. Il procuratore capo di Marsala, Paolo Borsellino, lancia a sorpresa un violentissimo “j’accuse” sulle grandi manovre in corso in Sicilia. Parla di indagini arenate, delle polemiche che avvelenano ormai da mesi il clima negli uffici investigativi e nei palazzi di Giustizia di mezza isola, della riorganizzazione di Cosa Nostra e di uno Stato che sembra quasi aver gettato la spugna. “Sì, la situazione è davvero pericolosa”, spiega il procuratore Borsellino che del pool antimafia faceva parte insieme a Falcone, Di Lello, Caponnetto e Guarnotta, “basti pensare a cosa sta accadendo nel bunker dell’ufficio istruzione… A Falcone, dopo tanti anni, hanno tolto la titolarità di quelle inchieste che gli vennero affidate dal consigliere istruttore Rocco Chinnici”. Il giudice Falcone quindi non è più il punto di riferimento delle inchieste antimafia? “Fino a qualche mese fa tutto quello che riguardava Cosa Nostra passava sulla sua scrivania e su quella di altri tre o quattro giudici istruttori. Adesso la filosofia è un’altra: tutti si devono occupare di tutto e il consigliere Antonino Meli, dopo un tira e molla di qualche mese, è diventato il titolare dello stralcio del maxi-processo. C’è stato un taglio netto con il passato. Certo, anche Caponnetto era il titolare delle inchieste sui boss del bunker ma lui, quel processo, l’aveva costruito. Adesso dubito, senza mettere in discussione la bravura, l’onestà e la competenza di Antonino Meli, che il nuovo consigliere possa, in un paio di mesi, avere acquisito una tale conoscenza del fenomeno”. Un problema che molti si erano posti prima della nomina del nuovo consigliere istruttore… “Si è arrivati a delle scelte sbagliate. Non intendo riaprire la polemica sulla nomina del consigliere Meli ma il problema era un altro: si doveva nominare Falcone consigliere istruttore non per “premiarlo” ma per garantire una continuità all’ufficio. E invece…”. E invece signor procuratore? “E invece succedono cose molto strane. Ad esempio io sono il titolare di un’inchiesta sulla mafia di Mazara del Vallo. Un pezzo dell’indagine è a Palermo e un pezzo ce l’ho io. Ho scritto all’ufficio istruzione di Palermo per avere indicazioni su chi dovrebbe occuparsi dell’intera inchiesta. Non mi hanno mai risposto. Prima, tutte le indagini venivano centralizzate a Palermo. Solo così si è potuto creare il maxi-processo, solo così si è potuto capire Cosa Nostra ed entrare nei suoi misteri. Adesso si tende a dividere la stessa inchiesta in tanti tronconi e, così, si perde inevitabilmente la visione del fenomeno. Come vent’anni fa”. Perchè questa inversione di rotta improvvisa? “Tutto questo, senza fare dietrologie, si sta verificando in un momento di grande stanchezza, in un momento dove si credeva a torto che con il maxi-processo la mafia era stata sconfitta, che tutto si doveva risolvere nell’aula bunker. E così si è lasciato perdere tutto il resto”. Un mese fa il giudice Falcone ha lanciato pesanti accuse alle forze di polizia, oggi lei rincara la dose sostenendo che gli investigatori di Palermo non fanno più nulla. “La situazione delle forze investigative è molto chiara: non esiste una sola struttura di polizia in grado di consegnare ai giudici un rapporto sulla mafia degno di questo nome. L’ultimo dossier di un certo peso l’abbiamo ricevuto sei anni fa, esattamente il 13 luglio del 1982. Ed è il rapporto su Michele Greco e centosessantuno boss della nuova mafia. Da allora, se si escludono alcuni lavori investigativi del reparto anticrimine dei carabinieri, c’è stato il vuoto, il vuoto assoluto”. La squadra mobile di Palermo è investita da una bufera di polemiche, il suo poliziotto più rappresentativo, Accordino, è stato trasferito prima a Bressanone e poi alla polizia postale di Reggio Calabria. Cosa è accaduto in questa struttura investigativa? “Dopo l’uccisione dei commissari Cassarà e Montana la situazione è andata deteriorandosi rapidamente. Non capisco proprio cosa voglia dire adesso il capo della squadra mobile di Palermo Nicchi quando sostiene pubblicamente che sta lavorando per la normalizzazione”. Procuratore Borsellino, cosa sta succedendo invece nel pianeta mafioso? “Io posso solo avanzare ipotesi perchè non abbiamo notizie sicure. Oggi siamo nella fase della eliminazione degli alleati. Quando i corleonesi presero la decisione di eliminare i vecchi capi storici della mafia siciliana, si allearono con una serie di clan. Adesso c’è un vero e proprio regolamento di conti interno”. Lei qualche giorno fa alla presentazione del libro “La mafia di Agrigento” in sintonia con Falcone ha ripetuto che il terzo livello mafioso non esiste. Cosa significa? “Tutte le inchieste ci dicono che la mafia è un’organizzazione di tipo militare. Quando abbiamo trovato dentro Cosa Nostra rappresentanti del mondo politico o imprenditoriale ci siamo accorti che non ricoprivano mai ruoli di grande responsabilità. Si, tanti personaggi politici si servono dei mafiosi o si scambiano favori con i boss. Ma questo è un altro discorso. Del resto anche Buscetta fa intendere certe cose dicendo però che su quel fronte non vuole dire nulla, non vuole fare nomi”. Signor procuratore, perchè questo sfogo, perchè ha deciso di uscire allo scoperto su un tema così scottante? “Perchè dopo tanti anni di lavoro, prigioniero nel bunker di Palermo, sento il dovere di denunciare certe cose. E anche perchè non sono venuto qui a Marsala per isolarmi. Io sono venuto a fare il procuratore della Repubblica a Marsala per continuare ad occuparmi di mafia, per lavorare qui ma lavorare contemporaneamente anche con Falcone a Palermo, con il giudice ad Agrigento, con altri magistrati a Catania o a Trapani. E invece tutto questo non sembra possibile. Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come prima, più di prima”. Intervista rilasciate da Paolo Borsellino ad Attilio Bolzoni de “La Repubblica” 20 Luglio 1991

 

VOGLIONO SMANTELLARE L’ANTIMAFIA  Paolo Borsellino, 48 anni, dall’86 procuratore capo a Marsala, può essere definito uno dei leader storici del pool antimafia dell’Ufficio istruzione di Palermo, ai tempi di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta. Oggi sul fronte delle inchieste che investono Cosa Nostra, stanno accadendo fatti, si stanno verificando situazioni, all’interno e all’esterno del Palazzo di Giustizia, che lui non riesce più a capire. Proverbiale per la sua schiettezza, esce allo scoperto con questa intervista. Dottor Borsellino, cos’è che non va oggi nella lotta alla mafia? In un recente convegno il giudice Falcone si è detto molto preoccupato. “Fino a poco tempo fa tutte le indagini antimafia, proprio per l’unitarietà dell’organizzazione chiamata Cosa Nostra, venivano fortemente centralizzate nel pool della Procura e dell’Ufficio istruzione. Oggi invece i processi vengono dispersi per mille rivoli. Tutti si devono occupare di tutto, è questa la spiegazione ufficiale, ma è un a spiegazione che non convince. La verità è che Giovanni Falcone purtroppo non è più il punto di riferimento principale”. Mi risulta che Falcone continui a svolgere le sue inchieste; e gli anni passati, titolare del maxi-processo, fu il capo dell’Ufficio istruzione Antonino Caponnetto. oggi invece al posto che fu di Chinnici e Caponnetto, c’è Antonino Meli. Perchè trova strano che a Meli stia a cuore una direzione complessiva? “Senza mettere in discussione la bravura, la competenza, la buona fede di Meli, dubito che si possa rivendicare la titolarità quando si è arrivati ieri e quindi non si conosce la materia. Il precedente di Caponnetto è ben diverso: lui quelle carte le aveva viste crescere. E ai suoi tempi si era affermata una preziosa filosofia di lavoro che ha consentito l’istruzione del maxi-processo: salviamo le competenze territoriali, quando è possibile, ma ogni spunto di indagine che riguarda Cosa Nostra deve trovare riferimento nel maxi-processo e nello stralcio che da quel processo è scaturito. Con questa tecnica si chiuse la pagina delle indagini parcellizzate che per anni non riuscirono mai a centrare veri obiettivi. Ho la spiacevole sensazione che qualcuno voglia tornare indietro”. Dottor Borsellino, tutti conoscono il clima di polemiche che ha preceduto e seguito la nomina del nuovo capo dell’Ufficio istruzione. Falcone non ce l’ha fatta. Non c’è il rischio di riaprire antiche polemiche? “Sono fra quelli che non hanno ami pensato che si dovesse dare un “premio” particolare a Falcone. Si trattava semmai di tutelare la continuità con le direzioni di Chinnici e Caponnetto. Si trattava cioè di garantire una soluzione interna all’Ufficio, senza pause o pericolose soluzioni di continuità in certe indagini”. Lei è procuratore capo a Marsala. Vuol dire che con l’Ufficio istruzioni si sono “rotti i telefoni”? “Qui, a Marsala, ho avuto modo di occuparmi di una potente cosca di Mazara del Vallo sulla quale indagano anche i giudici palermitani. Mi sembrava quindi di fare la cosa più normale rivolgendomi all’Ufficio istruzione: non ho avuto alcuna risposta. Strano, davvero molto strano”. Qualche che giorno fa, ad Agrigento, durante la presentazione di un libro sulla mafia in quella città, curato da Giuseppe Arnone, lei si è detto molto preoccupato anche della situazione delle forze di Polizia. “Bene: l’ultimo rapporto di Polizia degno di questo nome risale al 1982. Era il dossier intitolato Michele Greco più 161. Da allora ad oggi non è stato presentato più alcun rapporto complessivo sulla mafia nel Palermitano. Se si escludono alcuni contributi del reparto anticrimine dei carabinieri, il vuoto è assoluto: nessuno, per esempio, che si sia posto il problema di capire quali effetti ha provocato negli equilibri fra le famiglie di Cosa Nostra la sentenza del maxi-processo. Recentemente, invece, il dottor Nicchi, capo della squadra mobile di Palermo, ha dichiarato pubblicamente che lui “lavora per la normalizzazione”. Francamente non capisco una frase del genere detta da un funzionario di polizia.” Il capo della sezione omicidi della Squadra Mobile, Francesco Accordino, è stato trasferito a Reggio Calabria e da qualche mese si occupa di raccomandate rubate, presso la polizia postale. E’ un caso? “So solo che la Squadra Mobile, dai tempi delle uccisioni dei poliziotti Cassarà e Montana, era rimasta decapitata. Lo staff investigativo è a zero”. Qualche giorno fa il giudice Falcone ha affermato che non esistono prove dell’esistenza di un “terzo livello”, inteso come super direzione politica della “cupola” militare della mafia; ha aggiunto che molti uomini politici siciliani erano e sono adepti di Cosa Nostra. Che ne pensa? “Sull’inesistenza del terzo livello concordo con lui. Per la seconda parte del ragionamento non dispongo di informazioni particolari, poichè da due anni vivo a Marsala, ma è risaputo che esiste un’area di reticenza dichiarata, da parte di Buscetta, proprio nelle sue confessioni”. Perchè lancia oggi questo grido d’allarme? “Il momento mi sembra delicato. Avendo trascorso tanti anni negli uffici-bunker di Palermo sento il dovere morale, anche verso i miei colleghi, di denunciare certe cose”. Saverio Lodato, giornalista de “L’Unità”, intervista Paolo Borsellino 20 Luglio 1991

 

Riforme e indipendenza della magistratura Secondo le più recenti dichiarazioni del ministro di Giustizia egli non si sarebbe mai sognato di sfiorare il problema della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo di cui semmai si discuterà nell’ambito della revisione costituzionale demandata al prossimo Parlamento. Il problema tuttavia risulta non solo sfiorato, ma affrontato di petto da parte di autorevoli esponenti dello staff ministeriale che, con elaboratissime argomentazioni, lo sollevano su prestigiose riviste specializzate come Giustizia Penale, non omettendo di accusare l’Associazione Nazionale Magistrati di rigide chiusure corporativistiche. Gli argomenti, oltre all’insistente richiamo di diritto comparato ad altri ordinamenti statuali, sono sostanzialmente tre: la necessità che si ponga rimedio alla non soddisfacente distribuzione di magistrati del Pubblico Ministero sul territorio; la considerazione secondo cui i magistrati del pm operano già oggi scelte discrezionali in ordine all’esercizio dell’azione penale senza però risponderne ad alcuno e il difettoso coordinamento tra gli stessi organi inquirenti non realizzabile in maniera ottimale se non sottoponendolo a una unica autorità che dirigendoli possa coordinarli effettivamente nella conduzione delle indagini, specie in materia di criminalità organizzata. Questo è l’argomento preferito dalla Direzione Affari Penali del Ministero, che ne ha fatto oggetto di un articolato questionario, inviato a tutte le procure generali della Repubblica sollecitando suggerimenti e prese di posizione che comunque sono suggerite in modo abbastanza trasparente dallo stesso interrogante. E poiché il problema del coordinamento tra pubblici ministeri nella lotta alla criminalità organizzata viene ormai in modo abbastanza palese sollevato proprio insistentemente da coloro che mirano ad un assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo, non è più esorcizzabile trincerandosi in difesa, soltanto in difesa, di già riconosciute garanzie costituzionalmente sancite. Si rischia altrimenti di perdere un’altra decisiva battaglia analoga a quella referendaria sulla responsabilità civile, che è riuscita nell’unico risultato di trasformare in un pronunciamento popolare contro la magistratura e la sua credibilità quello che i fatti successivi mi sembra lo abbiano dimostrato era un problema tutto sommato risolvibile con non dirompenti concessioni da parte della magistratura associata. Mi auguro pertanto che i Procuratori Generali e quelli della Repubblica offrano spassionatamente alla Direzione Affari Penali il loro contributo fermo nel rispetto dei principi, ma flessibile negli accomodamenti di un sistema che i principi non tocchi. Peraltro che il problema del coordinamento delle indagini nei confronti della criminalità organizzata e di quella mafiosa in particolare sia stato risolvibile, all’interno del sistema giudiziario attuale o a quello recentemente passato, senza sottoporlo a radicali sconvolgimenti, è dimostrato proprio dalle vicende, o quantomeno dalla prima fase di esse, concernenti i cosiddetti pool antimafia, con i quali senza interventi legislativi e comunque dall’alto, ma per iniziativa degli stessi magistrati, per germinazione spontanea vorrei dire, si realizzò non soltanto il coordinamento ma addirittura l’unificazione di tutte le indagini sulla criminalità mafiosa o di gran parte di essa. Sono stati commessi certamente errori di valutazione risoltisi purtroppo in una dirompente crisi di rigetto. Ma ciò, a mio parere, non perché il sistema non fosse funzionante, perché furono acquisite conoscenze prima di allora impensabili, ma a causa della supina accettazione da parte della magistratura della cosiddetta delega che il potere politico in genere ha lasciato loro, incoraggiandone il lavoro. Li lasciarono rappresentando all’opinione pubblica la lotta alla criminalità mafiosa come qualcosa che avrebbe potuto risolversi nelle aule di giustizia decretando in pubblico dibattimento, o meglio, in maxidibattimento, la fine di Cosa Nostra. Naturalmente le iniziative giudiziarie, pur incoraggiate e condotte con determinazione, non potevano incidere seriamente sulla consistenza del fenomeno che andava invece contemporaneamente e radicalmente affrontato alle sue radici con mezzi diversi da quelli meramente repressivi, con interventi sociali, economici, culturali e istituzionali dei quali non si vide traccia in quegli anni come non se ne vede seriamente traccia tuttora. Prese allora abbondantemente campo una virulenta crisi di rigetto verso quegli esperimenti che tanta parte ha avuto nella formulazione di taluni paralizzanti principi del nuovo codice di procedura penale. Basti pensare, come esempio lampante, alla drastica riduzione delle ipotesi di connessione che da un lato obbliga a processi separati anche nel caso di assoluta unicità di prova, dall’altro costringe a riproporre all’interno di ogni singolo processo la prova inerente ai fatti criminosi non più commessi ma solo collegati e comunque rilevanti per la decisione. Le pochissime autorità giudiziarie che attualmente celebrano processi per criminalità mafiosa sanno che ormai ogni processo è diventato necessariamente un maxiprocesso. Per certo la crisi della giustizia esisteva ancor prima del nuovo codice di procedura, ma non v’è dubbio che il nuovo contesto normativo e la realtà giudiziaria all’interno della quale esso è stato intempestivamente introdotto hanno cagionato, sommandosi, i paralizzanti effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Ma a fronte di questa desolante realtà, ormai unanimemente riconosciuta e non modificabile con meccanismi previsti dalla legge delega che anzi, anche per il succedersi incessante di decreti e modifiche di decreti, aggrava ancor più la situazione invece di affrontare il radicale problema ponendo mano a radicali riforme di taluni principi sanciti dal legislatore delegante, si è innescata, secondo un disegno già da alcuni ampiamente previsto, una dissennata campagna contro l’obbligatorietà dell’azione penale, contro l’attuale posizione istituzionale del pubblico ministero, sottolineando innanzitutto la carenza di collegamenti tra i vari organi inquirenti dispersi sul territorio nazionale. Ed accusando la magistratura associata di inammissibili resistenze corporative all’ipotesi di radicali riforme in questa direzione. Resistenze asseritamente corporative che in realtà si risolvono nella doverosa difesa di principi costituzionalmente garantiti. L’obbligatorietà dell’azione penale indispensabile per assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge non è, senza gravissimi danni, removibile dal nostro sistema, a nulla rilevando in contrario i dotti richiami di diritto comparato riferibili a sistemi politici costituzionali profondamente diversi dal nostro. Ed a nulla vale l’ossessivo richiamo alla cosiddetta discrezionalità di fatto che indurrebbe il Pubblico Ministero a operare comunque scelte discrezionali delle quali non risponderebbe ad alcuno. E’ vero che l’estensione a dismisura della tutela penale conseguentemente all’enorme numero di procedimenti che grava sul sistema giudiziario penale impedisce di fatto agli organi di accusa di perseguire ogni caso con eguale sollecitudine, ma resta sempre da dimostrare che da parte dei pm vengano di fatto operate vere e proprie scelte discrezionali, nel senso che l’attività repressiva venga deliberatamente omessa in casi nei quali potrebbe realmente essere dispiegata. Solo scelte siffatte potrebbero essere correlate ad una responsabilità politica quale è quella prefigurata dall’organo di accusa mentre invece la soluzione sta a monte espellendo dal sistema penale le miriadi di piccoli reati che estendono a dismisura una tutela che dovrebbe essere riservata, secondo quanto ci hanno insegnato, ai fatti di più apprezzabile rilevanza. E d’altra parte un legislatore, abituato da decenni a vanificare con ricorrenti provvedimenti di amnistia, l’incessante lavoro della magistratura per tener dietro a migliaia di ipotesi di reato ben più efficacemente perseguibili in via amministrativa, non è poi per certo legittimato ad addebitare alla magistratura la responsabilità di avere adottato asserite irresponsabili scelte che in realtà sono poi soltanto la risultante di un’intollerabile sproporzione fra quantità di casi penali da un lato, termini e mezzi per occuparsene dall’altro. Se pertanto è pretestuoso invocare la cosiddetta discrezionalità di fatto, cui può porsi rimedio per altra più accettabile via, per richiamare invece ad una responsabilità politica del pm e se pertanto l’azione penale è, e deve restare obbligatoria, non vi è più motivo che un organismo soggetto soltanto alla legge debba essere invece posto alle dipendenze dell’esecutivo. Resta però, specie in materia di indagini sulla criminalità organizzata, il problema del collegamento fra i vari organi del pm, che in tale indagine hanno l’obbligo della direzione. Ma il problema è tecnico, non politico, a meno che l’insofferenza verso qualsiasi forma di direzione dell’esecutivo, e anche verso quelli che non intacchino l’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero, non finisca per precludere alla magistratura associata qualsiasi possibilità di manovra. La criminalità organizzata spazia con la sua attività ben oltre i limiti angusti delle circoscrizioni, che nella quasi totalità dei casi sono addirittura meno ampie delle stesse province. Il pool antimafia di Palermo intuì questa innegabile realtà con riferimento a Cosa nostra e ritenne di risolvere il problema attuando quella radicale forma di collegamento costituito dalla unificazione di tutte le indagini su questa più grave forma di criminalità. A seguito di note decisioni della Suprema Corte, si ritornò al nefasto sistema delle indagini parcellizzate e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante le promesse del ministro Vassalli, il problema dei pool, che è poi quello del collegamento delle indagini, non venne affrontato legislativamente se non con inconcludenti disposizioni del nuovo codice di procedura penale esortanti al coordinamento volontario. Nessuno tuttavia può realmente coordinare, se non dirigendo. Il radicale ridimensionamento contenuto nel nuovo codice di procedura penale e dei principi gerarchici all’interno degli uffici di procura, fra le procure generali e quelli della repubblica, ha reso di fatto impossibile coordinare alcunché. Queste gerarchie vanno ricostituite, almeno a livello di procure generali, esistenti su base regionale, ove dovrebbero essere accentrate, ripristinando i poteri di allocazione, le indagini sulla criminalità organizzata operante oltre le sedi circoscrizionali. Il rifiutare anche questi accomodamenti interni irrispettosi dei principi in cui tutti crediamo rischia di avere un unico sbocco, che è quello perseguito, più o meno dichiaratamente, dal potere politico. (7 giugno 1991 Vasto Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati “il giudice fra crisi della giurisdizione e problemi…”) di Paolo Borsellino Io sono stato sempre estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non lo chiamerei tanto parallelo, lo chiamerei alternativo al sistema dello Stato perché è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. E in particolare nell’ordinamento, nel nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, così come organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi sono negli altri stati, ma il nostro, mi pare, che sia, credo, l’unico stato in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. E perché? Perché probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente, e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticare, che si continua a porre come un sistema alternativo, un sistema alternativo che offre dei servigi che lo Stato non riesce ad offrire. Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua, anche se probabilmente in diminuzione – traeva i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti quelli che abbiamo partecipato a quella esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, tanto che anche in quei momenti, anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia di miliardi, se non migliaia, dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali, perché la droga non lo era e non lo è mai stata, essenziale alla criminalità mafiosa. Cioè quella di continuare ad esercitare, quella che è la caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, e che comunque si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire io di essere un territorio, così come il territorio è parte essenziale dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, perché è una sua componente essenziale, dico la famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena. Poiché si determina naturalmente un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, con mezzi diversi ma una analoga sovranità, si determina questo conflitto. E questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma normalmente si compone attraverso il condizionamento dall’interno delle persone, o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere, delle persone fisiche atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni. Naturalmente, naturalmente la risoluzione finale del problema, consiste nel chiudere… naturalmente la risoluzione finale del problema, la finalità a cui deve tendere chi veramente intende, cioè le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere, di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso il quale la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, o coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, vengono condizionate da questa istituzione alternativa. Il chiudere come? Perché ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che tutti abbiamo talvolta la sensazione che le istituzioni pubbliche non vengano considerate tanto dalle forze politiche organizzate in partiti come quelle istituzioni dove andare attraverso i partiti a scegliere i migliori che vanno a impersonarne la volontà di queste istituzioni, ma le istituzioni pubbliche vengono considerate normalmente come teatri o agoni di lobbies che li dentro si azzuffano e si scornano per impossessarsi, quanto più possibile, di fette di questo potere e di esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di esercitarlo in funzione di interessi particolari. E questo è l’accusa che da più parti politicamente si fa a quella che viene chiamata, da tutti dispregiativamente, ma da tutti sostanzialmente sopportata, “partitocrazia”. Cioè l’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche, delle istituzioni pubbliche il che naturalmente crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni pubbliche si formino quelle volontà che non sono dirette al bene pubblico ma sono dirette ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, evidentemente significa chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno di questo tipo di organizzazione. E sicuramente questo deve farsi salvando, è logico, i princìpi democratici che reggono, oggi, pressoché tutte le nostre istituzioni. Però, ad esempio, la sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono la legislazione che regola, ad esempio, gli enti locali è chiaro che è una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto al migliore dei modi, trancerà, chiuderà, impedirà l’accesso all’interno di questi enti locali di queste lobbies che andranno lì dentro, o di queste lobbies o comunque di queste infiltrazioni che possono provocare, provocano normalmente la possibilità che… le volontà di persone a cui è attribuito il potere di esprimere la volontà di queste istituzioni siano rivolte non al bene pubblico, ma siano rivolte agli interessi particolari di questa o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa. (27 marzo 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino in occasione di una tavola rotonda sul tema mafia, criminalità, giustizia, magistratura, superprocura). di Paolo Borsellino La domanda che oggi ci poniamo, o meglio vi ponete, è che cosa interessa a voi della mafia. Perché è interessante che voi sappiate e parliate di mafia? E a questa domanda bisogna dare subito una risposta cruda: perché se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura, e ai giovani della scuola fregherebbe ben poco, se non come interesse generale a che la criminalità organizzata venisse comunque repressa. E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia sino a qualche tempo fa perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia, nessuno pensava di entrare nelle scuole a parlare di mafia, nessuno pensava di parlare di mafia addirittura all’interno delle famiglie. E allora avveniva qualcosa di strano. Avveniva che, proprio perché la mafia non è e non è soltanto una forma di criminalità organizzata, i giovani siciliani crescevano in una curiosa situazione, quella di non sentirsi parlare mai di mafia da nessuno.[…] Sino a qualche tempo fa […] in Sicilia […] il discorso sotteso era che la mafia se esisteva, e sempre ammesso che esistesse, era qualcosa che riguardava soltanto l’attività repressiva dello Stato, cioè magistratura, polizia e carabinieri […] Addirittura si riteneva che la giustizia fosse sostanzialmente amministrata in modo più veloce e più efficace […] da quella organizzazione alla quale ci si poteva anche rivolgere […] per recuperare un credito invece di iniziare lunghe e defatiganti cause giudiziarie. Ci si rivolgeva a qualcuno che con la violenza riusciva a farci ottenere ragione ed ecco che si creava questo consenso diffuso nei confronti di questa organizzazione storicamente sorta in Sicilia la quale fingeva, o faceva credere, di poter assicurare queste faccende. Non vi sembri un discorso tanto lontano perché anche recentemente a Palermo, penso che non sia passato neanche più di un anno, in occasione di alcune manifestazioni economiche fatte da scioperanti, ora non ricordo bene il caso, a Palermo si sfilava con i cartelli con scritto: Viva la mafia, Viva Ciancimino. E non era un fatto soltanto provocatorio perché a Palermo è stata diffusa sino a ieri – non sino all’altro ieri, se non forse in alcuni ambienti sino ad oggi – l’impressione che le organizzazioni mafiose, una volta che fossero riuscite ad attirare i narcodollari in Sicilia, potessero creare addirittura una possibilità di sbocco, di crescita economica perché creavano e portavano una ricchezza che lo Stato non riusciva ad assicurare. In realtà si trattava e si tratta, sia nel campo della giustizia, sia nel campo della sicurezza, sia nel campo dell’economia, di mistificazioni di enorme portata perché soltanto apparentemente le organizzazioni mafiose sono riuscite, storicamente, a distribuire questo tipo di sicurezza, questo tipo di giustizia, questo tipo di economia. Sono riuscite a distribuirle ad alcuni, a pochi, togliendole ad altri. Sono cioè riuscite ad amministrare un tipo di fiducia a somma algebrica zero perché non è possibile a parti di organizzazioni diverse dalle istituzioni pubbliche assicurare fiducia a tutti bensì soltanto ad alcuni togliendola agli altri. Si poteva fare giustizia a qualcuno creando ingiustizia alla quasi totalità, si poteva portare all’arricchimento di alcuni, marginalizzando invece quelli che volevano lavorare onestamente. Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia nelle nostre regioni è stato questo senso di sfiducia nello stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che, diciamocelo francamente e non vergogniamocene come siciliani, se siamo siciliani che vogliamo reagire a questo stato di cose, ha vissuto a lungo in un consenso generalizzato. Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi. E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi, il consenso deve andare verso lo stato, il consenso deve andare verso le istituzioni pubbliche e non verso le istituzioni che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale. E perché è necessario parlare anche ai giovani di altre regioni d’Italia di queste cose? E’ necessario perché in un determinato momento storico la mafia, che non era e non è soltanto – ancora è un grosso errore ritenerlo – traffico di droga, si impossessò di questo traffico che non nacque con la mafia, nacque con i contrabbandieri di tabacchi. La mafia però fiutò il business, si impossessò del monopolio del traffico degli stupefacenti, cooptò all’interno della mafia coloro i quali già questo traffico facevano in modo estremamente lucroso e, pur non cambiando affatto la sua struttura, cioè quella di istituzione alternativa esterna e interna allo stato […], ebbe in mano questo enorme potere derivato dalla possibilità di avere tali traffici. Ripeto: la mafia non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti, se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso che ha il traffico delle sostanze stupefacenti in mano. Questo le ha dato una forza incredibile, le ha dato un’enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi, questi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos’altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose. Oggi c’è il grosso, enorme pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d’olio tutta l’Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d’Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma la ha resa così potente in Sicilia. [Tanto potente] che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l’acqua in cui questo immondo pesce nuota. E l’acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto ai cittadini. […] E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso, vado spesso a parlare in paesi dell’interno o del Belice […][e mi viene detto]: “ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose”. Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro. La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente. Soltanto che questo è solo metà del cammino perché quand’anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa, sotto questo profilo, allo stato sarebbe stato fatto metà del cammino. Perché l’altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l’interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, [sino a quando] occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire. Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall’altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell’interesse di tutti e non l’interesse né dei singoli né delle fazioni. di Paolo Borsellino Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 Ore dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo, Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a far il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della repubblica di Palermo dove a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter lì continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler far lui per Palermo. E in fin dei conti se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge anche nei momenti di maggiore successo le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare. Soprattutto, per consentirgli di ritornare – a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché forse ripensandoci quando Caponnetto dice «cominciò a morire nel gennaio del 1988» aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per poter continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura. (25 giugno 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino al congresso “Ma è solo mafia?”)

  

Palermo, 12 dicembre 1989 La nostra responsabilità di fronte alla mafia. Ho ascoltato gli interventi di coloro che mi hanno preceduto e ho colto, così, non per polemizzare ma soltanto per puntualizzare ancora di più, certi aspetti del problema mafioso.

La mafia. Responsabilità di tutti noi. Il pubblico ministero, impersonato dall’ottimo amico dott. Paino, ha detto: noi abbiamo collaborato, col nostro silenzio. Da giudice dico che non sono completamente d’accordo con lui. Non si può accusare di collaborazionismo una cittadinanza che ha visto uccidere il titolare dell’albergo Costa Smeralda – mi pare che si chiamava Jannì – che aveva collaborato. Non si può accusare di collaborazione una cittadinanza che non ha alcuna protezione nel potere, una cittadinanza che è stata abbandonata dal potere, una cittadinanza che vede la mafia padrona quasi assoluta della vita, dei beni, degli interessi economici della società. In queste condizioni io assolverei per insufficienza di prove e non condannerei. In queste condizioni io direi che semmai si può parlare di paura. Paura che avvinghia. Paura che attanaglia. Paura che fa preferire i tre mesi di carcere per falsa testimonianza o per favoreggiamento, purché si continui a vivere, se vita può essere quella di coloro i quali sono costretti a subire giornalmente la violenza mafiosa.  Ebbene, la parola del cardinale Pappalardo, che ha avuto un’eco profonda nelle coscienze dei cattolici e dei non cattolici, che è stata fatta propria dalla più alta autorità spirituale del mondo, da questo papa che sentiamo tutti vicino a noi per questa grande umanità che caratterizza la sua personalità; bene, questa presa di posizione delle autorità ecclesiastiche è di conforto, perché servirà, forse, a dare quel coraggio che il potere costituito, che avrebbe il dovere di dare, non ha saputo dare. Non ha saputo dare. E si potrebbe dire – e qui divento pubblico ministero io – non ha voluto dare. Quando io, quale relatore, partecipai, nel 1978, al convegno di Grottaferrata, un mio collega, il giudice Guarino, palermitano, ascoltando la mia relazione si soffermò, nel pormi una domanda, su una mia espressione, che è questa: “il potere ha un rapporto spregiudicato di do ut des con la mafia”. “E allora, mi ha detto Guarino, come può il potere, se ha questo rapporto, combattere la mafia?”. Un’osservazione intelligente e acuta che mi ha messo in imbarazzo nel dare la risposta. Se la mafia ha legami col potere, se a volte diventa potere, come può il potere combattere se stesso? Non lo può. E allora dobbiamo dire – e qui è un’altra puntualizzazione -: noi non possiamo parlare di responsabilità di tutti i partiti politici. Noi dobbiamo parlare di responsabilità di quei partiti politici che fino ad oggi hanno detenuto il potere. Non si può fare di tutte le erbe un fascio. Dobbiamo essere sereni e obiettivi nel formulare i nostri giudizi. Le leggi che si fanno – ma io parlerei di leggi che non si fanno. Che leggi ci ha dato il potere dopo le conclusioni cui è pervenuta la Commissione antimafia? Nessuna legge. Ed allora: come non possiamo muovere questo gravissimo appunto al potere: ci avete dato leggi atte a combattere il fenomeno mafioso? Non ce le avete date. Non sappiamo le ragioni: questo non spetta a me giudice, non voglio ergermi a giudice del potere. Però questa constatazione io la debbo fare. Noi abbiamo dei discorsi commemorativi. Abbiamo lapidi per i magistrati, i funzionari, gli ufficiali che cadono. Ma per la gente che non ha un ruolo ben definito, che rimane vittima della mafia – che poi vittima della mafia è tutta la società nella quale viviamo – che cosa c’è, che cosa c’è stato in passato? Niente. Il silenzio. I cento morti di Palermo, che sono più di cento: dobbiamo aggiungere ai morti ufficiali le lupare bianche. Dobbiamo aggiungere i ragazzi vittime della droga: e non sono questi ragazzi uccisi dalla mafia? Il moderatore mi ha tirato in ballo per la questione della droga. Guardate, io dico questo: nessuno che abbia una sensibilità normale può esimersi, oggi, dal dare un contributo, quale esso sia, alla lotta contro la droga, che poi significa lotta alla mafia. Perché oggi il binomio è inscindibile: mafia – droga, droga – mafia. Come si può rimanere insensibili di fronte ai ragazzi morti a Palermo? Quest’anno ne abbiamo avuto tredici. Tredici sono quelli che si sanno: e quei ragazzi che pietosamente vengono indicati come morti per epatite, morti per altre cause, ma che noi sappiamo tutti essere pure vittime della droga? E di questi ragazzi non ci sentiamo noi tutti responsabili? Ecco, a questo punto io devo dire: veramente mi sento responsabile di queste morti. Perché sono convinto – dobbiamo essere convinti – che nessuno di noi ha fatto quanto era in suo potere per combattere questa che è la più odiosa delle attività mafiose. E di quei ragazzi tossicodipendenti?… Devo raccontare un episodio, e finisco. Ho partecipato giorni fa a un convegno su Nietzsche. Il moderatore, un uomo estremamente colto ed intelligente, col senso dell’humor, forse quell’humor sottile inglese, pensando che in un convegno di tanta elevatezza culturale un giudice… ma che ci stava a fare un giudice? che può dire in un convegno di alti studiosi di filosofia, annunciò il mio intervento dicendo che avrei parlato di droga. Lo ha detto quasi con… con ironia certamente. Allora io, lì per lì fui tentato – tanto più che l’uditorio era costituito da ragazzi, principalmente da giovani studenti – di parlare di droga. Poi invece ho preferito – il tema era “Morale, politica e cultura” – inserire l’argomento droga nel problema morale: il problema morale di cui oggi tanto si parla. E perché i politici fanno continuamente richiamo al problema morale? Qual è la ragione? Perché oggi il politico si caratterizza per la amoralità.  Quando non si affrontano questi gravi problemi della mafia, quando non si affronta con la dovuta energia il problema della lotta alla droga, allora non siamo noi soli, noi cittadini, responsabili – noi lo siamo per quella indifferenza che ha caratterizzato il nostro comportamento – ma il politico, che avrebbe avuto il dovere di fare e non ha fatto nulla. Ecco perché quasi un po’ il rimorso, il senso di colpa, il problema morale, che devono essere sentiti da tutti ma specialmente da coloro i quali noi mandiamo col voto al parlamento per darci le leggi. Le leggi che il politico non ci dà. Le leggi che il legislatore non ci dà. E allora le colpe su chi? Beh, sui giudici, sulla polizia, su chi è chiamato istituzionalmente ad applicare le leggi. Ma se non ce le danno, quali leggi dobbiamo applicare noi? Un codice di procedura penale, sul quale non esprimo giudizi, ma che potrebbe sortire effetti negativi anziché positivi, e che pure è da dieci anni in cantiere e non ci hanno ancora dato! Il garantismo. Certo, il giudice non può condannare se non c’è una legge. Ma le leggi ce le devono dare. Un’ultima considerazione, prendendo un po’ di spunto da quello che ha detto il prof. Renda sul fascismo. Ma il fascismo non ha combattuto la mafia! Mi consenta professore. Io sono un attento osservatore, non sono uno storico. Però io devo dire che quando Mori affermò di avere debellato la mafia in Sicilia, ingannava per primo se stesso. Storicamente noi ora abbiamo saputo che il fascismo colpì la mafia, diciamo, piccola. Ma la grande mafia, quella che ha sempre imperato sotto tutti i governi e con tutti i regimi, aderì al fascismo, e non fu toccata, non fu mandata al confino di polizia: la grande mafia, quella che dopo l’ingresso degli americani diventò potere di nuovo, dopo quella breve parentesi. E dobbiamo dire che anche nel ventennio i mafiosi più astuti, più furbi e più intelligenti, con l’adesione al fascismo continuarono a comandare. E la frase “abbiamo distrutto la mafia”, era come quella “abbiamo sette milioni di baionette”. Anche quello fu un bluff. E allora, signori miei, il rimedio. Ecco: la mobilitazione delle coscienze, la voce ammonitrice del cardinale e del papa. Questo convegno. Io trovo più efficaci queste prese di posizioni. Perché solo così, quando tutti noi saremo sensibilizzati, quando tutti noi uscendo da qui avremo detto o ci diremo: non è stata una riunione accademica, non abbiamo fatto “cultura”, da questo momento in poi noi ci sentiamo solidali con chi è caduto, noi  avvertiamo imperioso il bisogno di compiere il nostro dovere di cittadini: solo così si potrà dare un contributo per la lotta contro la mafia e contro la droga. Da:  Rocco Chinnici, L’illegalità protetta -Palermo, 1990.

 

QUANDO LA MAFIA E’ ALTERNATIVA ALLO STATOIo sono sempre stato estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non tanto parallelo, ma piuttosto alternativo al sistema dello Stato ed è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. In particolare nell’ordinamento del nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, e sebbene organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi siano anche negli altri stati, il nostro mi pare sia l’unico paese in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. Probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticarlo, come un sistema alternativo, che offre dei servizi che lo Stato non riesce ad offrire. Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua a trarre, anche se probabilmente in misura minore – i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti coloro che abbiamo partecipato a quell’esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, anche in quei momenti ed anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia, se non migliaia di miliardi dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali della criminalità mafiosa, perché la droga non lo era e non lo è mai stata. La caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire di essere il territorio, così come il territorio è parte dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, dato che esso è una sua componente essenziale. La famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena. Naturalmente si determina un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, seppure con mezzi diversi. Questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma attraverso il condizionamento o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni.La soluzione finale del problema, la finalità cui devono tendere le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso i quali la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, di coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, viene condizionata da queste istituzioni alternative. Chiudere come? Ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che spesso le istituzioni pubbliche non vengano considerate dalle forze politiche come istituzioni dove inviare i migliori che vadano ad impersonarne la volontà, ma piuttosto teatri di lobbies che si azzuffano e si scornano per impossessarsi quanto più possibile di fette di potere per esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di interessi particolari. Questa è l’accusa che da più parti viene fatta alla “partitocrazia”, a quella che da tutti dispregiativamente è così chiamata, ma da tutti sostanzialmente sopportata. L’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche delle istituzioni pubbliche crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni si formino volontà che non sono dirette al bene pubblico ma ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, significa evidentemente chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno delle organizzazioni dello Stato. Certamente questo deve farsi salvando i principi democratici che reggono oggi tutte le nostre istituzioni. La sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono le legislazioni che regolano, ad esempio, gli enti locali è chiaramente una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto nel migliore dei modi, impedirà l’accesso all’interno degli enti locali di quelle lobbies che vanno lì dentro per provocare, come normalmente provocano, affinché la volontà di coloro che gestiscono le istituzioni sia rivolta non al bene pubblico ma agli interessi di questo o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa. – Relazione presentata in data 27 marzo 1992 a Palazzo Trinacria, a Palermo, in occasione della tavola rotonda su “Criminalità, politica e giustizia”.

 

“LA CERTEZZA CHE TUTTO QUESTO PUÒ COSTARCI CARO”Dopo la morte di Falcone come è cambiata la vita di Borsellino?(lungo sospiro) La mia vita è cambiata innanzitutto perché….dalla morte….di questo mio vecchio amico e compagno di lavoro è chiaro che io sono rimasto particolarmente scosso e sono ancora impegnato, ad un mese di distanza, a recuperare e, vorrei dire, tutte le mie possibilità operative sulle quali il dolore ha inciso in modo enorme. E’ cambiata anche perché sia per la morte di Falcone, sia per taluni altri fatti, mi riferisco alle dichiarazioni ormai pubbliche di quel collaboratore che ha parlato e ha detto di essere stato incaricato di uccidermi e la notizia è arrivata alla stampa in concomitanza con la notizia della strage di Capaci. Le mie condizioni…., sono state estremamente appesantite le misure di protezione nei miei confronti e nei confronti dei miei familiari. E’ chiaro che in questo momento io ho visto completamente, quasi del tutto, anzi, vorrei dire del tutto, pressoché abolita la mia vita privata .Ho temuto nell’immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, se non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia per continuarlo a fare. Posso chiederle se lei si sente un sopravvissuto? Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”. L’espressione di Ninnì Cassarà io potrei anche ripeterla ora, ma vorrei poterla ripetere in un modo più ottimistico. Io accetto, ho sempre accettato più che il rischio, la condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare e….dalla sensazione che o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro.

L’ultima intervista televisiva Paolo Borsellino la concesse a Lamberto Sposini, per il tg5, venti giorni prima di morire nella strage di via D’Amelio (19/7/1992) insieme con i cinque poliziotti della sua scorta. “Terra”, settimanale di approfondimento del tg5, la ha riproposta il 24 marzo 2001. Ne ho trascritto le due risposte finali, particolarmente significative

 

DROGA: UN MERCATO DI MIGLIAIA DI MILIARDI   Io sono stato sempre estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non lo chiamerei tanto parallelo, lo chiamerei alternativo al sistema dello Stato perché è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità. E in particolare nell’ordinamento, nel nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, così come organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi sono negli altri stati, ma il nostro, mi pare, che sia, credo, l’unico stato in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. E perché? Perché probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente, e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticare, che si continua a porre come un sistema alternativo, un sistema alternativo che offre dei servigi che lo Stato non riesce ad offrire. Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua, anche se probabilmente in diminuzione – traeva i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti quelli che abbiamo partecipato a quella esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, tanto che anche in quei momenti, anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia di miliardi, se non migliaia, dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali, perché la droga non lo era e non lo è mai stata, essenziale alla criminalità mafiosa. Cioè quella di continuare ad esercitare, quella che è la caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, e che comunque si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire io di essere un territorio, così come il territorio è parte essenziale dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, perché è una sua componente essenziale, dico la famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena. Poiché si determina naturalmente un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, con mezzi diversi ma una analoga sovranità, si determina questo conflitto. E questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma normalmente si compone attraverso il condizionamento dall’interno delle persone, o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere, delle persone fisiche atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni. Naturalmente, naturalmente la risoluzione finale del problema, consiste nel chiudere… naturalmente la risoluzione finale del problema, la finalità a cui deve tendere chi veramente intende, cioè le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere, di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso il quale la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, o coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, vengono condizionate da questa istituzione alternativa. Il chiudere come? Perché ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che tutti abbiamo talvolta la sensazione che le istituzioni pubbliche non vengano considerate tanto dalle forze politiche organizzate in partiti come quelle istituzioni dove andare attraverso i partiti a scegliere i migliori che vanno a impersonarne la volontà di queste istituzioni, ma le istituzioni pubbliche vengono considerate normalmente come teatri o agoni di lobbies che li dentro si azzuffano e si scornano per impossessarsi, quanto più possibile, di fette di questo potere e di esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di esercitarlo in funzione di interessi particolari. E questo è l’accusa che da più parti politicamente si fa a quella che viene chiamata, da tutti dispregiativamente, ma da tutti sostanzialmente sopportata, “partitocrazia”. Cioè l’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche, delle istituzioni pubbliche il che naturalmente crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni pubbliche si formino quelle volontà che non sono dirette al bene pubblico ma sono dirette ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, evidentemente significa chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno di questo tipo di organizzazione. E sicuramente questo deve farsi salvando, è logico, i princìpi democratici che reggono, oggi, pressoché tutte le nostre istituzioni. Però, ad esempio, la sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono la legislazione che regola, ad esempio, gli enti locali è chiaro che è una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto al migliore dei modi, trancerà, chiuderà, impedirà l’accesso all’interno di questi enti locali di queste lobbies che andranno lì dentro, o di queste lobbies o comunque di queste infiltrazioni che possono provocare, provocano normalmente la possibilità che… le volontà di persone a cui è attribuito il potere di esprimere la volontà di queste istituzioni siano rivolte non al bene pubblico, ma siano rivolte agli interessi particolari di questa o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa.  (27 marzo 1992, Palermo. Intervento di Paolo Borsellino in occasione di una tavola rotonda sul tema mafia, criminalità, giustizia, magistratura, superprocura).

 

LIBERALIZZAZIONE DEL TRAFFICO DELLA DROGA «Mi sembra che sia da dilettanti di criminologia pensare che liberalizzando il traffico di droga sparirebbe il traffico clandestino». No, la legalizzazione degli stupefacenti non può rappresentare un momento per combattere la mafia. Intanto perché – come mi sembra di aver chiarito – non bisogna stabilire una equazione assoluta tra mafia e traffico di sostanze stupefacenti. La mafia esisteva ancor prima del traffico delle sostanze stupefacenti e probabilmente, se per miracolo divino questo traffico scomparirà, la mafia continuerà ad esistere ancor dopo. Perché l’essenza della mafia non è il traffico di stupefacenti. Pensate che i primi trafficanti di stupefacenti in Italia non furono i mafiosi: furono i contrabbandieri di tabacchi lavorati esteri, perché, avendo dei canali per importare i tabacchi, li utilizzarono per importare qualcosa che rendeva molto di più, ma prendeva molto meno spazio. Una nave che poteva portare centinaia di casse di tabacchi lavorati esteri, portava facilmente un pacchetto che valeva tanti miliardi di più di tutti quei tabacchi. Fu in un secondo tempo che la mafia, accortasi dell’importanza del business, cooptò dentro di se questi contrabbandieri. I vari Michele Zaza, Nunzio La Mattina, Spadaro [citati dal relatore che mi ha preceduto] non nascono come mafiosi, nascono come contrabbandieri di sigarette, diventano mafiosi in un secondo momento quando la mafia li coopta, addirittura forse li costringe, ad entrare nell’organizzazione mafiosa, per impossessarsi di questo traffico. Oggi è vero che il business più importante della mafia è il traffico delle sostanze stupefacenti. E qualcuno ha sostenuto che se noi eliminiamo il traffico clandestino e legalizziamo il consumo di droga abbiamo contemporaneamente levato dalle mani della mafia la possibilità di [avere] questi guadagni illeciti ed essere così potente. Tuttavia forse non si riflette che la legalizzazione del consumo di droga non eliminerebbe affatto il mercato clandestino, anzi avverrebbe che le categorie più deboli e meno protette sarebbero le prime ad essere investite dal mercato clandestino. Perché non riesco ad immaginarla una qualsiasi forma di legalizzazione che consenta al minore di entrare in farmacia e andarsi a comprare la sua dose di eroina. Tra l’altro, una legislazione del genere, in Italia, alla luce dei nostri principi costituzionali, non è possibile. È chiaro quindi che ci sarebbe questa fascia di minori che sarebbe immediatamente investita dal residuo traffico clandestinoPersisterebbe poi un ulteriore traffico clandestino che è quello delle droghe micidiali che lo Stato per la stessa ragione non potrebbe mai liberalizzare – c’è questa famosa droga che si va diffondendo in America che rischia di uccidere anche alla prima assunzione che si chiama crack. È chiaro lo Stato, così come non può liberalizzare l’uso di stricnina, non può liberalizzare il commercio del crack, quindi si incrementeranno queste droghe proibite. E poi ci sarà un ulteriore parte del mercato clandestino dovuto a tutti coloro che per qualsiasi ragione non vorranno ricorrere al mercato ufficiale, per non essere schedati, per non essere individuati, per ragioni sociali, ecc… e quindi resterebbe una residua fetta di mercato clandestino che diverrebbe ancora più pericolosa perché diretta a coloro che per ragioni di età non posso entrare nel mercato ufficiale – quindi le categorie più deboli e più da proteggere – e verrebbe ad alimentare oggi le droghe più micidiali, quelle che non potrebbero essere vendute in farmacia non fosse altro perché i farmacisti a buon diritto si rifiuterebbero di vendere. Conseguentemente mi sembra che sia da dilettanti di criminologia quello di pensare che liberalizzando il traffico di droga sparirebbe del tutto il traffico clandestino e si leverebbe queste unghie all’artiglio della mafia. E inoltre, come vi ho detto, ammesso che per assurda ipotesi questa liberalizzazione – che già procurerebbe danni enormi di altro genere – potesse levare dalle mani questo artiglio dalle unghie della mafia, siccome la mafia non è, e non è soltanto, traffico di sostanze stupefacenti, riconvertirebbe immediatamente la sua attività e pesantemente in altri settori. Prova ne sia che in realtà oggi noi stiamo vivendo un momento in cui non è diminuito il traffico di sostanze stupefacenti, ma sono diminuiti i proventi provenienti dal traffico. Perché oggi la mafia che prima raffinava e poi vendeva, non raffina più, non fosse altro perché i paesi dell’estremo oriente hanno imparato perfettamente a raffinare. E oggi l’eroina viene importata già raffinata e perfettamente raffinata dalla Thailandia e dagli altri paesi. Naturalmente la mafia ci ha perso un grosso guadagno, perché prima per ogni lira di morfina di base raffinata, si ricavavano cento lire. Oggi invece oggi l’eroina magari si comprerà a cinquanta e si venderà a cento. Come vedete i guadagni sono notevolmente diminuiti. E che cosa è avvenuto? È avvenuto che la mafia ha perso di potenza? Quando mai? Si è riversata pesantemente nel campo degli appalti, nel campo dell’edilizia. Quella teoria spaventosa di morti che è avvenuta quest’anno a Gela in Sicilia, città di centomila abitanti, completamente in preda alle organizzazioni mafiose anche sotto il profilo dell’ordine pubblico, non è avvenuta per fatti di droga.  È avvenuta perché lì la mafia si sta organizzando a spartirsi milleottocentosettantatre miliardi che arriveranno per sovvenzioni pubbliche e da parte di uno Stato così poco credibile da sapere ormai tutti che se le divideranno le organizzazioni mafiose. Dalla Relazione tenuta a Bassano del Grappa nel 1989 – trascrizione a cura della Redazione de GliScritti

 

Lettera al LICEO  di padova

“Gentilissima” Professoressa,

 uso le virgolette perchè le ha usato lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e “pentito” mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.

Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perchè a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.

Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.

Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.

Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.

Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati.

Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.
Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.

1) Sono diventato giudice perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.

Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni ereditarie etc. Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.

Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.

La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
Sino ad ora questi organi hanno agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.

3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa e suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, legittimamente, lo Stato.
Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.
E’ naturalmente una fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).

La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione.
Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.

Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, “ndrangheta”, Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività.

Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra. ma non hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.

4)

Nell’ultima giornata della sua vita, Paolo Borsellino, come ogni mattina, è già in piedi alle cinque. Si rintana nel suo studio per rispondere ad una lettera di una professoressa di Padova, che tre mesi prima lo ha invitato a un incontro con gli studenti del suo liceo. Quell’invito non è mai arrivato a Borsellino, e la docente protesta: essere un giudice famoso e stracarico di lavoro, non deve far dimenticare le buone maniere.

Le CITAZIONI

  • “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.”
  • “Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell”aldilá Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento… Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno.” 
  • “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno.” 
  • «Ti dico solo che loro possono uccidere il mio corpo fisico e di questo sono ben cosciente. Ma sono ancora più cosciente che non potranno mai uccidere le mie idee e tutto ciò in cui credo! 
  • Si saranno illusi che uccidendo il mio amico Giovanni, avrebbero anche ucciso le sue idee e quel gran patrimonio di valori che stava dietro di lui. Ma si sono sbagliati, perché il mio amico Giovanni tutto ciò che amava e onorava, lo amava così profondamente da legarselo nel suo animo, rendendolo dunque immortale».
  • “È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.” 
  • “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare.” 
  • “A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato.” 
  • “La paura è umana, ma combattetela con il coraggio.” 
  • “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.” 
  • “La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.“
  • “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo.“
  • “Io accetto, ho sempre accettato più che il rischio [… ] le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.“
  • “L’impegno contro la mafia, non può concedersi pausa alcuna, il rischio è quello di ritrovarsi subito al punto di partenza.“
  • “Purtroppo i giudici possono agire solo in parte nella lotta alla mafia. Se la mafia è un’istituzione antistato che attira consensi perché ritenuta più efficiente dello stato, è compito della scuola rovesciare questo processo perverso, formando giovani alla cultura dello stato e delle istituzioni.”
  • “Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia [… ]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! [… ] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!
  • “I giovani e la mafia? E’ un problema di cultura, non in senso restrittivo e puramente nozionistico ma come insieme di conoscenze che contribuiscono alla crescita delle persone. Fra queste conoscenze vi sono quei sentimenti, quelle sensazioni che la cultura crea e che ci fanno diventare cittadini, apprendendo quelle nozioni che ci aiutano a identificarci nelle istituzioni fondamentali della vita associata e a riconoscerci in essa.”