TRATTATIVA STATO MAFIA

 

La TRATTATIVA e i PROCESSI

 


LA TRATTATIVA STATO-MAFIA di A.BOLZONI, S.PALAZZOLO e F.TROTTA

E’ il processo che negli ultimi anni in Italia ha sollevato più polemiche e che ha spaccato anche la magistratura. Tutti ne parlano (o ne straparlano) ma pochi conoscono le pagine di questa colossale inchiesta che trae origine dai patti inconfessabili stretti prima, durante e dopo le stragi siciliane del 1992.

In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo un’ampia sintesi delle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, processo che si è chiuso nell’aprile del 2018 dopo 5 anni e mezzo di udienze con un verdetto eclatante della Corte di Assise di Palermo (presidente Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille) che ha condannato a dodici anni i generali dell’Arma dei carabinieri Mario Mori e Antonino Subranni che erano ai vertici del Ros, stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, otto anni sono stati inflitti all’ex colonnello Giuseppe De Donno, ventotto al boss corleonese Leoluca Bagarella.

Assolto perché “il fatto non sussiste” per falsa testimonianza l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, assolto dal concorso esterno ma condannato per calunnia a otto anni nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, l’ex sindaco di Palermo.

Una sentenza che ha accolto la ricostruzione dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi: e cioè che uomini dello Stato avevano negoziato in quello spaventoso 1992 con i vertici di Cosa Nostra in cambio della fine dei massacri e delle bombe. Un dialogo che sarebbe proseguito anche l’anno successivo.

Il processo d’appello è iniziato a fine dell’aprile scorso ed è in pieno svolgimentoAncora prima delle condanne un altro giudice aveva assolto l’ex ministro Calogero Mannino – che aveva scelto il rito abbreviato – dall’accusa anche lui di avere partecipato alla trattativa Stato-mafia. Di più: di essere lui stesso l’origine del patto in quanto terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima. L’ex ministro Mannino è stato assolto in primo grado e un paio di settimane fa anche in Appello “per non avere commesso il fatto”. Da una parte una Corte che sostiene che sia stato Mannino la “miccia”  del “dialogo” e dall’altra una Corte che lo esclude categoricamente. In attesa della sentenza d’Appello per gli imputati già condannati con il rito ordinario, leggiamoci le carte sullo Stato che processa se stesso.

Non era mai accaduto che rappresentanti delle istituzioni a così alto livello e capimafia fossero seduti insieme sul banco degli imputati. Oggi – proprio grazie a questo processo – qualcosa in più sappiamo, nonostante i troppi “non ricordo” degli uomini delle istituzioni chiamati a testimoniare.

Ma resta l’interrogativo più grande: Paolo Borsellino, che aveva appreso del patto segreto degli alti ufficiali dei carabinieri con Vito Ciancimino, fu ucciso perché voleva fermare la trattativa fra Stato e mafia?


Il rapporto “Mafia e Appalti”  Il tema del c.d. rapporto “mafia e appalti” redatto da R.O.S. dei Carabinieri nel 1991 è stato oggetto di una amplissima attività istruttoria, sia orale che documentale, che la Corte ha stentato ad arginare per l’iniziale difficoltà di comprendere le finalità probatorie perseguite.

Ben diciannove testimoni (Umberto Sinico, Gioacchino Natoli, Massimo Ciancimino, Carlo Vizzini, Giuseppe Lipari, Liliana Ferraro, Claudio Martelli, Giovanni Brusca, Angelo Siino, Antonino Giuffrè, Riccardo Guazzelli, Luciano Violante, Giovanna Livreri, Gian Carlo Caselli, Alfonso Sabella, Nicolò Marino, Guglielmo Sasinini, Vittorio Aliquò ed Agnese Piraino Leto) hanno a vario titolo riferito anche riguardo alla vicenda del rapporto “mafia e appalti” e sulla stessa, soprattutto per iniziativa delle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno, sono stati acquisiti innumerevoli documenti per lo più diretti a documentare gli esiti di complessi procedimenti svolti si sia dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, sia presso Autorità Giudiziarie a seguito di denunzie che hanno visto come protagonisti alcuni magistrati delle Procure di Palermo e Catania ed alcuni appartenenti al R.O.S. dei Carabinieri.

Molta di tale attività istruttoria si è incentrata, per iniziativa della Pubblica Accusa, sulla dimostrazione di una doppia refertazione dei Carabinieri del R.O.S. verso le Procure di Palermo e Catania che avrebbe avuto l’effetto di sottrarre per molto tempo alle indagini del primo Ufficio alcuni “politici” tra i quali Calogero Mannino (si vedano, per tutte, le dichiarazioni del teste Gioacchino Natoli […]); e, per iniziativa delle difese degli imputati sopra ricordati, invece, sulla negazione di tale accadi mento (per vero con prova riguardante non l’informativa definitiva consegnata nel febbraio 1991, ma alcune informative preliminari contenenti la mera trascrizione di intercettazioni consegnate ai Dott.ri Falcone e Lo Forte già il 2 luglio 1990 e il 5 agosto 1990) e, semmai, sulla dimostrazione di anomalie procedurali da parte di taluni magistrati della Procura di Palermo ad iniziare dal magistrato che all’epoca (fino al 1992) la dirigeva, il Dott. Giammanco […].

La Corte ritiene di dovere omettere qui un resoconto dettagliato di tutte le risultanze probatorie offerte dalle parti sulle questioni prima accennate, poiché queste appaiono di scarsissima (se non nulla) rilevanza per i fatti oggetto dell’imputazione di reato elevata in questo processo (e, per tale ragione, sono state anche respinte tutte le richieste di ulteriori acquisizioni documentali reiterate dalle difese ancora in sede di discussione e, conseguentemente e subordinatamente, anche dal P.M. persino in sede di replica all’ultima udienza del 16 aprile 2018).

La vicenda del rapporto “mafia e appalti” nasce e si sviluppa ben prima dei fatti riconducibili alla c.d. “trattativa” tra esponenti delle Istituzioni ed i vertici mafiosi e non sembra alla Corte che possa essere in alcun modo collegata e connessa a questa se non per quell’esile filo che sarebbe costituito soltanto dall’ulteriore prova di rapporti tra alcuni esponenti politici ed alcuni appartenenti all’Arma da un lato e tra tal uni di questi ultimi ed alcuni mafiosi dall’altro.

Sennonché, quanto al primo profilo, ai fini della prova dei fatti che rilevano in questa sede, appare sufficiente quanto già verificato e riportato sopra riguardo ai rapporti tra l’On. Mannino e il Gen. Subranni (nonché il M.llo Guazzelli), restando del tutto irrilevante ogni ulteriore approfondimento su eventuali favoritismi in favore del primo tanto nell’indagine “mafia e appalti” quanto nelle precedenti indagini svolte a carico del medesimo On. Mannino presso la Procura di Sciacca (pure oggetto di attività istruttoria e di un non breve excursus in sede di discussione della difesa degli imputati Subranni e Mori, che, per le medesime ragioni di sostanziale irrilevanza probatoria che ha dato luogo al rigetto delle relative istanze di acquisizioni documentali, qui possono omettersi di riferire ed esaminare); quanto al secondo profilo, le risultanze, peraltro di ambigua lettura (si pensi a tutta la vicenda dei rapporti tra il M.llo Lombardo e Angelo Siino), appaiono ugualmente irrilevanti ai fini della valutazione degli accadi menti maturati a partire dai primi contatti degli Ufficiali del R.O.S. con Vito Ciancimino che hanno dato luogo alla formulazione della ipotesi di reato qui da verificare.

V’è, però, un aspetto del rapporto “mafia e appalti” che appare qui rilevante approfondire in quanto in ipotesi connesso con la decisione di uccidere il Dott. Borsellino e, per meglio dire, con quell’improvvisa accelerazione impressa alla programmata esecuzione di tale omicidio di cui si è detto prima.

Le difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno, infatti, pur contestando che vi sia stata tale accelerazione nell’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino (accelerazione che, invece, a parere di questa Corte appare inconfutabile per gli inequivocabili elementi di prova, sopra ricordati, tra loro certamente convergenti sebbene eterogenei), hanno con forza prospettato durante tutto il corso del dibattimento (con l’evidente intento di allontanare ogni possibile collegamento con la “trattativa”) e, poi, ancora, in sede di discussione seppur con qualche oscillazione argomentativa (v. trascrizione udienza dell’8 marzo 2018) la convinzione che il Dott. Borsellino sia stato ucciso per la sua decisione di iniziare ad occuparsi della vicenda del rapporto “mafia e appalti”.

Ed in effetti, sono stati acquisiti elementi che comprovano l’intendimento del Dott. Borsellino di studiare il fascicolo relativo al rapporto “mafia e appalti” nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la strage di via D’Amelio.

Di ciò ha riferito il teste delle predette difese Umberto Sinico, secondo il quale, appunto, nel giugno del 1992 vi fu presso gli Uffici della Sezione Anticrimine dei Carabinieri di Palermo un incontro tra il Dott. Borsellino e il Col. Mori, ai quali, poco dopo, si era, però, aggiunto anche il Cap. De Donno […], per parlare specificamente, per quanto probabilmente riferito poi dallo stesso De Donno a Sinico […], proprio del rapporto “mafia e appalti” che era stato redatto, infatti, dallo stesso Cap. De Donno […].

Per vero, come evidenziato dal P.M. nel corso della sua requisitoria all’udienza del 15 dicembre 2017 sia pure sulla scorta di una risultanza probatoria utilizzabile esclusivamente nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno e cioè la testimonianza di Carmelo Canale (il quale in questa sede si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma le cui dichiarazioni rese nel processo a carico di Mori e Obinu dinanzi al Tribunale di Palermo in data 20 febbraio 2011 sono state qui acquisite su richiesta, ex art. 468 comma 4 bis C.p.p., appunto degli imputati Subranni, Mori e De Donno), in realtà, la ragione di quell’incontro sollecitato dal Dott. Borsellino non riguardò propriamente il (contenuto del) rapporto “mafia e appalti”, ma un anonimo che in quei giorni circolava e che veniva attribuito al Cap. De Donno […].

In ogni caso, il teste Gioacchino Natoli, quindi, pur non ricordando che il Dott. Borsellino ebbe un giorno ad allontanarsi per parlare con il Col. Mori del rapporto “mafia ed appalti” […], ha, comunque, confermato che dopo la strage di Capaci lo stesso Dott. Borsellino gli aveva chiesto una copia del rapporto “mafia e appalti” […].

In occasione della testimonianza resa in questo processo, peraltro, il Dott. Natoli, sulla base di un ineccepibile riscontro temporale precedentemente non valorizzato, ha avuto modo di correggere una imprecisione delle sue precedenti dichiarazioni del 21 novembre 1992, allorché aveva, infatti, erroneamente riferito, non soltanto di quella richiesta di copia del rapporto “mafia e appalti” fattagli dal Dott. Borsellino, ma anche – errando – di avere parlato con quest’ultimo della c.d. doppia refertazione del R.O.S. alle Procure di Palenno e Catania, di cui egli, però, aveva appreso soltanto nel mese di ottobre 1992 e, quindi, dopo la morte del Dott. Borsellino […].

Una ulteriore conferma della circostanza che il Dott. Borsellino si stesse interessando, almeno in termini generali, anche delle vicende di “mafia e appalti” si trae anche dalla deposizione del teste Carlo Vizzini, il quale, infatti, ha riferito che di ciò ebbe a parlare con lo stesso Dott. Borsellino nel corso di una cena avvenuta a Roma il 16 luglio 1992 (“[…] DICH VIZZINI CARLO : – Guardi, l’argomento, prescindendo dai convenevoli e dalle considerazioni generali che si fanno in queste circostanze, credo che loro fossero reduci da un interrogatorio di un collaboratore che se non ricordo male era Mutolo. E poi l’argomento che impegnò il tempo più grande della cena, fu un forte interesse del dottore Borsellino alla vicenda di mafia e appalti … … … io avevo già denunciato in un convegno, alla fine del 1988, ho con me una copia del giornale L’Ora che ne parlò, ad un convegno di un altro partito dove c’erano diversi imprenditori che si lagnavano, mi permisi di dire: ma gira voce che in Sicilia gli appalti si vincano con una pistola posata sul tavolino. Il Giornale L’Ora pubblicò questa cosa, ma poi nulla … Non ci fu nessun altro seguito. Quando ci incontrammo, in realtà era già stato arrestato quello che poi venne definito il Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, il nomignolo era Bronson e il nome vero Siino. E debbo dire … E però ancora non era diventato collaboratore di giustizia, era stato arrestato ma non era ancora collaboratore di giustizia. […]”), pur se, poi, il teste, ridimensionando una sua precedente sintetizzazione giornalistica in cui aveva parlato di “chiodo fisso” del Dott. Borsellino, ha precisato che, ovviamente, intendeva soltanto dire, con quell’imprecisa (e infelice) espressione, che quello della vicenda “mafia – appalti” era stato l’argomento principale della conversazione di quella sera presso il ristorante romano […] e non certo che quella fosse l’unica o principale vicenda giudiziaria di cui si occupava il medesimo Dott. Borsellino […], tanto più che quest’ultimo neppure gli aveva parlato specificamente di un’indagine in corso […], ma soltanto, in generale, del fenomeno in questione […].

Quest’ultima circostanza, peraltro, trova conferma nella già richiamata testimonianza del Dott. Natoli, pure presente a quelle cena, il quale, infatti, ha riferito che, appunto, si parlò di appalti soltanto in termini di generalità e senza alcun riferimento ad indagini specifiche in corso […].

Anche la teste Liliana Ferraro ha riferito che, in occasione di un incontro avvenuto alla fine del mese di giugno di cui si parlerà più ampiamente più avanti in altro capitolo, il Dott. Borsellino le parlò, tra l’altro, della questione del rapporto “mafia e appalti” (” …. la maggior parte del nostro colloquio ha riguardato l’indagine mafia – appalti, che era quella fatta da De Donno e dai R.O.S. “), anche se, in questo caso, l’interesse del suo interlocutore era indirizzato, più che alla vicenda processuale in sé, all’anomalo invio del rapporto al Ministero operato dal Procuratore della Repubblica di Palermo […].

Parimenti anche il Dott. Aliquò, allora Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo, ha confermato di avere parlato del rapporto “mafia e appalti” in occasione di alcune riunioni col Dott. Borsellino, e ciò anche perché, inizialmente, si era ipotizzato pure che questo potesse essere collegato alla strage di Capaci, anche se, poi, tale ipotesi era rimasta priva di qualsiasi supporto probatorio […].

Alla stregua dei predetti elementi di prova, dunque, può ritenersi certo che il Dott. Borsellino nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la sua morte si sia occupato (anche) del rapporto “mafia e appalti”.

Tuttavia, non v’è alcun elemento di prova che possa collegare tale evenienza alla improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del Dott. Borsellino se si tiene conto, oltre del fatto obiettivo che tale indagine non era certo l’unica né la principale di cui quest’ultimo ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il Dott. Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di Giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo), che nessun spunto idoneo a collegare tra la vicenda “mafia e appalti” con la morte del Dott. Borsellino è possibile trarre dalle dichiarazioni dei tanti collaboratori di Giustizia esaminati e cui, peraltro, la vicenda “mafia e appalti” era ben nota.

Inoltre, vi sono, soprattutto, alcune considerazioni, sì, di ordine logico, ma fondate su obiettive risultanze, che consentono di escludere tale ipotizzata e prospettata causale.

Depone, invero, in senso contrario, innanzi tutto, il fatto che quell’interessamento del Dott. Borsellino per l’indagine “mafia e appalti” non ha avuto all’epoca alcuna risonanza pubblica.

D’altra parte, non v’è neppure certezza che il Dott. Borsellino possa avere avuto il tempo di leggere il rapporto “mafia e appalti” e di farsi, quindi, un ‘idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche soltanto delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano avere avuto risalto esterno giungendo alla cognizione dei vertici mafiosi così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino medesimo. Ma v’è di più.

V’è, infatti, un ‘ulteriore considerazione che, sotto il profilo logico, consente di escludere la conclusione propugnata dalle difese prima ricordate sul possibile collegamento tra l’indagine “mafia e appalti” e l’uccisione del Dott. Borsellino.

Ci si intende riferire al fatto che la vicenda “mafia e appalti”, per quanto riguarda il versante mafioso, aveva già avuto esito almeno un anno prima (con l’arresto, tra gli altri, di Angelo Siino) e non si comprende, dunque, quale preoccupazione talmente viva, attuale e forte avrebbero potuto avere i vertici mafiosi per sviluppi investigativi che, al più, avrebbero potuto attingere quegli esponenti politici che avevano tratto lucro dal patto spartitorio degli appalti garantito da “cosa nostra”.

Né appare verosimile ritenere che tal uno di tali esponenti politici, preoccupato delle conseguenze per sé pregiudizievoli di un possibile sviluppo di quell’indagine, possa avere avuto, nei confronti dei vertici, mafiosi una “forza contrattuale” tale da imporre loro addirittura una modifica della generale strategia di contrasto allo Stato in quel momento già decisa ed in corso di attuazione.

[…] Si ritiene, dunque, di potere escludere con assoluta e fondata certezza che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il Dott. Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni (v. intercettazione ambientale sopra già ricordata), mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’On. Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo Dott. Borsellino al rapporto “mafia e appalti”, tanto più che ancora lontana – e allora assolutamente non prevedibile – era ancora la collaborazione che Angelo Siino avrebbe intrapreso con la Giustizia soltanto molto tempo dopo.

Appare del tutto evidente, piuttosto, che in quel periodo deve necessariamente essersi verificata ben altra evenienza, che, per la sua importanza e rilevanza, ha avuto l’effetto di far rompere ogni indugio a Salvatore Riina, inducendolo a sconvolgere la “scaletta” del proprio programma criminoso ed a anticipare, quindi, un delitto, che, in quel momento, all’apparenza, sarebbe stato totalmente controproducente per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, se non altro per l’effetto catalizzatore che avrebbe avuto contro la tracotanza mafiosa e di conseguente inevitabile tacitamento delle opposizioni di carattere “garantista”, interne ed esterne al Parlamento, che si erano levate di fronte al “giro di vite” che il Governo si apprestava ad attuare nell’azione di contrasto alle mafie (v. quanto già osservato sopra in proposito).

Ed allora, se così è, può ugualmente escludersi che tale sopravvenuta evenienza possa ricollegarsi anche alle indagini conseguenti alla collaborazione di Gaspare Mutolo, che, semmai, potevano apparire più pregiudizievoli, non già per i mafiosi, ma per alcuni alti esponenti della Polizia e per tal uni magistrati che in passato avevano intrattenuto rapporti – quanto meno ambigui – con esponenti mafiosi.

E può parimenti escludersi, tra tali possibili eventi, anche la prospettata nomina del Dott. Borsellino quale Procuratore Nazionale Antimafia, frutto, peraltro, soltanto di un’improvvida “uscita” televisiva di un Ministro dell’Interno (l’On. Scotti) di un Governo in fase di rinnovo e che era stata già respinta dal medesimo Dott. Borsellino.

D’altra parte, tale possibile nomina non era certo in quel momento così imminente, né sarebbe stata tale da determinare effetti di così immediato pregiudizio per gli interessi di “cosa nostra”.

Ed allora, è giocoforza ritenere che l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio.

Ora, ove anche non si volesse pervenire alla conclusione prospettata dalla Pubblica Accusa che Riina abbia deciso di uccidere il Dott. Borsellino temendo la sua opposizione alla “trattativa”, conclusione che, peraltro, trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie Agnese Piraino Leto, il Dott. Borsellino pochi giorni prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle Istituzioni e mafiosi (v. dichiarazione della detta teste di cui si dirà anche più avanti: ”… mi ha accennato qualcosa e non in quel contesto, che c’era una trattativa tra la Mafia e lo Stato, ma che durava da vero un po’ di tempo… dopo la strage di via … di Capaci, dice che c’era un colloquio tra la Mafia e alcuni pezzi « infedeli» dello Stato, e non mi dice altro …”), in ogni caso, non v’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai Carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio del Dott. Borsellino con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente da Istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo, dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile ed efferata violenza concretizzatasi nella strage di via D’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo.

Non v’è dubbio, infatti, che quei contatti che già all’indomani della strage di Capaci importanti e conosciuti Ufficiali dell’Arma avevano intrapreso attraverso Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel Ministro dell’Interno, che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli Ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato.

Si vuole dire in altre parole, che, se effettivamente quei segnali pervennero a Salvatore Riina nel periodo immediatamente antecedente alla strage di via D’Amelio (e che ciò effettivamente avvenne, come si vedrà, risulta provato) è logico e conducente ritenere che Riina, compiacendosi dell’effetto positivo per l’organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare, con la strage di via D’Amelio, quella straordinaria manifestazione di forza criminale già attuata a Capaci per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato ed ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi era stata la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili.

Ma di ciò si dirà più diffusamente più avanti affrontando il tema dei contatti tra gli Ufficiali del R.O.S e Vito Ciancimino.


Giovanni Brusca e le “colpe” di Falcone  Le predette dichiarazioni trovano in gran parte riscontro nelle parole di un altro soggetto che, rivestendo anch’egli la carica di capo “reggente” di un “mandamento” della provincia di Palermo (quello di San Giuseppe Jato), aveva titolo per partecipare alle riunioni della “commissione provinciale”. Ci si intende riferire all’odierno imputato Giovanni Brusca, il quale ha, innanzitutto, confermato l’insoddisfazione che montava in Salvatore Riina per l’andamento del maxi processo ancor prima della sentenza definitiva della Corte di Cassazione e, conseguentemente, la ripetuta manifestazione della minaccia di uccidere l’On. Lima sul quale il Riina aveva fatto affidamento per “aggiustare” il maxi processo (” .. . da quando … durante il primo Maxiprocesso che io andavo dai cugini Salvo affinché intervenissero per intervenire sul presidente, su quella che era la situazione, per ottenere un favore positivo e le risposte erano sempre negative, quando io portavo le risposte da Totò Riina dice: “lo a questo lo devo ammazzare” e dipende dal tono e il modo come lo diceva per me già era sentenza, non c’era bisogno di aspettare il ’92. Poi era sempre il ritornello che continuava, ma già per me era il quadro. Siccome poi questa volontà è andata avanti che primo grado, secondo grado, in Cassazione non ha fatto niente, quindi è arrivato al punto quando poi ha chiuso il conto … …. …. Non era un ‘esternazione di quella “Ah, a questo lo devo ammazzare” o “Questo di qua” o un certo spazio, lo spazio di un ripensamento era l’ l%. Cioè, si poteva salvare … …. ….. si poteva salvare se l’onorevole Lima avrebbe portato un risultato positivo per Cosa Nostra …. …. …. io siccome ho vissuto in prima persona, sia perché imputato, ma perché mi ci mandava, prevalentemente era l’interesse di Totò Riina per il Maxiprocesso affinché venisse manipolato, aggiustato per ottenere un esito positivo, in particolar modo quella che era la fissazione sua era il teorema Buscetta la cosiddetta commissione …. …. …. lo l’ho seguito dal primo giorno. Poi sempre un ‘altra lamentela ci fu quando non intervenne perché si fece un decreto, ora non mi ricordo in dettaglio, di retroattività. che ci fu una contestazione tra Difesa. Pubblico Ministero e Corte. e lui non intervenne affinché questo decreto non passasse … …. ….. Possiamo dire che tutte le richieste di Riina non trovavano soddisfazione”).

Brusca ha, quindi, riferito che la questione del maxi processo fu oggetto di più riunioni della “commissione provinciale” tenutesi a partire dal 1990 e nelle quali via via si prese atto dell’evoluzione della vicenda sino a quell’intervento, attribuito al Dott. Falcone, finalizzato a far sostituire il Presidente Carnevale, sul quale erano riposte le aspettative dei mafiosi, con altro Presidente della Corte di Cassazione con conseguente previsione dell’esito infausto per l’associazione mafiosa che, infine, vi sarebbe stato (“E allora. riunioni di commissione provinciale ce ne sono state più di una …. ‘” … dal novanta … ’92, fino a che è arrestato Riina ho partecipato a quattro cinque o forse qualcuna di più ……. ….. E quindi io in queste riunioni successive, siccome già al fatto dell ‘onorevole Lima non ci stavo attento. io stavo attento a quelle che erano le novità dell’oggetto, perché l’onorevole Lima già sapevo che … Lima, il dottor Falcone il dottor Borsellino questi io già li sapevo da una vita, ogni volta c’erano novità dipende qual ‘era l’esigenza del contendere. Attraverso questi fatti mi ricordo che si discuteva in commissione di Cosa Nostra … …. ….. Guardi, più che discussioni c’erano ricordi. rinnovamenti … …. …. Guardi. diciamo che da quando fu assegnato in commissione, cioè in Cassazione, cioè, facciamo un piccolo passo indietro, in Corte d’Assise d’appello il processo stava andando bene, cambiò la situazione quando cominciò a collaborare Francesco Marino Mannoia che cominciò a collaborare nel corso d’opera e stravolse quelle che erano le aspettative, tant’è che io ero stato assolto in primo grado e in secondo grado poi sono stato condannato, come tanti altri. le condanne all ‘ergastolo e via dicendo. Quindi poi si sperava di poterlo aggiustare in Cassazione e da lì sono stati… … .. .. Principalmente con la corrente …attraverso l’onorevole Lima e l’onorevole Andreotti, poi c’erano anche… .. ……. Ma lui doveva intervenire principalmente, se non ricordo male, che ci fu di evitare la cosiddetta, la rotazione dell ‘assegnazione, in maniera che … doveva fare in modo che arrivasse al dottor Carnevale, in sostanza, questo era l’interesse di Totò Riina…. …. .. … Che poi Totò Riina attraverso altri canali l’avrebbe … nel merito ci sarebbe entrato, ma quantomeno voleva che lui facesse in modo che facesse assegnare questo processo al dottor Carnevale. Nel merito  lui pensava di farlo gestire attraverso un amico di Mazara del Vallo, un avvocato, non mi ricordo chi è, con Carnevale erano molto amici, amici, si conoscevano non so se per quali fini o per quali motivi … ; ….  P.M DR. TERESI – E quindi la rotazione di questa turnazione nell’assegnazione dei processi in Cassazione, come dire, sconvolse le vostre aspettative?; IMPUTATO BRUSCA – Sì, con l’intervento del dottor Giovanni Falcone …. …. …. Ma l’abbiamo capito subito quando lui da Palermo se ne andò a Roma per andare a fare principalmente questo, perché era un lavoro suo e quindi voleva portarlo a termine …. …. …. Davamo la colpa a Falcone, ma principalmente a Martelli che gli aveva consentito di fare questo … cioè, di andare a occupare questo posto … …. ….. Anche qui io la volontà di uccidere il dottor Falcone per me risale già subito dopo Chinnici e ho fatto pure dei tentativi, ho studiato pure degli obi… cioè delle abitudini, per una serie di fatti sempre veniva rinviato. Quando invece in ultima battuta sapevo di questo fatto, però io non sapevo ancora la volontà di Totò Riina, io c’entro, tra virgolette, per sbaglio in quest’attentato …. …. … Cioè, io entro nella fase … sapevo la deliberazione, sapevo la volontà di Totò Riina, io entro nel piano esecutivo di portare a termine tutta una serie diattentati omicidiari e quant’altro … “). Indi, Brusca ha confermato che nel dicembre 1991 si tenne un’ulteriore riunione della “commissione provinciale” (“Che io mi ricordi l’ultima fu, credo, come di solito si faceva sempre, a Natale ’91, tutta allargata, successivamente … “), forse in un luogo diverso dalla casa di Guddo (“L’ultima, che io mi ricordo, fu a casa del cugino di Salvatore Cancemi, di un certo… Non mi ricordo come si chiama …. ; … P.M DR. TERESI – È possibile che si chiami Guddo?; IMPUTATO BRUSCA – No, c’è un altro, c’è un altro che poi è stato individuato. A casa di Guddo ne abbiamo fatto altre di riunioni, ma questa che mi ricordo credo che sia l’ultima, che mi ricordo anche la presenza di Nino Giuffrè, si chiama questo … è stato già individuato, è stata individuata pure la casa, avendo assistito ad altri processi, però in questo momento non mi viene il nome, Vito, Vito… eravamo in uno scantinato, comunque vicino la casa di Guddo, perché Totò Riina si muoveva sempre nell’ambito da casa sua dove abitava vicino alla rotonda, si muoveva, diciamo, nell’arco di un chilometro, 2 chilometri, 3 chilometri, non andava oltre …. …. …. Si muoveva nel territorio di Raffaele Ganci, di Angelo La Barbera e Salvatore Cancemi …. “), cui parteciparono quasi tutti i capi “mandamento” tra i quali anche Giuffré (“Ma partecipammo quasi … no “quasi”, tutti, credo che fu un momento che in due o tre occasioni partecipammo tutti, al/ora eravamo … …. ….. Salvatore Riina per Corleone e capo provincia, Biondino Salvatore che sostituiva Giuseppe Giacomo Gambino, Angelo La Barbera per Porta Nuova, per Passo di Rigano che sostituiva Salvatore Buscemi, Matteo Motisi per Pagliarelli, Salvatore Montalto che sostituiva il padre per Villabate che prima era Bagheria e poi è diventato Villabate, io per San Giuseppe Jato, Giuseppe Graviano per Brancaccio, Francesco Lo lacono per Partinico che sostituiva Geraci Antonino il vecchio, Giuffi-è Antonino per Caccamo, Salvuccio Madonia per San Lorenzo, Pietro Aglieri e Carlo Greco per Santa Maria di Gesù, Raffaele Ganci per la Noce, credo di averli detti tutti … “) e nella quale, come pure riferito dallo stesso Giuffrè, prese la parola Riina, manifestando, senza alcuna opposizione dei presenti, l’intendimento di uccidere i Dott.ri Falcone e Borsellino quali nemici storici di “cosa nostra” ed alcuni politici che, a suo dire, avevano tradito “cosa nostra”, tra i quali Lima e, forse, Mannino (” …. Di solito in queste circostanze li prendeva sempre Salvatore Riina, erano quasi sempre monologhi, difficilmente qualcuno interveniva, perché quando parlava lui tutti gli altri ascoltavano o per amore o per timore o perché gli conveniva, era quasi sempre lui che parlava.

Interveniva qualcuno tipo mi ricordo Matteo Motisi che fece un intervento, non mi ricordo qual era il motivo e quasi no lo rimproverò, ma per educazione per l’età lo mise un po’ a tacere, ed era quello che voleva … cioè, voleva uccidere tutti, che si doveva vendicare, che non riusciva più a portare avanti quelle chenerano le sue esigenze, dell’interesse di Cosa Nostra, che lui stava facendo tutto, che la politica si stava … i politicanti lo stavano tradendo. Questa è la sostanza dell’argomento… …. .. … Sì, faceva i nomi… … .. … Ma principalmente c ‘era il dottor Giovanni Falcone. quello era il suo chiodo fisso. poi c ‘era quello del dottor Borsellino che lo nominava da tanto tempo, si è aggiunto Lima che io già sapevo e poi tutta un ‘altra serie di nomi di politici … … …. Prima di tutto, il primo di tutti era Giovanni Falcone, il secondo era il dottor Borsellino che io sapevo già dagli anni Ottanta, si ci è aggiunto a questo, in base a quello che già … perché nel ’91 già … non è che aspettavamo la sentenza di Cassazione che veniva confermata, sapevamo, e quindi pubblicamente esternava la volontà di uccidere Lima. Credo qualche altro politico. non mi ricordo se fece quello di Mannino o di qualche altro, il nome di qualche altro l’abbia fatto. Là, in quella circostanza, non disse: “Dobbiamo uccidere, tu pensa a questo. io penso … “.”Dobbiamo uccidere”, punto …. …. …. O meglio “Ci dobbiamo rompere le corna” per semplificare il concetto della discussione… …. .. … Le ragioni stratificate nel tempo, sommate nel tempo dell’odio di Cosa Nostra verso Giovanni Falcone. poi ritenuto addirittura responsabile della questione della Cassazione. ne abbiamo parlato, per quanto riguarda il dottore Borsellino … …. ….. so. per l’arresto di Leoluca Bagarella, che era indagato per via Pecori Girardi per un omicidio e il dottor Borsellino non voleva accondiscendere alle sue richieste di aggiustamento da Pubblici Ministeri”).

Neppure secondo Brusca in quella riunione si parlò della “Falange Armata” e, quindi, come si vede, v’è sostanziale coincidenza tra il racconto del predetto e quello del Giuffrè al di là del luogo della riunione, riferito, peraltro, da quest’ultimo in termini incerti e che, d’altra parte, a distanza di tanto tempo può essere non ben ricordato da uno di essi o da entrambi.

Brusca, infine, ha attribuito quella decisione comunicata nella riunione esclusivamente a Riina ben conoscendo il potere assoluto che questi, all’epoca, esercitava in “cosa nostra” (“E in particolar modo Totò Riina. la persona di Totò Riina … … …. aveva un fatto specifico personale. per questo dico che aveva più interessi di tutti”) e, pertanto, ha detto di non essere a conoscenza della riunione della “commissione regionale” tenutasi a Enna (“No. non ne so nulla io di questa riunione”).

Di quest’ultima riunione, tuttavia, ha parlato Malvagna Filippo (il cui racconto è apparso lineare e, anche con riferimento alla scelta collaborativa, caratterizzato dall’assenza di elementi idonei ad inficiare l’attendibilità intrinseca del dichiarante), il quale ebbe ad apprendere di questa, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, dallo zio Pulvirenti Giuseppe, a sua volta informato da Benedetto Santapaola che vi aveva partecipato in qualità di capo della “provincia” di Catania (“P. M TARTAGLIA: – … ha avuto mai occasione di avere notizie su più generali strategie di politica criminale di Cosa Nostra? … DICH. MALVAGNA: – Sì. io ho avuto notizie in tal senso e in particolare verso la fine del 1991 – gli inizi del 1992 si parlava … Mio zio mi raccontò che vi era stata una riunione in provincia di Enna dove si erano riuniti tutti i vertici delle varie famiglie esistenti in Sicilia. Lui in particolar modo mi disse che aveva partecipato a questa riunione direttamente il Santapaola per quanto riguarda la famiglia. la nostra famiglia. si diceva all’epoca. E questa riunione era direttamente … Vi era in questa riunione. era presieduta da Salvatore Riina . …

… ha parlato Giuseppe Pulvirenti. Lui personalmente no, aveva partecipato il. .. … L’aveva saputo perché aveva partecipato a questa riunione il Santapaola e il Santapaola al rientro chiamò i vertici dell’organizzazione, tra cui anche il Pulvirenti, e lo mise al corrente dell’oggetto di questa riunione. … Ma adesso i miei ricordi sono lontani nel tempo, io se non vado errato siamo agli inizi del 1992, adesso non ricordo se siamo a gennaio, a febbraio, marzo, non ricordo di preciso la data precisa. P. M TARTAGLIA: – E quando Pulvirenti agli inizi del 92 gliene parla, le parla di una riunione accaduta, verificatasi quanto tempo prima? È in grado di dirlo questo? DICH. MALVAGNA : – Ma il tempo prima non lo so, lui mi parlava di poco tempo, dieci giorni, quindici giorni, un mese massimo. Di preciso non mi specificò la data quando venne fatta, mi disse che è stata fatta lì in provincia di Enna, … “).

In quella riunione, secondo quanto poi raccontato al Malvagna, Riina aveva pronunciato la frase “qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace” (“P. M TARTAGLIA : – E Pulvirenti le ha riferito qualche frase testuale, qualche passaggio testuale dell’intervento di Salvatore Riina in quella riunione? DICH. MALVAGNA: – Sì, mi ha riferito che Salvatore Riina ebbe a dire: bisogna, qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace. …. Sì, è una frase che aveva pronunciato direttamente Salvatore Riina in quella riunione”) sulla quale si tornerà più avanti per il significato che essa assume nel contesto dei fatti oggetto del presente processo.

Anche in quella riunione di Enna, ancora secondo quanto appreso e, quindi, riferito da Malvagna, Salvatore Riina si era lamentato delle promesse di politici non mantenute ed aveva prospettato che a quel punto occorreva muoversi “tipo libanesi, tipo i colombiani” e cioè con una strategia di attacco frontale verso lo Stato e con azioni idonee a confondere la matrice mafiosa o terroristica dell’atto criminale (“P. M TARTAGLIA: – … Perché bisognava fare la guerra per poi fare la pace? … DICH. MALVAGNA : – Ma di preciso non mi è stato detto, mio zio mi ha spiegato che erano venuti meno dei agganci che a Palermo avevano. Cioè, le persone che erano, avevano fatto delle promesse, non le avevano mantenute e in particolare parlava di zio Totò era molto arrabbiato. E quindi aveva deciso di mettere in atto questa, diciamo questa strategia, loro dicevano a tipo libanesi, tipo i colombiani, un attacco frontale per poi … Per fargli vedere che loro, cioè, meritavano … Erano capaci di destabilizzare diciamo anche la popolazione e lui mi parlò di una cosa tipo una cosa che poi doveva anche, doveva anche confondersi questa cosa, doveva confondersi, che non dovevano capire niente se era mafia, se era ritornato il terrorismo, tutte ste così ha detto, mi ha detto questo qua …. P. M TARTAGLIA : – … le è stato detto da chi erano rappresentati questi agganci? DICH MALVAGNA : – Ma da chi erano rappresentati nello specifico non mi venne detto, anche perché … Non mi venne detto nello specifico”).

Secondo Malvagna, in tale contesto, Riina aveva invitato a rivendicare le azioni che sarebbero state compiute con la sigla Falange Armata (“Sì, sì, direttamente il Salvatore Riina, come dicevo prima, siccome si doveva fare un po’ di confusione, che non si doveva capire da dove provenisse tutto questo terremoto, disse di rivendicare qualsiasi cosa con una frase, la così detta … Dovevano essere rivendicate dicendo che chi metteva in atto queste cose faceva parte della Falange Armata. P. M TARTAGLIA : – Questa fu quindi una richiesta di Salvatore Riina? Fu Salvatore Riina a proporre in quella sede di rivendicare gli attentati con la sigla Falange Armata? DICH MALVAGNA : – Sì, sì, si dovevano fare queste cose e rivendicarle con questa sigla di Falange Armata”), sino ad allora a tutti sconosciuta (“P. M TARTAGLIA : – … Lei o suo zio Pulvirenti in quel momento, cioè nei primi mesi del 92, avevate mai sentito parlare della sigla Falange Armata? DICH MALVAGNA: – No, io mai. P. M TARTAGLIA: – Quindi era una sigla sconosciuta a lei e ai componenti della sua organizzazione criminale? DICH. MALVAGNA – Che io sappia sì, era la prima volta che si sentiva dire”).

Della “Falange Armata” si dirà meglio più avanti, anticipando, però, sin d’ora, che effettivamente tutti i principali fatti delittuosi che da lì in poi sarebbero stati commessi da “cosa nostra” nel biennio 1992-93, ad iniziare dall’omicidio Lima, furono effettivamente rivendicati con la predetta sigla. Anche Malvagna, infine, ha confermato che già alla fine del 1991 a Catania i mafiosi erano consapevoli che il maxi processo, nel quale erano imputati anche importanti esponenti di quella “famiglia” quali Benedetto Santapaola e Carletto Campanella, avrebbe avuto un esito diverso da quello da loro sino ad allora sperato (“P. M TARTAGLIA: – … Ora io le vorrei chiedere sinteticamente: lei ha avuto modo di commentare la vicenda e l’evoluzione del Maxi Processo con Pulvirenti o con altri soggetti del suo gruppo criminale? DICH. MALVAGNA: – Ma io ho appreso che mentre mi trovavo a Catania in una riunione, sentivo parlare il capo decina con Salvatore Santapaola, che avevano già notizie ancora prima che la Cassazione si esprimesse, che il Maxi Processo andava male . … , io non ricordo le date precise, so che era in quel periodo, alla fine del 1991 …. Sì, c’erano parecchi imputati, c’era anche Santa paola era imputato al Maxi Processo. C’era mi sembra Carletto Campanella e qualche altro, adesso non ricordo. Però non è che se ne parlava soltanto a carattere personale, se ne parlava a carattere generale nell’ambito dell’organizzazione Cosa Nostra, perché loro avevano una… Cioè, era stata una grossa botta quella del Maxi Processo e loro avevano, non lo so, delle informazioni che si sarebbe sistemata la cosa, invece avevano informazioni che… Cioè che andava male. Prima che ancora ci … Io mi ricordo prima che poi c’è stata la sentenza ufficiale, loro già sapevano che andava male il Maxi Processo, adesso da quale canale lo sapevano non lo so”). In conclusione, dunque, può ritenersi provato che l’originario intento di Salvatore Riina, maturato già prima della pronunzia della sentenza della Corte di Cassazione all’esito del maxi processo (ma strettamente collegato alla previsione ormai certa, dopo la sostituzione del Dott. Carnevale, dell’esito infausto che questo avrebbe avuto) e che fu recepito senza alcuna opposizione all’interno dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, fu quello di scatenare la propria vendetta, uccidendo i Giudici Falcone e Borsellino, quali nemici “storici” della mafia responsabili della debacle che si preannunciava con la sopra ricordata sentenza, ed alcuni politici, iniziando da Salvo Lima, che avevano tradito le attese in essi riposte dallo stesso Riina.

Può, peraltro, già qui anticiparsi che la predetta ricostruzione ha trovato ulteriore definitivo riscontro nelle stesse parole di Salvatore Riina intercettate nel 2013 all’interno del carcere in cui il predetto era detenuto e di cui si darà ampio resoconto più avanti nella Parte Quinta della presente sentenza (v., soprattutto, intercettazioni del 6, 8, 18, 20, 29 e 31 agosto 2013, 24 e 27 settembre 2013 e 27 ottobre 2013).

In sostanza, quel che si vuole qui evidenziare, per le conseguenze che successivamente si trarranno sui fatti oggetto della specifica imputazione di reato che in questa sede è stata esaminata, è che in quella prima fase – e, come si vedrà, sino al giugno 1992 – non v’era alcun intendimento da parte di Riina (e, conseguentemente, da parte dei suoi sodali stante il potere assoluto dal primo esercitato e l’assenza di qualsiasi possibile opposizione interna manifestabile in occasione delle riunioni degli organismi collegiali senza incorrere nella punizione con la morte da parte del Riina medesimo) di “trattare” contropartite di sorta ovvero di subordinare l’inizio o anche soltanto la prosecuzione del programma delittuoso già comunicato nelle riunioni di cui sopra si è detto a eventuali cedimenti da parte delle Istituzioni dello Stato.

Invero, soltanto la dimostrazione incontenibile ed inarrestabile di forza e violenza da parte dell’associazione mafiosa, nell’ottica di Riina (”fare la guerra per poi fare la pace”), avrebbe costretto lo Stato a adoperarsi per ristabilire una situazione di reciproca non belligeranza, quale quella che per molti anni, se non decenni, sino all’irrompere sulla scena di magistrati quali Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino e di altrettanti validi investigatori che li affiancavano (alcuni dei quali ugualmente uccisi come i predetti magistrati: tra i tanti, basti qui ricordare Ninni Cassarà e Beppe Montana), aveva caratterizzato i rapporti nel territorio siciliano (e, spesso, non solo in questo) e segnato l’esito di molti processi concJusisi, a differenza di quanto sarebbe, invece, avvenuto col maxi processo, con sentenze o che negavano addirittura l’esistenza della mafia o che, al più, si rifugiavano nella formula dubitativa dell ‘assoluzione per insufficienza di prove.

Con le sentenze del maxi processo si evidenziava, dunque, un chiaro indebolimento dell’associazione mafiosa – ed, in primis, quindi, di Salvatore Riina che, come detto, dai primi anni ottanta ne era il capo assoluto ed incontrastato – che non era più riuscita, pur con la pletora di politici o di soggetti che più o meno indirettamente facevano da tramite con i primi, ad “aggiustare” l’esito di quel processo e, conseguentemente, ad ottenere quel risultato che in passato e sino ad allora era stato indice proprio della potenza intimi datrice della mafia, ma anche – e forse soprattutto – della capacità di questa di tessere una ragnatela di rapporti tale da avviluppare a sé, in un gioco di interessi e contro-interessi ed in nome del quieto vivere, una fetta non indifferente della società civile che più contava (politici, imprenditori, professionisti, magistrati e investigatori).

Salvatore Riina non poteva di certo consentire, senza reagire, un simile indebolimento, che ne avrebbe inevitabilmente intaccato la leadership e, quindi, prima ancora della sentenza definitiva della Corte di Cassazione, che avrebbe potuto scatenare l’insoddisfazione del “popolo” di “cosa nostra” ed una reazione di questo nei suoi confronti per non essere riuscito ad ottenere il risultato che aveva garantito fidandosi di quei politici che sino ad allora lo avevano sempre assecondato per i propri tornaconti elettorali ed economici, quando ancora il suo potere era saldo, aveva coinvolto i vertici di “cosa nostra” in quella strategia di attacco frontale allo Stato, che, creando inevitabilmente un punto di non ritorno, avrebbe costretto coloro che già avevano approvato quella strategia a non recedere da quella decisione e, quindi, in definitiva, avrebbe impedito che altri, che magari già segretamente vi aspiravano, avessero potuto tentare di conquistare la guida di “cosa nostra” in opposizione al “ridimensionato” Salvatore Riina.

Ed infatti, già all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione nel maxi processo (30 gennaio 1992), prima che vi fosse il tempo di riflettere sulla debacle di “cosa nostra” e, quindi, di Riina, iniziano le attività preparatorie per l’esecuzione dell’omicidio di Salvo Lima, poi effettivamente realizzato il 12 marzo 1992, a breve distanza di tempo seguito, prima dall’ micidio del M.llo Guazzelli e, poi, a coronamento di quella prima fase, dalla più eclatante delle stragi per modalità esecutive e valore simbolico (non a caso “voluta” da Riina in Sicilia nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove il Dott. Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), quella di Capaci, nella quale vennero uccisi lo “storico nemico n. l” di “cosa nostra”, Giovanni Falcone, la moglie che lo accompagnava e gli uomini della scorta che lo proteggevano.

Sui primi due dei ricordati avvenimenti (omicidi Lima e Guazzelli) occorre, però, formulare qualche ulteriore separata considerazione per la rilevanza che essi hanno nell’ambito della costruzione dell’ipotesi accusatoria oggetto di verifica nel presente processo.  MAFIE di ATTILIO BOLZONI


Totò Riina e quelli che “si erano fatti sotto”  Nei capitoli precedenti sono stati ricostruiti, in base a ciò che è stato possibile sulla scorta delle risultanze acquisite, ma soprattutto in forza delle stesse parole dei principali protagonisti, i contatti che vi furono ali’ indomani della strage di Capaci tra i Carabinieri del R.O.S., nelle persone degli odierni imputati Mori e De Donno, e Vito Ciancimino e sono state, quindi, infine sintetizzate le prime conclusioni sulle quali può ritenersi già acquisita la prova.

L’ultima di tali conclusioni riguarda l’accettazione della “trattativa” da parte di Salvatore Riina e, quindi, la circostanza che effettivamente quest’ultimo fu raggiunto dalla richiesta di dialogo indirizzatagli dai Carabinieri tramite Vito Ciancimino (il quale a sua volta, per contattare Riina, si era avvalso dell’intermediazione di Antonino Cinà).

Si è visto sopra, infatti, che lo stesso Ciancimino ebbe ad un certo momento a informare Mori che i vertici mafiosi da lui contattati “accettavano la trattativa”, così come riferito in occasione della deposizione di Firenze dallo stesso Mori, nel contempo, dichiaratosi consapevole che effettivamente Ciancimino fosse riuscito a mettersi in contatto con Riina.

Ma adesso si vuole qui evidenziare un’ulteriore – anche se non necessaria, alla stregua delle risultanze probatorie prima esaminate – conferma del fatto che Riina fu effettivamente raggiunto da una richiesta di “trattativa”.

Deve premettersi, in proposito, che la conferma si ricaverà, indirettamente ma univocamente, anche dal fatto che, come si vedrà, per averlo riferito, anche in tempi non sospetti, molti collaboratori di Giustizia, Riina, ad un certo momento, condizionò all’ottenimento di alcuni benefici la cessazione delle stragi e, poi, per rafforzare tale richiesta di benefici decise di eseguire ulteriori gravissime stragi.

Ma di ciò si dirà più ampiamente ed approfonditamente più avanti. Qui, invece, ci si intende riferire alle dichiarazioni più propriamente e direttamente confermative della ricezione da parte di Riina della sollecitazione alla “trattativa” rese da due collaboratori di Giustizia, Cancemi Salvatore e Brusca Giovanni (quest’ultimo anche imputato nel presente processo).

[…] Si intende qui valorizzare, al predetto fine confermativo, più che il contenuto delle propalazioni, la circostanza che i predetti collaboratori di Giustizia le hanno rese (Cancemi nel 1994 e Brusca nel 1996) prima che Mori e De Donno, soltanto, come si è visto, nel gennaio del 1998, ebbero pubblicamente a parlare in un processo dei contatti da essi avuti con Vito Ciancimino nel 1992 ed a pronunziare, in tale contesto, la parola “trattativa”.

Da ciò il rilievo delle relative propalazioni rese quando ancora la questione della “trattativa” non aveva avuto alcuna risonanza pubblica, dal momento che il generico accenno fattovi da Vito Ciancimino in interrogatori non pubblici non aveva, di fatto, avuto alcun seguito, mentre, di “trattativa”, come detto, avrebbero pubblicamente parlato in un dibattimento (peraltro senza che in quella occasione i media vi prestassero particolare attenzione,) Mori e De Donno soltanto successivamente nel 1998 e, quindi, a distanza di oltre cinque anni dai fatti.

Ed in proposito, infatti, a riprova del rilievo pubblico assunto dai fatti soltanto nel 1998, è significativo rilevare che, come risulta dalla minuta della nota del R.O.S. a firma del “Generale di Brigata comandante Mario Mori inviata il 25 gennaio 1998 ai Comandi Provinciali dei Carabinieri di Roma e Palermo […], lo stesso Mori, in riferimento alle testimonianze rese, da lui e da De Donno, il 24 gennaio 1998 davanti alla Corte di Assise di Firenze, riferisce a quei Comandi che “nel corso della loro testimonianza, i due ufficiali hanno illustrato i contatti intrattenuti, negli anni 1992-1993, con Ciancimino Vito Calogero ed il figlio Massimo, volti ad acquisire spunti informativi utili alla ricerca di latitanti appartenenti a Cosa Nostra” e che “nel contesto delle dichiarazioni sono stati descritti comportamenti da cui è emersa la volontà di collaborazione con la polizia giudiziaria da parte dell’ex sindaco di Palermo” e conclude, quindi, che “il fatto potrebbe provocare riflessi negativi sulla sicurezza del Ciancimino stesso e dei suoi familiari. Tanto si segnala per gli interventi valutati opportuni nelle sedi competenti”.

Si tratta, con tutta evidenza, di un documento che comprova, per bocca dello stesso Mori, che soltanto nel gennaio 1998 ebbero rilievo pubblico i contatti dei Carabinieri con Vito Ciancimino e la collaborazione di quest’ultimo, tanto che soltanto allora ci si preoccupò delle conseguenze che sarebbero potute derivare da tale risalto pubblico per la sicurezza dello stesso Ciancimino e dei suoi familiari.

Ed allora, assume rilevanza anche l’ulteriore conferma, da parte di due soggetti che hanno ricoperto ruoli non certo secondari nell’ambito dell’associazione mafiosa, almeno della percezione, da parte di “cosa nostra”, di una volontà delle Istituzioni di addivenire ad un accomodamento per interrompere la strategia stragi sta di quest’ultima e ciò perché da tale percezione, come si vedrà, è conseguita, non già una interruzione della strategia stragi sta che poi vi sarà successivamente soltanto per ragioni diverse, ma, al contrario, una intensificazione delle stragi nel corso del 1993 e sino al gennaio 1994 (quando avvenne un ulteriore tentativo di strage, però, fallito) per massimizzare l’effetto intimidatorio ed ottenere benefici ritenuti indispensabili per la stessa sopravvivenza di “cosa nostra”.

Delle numerose acquisizioni probatorie che riguardano questo aspetto della vicenda, quello, cioè, della intensificazione delle stragi decisa nel 1993, si dirà più avanti esaminando gli effetti della “trattativa”, mentre è utile esaminare prima le risultanze, fondate su dichiarazioni di intranei alla associazione mafiosa, che, dal punto di vista di questa, confermano le risuItanze sopra già tratte sulla scorta delle stesse parole dei loro principali protagonisti, Mori e De Donno da un lato e Vito Ciancimino dall’altro.

Le dichiarazioni rese da Cancemi Salvatore nel corso delle indagini e dei processi per fatti connessi a quelli oggetto del presente processo sono state acquisite perché divenute irripetibili a seguito del decesso del detto dichiarante.

In particolare, sono state acquisite le dichiarazioni rese ai Pubblici Ministeri di Roma e Milano in data 15 marzo 1994, le dichiarazioni rese al P.M. Di Caltanissetta il 21 gennaio 1997, le dichiarazioni rese ai Pubblici Ministeri di Firenze e Caltanissetta in data 23 aprile 1998, e, infine, le dichiarazioni rese nel corso del dibattimento per la strage di via D’Amelio alle udienze del 17,23,24 e 29 giugno 1999. […] Nel successivo interrogatorio del 15 marzo 1994 (del quale è stato prodotto ed acquisito il relativo verbale riassuntivo), Cancemi ha affrontato temi più direttamente attinenti alle vicende qui in esame.

In particolare, il Cancemi, in occasione di tale interrogatorio, per la parte che qui rileva (e, d’altra parte, il verbale acquisito appare in gran parte omissato), ha riferito che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Riina riteneva che lo Stato non avrebbe reagito, ma avrebbe tentato di intavolare una “trattativa” attraverso importanti soggetti estranei a “cosa nostra” (” .. in concreto, per quello che sentivo da Riina e Biondino ….. si era certi che lo Stato non avrebbe reagito ….. In sostanza. Riina ed il suo cerchio ristretto erano convinti, a mio parere, che quegli atti eclatanti avrebbero indotto lo Stato alla trattativa. Ciò, come ho detto a varie A.G., per effetto dei rapporti che loro avevano con persone esterne a cosa nostra, importanti. Ho più volte ribadito che si trattava, in questo caso, di persone che io non posso specificare, e dei cui contatti con Riina, mi aveva parlato il Ganci, quel famoso giorno in cui tornavamo da una riunione tenutasi a Capaci in preparazione dell’attentato a Falcone … … … ciò che io prima ho detto va riferito esclusivamente alle aspettative ed ai convincimenti di Riina, Provenzano, Biondino, Bagarella, Ganci, Aglieri, Greco Carlo, Tinnirello e dei Graviano, cioè quel nucleo dirigente sanguinario di cui ho già parlato. È chiaro invece che la gran parte degli affiliati a cosa nostra riteneva, al contrario, essendo estranea a quei contatti con persone importanti di Riina ed ai discorsi che all’interno di quel nucleo si facevano, che la reazione dello Stato sarebbe stata molto dura e avrebbe potuto mettere in crisi l’assetto stesso di cosa nostra”).

Da segnalare, poi, riguardo a tale interrogatorio la risposta ambigua data dal Cancemi alla domanda se egli ritenesse, alla luce di quanto nel frattempo accaduto (siamo nel marzo 1994), che le aspettative di “cosa nostra” fossero andate deluse: “vedremo, Provenzano è ancora libero”.

Ma, appare di estrema importanza, come già anticipato, il fatto che già nel marzo 1994, ben prima, quindi, della risonanza pubblica dei contatti tra i Carabinieri e Vito Ciancimino, Cancemi abbia espressamente parlato di “trattativa”, che, dopo le stragi del 1992, Riina intendeva intavolare con lo Stato. […] Nel successivo interrogatorio reso ai magistrati della Procura di Caltanissetta il 21 gennaio 1997, il Cancemi parla, invece, della parallela vicenda della “trattativa” legata alla restituzione di alcune opere d’arte pure riferita da Paolo Bellini ed altri di cui si dirà più avanti separatamente. Nell’interrogatorio congiunto delle Procure di Firenze e Caltanissetta del 23 aprile 1998 (del quale sono stati depositati ed acquisiti tanto il verbale riassuntivo, quanto la trascrizione della registrazione, così che, per maggiore completezza e precisione, è opportuno riferirsi a quest’ultima), quindi, Cancemi, dopo avere iniziato il suo racconto dal 1991 allorché egli era stato convocato a casa di Guddo da Riina, il quale gli aveva detto di recarsi da Vittorio Mangano per dirgli di mettersi da parte nei rapporti con Berlusconi e Dell’Utri perché ora intendeva occuparsene direttamente (“.. io devo cominciare dal ’91 cedo, esatto, credo dal ’91 quando Riina a me mi ha mandato a chiamare, lui personalmente, con Ganci Raffaele, e io l ‘ho incontrato dietro la villa Serena, la villa di Guddo, e lui mi disse a me: «Totuccio, mi devi fare una cortesia» , ho risposto io: «anche due» , dice: «devi chiamare a Vittorio Mangano e ci devi dire che si mette da parte, questa situazione che lui ha avuto nelle mani, di Dell’Utri e Berlusconi, si deve mettere da parte perché … … … si deve mettere da parte questa cosa dice, me l’ho messo nelle mani io lui mi dice, nelle mani io fa perché è un bene per tutta cosa nostra, queste sono state le parole di Riina”), cosa che egli aveva effettivamente fatto informando di ciò Vittorio Mangano […], ha, poi, riferito che dopo qualche tempo, in occasione di un altro incontro, il Riina aveva specificato quali richieste intendeva avanzare a quelle persone (“…credo che è stato nel ’92 ….. … Riina un giorno ci siamo incontrati, io Riina, Ganci e credo Biondino Salvatore, che è venuto con una situazione di dire che, ha parlato con noi, che doveva fare sapere a queste persone di, ci doveva dare alcuni punti, di fare annullare l’ergastolo, di fare annullare la legge sui pentiti, il sequestro dei beni e altre cose,[…]. Quindi i punti che io mi ricordo erano questi del fatto di fare abolire l’ergastolo, ‘sta legge sui pentiti di farla scomparire, di, mi sembra che c’era anche il 41 bis, insomma erano se o sette punti diciamo che lui doveva, doveva portare .. … …. aveva una specie di, un biglietto nelle mani, una cosa, un pezzo di carta nelle mani, mi ricordo, si .. …. ….. in questa riunione dice che ci doveva fare avere queste cose a queste persone, Berlusconi e Dell’Utri, i nomi che ha fatto erano questi qua … “).

Nello stesso interrogatorio, quindi, il Cancemi, dopo avere ricordato la vicenda dei quadri che erano stati recuperati già riferita nel precedente interrogatorio del 21 gennaio 1997 e di cui, come anticipato, si dirà successivamente, ha raccontato che lo scopo delle stragi era quello di “sfiduciare” coloro che erano in quel momento al potere […] per favorire l’ascesa di Berlusconi e Dell’Utri

[…], ha riferito di non avere mai saputo di progetti di attentati ai danni di politici e del Dott. Grasso, mentre ha ricordato di un progetto per uccidere il Questore La Barbera […], ha ricordato, quanto agli incontri con Brusca Giovanni, tra i tanti, un incontro presso la casa di Guddo in occasione del quale lo stesso Brusca aveva presentato tale Rampulla a Riina […]. Quanto al Provenzano, invece, Cancemi ha riferito di averlo visto in occasione di qualche incontro nella stessa casa di Guddo […] e ciò anche dopo l’arresto di Riina […] ed ha aggiunto che in occasione di tali incontri successivi all’arresto di Riina, Provenzano ebbe a tranquillizzarlo dicendogli che tutto proseguiva come stabilito dal Riina medesimo (“stai tranquillo che tutto è a posto, le cose stanno continuando per come tu sai da zio Totuccio”). […]

Ebbene, non v’è dubbio che Cancemi abbia effettivamente progressivamente ampliato i suoi ricordi inserendovi anche nomi di estrema notorietà inizialmente taciuti (per tutti, Berlusconi e Dell’Utri) e da ciò derivano anche tal une delle ragioni delle criticità della sua attendibilità già evidenziate nell’apposito paragrafo (Parte Prima della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.5) che impongono un esame rigoroso delle sue dichiarazioni e la ricerca di sicuri riscontri.

E, tuttavia, come si è già evidenziato nella Parte Terza, Capitolo 4 di questa sentenza, l’attendibilità di Cancemi ha, poi, trovato un importante riscontro – all’epoca delle sue dichiarazioni non prevedibile – riguardo alla principale delle omissioni dichiarative soltanto successivamente integrate, quella relativa alla improvvisa “premura” da parte di Riina di uccidere il Dott. Borsellino.

Nelle sue iniziali dichiarazioni, infatti, Cancemi aveva affermato di non sapere nulla dell’uccisione del Dott. Borsellino, mentre successivamente ha raccontato di quella riunione nella quale Riina aveva comunicato a Raffaele Ganci la relativa decisione.

Tale dichiarazione appariva come un tipico esempio di “dichiarazione a rate” ed, infatti, sul relativo ritardo e sulla contraddizione rispetto alle precedenti dichiarazioni si sono incentrate le contestazioni dei difensori degli imputati di quel processo.

Sennonché, come si è già rilevato nel precedente Capitolo 4, quel racconto del Cancemi sulla improvvisa accelerazione imposta da Riina alla esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino e sulla sorpresa degli interlocutori del predetto capomafia (nella specie, secondo Cancemi, Raffaele Ganci), ha trovato un inatteso e del tutto imprevedibile riscontro nelle stesse parole di Salvatore Riina intercettate all’interno del carcere nel 2013 (v. Capitolo 4 già richiamato).

Ciò impone di riconsiderare quelle dichiarazioni del Cancemi ancorché tardive, pur non abbandonando, però, il più rigoroso criterio di valutazione di cui già si è detto.

In ogni caso, quel che è utile rilevare riguardo alla questione in esame in questo Capitolo, è il nucleo delle dichiarazioni di Cancemi sostanzialmente rimasto invariato nel tempo, quello relativo al fatto che, dopo la strage di Capaci, in “cosa nostra” si iniziò a parlare di “trattativa” e che l’oggetto delle pretese di Salvatore Riina era costituito dall’ergastolo, dalla legge sui pentiti, dal sequestro dei beni e dal 41 bis, nonché, più in generale, dai detenuti mafiosi […].

[…] Anche le dichiarazioni di Giovanni Brusca, sia per la loro evoluzione nel tempo ben messa in evidenza dai difensori degli imputati in sede di controesame, sia per lo stesso ruolo di imputato che il Brusca riveste in questo processo, devono  essere esaminate con particolare ngore (v. sopra Parte Prima della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4).

Non v’è ragione, però, di giungere ad una totale e pregiudiziale dichiarazione di inattendibilità intrinseca del detto dichiarante così come chiesto e sostenuto dai difensori degli altri imputati, sia perché in molti altri processi già conclusi con sentenze irrevocabili è stata riconosciuta l’importanza e la rilevanza del contributo fornito dal Brusca per la ricostruzione di vicende delittuose e per l’individuazione dei relativi responsabili (tanto che al detto odierno imputato è stata in molte occasione formalmente riconosciuta la circostanza attenuante speciale della collaborazione), sia perché anche nel presente processo sono stati acquisiti straordinari ed imprevedibili riscontri alle dichiarazioni del Brusca nelle parole di Salvatore Riina intercettate nel 2013 all’interno del carcere ove lo stesso era detenuto.

Si è già ricordata, in proposito, la conferma, nelle parole del Riina, dell’improvvisa accelerazione impressa alla esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino, di cui, appunto, Brusca aveva sempre riferito per conoscenza diretta collegata all’incarico di uccidere l’On. Mannino, che egli precedentemente aveva ricevuto e stava attuando, poi, appunto, revocatogli per la sopravvenuta esigenza rappresentatagli dal Riina medesimo (v. sopra Capitolo 4).

E si è già fatto cenno, nella scheda sopra dedicata al Brusca come collaboratore di Giustizia, ad un particolare, assolutamente peculiare ed originale che ha trovato conferma ancora nelle parole del Riina, riferito al tema controverso degli assetti dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” dopo l’arresto di Salvatore Riina.

Si è visto sopra, infatti, che tra le tante dichiarazioni, Brusca ad un certo momento, riferendo, appunto, dell’assetto di “cosa nostra” dopo l’arresto di Riina e delle discussioni cui anch’egli ebbe a partecipare riguardo alle decisioni da prendere in ordine alla prosecuzione o meno della strategia mafiosa, ha riferito di una particolare frase che Bagarella ebbe a rivolgere a Provenzano a fronte del tentativo di questi di tirarsi indietro dalla strategia sino ad allora portata avanti: “Ti metti un cartellone così. prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente» ” (v. dichiarazioni Brusca sopra più ampiamente riportate: “Provenzano l’unica cosa che dice: “Ed io come mi giustifico con gli altri?” Si riferiva al suo gruppo Aglieri, Giuffrè e Benedetto Spera. E provocatoriamente

Bagarella gli fa, dice, che ha sorpreso pure me, dice: “Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente»”).

Ebbene, balza assolutamente evidente la coincidenza del racconto del Brusca con un passo di un’intercettazione effettuata all’interno del carcere nel quale era detenuto Riina allorché quest’ultimo racconta al suo interlocutore che, di fronte alle perplessità del Provenzano, egli gli aveva detto (rectius, ovviamente gli aveva mandato a dire, essendo egli, appunto, già detenuto, ma non essendo d’ostacolo di certo lo stato di isolamento dal momento che egli, comunque, effettuava i colloqui con i familiari e, pertanto, innanzitutto con la moglie, sorella di Leoluca Bagarella; […]) di mettersi un cartello al collo con la scritta “io non ne so niente” ove intendesse dissociarsi (v. intercettazione del 18 agosto 2013 del colloquio del Riina nel corso del quale quest’ultimo, ad un certo punto, dice: “invece con tutta quella, comu sacciu, con tutta quella esperienza che aveva ci rissi: ti mietti un cartellino attaccato ‘nto cuoddu e dici – io non ne so niente!”).

Come si vede, poiché tale intercettazione non era ancora nota quando Brusca ebbe a fare il suo racconto, si tratta di un riscontro assolutamente straordinario per importanza e rilevanza, che conferma come non sia possibile (né corretto alla stregua dei criteri generali sopra ricordati nella Parte Prima della sentenza, Capitolo 3, paragrafo 3.3) disattendere del tutto le propalazioni del Brusca per difetto di attendibilità intrinseca, seppur applicando, per le criticità che, comunque, hanno connotato la sua collaborazione, un particolare rigore nella ricerca dei riscontri (e ciò sarà fatto anche con riferimento alla intercettazioni effettuate nei confronti di Riina nelle quali si rinvengono, come si vedrà nell’apposito Capitolo in cui tali intercettazioni saranno esaminate, anche talune smentite alle propalazioni del medesimo Brusca che richiederanno una specifica analisi).

Ma, ritornando al tema qui in esame, quello della ricerca della conferma della “trattativa” anche nelle parole del Brusca, è utile qui concentrarsi, come nel caso del Cancemi, soprattutto sulle dichiarazioni che Brusca ebbe a rendere nell’immediatezza della sua collaborazione (dopo il superamento, però, degli iniziali depistaggi finalizzati a “salvare” alcuni soggetti a lui vicini) nel mese di agosto 1996 e, quindi, ben prima delle testimonianze di Mori e De Donno, che, appena da lui conosciute, lo hanno indotto a rielaborare e reinterpretare alcuni ricordi, aggiungendo tardivamente anche alcuni particolari, di cui, proprio per il particolare rigore che, come detto, deve applicarsi nella valutazione delle propalazioni del Brusca, non può tenersi conto in assenza di diretti ed univoci riscontri (si pensi al nome di Mancino soltanto nelle sue più recenti dichiarazioni aggiunte dal Brusca a proposito del destinatario delle richieste del Riina).

Le dichiarazioni che Brusca ebbe a rendere il 14 agosto 1996 sono state poste all’attenzione della Corte con le contestazioni che le difese degli altri imputati hanno mosso in sede di esame del Brusca e, tuttavia, possono essere utilizzate, oltre che per la valutazione della credibilità del dichiarante, anche nel loro contenuto nei limiti in cui, ovviamente, poi tali dichiarazioni, a seguito, appunto, delle contestazioni di cui si è detto, sono state confermate dal Brusca medesimo nell’esame reso in questa sede.

Ebbene, è importante, allora, evidenziare che Brusca, già il 14 agosto 1996, prima, si ripete, che Mori e De Donno riferissero i particolari dei loro colloqui con Vito Ciancimino […], ebbe a riferire che dopo le stragi (quelle del 1992) Riina aveva sospeso la strategia stragi sta perché aveva avuto contatti con soggetti non specificati che gli avevano chiesto cosa volesse per porre termine alle stragi medesime ed egli (il Riina) aveva a quel punto fatto un “papello” di richieste ritenute, però, esose dai suoi interlocutori, così come raccontato al Brusca medesimo in occasione di un incontro avvenuto nel periodo natalizio del 1992 (v. verbale dell’interrogatorio in data 14 agosto 1996 nel quale, come risulta dalla contestazione fatta al Brusca in questo dibattimento, si legge a pag. 9: […]”Dopo le stragi di Palermo e l’incarico a me dato di un attentato al Giudice Grasso, da me non attuato per ragioni già dette, Riina aveva messo il fermo. Mi disse espressamente che aveva avuto contatti con qualcuno e questo qualcuno gli aveva detto più o meno «cosa vuoi per finire queste cose?». Riina mi disse di aver fatto un papello di richieste, ma che la risposta era stata negativa, erano troppe. Questo discorso me lo fece sotto le feste di Natale”).

Brusca ha confermato – e, poi, maggiormente dettagliato (ma, d’altra parte, quelle dichiarazioni sono riportate in un verbale riassuntivo) – anche in questo dibattimento il contenuto del colloquio avuto con Riina (“… e lui mi risponde: “Si sono fatti sotto “, stavolta con un tono contento, di soddisfazione e già era arrivato al punto, dice: “Gli ho fatto un papello così di richiesta”[…]”), modificando, però, la collocazione temporale allora data, perché, secondo il predetto dichiarante odierno imputato, quel colloquio, in realtà, avvenne alla fine di giugno 1992 e, comunque, prima della strage di via D’Amelio, così come egli ha potuto ricostruire, asseritamente, sulla base di alcuni episodi delittuosi di quei mesi, quali l’omicidio Lizio, l’omicidio Milazzo ed il tentato omicidio di Germanà.

La Corte, poiché tale collocazione temporale è stata oggetto di dichiarazioni del Brusca nel tempo diverse e spesso contraddittorie, intende prescindere da tale dato (che, peraltro, come meglio si preciserà nei prosieguo non appare determinante ai fini della contestazione di reato in esame nel presente processo) e concentrarsi, quindi, soltanto sul contenuto del colloquio avuto con Riina (quale che sia il periodo in cui questo avvenne, comunque, per il suo contenuto, collocabile nel secondo semestre del 1992), che, invece, come detto, nel suo nucleo centrale (quello che appare possibile, quindi, utilizzare) è stato sempre confermato dal Brusca in tutte le sue dichiarazioni fino a quelle rese in questo dibattimento.

[…] Ebbene, non v’è chi non veda come il principale elemento di conoscenza fornito da Brusca (già, si ripete, nell’agosto 1996) si specchi totalmente in un passo della ricostruzione di quegli accadimenti che soltanto dall’anno successivo (agosto 1997), ma pubblicamente addirittura soltanto dal gennaio 1998 (quando furono assunte le relative testimonianze a Firenze), fu, poi, fatta da Mori e De Donno.

Il riferimento è a quella domanda rivolta al Riina dai suoi interlocutori istituzionali così come sintetizzata da Brusca, (” … «cosa vuoi per finire queste cose?» …. ; frase confermata anche in sede dibattimentale: ” …. «Per finirla cosa volete in cambio?» …. “), che fa da contraltare, apparendo logicamente consequenziale nel suo significato sostanziale, alla sollecitazione rivolta da Mori a Vito Ciancimino: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”‘; sollecitazione incontestatamente inoltrata ai vertici di “cosa nostra” tramite l’intermediario (Cinà) e certamente recepita dai vertici medesimi se è vero che, come riferito dallo stesso Mori, Vito Ciancimino ebbe successivamente a dirgli che i suoi interlocutori accettavano la “trattativa” (“Guardi, quelli accettano la trattativa”).

Ed è importante evidenziare che Brusca ha reso quella sua prima dichiarazione quando ancora ignorava che tra coloro che “si erano fatti sotto” (cioè che si erano fatti avanti, che lo avevano cercato) vi erano anche i Carabinieri, circostanza che, come dallo stesso riferito, aveva appreso soltanto successivamente dalla lettura dei giornali, inducendolo, soltanto in quel momento, a collegare a tale iniziativa dei Carabinieri ciò che a suo tempo gli aveva detto Riina […].

La propalazione di Brusca, dunque, anche per la sua prima collocazione temporale e per l’originalità del contenuto su fatti che in quel momento non apparivano particolarmente significativi in assenza di ulteriori conoscenze del contesto in cui gli stessi di inserivano, si appalesa attendibile e conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che effettivamente, quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non già dopo la prima strage (quella di Capaci), Riina fu contattato da soggetti istituzionali che, con l’evidente intento di superare la contrapposizione frontale che si era creata, gli chiesero a quali condizioni avrebbe potuto porre termine alla strategia stragista.

[…] Un ‘ulteriore e, questa volta definitiva, conferma si trae anche dalle dichiarazioni di un altro collaboratore, Antonino Giuffré, che, a differenza dei predetti Cancemi e Brusca, presenta un ben più sicuro livello di affidabilità (v. scheda di cui alla Parte Prima, Capitolo 4, paragrafo 4.21). […] Il Giuffrè ha, tra l’altro, dichiarato che, poiché circolavano nell’ambito di “cosa nostra” notizie sul rapporto confidenziale che Vito Ciancimino intratteneva con le Forze dell’Ordine, egli ebbe a chiedere spiegazioni a Bernardo Provenzano, il quale, quindi, espressamente gli disse che il Ciancimino agiva in “missione” per conto di “cosa nostra” e che, pertanto, per quei suoi contatti con i Carabinieri aveva avuto lo “sta bene” direttamente da Salvatore Riina […]. Orbene, come si vede si tratta di una definitiva conferma di assoluta autorevolezza in quanto promanante direttamente da Bernardo Provenzano, allora alter ego di Riina, e, quindi, al vertice, insieme a quest’ultimo, dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, oltre che in diretti accertati rapporti ultratrentennali, come si è già visto sopra, con Vito Ciancimino.

Altrettanto autorevole è, inoltre, la fonte Giuffré, non soltanto per il ruolo di vertice dallo stesso ricoperto nell’ambito dell’associazione mafiosa, ma soprattutto per l’accertata ed incontestabile (perché risultante anche documentalmente da alcuni “pizzini” sequestrati) sua vicinanza con Bernardo Provenzano.

In altre parole e per tali ragioni, non soltanto deve ritenersi attendibile il racconto fatto dal Giuffré in questa sede, ma deve, altresì, ritenersi attendibile il racconto fatto dal Provenzano al Giuffré e da questi riferito sia per i rispettivi ruoli di grande rilievo che entrambi i predetti ricoprivano allora in “cosa nostra” che già di per sé non avrebbero consentito il mendacio […], sia, forse ancor più, per il rapporto di estrema reciproca fiducia degli stessi sempre alleati in uno stesso schieramento all’interno di “cosa nostra”.

D’altra parte, anche sotto il profilo logico, non si comprenderebbe perché Provenzano avrebbe dovuto mentire al Giuffré, tanto più che in quel momento i contatti con i Carabinieri non erano più attuali e il Ciancimino era ormai da tempo detenuto.

Si tratta, dunque, di una straordinaria ulteriore conferma del fatto che Vito Ciancimino, sollecitato dai Carabinieri, riusci effettivamente a mettersi in contatto con Salvatore Riina e che quest’ultimo ebbe a quel punto ad avallare l’azione del medesimo Ciancimino per sfruttare l’apertura al dialogo con la “controparte Stato” che da quell’iniziativa derivava.


L’“accelerazione” per la seconda strage – L’origine della strategia mafiosa scaturita dal volere, soprattutto, di Salvatore Riina tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, non v’è alcun dubbio che, sin dall’inizio, nel programma “a grandi linee” delineato e ratificato dai vertici di “cosa nostra” vi fosse anche l’omicidio del Dott. Borsellino in quanto simbolo, insieme al Dott. Falcone, della nuova stagione, iniziata nei primi anni ottanta, di incessante contrasto al fenomeno mafioso e di rifiuto di qualsiasi indulgenza anche verso quei settori della società e del mondo politico e imprenditoriale che ne avevano consentito, in qualche modo, lo sviluppo, sino a permeare pericolosamente molte, se non tutte, le attività pubbliche e private spesso anche oltre gli stretti ambiti territoriali siciliani.

Tuttavia, l’omicidio del Dott. Borsellino, a soli cinquantasette giorni di distanza dalla strage di Capaci, nel momento di maggiore indignazione della società civile verso il fenomeno mafioso e di conseguente reazione dello Stato anche sul fronte legislativo estrinsecatasi con il D.L. dell’8 giugno 1992 n. 306 che introduceva, sì, tra l’altro, il regime del 41 bis, ma che era stato seguito dal plateale dissenso di ampi settori del Parlamento e di giuristi che prospettavano un inammissibile superamento dei limiti delle garanzie che, comunque, uno stato di diritto democratico deve assicurare, è apparso, sia dai primi momenti, ai più, come del tutto controproducente per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, se non altro, perché, come di fatto poi è avvenuto, anche da parte di coloro che agivano in perfetta buona fede e per profonde convinzioni ideali, non sarebbe stato possibile opporre alcuna resistenza a coloro che propugnavano la necessità di un definitivo “giro di vite” nella più dura repressione del fenomeno mafioso.

Ed infatti, unanimemente, tutti i testi “politici” esaminati in questo dibattimento, non hanno mostrato alcun dubbio nel ritenere e riferire che la strage di via D’Amelio e le conseguenti reazioni della società civile, furono determinanti per stroncare i dissensi da tanti manifestati (in buona o in cattiva fede) e per giungere alla conversione in legge, senza che ne fosse snaturato l’intento fortemente repressivo del fenomeno mafioso, del decreto legge prima ricordato, col quale si ponevano le basi per l’applicazione ai mafiosi, per la prima volta, di un regime detentivo particolarmente duro e tale da impedire loro quei collegamenti con i sodali liberi che, sino ad allora, erano stati uno dei punti di forza del perpetuarsi del potere mafioso nonostante gli arresti delle sue leve di comando ed i duri colpi inferti con il maxi processo (senza dimenticare, poi, altre misure non meno importanti ai fini del contrasto alle mafie pure contenute in quel decreto legge).

Ed in effetti, può ritenersi certamente provato, all’esito dell’istruttoria dibattimentale compiuta, che il generico e generale progetto di uccidere il Dott. Borsellino (nell’ambito di quel programma che riguardava molti altri soggetti e che, però, per le più svariate ragioni, non per tutti è stato, poi, attuato) ha subito una improvvisa accelerazione ed esecuzione, ancora una volta per volere di Salvatore Riina, proprio nei giorni immediatamente precedenti quello in cui, poi, avvenne la strage di via D’Amelio.

Un primo significativo elemento di prova si trae dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca.

Quest’ultimo, invero, pur affermando espressamente di non essere a conoscenza di una eventuale accelerazione del progetto omicidiario in danno del Dott. Borsellino (”No, io non ho mai saputo di accelerazioni su questo fatto”), ha, tuttavia, riferito che, dopo la strage di Capaci, lo stesso Riina gli aveva dato incarico di organizzare l’uccisione dell’On. Mannino e che, tuttavia, pochi giorni prima della strage di via D’Amelio, quell’incarico gli era stato revocato senza dargli alcuna spiegazione, anche se egli, però, poi, aveva ricollegato quell’improvvisa revoca proprio alla sopravvenuta esecuzione di quella strage (” … dopo la strage di Capaci mi aveva dato il mandato per uccidere l’onorevole Mannino, come ho detto poco fa. A un dato punto, tramite Biondino, mi revoca il mandato ed io provvedo per fare altre cose, però non mi dice … … …. il mandato me lo dà, credo, nel secondo… primo o secondo incontro dopo Capaci…. … .. . .i1 mandato, siamo sempre là, intorno ai quindici, dieci giorni, otto giorni, venti giorni prima della strage di via D’Amelio. Biondino, attraverso Nino Gioè che neanche io lo vedo, mi dice di fermare per quanto riguarda l’attentato ai danni… … .. … E non saprò mai per quale motivo mi revoca questo mandato … […]).

Un primo riscontro alle propalazioni sul punto rese da Brusca si rinviene, già nelle dichiarazioni rese da Salvatore Cancemi in occasione del suo esame dibattimentale avvenuto nelle udienze del 17, 23, 24 e 29 giugno 1999 nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio (v. trascrizioni acquisite agli atti).

Il Cancemi, infatti, ha riferito di una riunione, avvenuta dopo la strage di Capaci, nella quale il Riina, assumendosene la responsabilità, aveva manifestato l’improvvisa urgenza di uccidere anche il Dott. Borsellino (“Poi mi ricordo che un ‘altra riunione c’è stata credo giugno … comunque dopo la strage del dottore Falcone, sicuramente dopo, ci … pure nella casa di Guddo c’è stata un ‘altra … un’altra riunione dove il Riina si era appartato così, sempre nello stesso appartamento, nello stesso … dove eravamo noi con Ganci Raffaele, che si sono detti delle cose e io c ‘ho sentito dire: “La responsabilità è mia”. Il riferimento era pure quello là. Poi, quando io … ce ne siamo andati, mi ricordo che me ne sono andato con Ganci Raffaele e mi disse, dice: “Questo ci vuole rovinare a tutti”, questo riferen. .. parlando per Riina … …. ….. io in quella riunione mi ricordo che i presenti eravamo io, Biondino, Biondino Salvatore, Ganci Raffaele … Ganci Raffaele, il Riina e credo anche La Barbera Michelangelo. […] Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci. Ganci mi disse: “Questo ci… ci vuole rovinare a tutti”. quindi la cosa era … il riferimento era per il dottor Borsellino .. … …. mi ricordo, sforzando i miei ricordi, perché, ripeto, magari prima qualche cosa uno non la ricorda e la ricorda più avanti, mi ricordo, si, che si è fatto anche in quella data il nome del dottor Borsellino … … .. .Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa … di una cosa veloce, aveva … io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva … la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. Questa è l’impressione che io ho avuto … …. …. io ho capito che c’era qualcosa che Riina aveva… che questa cosa la doveva portare subito a compimento, […]come se lui aveva un impegno preso che doveva fare questa strage del dottor Borsellino .. “).

Per completezza, però, va detto che tali dichiarazioni di Cancemi seguono precedenti dichiarazioni con le quali il predetto aveva affermato di non sapere nulla della uccisione del Dott. Borsellino e che, conseguentemente, gli sono state puntualmente contestate dai difensori degli imputati di quel processo […].

Il Cancemi, a propria giustificazione, ha allora addotto la difficoltà e complessità del percorso che lo aveva infine indotto ad aprirsi ad una piena collaborazione con la Giustizia (” … scusatemi l’espressione, mi dovete capire. La mia collaborazione, Signor Presidente, non è stata una passeggiata, la mia collaborazione è stata una cosa incredibile; non è stato come quelli che sono arrivati dopo che hanno trovato tutto in un piatto d’argento. La mia collaborazione è stato quello che io dovevo andare ammettere delle cose così gravi, così terribili davanti a Voi, che per me era come se io l’avessi rifatto di nuovo, come se io li stavo commettendo davanti a Voi. A me mi succedeva questo qua, quindi, io ho avuto di bisogno del tempo di superare tutte queste cose, non è stato perché io volevo sfuggire alla Giustizia, perché se io volevo sfuggire alla Giustizia, Signor Presidente, io mi pigliavo i soldi che avevo e me ne andavo con la mia famiglia, lo me ne andavo in un altro angolo del mondo. invece no, non l’ho fatto questo, Signor Presidente, io ho voluto dare una mano alla Giustizia per distruggere questo male; però ho avuto di bisogno del tempo, perché i travagli … lo so io quello che ho avuto nella mia persona. […]”).

Ora, per la valutazione della attendibilità generica di Salvatore Cancemi si rimanda a quanto osservato nella Parte Prima di paragrafo 4.5. questa sentenza, Capitolo 4, ma, a prescindere dalle criticità della collaborazione del Cancemi ivi evidenziate, così come delle criticità della collaborazione di Brusca (v. Parte Prima di questa sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4), qui deve dirsi che le predette risultanze probatorie ricavate dai racconti di Brusca e Cancemi, hanno trovato un inaspettato straordinario riscontro nelle parole dello stesso Salvatore Riina, allorché questi, come si vedrà meglio più avanti in un apposito Capitolo che approfondirà tale risultanza, è stato intercettato all’interno del carcere ove era detenuto.

Invero, rinviando al preannunciato approfondimento, può qui, però, già ricordarsi che effettivamente da quelle intercettazioni si ricava che, mentre l’esecuzione della strage di Capaci è stata pianificata, studiata ed organizzata con largo anticipo, la strage di via D’Amelio è stata eseguita a seguito di una improvvisa accelerazione maturata soltanto nei giorni immediatamente precedenti […].

Lo stesso Riina, dunque, ha confermato che l’attentato di via D’Amelio è stato “…studiato alla giornata…” e deciso (ovviamente nella sua concreta attuazione, perché la “condanna a morte” del Dott. Borsellino era risalente nel tempo […]) solo qualche giorno prima […].

Non solo, ma dalla medesima intercettazione si ricava, altresì, la – anche in questo caso straordinaria – conferma delle dichiarazioni del Brusca nella parte in cui questi ha riferito che dopo la strage di Capaci non era prevista nell’immediato l’uccisione del Dott. Borsellino.

[…] Dalle parole di Riina sopra ricordate si ha la conferma che effettivamente sino a pochi giorni prima della strage di via D’Amelio (fatto che conferma anche la dichiarazione di Brusca nella parte in cui questi ha riferito che conseguentemente gli fu revocato l’incarico di uccidere l’On. Mannino solo tre giorni prima della detta strage) non era stata decisa l’attuazione del progetto omicidiario nei confronti del Dott. Borsellino, tanto che il Riina racconta, da un lato, di avere, quindi, prospettato ad un certo punto ad un suo ignoto interlocutore la necessità di operare immediatamente (“.. Arriva chidu. .. ma subitu … subitu”) e, dall’altro, la sorpresa manifestata da quel medesimo suo interlocutore per quella improvvisa decisione di uccidere in quel momento anche il “secondo” e cioè il Dott. Borsellino dopo che il “primo”, il Dott. Falcone, era stato ucciso poco tempo prima (“Eh.. . Ma rici… macara u secunnu?”), ribadendo, poi, in una successiva intercettazione di avere autorizzato (“Fai … fa (inc).”) l’esecuzione della strage di via D’Amelio appena due giorni prima del giorno in cui questa avvenne ( …. “dopudumani … ” dici …).

Alla stregua anche di tali straordinari riscontri deve totalmente disattendersi il tentativo della difesa degli imputati Subranni e Mori di contestare le dichiarazioni rese da Brusca Giovanni con riferimento alla preparazione di un attentato ai danni dell’On. Mannino prima della strage di via D’Amelio (v. trascrizione della discussione ali ‘udienza del 2 marzo 2018).

Secondo la difesa, infatti, le dette dichiarazioni sarebbero smentite, sotto il profilo temporale, soprattutto dalle dichiarazioni di Gioacchino La Barbera, oltre che da quelle di Siino.

Orbene, rileva la Corte che, in realtà, non v’è alcuna incompatibilità tra le dichiarazioni di Brusca relative all’attentato ai danni dell’On. Mannino che egli, su incarico di Riina, aveva iniziato a studiare prima di sospenderlo su richiesta dello stesso Riina pochi giorni prima della strage di via D’Amelio e le dichiarazioni di La Barbera che, invece, riferiscono, come si vedrà, della ulteriore preparazione del medesimo attentato di cui egli ebbe ad occuparsi nei mesi successivi.

Si tratta, infatti, di due episodi diversi che si collocano in due diverse fasi temporali, la prima quella già ampiamente descritta sopra, la seconda quella che, come si vedrà più avanti, ebbe ad aprirsi nell’autunno del 1992 in continuità con gli incontri tra i Carabinieri e Vito Ciancimino (oltre che con la vicenda Bellini di cui pure si tratterà più avanti) e nella quale si progettò la ripresa degli attentati, non soltanto nei confronti dell’On. Mannino, ma anche del Dott. Pietro Grasso e di altri.

[…] L’accertata diversità dei due episodi cui si sono rispettivamente riferiti Brusca e La Barbera e della loro compatibilità e coerenza temporale anche in relazione agli sviluppi di tutti gli accadimenti di cui si darà conto a partire dal successivo Capitolo, rende superfluo esaminare in proposito le propalazioni di Siino, citate dalla difesa degli imputati Subranni e Mori a sostegno delle dichiarazioni di La Barbera e per smentire quelle di Brusca, in quanto si riferiscono evidentemente, per il profilo temporale che se ne ricava, semmai confermandolo, al secondo episodio relativo alla ripresa del progetto di attentato in danno dell’On. Mannino, dopo che, nel precedente mese di luglio, il medesimo progetto, in quel caso affidato a Brusca, era stato sospeso.

Alla stregua delle suddette risultanze che comprovano l’improvvisa accelerazione della decisione di uccidere il Dott. Borsellino in quel momento non ancora in fase di attuazione, deve necessariamente concludersi, per ineludibile deduzione logica, che effettivamente nei giorni precedenti la strage di via D’Amelio ebbe a verificarsi un qualche accadimento che ha indotto il Riina a soprassedere all’omicidio dell’On. Mannino ed a concentrarsi, invece, con immediatezza, nella uccisione del Dott. Borsellino, nonostante questa non fosse, in quel momento, all’ordine del giorno per i prevedibili effetti controproducenti di cui si è detto (certamente ben più dirompenti di quelli che sarebbero derivati, invece, dalla programmata uccisione dell’On. Mannino, dato di fatto, che, in via obiettiva, può ricavarsi col parallelo confronto tra le reazioni all’omicidio dell’On. Lima e quelle all’uccisione del Dott. Falcone).

Ed allora, è opportuno esaminare anche due aspetti della complessa attività istruttoria dibattimentale compiuta che appaiono in qualche modo connessi con il tema affrontato in questo capitolo, aggiungendo, infine, anche alcune considerazioni su un ulteriore tema particolarmente caro alle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno ancorché a questa Corte ne sia sfuggita appieno la rilevanza.


Quella confidenza sul generale Subranni Prima di passare al tema dei contatti dei Carabinieri (e, specificamente, degli imputati Subranni, Mori e De Donno) con Vito Ciancimino, però, è opportuno qualche cenno ad un’altra vicenda che, come detto, è, in qualche modo, collegata agli accadi menti che si verificarono nel giorni immediatamente precedenti la strage di Via D’Amelio e che pure è stata oggetto di attività istruttoria nel presente processo.

Infatti, Agnese Piraino Leto, coniuge del Dott. Paolo Borsellino, ancorché per la prima volta soltanto nel 2009, ha riferito una confidenza che il marito ebbe a farle pochi giorni prima di morire riguardo a quanto dallo stesso appreso sul Gen. Subranni.

In particolare, la Sig.ra Piraino Leto, sentita il 18 gennaio 2009 […], dopo avere raccontato che il marito aveva numerose amicizie nell’Arma dei Carabinieri per la quale nutriva una vera e propria ammirazione (“Mio marito vantava numerose amicizie tra Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, con i quali aveva anche frequenti rapporti di tipo professionale, nutrendo egli una vera e propria ammirazione verso l’Arma dei Carabinieri”), si è soffermata sui rapporti con il Gen. Subranni, che il marito medesimo aveva avuto modo di conoscere quando il predetto era Comandante della Regione Sicilia ed aveva, comunque, frequentato sporadicamente solo per ragioni professionali […].

Ebbene, la Sig.ra Piraino Leto, nel riferire di ignorare se il marito si fosse riferito al Gen. Subranni allorché, come raccontato dai Dott.ri Alessandra Camassa e Massimo Russo, piangendo, aveva detto loro di essere stato tradito da un amico (“Prendo atto che le SS. LL. mi rappresentano che la dott.ssa Alessandra Camassa ed il dotto Massimo Russo hanno riferito di essere stati testimoni di uno sfogo di Paolo il quale, piangendo, disse di essere stato tradito da un amico. Ignoro a chi si riferisse mio marito e, pertanto, non posso affermare che si trattasse del Generale Subranni”), tuttavia, ha aggiunto spontaneamente, a quel punto, il racconto di un episodio che all’epoca l’aveva colpita moltissimo e del quale fino ad allora non aveva mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri (“Tuttavia ricordo un episodio che all’epoca mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri, alla quale mi legano rapporti di stima ed ammirazione”).

Tale accadimento si era verificato il giorno 15 luglio 1992, data individuata con certezza dalla Sig.ra Piraino Leto sulla scorta della copia fotostatica dell’agenda grigia del marito dalla quale risultava che il giorno 16 luglio 1992 (giorno che ricordava essere successivo all’episodio riferito) il marito si era recato a Roma per motivi di lavoro (“Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992: ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrano, il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza”).

Ebbene, in quell’occasione, intorno alle ore 19,00, mentre entrambi i coniugi si trovavano nel balcone di casa, il marito, manifestando uno stato di particolare agitazione tanto da sentirsi male ed avere conati di vomito, le aveva detto che aveva “visto la mafia in diretta” perché gli avevano riferito che “il Generale Subranni era punciutu”, termine col quale, notoriamente, si indicano i soggetti formalmente affiliati alla mafia […].

Indi, la teste ha precisato di non avere chiesto al marito qual era la fonte di quella confidenza da lui ricevuta, anche se le era venuto in mente che, proprio in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri (”Non chiesi, tuttavia, a Paolo da chi avesse ricevuto tale confidenza, anche se non potei fare a meno di rammentare che, in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri”).

La teste, poi, ha aggiunto che il giorno 18 luglio 1992 era sabato e che col marito erano andati a fare una passeggiata sul lungomare di Carini senza scorta, quando, ad un certo momento, il marito medesimo, sconfortato, le aveva detto che non sarebbe stata la mafia, della quale non aveva paura, ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere, senza, tuttavia, nonostante le sue insistenze, farle alcun nome e ciò per non renderla depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la sua incolumità, costituendo, dunque, un’eccezione a detta regola la confidenza che qualche giorno prima le aveva fatto riguardo al Gen. Subranni (“Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo. Non mi fece alcun nome, malgrado io gli avessi chiesto ulteriori spiegazioni, ciò anche per non rendermi depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la mia incolumità; infatti la confidenza su Subranni costituisce un’eccezione a questa regola”).

L’episodio è stato, quindi, confermato dalla teste anche il successivo 27 gennaio 2010[…]. Nella stessa occasione (ma su ciò si tornerà anche più avanti) la teste ha anche aggiunto che il marito, dopo la strage di Capaci, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle Istituzioni e mafiosi (“… mi ha accennato qualcosa e non in quel contesto, che c’era una trattativa tra la Mafia e lo Stato, ma che durava da vero un po’ di tempo… dopo la strage di via … di Capaci, dice che c’era un colloquio tra la Mafia e alcuni pezzi «infedeli» dello Stato, e non mi dice altro… “) .

Orbene, ritiene la Corte che, anche in forza delle complessive risultanze probatorie acquisite, non via sia alcuna ragione di dubitare della assoluta veridicità dell’episodio raccontato dalla Sig.ra Piraino Leto, veridicità che, tuttavia, come si dirà, può estendersi, sì, anche al ricevimento di quella notizia da parte del Dott. Borsellino, ma non anche, ovviamente, al contenuto intrinseco della stessa, ancorché la reazione non usuale di una persona e di un magistrato qual era il Dott. Borsellino, certamente uso a ben valutare le più disparate informazioni raccolte nelle sue molteplici indagini in materia di mafia (peraltro, proprio in quegli stessi giorni, aveva raccolto anche informazioni di particolare gravità persino su colleghi con i quali lavorava da anni, oltre che su Bruno Contrada), induca a ritenere che quella sua conoscenza rassegnata alla moglie in quell’occasione e con quelle modalità fosse fondata su elementi da lui ritenuti particolarmente solidi.

Occorre, invero, rilevare in proposito, innanzitutto, che già qualche anno prima, tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, la Sig.ra Piraino Leto aveva raccontato il medesimo episodio, sostanzialmente negli stessi termini, al Dott. Cavaliero, magistrato legato da intenso rapporto di frequentazione ed amicizia con la famiglia Borsellino, così come dallo stesso confermato in sede di esame testimoniale anche nel presente processo.

[…] II teste ha aggiunto che la moglie del Dott. Borsellino non gli disse quanto tempo prima di morire il marito le aveva fatto quella confidenza, ma certamente ciò era avvenuto dopo la strage di Capaci […], confermando, però, poi, le sue precedenti dichiarazioni con le quali aveva riferito che il Dott. Borsellino aveva parlato alla moglie del Gen. Subranni qualche giorno prima di morire […].

Il teste, quindi, ha ribadito la sua meraviglia per quella confidenza e che, tuttavia, non chiese null’altro alla Sig.ra Piraino Leto (“[…] Non chiesi nulla alla signora Agnese perché la signora Agnese era già sufficientemente diciamo infastidita nel dirmelo perché lei era profondamente amareggiata per quella che era stata la reazione violenta che il marito aveva avuto di aver vomitato immediatamente dopo di averle detto questa notizia, e quindi lei era amareggiata per quella che era la condizione emotiva del marito. Devo essere sincero, non ci fu assolutamente da parte mia nessuna domanda ulteriore alla signora Agnese relativamente a quello che mi aveva detto … “), neppure se ne avesse riferito all’A.G. […] e ciò conoscendo le preoccupazioni che ancora in quel periodo la Sig.ra Borsellino nutriva per i figli […].

Quanto al Gen. Subranni, poi, il teste ha precisato che gli era stato presentato proprio dal Dott. Borsellino e che gli stessi intrattenevano buoni rapporti […].

In sede di controesame delle difese degli imputati, quindi, il teste ha aggiunto di avere un vago ricordo che forse effettivamente l’elicottero per accompagnare il Dott. Borsellino a Salerno per il battesimo del figlio dello stesso teste fosse stato messo a disposizione dal Gen. Subranni e che forse anche quest’ultimo era a bordo […], che il Dott. Borsellino non gli fece mai alcuna confidenza né sul Gen. Mori, né sul Gen. Subranni […] e che la Sig.ra Borsellino non aggiunse alcun particolare a proposito di quanto dettogli dal marito riguardo al Gen. Subranni se non che il marito in quella occasione si sentì male (”No, aggiunse solamente il dettaglio che Paolo, quando le riferì a lei questa frase, vomitò e si sentì male”), escludendo, peraltro, che, per quello che era il suo stato d’animo in quell’ultimo periodo, il Dott. Borsellino avrebbe potuto fare anche a lui una confidenza quale quella riferita dalla moglie riguardo al Gen. Subranni […], tanto più che dopo l’incontro del 12 luglio, egli non aveva più parlato col Dott. Borsellino […].

* * *  La testimonianza di Agnese Piraino Leto, per l’autorevolezza tanto di quest’ultima in quanto moglie di Paolo Borsellino, tanto del teste – il Dott. Cavaliero, magistrato – che l’aveva riscontrata nei termini sopra riportati, è stata oggetto di forte contestazione da parte della difesa di Antonio Subranni e anche da parte di quest’ultimo personalmente, il quale, infatti, in proposito, all’udienza del 22 settembre 2017, ha voluto rendere le seguenti spontanee dichiarazioni:

” … Altra tematica è quella relativa alle dichiarazioni in atti della signora Agnese Borsellino, secondo la quale il marito le avrebbe detto, in data 15 luglio 92, che il sottoscritto era punciutu, dichiarazioni riferite in tale sede anche dal Dottor Cavaliero, per averle apprese dalla signora Borsellino. Prescindo dal fatto che la Procura di Caltanissetta ha scrupolosamente verificato la fondatezza di tale affermazione, anche attraverso l’escussione dei collaboratori che il Dottor Borsellino, all’epoca, interrogava. E non trovando alcun riscontro, ha chiesto e ottenuto l’archiviazione del procedimento iscritto a mio carico.

[…] Una considerazione s’impone alla luce della testimonianza del Dottor Cardella ed attiene ai rapporti tra i Carabinieri del ROS e la famiglia del Dottor Borsellino. Essi continuarono anche dopo la tragica fine del Magistrato nei termini riferiti dal Teste escusso. Mi domando, a prescindere dalla certezza sulla partecipazione del sottoscritto ali ‘incontro, di cui ha parlato il Dottor Cardella, se veramente il sottoscritto fosse stato o anche solo sospettato di essere punciutu, la signora Borsellino si sarebbe recata presso il Comando dal quale dipende il ROS per incontrare Ufficiali del ROS, con il fondato rischio di incontrare il sottoscritto? Inoltre, è emerso, in sede processuale, che il 16 febbraio 93 la signora Borsellino si recò al ROS e, nella stessa sera, vi fu anche una cena. Io non ho un ricordo specifico ma mi chiedo: se il sottoscritto fosse stato – o anche solo sospettato – di essere punciutu, la signora Borsellino si sarebbe recata presso il ROS con il rischio di un incontro anche casuale, ma comunque non gradito, con il sottoscritto, allora Comandante? Per ora mi limito a queste dichiarazioni sul tema, riservandomi, eventualmente, alcune puntualizzazioni qualora ciò si rendesse necessario, ad esito di altre deposizioni testimoniali dalle quali emergerà, lo dico sin d’ora, atteso che i Testi cui mi riferisco sono stati escussi nel processo a carico dei miei collaboratori, Generale Mori e Colonnello Obinu, che le preoccupazioni del Dottor Borsellino non erano per il sottoscritto ma per i suoi colleghi e per le infedeltà dei suoi colleghi, ben rappresentate dalla frase: “un amico mi ha tradito”

* * *  Tuttavia, la Corte ritiene che, alla stregua delle risultanze prima esposte, può concludersi che nessuno degli elementi opposti dalla difesa dell’imputato Subranni, e da questi anche personalmente, per porre in dubbio la dichiarazione della Sig.ra Piraino Leto, appare idoneo ad inficiarne l’attendibilità.

In particolare:

non lo è, in sé, il fatto che l’episodio sia stato riferito soltanto molti anni dopo, poiché può essere compresa la remora della Sig.ra Borsellino nel riferire quella scarna confidenza, che, senza alcuna specificazione, accusava un alto esponente dell’ Arma dei Carabinieri nei cui confronti, sia il marito che tutta la famiglia Borsellino nutrivano sentimenti di rispetto, stima e riconoscenza. D’altra parte, non si evidenzia alcuna plausibile ragione per la quale la Sig.ra Piraino Leto avrebbe dovuto, ad un certo punto, deliberatamente elaborare un racconto falso, né si comprenderebbe perché, ove anche ciò, in ipotesi, avesse fatto per scopi non noti, abbia poi atteso altri anni (dal 2004 quando già ebbe a raccontare l’episodio al Dott. Cavaliero sino al 2009) per riferire il fatto alla A.G.; non lo è la circostanza che la Sig.ra Piraino Leto abbia continuato a partecipare a manifestazioni organizzate dall’Arma dei Carabinieri poiché la notizia riguardante il solo Gen. Subranni non poteva, ovviamente, coinvolgere l’intera Istituzione verso la quale, come detto, tutta la famiglia Borsellino aveva sempre nutrito la massima fiducia e non v’è, peraltro, alcuna prova certa che a taluna di queste manifestazioni abbia incontrato ed eventualmente salutato anche il Gen. Subranni (v. attestazione trasmessa dal Comando Generale dell’ Arma dei Carabinieri in data 29 maggio 2012, a firma del Capo del II Reparto, prodotta dalla difesa dell’imputato Subranni relativa a visite della signora Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino, negli anni 1993 e 1994, secondo la quale ” .. agli atti di questo Comando Generale risultano due incontri avvenuti, rispettivamente in data 13 maggio 1993 e 28 gennaio 1994 tra il Comandante Generale protempore, Gen. C.A. Luigi Federici, e la Sig.ra Agnese Piraino Leto, ved. Borsellino”, nonché le stesse spontanee dichiarazioni di Subranni nelle quali si fa riferimento soltanto a possibili occasioni di incontri, in concreto, però, non verificatesi); non lo è il fatto che ancora l’11 luglio 1992 il Dott. Borsellino fosse in compagnia del Gen. Subranni allorché ebbe a recarsi a Salerno e che nulla il medesimo Dott. Borsellino abbia detto al collega Cavaliero, atteso che la Sig.ra Borsellino ha collocato l’episodio nella settimana antecedente la strage di via D’Amelio e, più precisamente, nel pomeriggio del giorno 15 luglio 1992, così che è possibile, da un lato, escludere che quella notizia riguardante il Gen. Subranni possa essere stata la causa dello scoramento manifestato dal Dott. Borsellino ai colleghi Camassa e Russo in periodo antecedente (nel giugno 1992) tanto più che in questo caso non si giustificherebbe dopo un tempo così lungo una reazione emotiva talmente intensa da provocare persino conati di vomito, e, dall’altro, trarre conferma che effettivamente il Dott. Borsellino ebbe ad apprendere quella sconvolgente notizia soltanto dopo essersi trovato in compagnia del Gen. Subranni in occasione del viaggio a Salerno, ovvero, come ipotizzato dal P.M. nel corso della sua requisitoria (v. trascrizione udienza dell’11 gennaio 2018), anche se ciò appare alla Corte meno probabile, ebbe a trarre la conclusione poi rassegnata alla moglie da qualche condotta del Subranni nei giorni in cui si erano incontrati (il 10 e l’11 luglio, secondo quanto riferito da quest’ultimo imputato), tanto da determinargli lo stato di particolare agitazione, di cui pure ha riferito il teste Cavaliero, manifestato in occasione della ricerca spasmodica dell’agenda personale, che, ad un certo momento, il Dott. Borsellino aveva temuto di avere smarrito (v. testimonianza Cavaliero: ” … Paolo ebbe la percezione che non teneva l’agenda appresso. Ricordo che mi fece quasi smontare la macchina, nonostante questa agenda non fosse uno spillo. Lui era … … … Era visibilmente agitato. era visibilmente agitato … “); non lo sono, infine, per le medesime ragioni, né la cena cui il Dott. Borsellino ebbe a partecipare a Terrasini nel giugno 1992 con la presenza di molti Carabinieri, essendo la stessa antecedente alla notizia riguardante Subranni appresa dal predetto soltanto nei giorni precedenti la strage di via D’Amelio (come detto il 15 luglio 1992 o, al più, nei giorni compresi tra l’11 e il 15 luglio 1992), né la circostanza che, dopo la strage, i familiari del Dott. Borsellino chiesero che alla perquisizione della loro abitazione fossero presenti anche Ufficiali dei Carabinieri (il Cap. Adinolfi e forse anche il Cap. Ierfone secondo quanto riferito dal teste Sinico), stante la persistente stima, comunque, nutrita dai familiari medesimi, come detto, nei confronti dell’Arma (e non inficiabile per gli eventuali comportamenti deviati di un solo suo esponente ancorché di grado elevato non legato da particolari vincoli di amicizia o frequentazione), tanto più che non va dimenticato che allora la persona più fidata e vicina al Dott. Borsellino ed ai suoi familiari era proprio un graduato dell’Arma (il M.llo Carmelo Canale), né, infine, l’incontro presso il R.O.S. con il Col. Mori e la successiva cena cui la stessa Sig.ra Piraino Leto ebbe a partecipare il 16 febbraio 1993 con il medesimo Col. Mori e con Padre Bucaro (v. annotazioni riportate nelle agende del Col. Mori nella pagina relativa alla predetta data prodotta dalle difese all’udienza dell’8 ottobre 2015), non risultando, in tali occasioni, la presenza del Gen. Subranni […].

Peraltro, non appare di certo irrilevante sottolineare che l’attendibilità della testimonianza della Sig.ra Piraino Leto non è stata sostanzialmente posta in dubbio neppure da Mori e De Donno, odierni coimputati del Subranni, allorché l’ebbero a commentare subito dopo la diffusione pubblica della notizia. E’ stata acquisita agli atti, infatti, anche un ‘intercettazione di una telefonata intercorsa tra i predetti Mori e De Donno 1’8 marzo 2012 nel corso della quale il secondo riferisce al primo la testimonianza della Sig.ra Piraino Leto di cui si era avuta, appunto pubblica notizia (“DE DONNO: che poi, qualche giorno prima di morire, le avrebbe detto che … dice: “Ho visto “, dice, “la morte in faccia “, dice, “sono sconvolto, perché mi hanno detto che Subranni è punciutu…. .. … … in questa ricostruzione, però chiaramente ehm … indaga Subranni per 416 bis Caltanissetta, perché eh. .. con questa ricostruzione, probabilmente il … diciamo così, il traditore di tutta questa storia… sarebbe il Generale Subranni, Comandante del ROS, di qui si spiega il perché lui… diciamo così, era così avvilito, proprio in virtù dei rapporti che lui aveva con Subranni”), definisce la medesima Sig.ra Piraino Leto “corretta” perché non li aveva chiamati in causa (“La signora… per carità, io non ho letto il verbale, però sembrerebbe teoricamente così corretta, nel senso che la signora, volendo, poteva raccontare quello che voleva … … …. cioè poteva … Visto che c’è tutto questo … questa cosa poi la racconta adesso la signora… …. …. poteva pure… poteva pure inventarsi … che ne so, che il marito le aveva parlato di lei, di me e … ….. …. della trattativa, e invece su questo è molto corretta, cioè non dice niente, dice: “Non mi ha mai parlato di trattativa, non mi ha mai parlato di questi Carabinieri, non mi ha mai detto niente” … “) e osserva che la detta teste non avrebbe avuto alcuna ragione di accusare ingiustamente Subranni (” …. racconta solo ‘sto fatto su Subranni, il ché … se si voglia ammettere… cioè, perché pigliarsela con Subranni? Probabilmente… non lo so dico, eh, però ipotizzo. può darsi pure che sia vera ‘sta storia che gli ha fàtto ‘sta confidenza Borsellino. Però il punto è: chi cazzo glielo ha detto a Borsellino, ammesso che sia vera ‘sta storia … …….. ammesso che sia vero pure che lui abbia fatto questa confidenza alla signora, eh, però adesso non si sa chi gliel ‘ha detta ‘sta … e chi gli ha raccontato ‘sta stronzata a … a Borsellino? Sicuramente, se gliel ‘hanno raccontata, casomai quello era sconvolto, cioè, figuriamoci … comanda il ROS, lo conosceva da una marea, cioè gli viene ‘sto dubbio… lo posso pure capire che stava agitato in quel periodo storico, però … “), ricevendo ripetutamente assenso da Mori, sia pure quasi sempre con monosillabi per l’evidente prudenza (che caratterizza tutta la conversazione: v. trascrizione in atti) di chi sa – o quanto meno non esclude – di potere essere intercettato.

Anzi, De Donno è ancora più esplicito in una conversazione immediatamente successiva con tale “RAF”, pure intercettata ed acquisita agli atti, nel corso della quale ribadisce di ritenere verosimile che la Sig.ra Piraino Leto avesse detto la verità non avendo alcuna ragione di mentire […]. Ciò detto, come già anticipato sopra, se non v’è ragione di dubitare di quanto raccontato dalla Sig.ra Piraino Leto, però, occorre puntualizzare che, alla stregua della detta testimonianza, può ritenersi provato soltanto:

che il Dott. Borsellino nei giorni immediatamente successivi al suo viaggio a Salerno (e, quindi, nel periodo tra il 12 e il 15 luglio) o, al più (anche se, a parere della Corte, ciò è meno probabile), negli stessi giorni del detto viaggio nei quali aveva incontrato Subranni (il 10 e l’11 luglio 1992), ebbe ad apprendere da fonte non precisata – o, quanto meno, ebbe a trarre la personale convinzione – che il Gen. Subranni fosse affiliato alla mafia; che il Dott. Borsellino, ritenendo evidentemente, fondata quell’informazione o convinzione, ne rimase talmente sconvolto da sentirsi male fisicamente e, inusualmente, da condividere quella informazione con la moglie.

Tuttavia, non essendo stato possibile, invece, individuare la fonte di quella notizia (ed anzi, essendo escluso che possa essersi trattato di Gaspare Mutolo che il Dott. Borsellino stava interrogando in quei giorni), né tanto meno ricostruire le ragioni per le quali il Dott. Borsellino giunse alla predetta conclusione (il collegamento di essa con la “trattativa” cui ha fatto cenno il P.M. nel corso della sua requisitoria non va oltre la mera – ancorché non implausibile – ipotesi), non è possibile, invece, valutare la fondatezza o meno della notizia o conclusione medesime e, quindi, trarre da esse conferma alle accuse mosse nel presente processo a carico del Gen. Subranni, né, tanto meno, seppur in astratto coerenti se riferite in qualche modo ai contatti intrapresi dai Carabinieri con i vertici mafiosi di cui si dirà nel Capitolo che segue, metterle direttamente in relazione con quell’accelerazione dell’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino di cui tratta il presente Capitolo.


La versione degli alti ufficiali  Sono state, altresì, acquisite le testimonianze rese dagli odierni imputati Mori e De Donno allorché vennero esaminati nel processo per la strage di via D’Amelio denominato “Borsellino ter” all’udienza del 27 marzo 1999.

[…] E’ opportuno, invece, riportare qui di seguito una sintesi della deposizione resa

da Mario Mori: “[…] P.M dott. DI MATTEO: – … Le volevo chiedere se corrisponde a verità il fatto che lei nella seconda metà del ’92 ha avuto contatti con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino ed eventualmente ci dirà … intanto ci dica se sì o no; TESTE MORI: – Sì, ho avuto contatti…. … …Sì. Faccio riferimento, giusto per puntualizzare e temporalizzare i vari momenti… … … Allora, per temporalizzare cominciamo a dire che … a puntualizzare alcune date. Il 24 o 25 di maggio c’è l’attentato a Capaci; muore Giovanni Falcone, la signora e la scorta. Fu un momento di… di crisi generale delle Istituzioni per la società italiana, che plasticamente, anche se ingiustamente, si può rappresentare con il volto del dottor Caponnetto, che dice: “É finita”. Cioè, lo Stato era in ginocchio in quel momento. E noi investigatori, i magistrati, la Polizia Giudiziaria, eravamo in un momento di… quasi di buio totale. […] E definii due tipi di … di attività: una quello della ricerca specifica del capo di “Cosa Nostra” attraverso un gruppo scelto e individuato da noi nel ros … tra il nostro personale che su … anche su indicazioni dell’allora maresciallo Lombardo, che poi si suicidò anni dopo, cominciò a sviluppare l’indagine esclusiva volta alla ricerca di Salvatore Riina.

Attivai poi tutto il personale che si interessava di criminalità organizzata di tipo mafioso perché si … si trovassero delle fonti informative che potessero darci un quadro di conoscenze su cui sviluppare un’attività più incisiva. In questo secondo aspetto, in questo secondo ambito, si fece avanti con una proposta l’allora capitano De Danno. De Donno aveva svolto, […] una serie di indagini su Vito Ciancimino, in particolare sugli appalti per la manutenzione strade e per la manutenzione degli edifici scolastici […] De Donno mi fece questa proposta, dice: ”[…]Perché non proviamo ad andare sotto a Ciancimino? Perché l’uomo, dato il suo livello, senz’altro può conoscere fatti, cose, personaggi che in qualche modo ci potrebbero ampliare le nostre conoscenze”. Pur dubbioso dell’esito dissi: “Va bé, proviamo”. E quindi ci fu un contatto, peraltro molto facile, perché c’erano queste udienze in corso e quindi era naturale il… il contatto tra il capitano De Donno e Ciancimino. […] P.M dott.ssa PALMA: – … nei precedenti incontri o prima della cattura di Riina, ovviamente, il Ciancimino fornì mai qualche elemento, qualche informazione utile per voi e che vi portò alla cattura di Riina?; TESTE MORI: – La cattura di Riina é avvenuta per tutt’altra vicenda investigativa … …. … La vicenda nasce nell’estate del ’92. Io decido di costituire questo Reparto, un gruppo scelto di un quindici – sedici persone comandati da un ufficiale, che scende a Palermo durante il mese di settembre e comincia un’attività su di un input preciso, che ci viene fornito … Preciso … si fa per dire preciso, comunque era qualche cosa già. Che ci viene fornito dal maresciallo Lombardo, il quale dice che… di avere acquisito notizie secondo cui il punto di riferimento, chi insomma voleva parlare con Totò Riina doveva passare attraverso Raffaele Ganci, che era il capo della famiglia della Noce. Su questo elemento noi decidiamo… io mi fidavo di Lombardo, perché Lombardo era un grande conoscitore di cose di mafia. Cioè, mi fidai della notizia, della bontà della notizia, per cui noi puntammo la nostra attività, ed è documentale, perché poi è stata… è processualizzata ed è tutta l’attività di pedinamento, osservazione e riscontro soprattutto video delle attività sulla famiglia Ganci, ed in particolare prima su Raffaele, il padre, e poi i suoi due figli, Domenico e l’altro non mi ricordo come si chiama. Nel corso delle indagini, delle… e dei servizi sul terreno il gruppo operativo seguì in una circostanza Domenico, mi sembra, Domenico Ganci, comunque uno dei due figli, fino a via Bernini, là, dove poi a suo tempo è stato visto uscire e poi quindi arrestato Riina. E acquisii questo dato di fatto: lui si… entrò dentro il comprensorio e loro si fermarono. Ad un certo punto, verso il 10 di maggio, io ho un appuntamento … 10 di gennaio ’93, ho un appuntamento a Torino con Giancarlo Caselli, il quale mi aveva chiesto di andare su perché in previsione, dopo pochi giorni, di assumere la carica di Procuratore di Palermo voleva avere un quadro della situazione dal punto di vista investigativo e operativo. Arrivato sul posto mi fil segnalato di portarmi, appena arrivato all’aeroporto, al Comando della Brigata Carabinieri perché lì mi aspettava il dottor Caselli. Lì c’era il dottor Caselli e il generale Delfino e mi sottoposero un verbale di… di confessione fatto da Baldassare Di Maggio a proposito dei suoi rapporti con Salvatore Riina. Mi dissero altresì che sulla base delle indicazioni che avevano dato … che aveva dato Di Maggio circa i luoghi dove si poteva trovare, dove aveva accompagnato, dove aveva visto Riina, stavano per partire l’indomani delle perquisizioni. Chiesi e feci notare l’incongruità dell’operazione che si stava per svolgere perché dico: “Questi sono fatti che perlomeno si riferiscono a due anni fa. Se nel frattempo qualche cosa è cambiata e noi facciamo delle … delle perquisizioni a tappeto su tutti gli obiettivi, chiaramente se ci scappa Riina non lo prendiamo più, perché questo sa che qualcheduno sta parlando e ha indicato anche con cognizione di causa del posti precisi”. Chiesi e ottenni dal dottor Caselli di fare alcuni riscontri attraverso il mio Gruppo Operativo che già operava giù in Sicilia. Si mise in contatto il comandante di questo Reparto con il dottor Aliquò, che in quel momento reggeva la Procura, e si stabilivano i servizi di osservazione intorno ai punti indicati dal Baldassare Di Maggio.

Ad un certo punto, dopo due o tre giorni, il dottore Aliquò, visto che non si concludeva nulla, decise di intervenire.

L’ufficiale del mio Reparto chiese altre 24 ore di tempo al dottore Aliquò, che le concesse, per sottoporre al … il luogo, la visione del luogo al Di Maggio dove aveva visto Domenico Ganci entrare in una determinata strada. Portarono sul posto Baldassare Di Maggio; anche questo é verbalizzato da Baldassare Di Maggio in tutti … in tanti procedimenti. Non riconobbe, dice: “Io non sono mai stato qua, in via Bernini, non la conosco”. Nella serata furono sottoposti a Baldassare Di Maggio delle riprese televisive … furono sottoposte delle riprese televisive sviluppate in quella giornata dai nostri uomini sull’obiettivo di via Bernini e nella nottata Baldassare Di Maggio riconobbe da una macchina … uscì da via Bernini una macchina con a bordo la … Bagarella, la moglie di Totò Riina e mi sembra di ricordare che riconobbe anche il figlio che si aggirava in bicicletta nella zona, Giovanni. Sulla scorta di questo l’ufficiale mi telefonò, (io) a Palermo, e decidemmo l’intervento per la mattina successiva. Cosa che avvenne, perché verso le ot … ci portammo di nuovo questa volta Baldassare Di Maggio dentro una macchina davanti all’obiettivo e lui ci indicò all’uscita la macchina che era entrata pochi minuti prima con la persona che lui conosceva, ma non sapeva in quel momento indicare con un nome, e riuscì questa macchina con questa persona alla guida e a fianco Salvatore Riina.

Lo seguirono fino alla Rotonda, lì, non mi ricordo come si chiama, comunque un chilometro e mezzo o due, e poi lo arrestarono; …… …. P.M dott.ssa PALMA: – ….. lei ha mai sentito parlare di papello? Se ne ha sentito parlare quando, e può dirci se questo termine papello la conduce in qualche modo alla vicenda di cui ha parlato, se esistono dei collegamenti; ……… TESTE MORI: – Quando ci fu il contatto Mori – De Donno con Ciancimino, e questa parola é assolutamente … anche perché non ci furono date delle… delle condizioni, qualche cosa. Le precondizioni erano quelle che ho dette prima alla … al dottor Di Matteo e basta. Non si parlò di richieste o di altro. […]

* * * Orbene, da tale testimonianza emerge, con tutta evidenza, il tentativo di Mario Mori di “sfumare” alcune affermazioni fatte in occasione della precedente testimonianza resa a Firenze poco più di un anno prima.

Tale tentativo può riscontrarsi, ad esempio:

1) riguardo ai primigeni contatti con Vito Ciancimino nel mese di giugno 1992 e, comunque, antecedenti alla strage di via D’Amelio (“lo penso che il contatto … l’avance, diciamo, tra De Donno e Massimo Ciancimino. cioè la proposta di De Donno a Massimo Ciancimino é prima del 25; la risposta è sicuramente dopo il 25 di … di giugno, dopo l’incontro…. … …Sì, perché altrimenti ne avrei parlato con il dottor Borsellino; cosa che invece assolutamente non si è verificata; P.M dott. DI MATTEO: – E poi materialmente quando si realizza il primo contatto diretto, il primo incontro tra il capitano De Donno ed il Ciancimino?: TESTE MORI: – Guardi, questo non glielo so dire. bisognerebbe chiederlo proprio a De Donno. Certamente nel corso del mese di luglio lui si incontra con Ciancimino …. …….. Il 25 di giugno, quando incontro Borsellino, non abbiamo ancora la risposta da parte di Vito Ciancimino; … …. …. P.M dott.ssa PALMA: – Allora questa … la mia domanda era in questo senso.’ dal 25 giugno al 19 luglio ci furono degli ulteriori contatti?

Cioé, si portò a termine questa volontà di incontro fra il Ciancimino e prima il capitano De Donno e poi con lei? Cioé, prima della strage di via D’Amelio già si ebbe … ? Forse … ; TESTE MORI: – Non glielo so collocare nel tempo il momento preciso in cui Ciancimino dice.’ “Va bene, voglio… venga pure il capitano”. Se ciò é avvenuto prima del 19 o dopo. lo penso che solo De Donna lo può dire con… con esattezza .. “) a fronte della più netta indicazione precedentemente fornita il 24 gennaio 1998 […] peraltro senza alcun cenno all’attesa di risposte da parte di Vito Ciancimino non ancora pervenute sino al 25 giugno 1992 (circostanza di cui, d’altra parte, neppure De Donno aveva fatto alcun cenno […]);

2) riguardo, più in generale, a quella che egli, in prima battuta, non aveva avuto alcuna remora a definire come “trattativa” ed alle sue finalità quanto meno concorrenti di ottenere la cessazione delle stragi […];

3) riguardo alla risposta ai mafiosi su chi essi Carabinieri rappresentassero in quel frangente, anche in questo caso qui molto generica (“…”Lei non si preoccupi, andiamo avanti che poi si vedrà”….”) a fronte della inequivoca e ben più specifica affermazione della precedente testimonianza resa pure a Firenze da De Donno […];

4) riguardo all’idea originaria di cercare un contatto in “cosa nostra” che qui viene attribuita da Mori al solo De Donno senza più riferimenti – almeno espliciti – alla sua preventiva autorizzazione ed alla stessa ideazione dell’iniziativa […], mentre il 24 gennaio 1998 aveva chiaramente attribuito a sé quell’ideazione (“A fine maggio, mi sembra 24, 25, non ricordo bene, c’è la strage di Capaci ….. … …Ritenni che era un impegno morale, oltre che professionale, fare qualche cosa di più, di diverso, per venire a capo, nelle mie possibilità, di queste vicende, di questa struttura che stava distruggendo i migliori uomini dello Stato… “) e riferito, quindi, di avere espressamente autorizzato De Donno a contattare Ciancimino (“Lo autorizzai a procedere a questo tentativo”).

Deve, poi, evidenziarsi che anche in occasione della detta deposizione del 27 marzo 1999 Mori ha posticipato la conoscenza dei contatti con Ciancimino da parte di Subranni al momento successivo al primo incontro dello stesso Mori con Ciancimino in data 5 agosto 1992 […], senza alcun cenno di smentita, però, della contraria e precisa affermazione di De Donno sulla conoscenza da parte di Subranni già dei precedenti incontri dello stesso De Donno con Ciancimino (“PUBBLICO MINISTERO: … Il colonnello Mori, prima di dare il via libera a lei, per questo avvio di contatti, o anche successivamente, ha rappresentato questa iniziativa presso comandi superiori dell’Arma?; TESTE De Donno: Sì, ne parlò col comandante del ROS dell’epoca,il generale Subranni”).

[…] Nel processo a carico di Mori e Obinu per il reato di favoreggiamento Giuseppe De Donno è stato esaminato, in qualità di indagato in procedimento connesso, all’udienza dell’8 marzo 2011 e, nell’occasione, per le parti che qui rilevano, ha dichiarato:

“I rapporti con Ciancimino nascono nel giugno 1992, dopo la morte del Dottor Falcone, nel senso che prima di quella data, io non avevo avuto rapporti, diciamo così, extra investigativi, se non per esigenze di interrogatorio, normale attività con Ciancimino. Avevo avuto qualche incontro nelle aule di Tribunale, nel corso del! ‘attività con il figlio Massimo, che era la persona che in quel periodo era un po’ più vicina al padre, cioè lo assisteva in questa attività. Dopo la morte del Dottor Falcone, il Ros decise, il generale Mori decise una serie di iniziative investigative e a me fu affidato il compito di individuare potenziali attività informative che potevano fornirci spunto e elemento per capire quello che stava accadendo in quel periodo. […] Il Colonnello Mori mi autorizzò e nel corso, alla prima occasione utile che io non cercai, alla prima volta che incontrai Massimo Ciancimino in aereo, gli chiesi se poteva chiedere al padre la disponibilità a incontrarmi per parlare di quello che stava succedendo. […] Quando lui accetta poi di incontrarmi, si sviluppano, io incontro Ciancimino nell’intervallo tra le due stragi, cioè quella del Dottor Falcone e del Dottor Borsellino, credo tre volte, sempre nella sua abitazione a Roma e sono incontri sostanzialmente interlocutori. Chiaramente il nostro obiettivo principale era quello di avere delle indicazioni, delle valutazioni che ci consentissero di capire e in questo vorrei essere chiaro, è il perché io, poi il mio comandante accetta e scelgo Ciancimino.

[…] Nel frattempo interviene la strage del Dottor Borsellino. A quel punto veramente, io credo in maniera estremamente onesta, Vito Calogero Ciancimino non comprende i due avvenimenti in rapida successione, però per me la strage di Borsellino fu l’elemento determinante per un salto di qualità nel lavoro. Cioè, essendo lui estremamente turbato, estremamente ossessionato da queste due stragi in rapida successione, io ritenni che era il momento di introdurre un elemento nuovo di diversificazione. Cioè gli dissi, poiché lui non capiva, dico guardi, lei ci deve aiutare, noi dobbiamo capire che sta succedendo, dobbiamo individuare queste persone, perché qui c’è una strage ogni mese, dico lei deve parlare col mio comandante, perché introdurre il comandante? Perché Ciancimino era un capo e doveva parlare con un capo, cioè io tutt’oggi, ma ci arriveremo, spero dopo, rivendico in maniera assolutamente chiara e netta il merito dell’attività che noi abbiamo svolto con Vito Calogero Ciancimino e spiego il perché. Introducendo il Colonnello Mori, Ciancimino accettava una interlocuzione di livello che non era più il capitano De Donno, era il Colonnello Mori, cioè era il rappresentante del Ros Carabinieri, quindi accettava implicitamente un rapporto con lo Stato che lo poneva ormai al di là di certe scelte, cioè non poteva più tornare indietro e questo per noi era un vantaggio incommensurabile perché comunque noi, da un personaggio come Vito Calogero Ciancimino ne avremmo ottenuto, quantomeno a livello informativo, delle indicazioni insostituibili e lui accetta di incontrare il Colonnello Mori.

Accetta e il primo incontro avviene i primi di agosto, il 5 agosto. […]

Quando torna al terzo incontro e ci racconta l’esito dell ‘incontro con il suo contatto, di cui non ci dice, non ci dà le generalità, lui ci dice: ma io, quel mio referente, mi ha detto dice ma questi chi sono? Che è già sintomatica, cioè in un contesto storico particolare, si presentano delle persone che giù Cosa Nostra, cioè il suo referente dice: ma questi chi sono? E lui dice sono … e l’altra parte risponde, dice: questi o sono pazzi o hanno le spalle veramente coperte. Allora, dice, se sono veramente quello che dicono, risolvono i suoi problemi e poi discutono con noi. Quando Ciancimino ci riferisce questa cosa, l’impressione fu che ci stesse prendendo in giro, nel senso che era fin troppo scontata la richiesta di risolvere i problemi giuridici di Ciancimino, Ciancimino aveva questa idea fissa, tornava sempre sul problema della sua libertà, dei suoi processi, della misura di prevenzione. […] La risposta fu estremamente chiara, gli dicemmo che non solo non potevamo fare nulla per i suoi processi, ma glielo motivammo pure ….. nel suo mondo ormai, diciamo così, tra virgolette, era ormai sostanzialmente bruciato, ci disse, dice loro, dice va bene accettare di parlare, dice che cosa proponete? Al che il Colonnello gli disse, in maniera molto tranquilla, seria e incontestabile, si consegnino tutti i latitanti e noi gli garantiamo un giusto processo e un trattamento equo per le famiglie. Ricordo che Ciancimino saltò, si colpì le gambe e saltò sulla sedia diventando bianco. Io personalmente, ma credo anche il Generale Mori, in quel momento capimmo che lui veramente aveva parlato con Cosa Nostra, perché lui ci disse, dice voi mi volete morto e dice volete morire pure voi. Lì avemmo la sensazione che lui non ci aveva preso in giro, cioè veramente aveva preso contatti con l’altra parte e veramente aveva trasmesso la nostra richiesta. A quel punto chiaramente però si rese anche conto che noi non avevamo, perché non avevamo niente da offrire e niente da trattare, al che pensandoci, lui individuò la soluzione, ma trattandoci con forza, cioè lui nel rapporto, già lui era un tipo nervoso, digrignava i denti quando parlava, era un personaggio a modo suo. E ci disse, cioè, tra virgolette quasi, ci fece un cazziatone, perché disse voi, dice “qui si muore, dice qui ci ammazzano. Allora facciamo una cosa, dice io gli dico che voi non volete più discutere di niente, non volete nulla e che quindi questo discorso si interrompe, in maniera tale che comunque io ho fatto un ‘attività che però non possono pensare né che li ho presi in giro né che era falsa. Chiudiamo la questione qui e poi si vede e non se ne parla più […].

PUBBLICO MINISTERO.’ – Senta, noi abbiamo rinvenuto, presso gli archivi del Ros, un appunto, è agli atti del processo, 30 maggio 1992, su carta intestata appunto raggruppamento operativo speciale Carabinieri e reparto criminalità organizzata, non è firmato ma è datato 30 maggio 1992, quindi siamo proprio all’indomani della strage di Capaci. Lei ha detto che i contatti con Vito Ciancimino cominciamo nel giugno del 1992.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – Dopo la strage, dopo la strage di Falcone, adesso la data esatta non la so. Dopo la strage di Falcone sì.

PUBBLICO MINISTERO: – Quindi è possibile addirittura che il primo incontro con Massimo Ciancimino sia del maggio 1992?

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – È possibilissimo, sì.

PUBBLICO MINISTERO: – Vieni giorno tot che ti porto io a casa.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – No, non mi portava, mi diceva la data e io ci andavo da solo.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – Lo sapeva anche dopo, quando veniva il Colonnello, ci portava sempre il caffè.

PUBBLICO MINISTERO: – No aspetti, su un punto specifico, non mi interessa nemmeno la definizione di trattativa, non è un interesse diciamo da un punto di vista, tra virgolette, giornalistico o di compendio di una vicenda. lo voglio un fatto preciso: lei ha detto, sotto giuramento in Corte d’Assise, gli proponemmo di farsi tramite per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione dell’attività stragista nei confronti dello Stato.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – Confermo.

PUBBLICO MINISTERO : – Che vogliamo discutere, troviamo un punto di incontro per cessare le stragi.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – Confermo.

PUBBLICO MINISTERO : – Senta, sempre nella stessa udienza, lei ha dichiarato: “gli facemmo intendere che noi, nella trattativa, eravamo lì in veste di rappresentanti dello Stato “.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – È quello che ho detto prima, certo. Non certo potevamo andare a titolo personale.

* * * Da notare che nella ricostruzione inizialmente spontaneamente resa il De Donno appare chiaramente influenzato dall’imputazione mossa in quel processo al suo superiore Mori e così scompare del tutto la “trattativa”, che riaffiora, infine, soltanto quando, sollecitato dal P.M., lo stesso De Donno non può che confermare le ben più incisive ed inequivoche dichiarazioni rese quale testimone nel processo di Firenze.


Manovre e baratti all’ombra delle stragi  All’udienza del 15 settembre 2016 il P.M. ha chiesto di acquisire (ed è stata, poi, acquisita alla successiva udienza del 30 settembre 2016) la registrazione audio della conferenza stampa tenuta a Palermo il 15 gennaio 1993 dal Gen. Giorgio Cancellieri, Comandante della Regione Sicilia, in occasione della quale il predetto ebbe, tra l’altro, a dire: “La personalità di Totò Riina è nota. Fa parte… direi della letteratura della mafia, a lui sono riconducibili tutta una serie di gravissimi e reiterati episodi di criminalità nell’isola, nell’intera Nazione e anche fuori dal territorio dello Stato. Fenomeni che hanno aggredito, nei gangli vitali, la popolazione, il cittadino comune, qualsivoglia attività produttiva, con attacchi ripetuti contro le Istituzioni statali. E questo in un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico, addirittura potrebbe avere del! ‘inaudito e dell’assurdo, di mettere in discussione l’Autorità istituzionale. Quasi a barattare, a istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale”.

A seguito di tale acquisizione probatoria di estrema importanza perché per la prima volta, dal punto di vista della ricostruzione storico-fattuale, veniva pronunziata pubblicamente, in relazione alle vicende oggetto del presente processo, la parola “trattativa”, le difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno hanno chiesto di esaminare, in qualità di testimone a discarico, il Gen. Giorgio Cancellieri.

Quest’ultimo, quindi, è stato esaminato all ‘udienza del 9 febbraio 2017 ed in tale occasione, in sintesi, ha riferito:

[…] – che la dichiarazione che egli fece in quella conferenza stampa era stata concordata con il ROS e, in particolare, con Subranni e soprattutto Mori (”[…]DICH. CANCELLIERI GIORGIO: – .. .fu una,direi, una intervista, più che altro una risposta altre domande, che era stata preparata congiuntamente ai rappresentanti del Ros, in particolare forse c’era anche Subranni, che era venuto, ma in particolare Mori, era quello che in pratica mi aveva dato la notizia della presenza nella caserma di Corso Vittorio Emanuele di Riina. Ed era una, direi una dichiarazione concordata anche su spunti da parte del Ros … ……. Sì, sì, era, era … …. …. Erano dei fogli che avevo, che infatti si può vedere anche dai giornali … … …. Poi magari me l’ero pure preparata […]”);

– che egli non si chiese quale fosse il senso di quella dichiarazione contenuta in un foglio che gli fu passato materialmente da Mori […];

– che egli in quella circostanza non ebbe modo di riflettere su quanto dichiarato e non chiese, dunque, alcuna spiegazione […];

– che in quel momento egli non era a conoscenza degli incontri tra Mori e Vito Ciancimino […];

– che quella dichiarazione non fu concordata con i magistrati presenti alla conferenza stampa […];

– di avere poi appreso dalla stampa dei contatti tra Mori e Vito Ciancimino (“lo di questo aspetto di Ciancimino, dei contatti, debbo dire che proprio … Ho finito quasi per leggerli sui giornali come notizie di cronaca, non come fatto reale, né come attività investigativa, anche se, come dico, il fatto che si potessero … Che il Ros potesse …il Ros o le Sezioni Anticrimine potessero prendere dei contatti … Ma d’altra parte questo anche… L’attività investigativa (PAROLA INCOMPRENSIBILE)”); […].

Come si vede, dunque, il Gen. Cancellieri, chiamato dalle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno nell’intento di confutare quella risultanza della registrazione della conferenza-stampa del 15 gennaio 1993 precedentemente mai emersa, ha testimoniato che egli, in quell’occasione, ebbe a farsi portavoce, quale Ufficiale più alto in grado della Regione Sicilia, di un comunicato predisposto dal R.O.S. nelle persone di Subranni e Mori o comunque di indicazioni da questi ultimi fornitegli poco prima dell’inizio della conferenza stampa.

L’estrema importanza di tale risultanza, allora, deriva dal fatto che in quell’occasione la “trattativa” citata nella conferenza stampa non venne riferita, come poi avrebbe fatto Mori nel 1997, soltanto agli incontri con Vito Ciancimino, bensì direttamente a Salvatore Riina.

Ciò, innanzi tutto, comprova che Subranni e Mori già in quel momento (gennaio 1993) avevano acquisito la consapevolezza, non soltanto del fatto che effettivamente Vito Ciancimino fosse riuscito a veicolare la loro sollecitazione […] sino al massimo vertice dell’associazione mafiosa “cosa nostra” (appunto, Salvatore Riina), ma, soprattutto, per quel che rileva in questa sede, che Riina aveva, in un certo senso, accolto quella loro sollecitazione formulando alcune richieste (rectius, condizioni) per porre termine alle stragi.

V’era negli imputati Subranni e Mori, in altre parole, la consapevolezza che, a seguito della loro sollecitazione rivolta per il tramite di Vito Ciancimino […], si era, comunque, effettivamente e di fatto, instaurata, appunto, una “trattativa”, con la richiesta, da un lato (Subranni e Mori), delle condizioni per cessare, appunto, le stragi e con l’indicazione, dall’altro (Riina), dei benefici al cui ottenimento veniva condizionata la cessazione delle stragi medesime.

Peraltro, in tale contesto, appare estremamente significativo che sia stato usato, nel comunicato predisposto da Subranni e Mori e letto dal Gen. Cancellieri in quella conferenza stampa, accanto alla parola “trattativa” anche il verbo “barattare” .

Ciò rende ulteriormente del tutto vano il tentativo fatto in questa sede dall’imputato Mori di ridimensionare il senso della parola “trattativa” da lui e da De Donno utilizzata nella deposizione dinanzi alla A.G. di Firenze […], poiché, escluso il lapsus per la reiterazione dell’uso di quel termine, sin dai primi momenti successivi all’arresto di Riina nel 1993, da parte di soggetti di riconosciuta levatura culturale, appare chiara ed evidente la differenza tra il semplice contatto o abboccamento, che può avere carattere anche soltanto unilaterale, e la trattativa che, nel suo significato ontologico, mira alla composizione di un contrasto con il raggiungimento di un accordo (del quale, infatti, come già osservato sopra, la trattativa – e cioè gli incontri, i colloqui, le discussioni, le proposte e le controproposte – costituisce la fase preliminare).

Ed allora, se già nel gennaio 1993, Subranni e Mori parlarono senza alcuna remora di “trattativa” e di “baratto”, si ripete, non con Vito Ciancimino, ma con Salvatore Riina, non può che concludersi che essi già in quel momento fossero venuti a conoscenza delle richieste avanzate dal vertice di “cosa nostra” per porre termine a quella stagione sanguinosa apertasi con l’uccisione di Salvo Lima e proseguita, passando per l’uccisione del M.llo Guazzelli, soprattutto con le stragi di Capaci e via D’Amelio.

D’altra parte, non va dimenticato che lo stesso Mori ha riferito che Vito Ciancimino, ad un certo momento, ebbe a dirgli che i suoi interlocutori mafiosi (di fatto, Salvatore Riina, essendo l’unico che in quel momento aveva un effettivo potere decisionale) accettavano la “trattativa” (“Guardi. quelli accettano la trattativa”)

In sostanza, v’è, a questo punto, la prova definitiva ed inconfutabile che Subranni e Mori fossero a conoscenza di quelle che, senza alcun margine di opinabilità, come si dirà meglio nel prosieguo, devono essere definite come “minacce” che l’organizzazione mafiosa, attraverso Subranni e Mori […], inevitabilmente intendeva veicolare sino al potere esecutivo affinché questo ponesse in essere quelle iniziative dirette a soddisfare le condizioni che, a seguito della sollecitazione pervenuta tramite Vito Ciancimino, erano state poste per porre termine alle stragi.

Ciò detto, rinviando, quindi, ad un momento successivo l’inquadramento della suddetta risultanza probatoria nel complesso della ricostruzione fattuale richiesta, in questa sede, appare importante, però, qui sottolineare, anche per la valutazione sulla genuinità o meno di alcune successive propalazioni di collaboranti sulla c.d. “trattativa” di cui si darà conto in un capitolo successivo, che i presenti alla conferenza stampa (e cioè sia gli altri protagonisti di questa, sia i giornalisti), a causa della mancata conoscenza, in quel momento, dei fatti che costituivano il substrato della dichiarazione predisposta da Subranni e Mori, non colsero il vero senso di quella dichiarazione, così che questa non ebbe alcun risalto sulla stampa e fu persino tagliata dalla registrazione nel servizio televisivo trasmesso quel giorno (v. testimonianza Bonferraro), tanto che soltanto in anni recenti è stato possibile recuperare la registrazione integrale grazie al prezioso archivio di Radio Radicale.

Le risultanze di cui si è appena dato conto nei capitoli 5, 6 e 7 che precedono consentono di ritenere già raggiunta la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, su alcuni dati fattuali che è opportuno qui sintetizzare prima di proseguire nell’analisi delle ulteriori risultanze probatorie che condurranno fino alla valutazione delle condotte che hanno dato luogo alla contestazione di reato formulata nel presente processo (di cui, come già osservato nella premessa in questa sentenza, la “trattativa” costituisce soltanto l’antecedente fattuale).

In particolare, alla stregua di quanto esposto nei Capitoli prima ricordati, può affermarsi che, sulla scorta delle stesse dichiarazioni dei protagonisti principali e di quanto oggettivamente si ricava dalle condotte da loro tenute, risultano provate, in termini di fatto, le seguenti circostanze:

– Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno e poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del “maxi processo” e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci;

– Mori e De Donno tentarono, nel contempo, di acquisire la necessaria “copertura politica” di quell’iniziativa, informando, per via mediata, il Ministro della Giustizia e il Presidente del Consiglio dei Ministri e, comunque, si accreditarono verso gli interlocutori mafiosi dicendo loro (o quanto meno facendo credere loro) di rappresentare, ai fini del chiesto dialogo, le Istituzioni dello Stato o coloro che, comunque, avrebbero avuto il potere di soddisfare eventuali richieste indicate dai vertici mafiosi quali condizioni per cessare la strategia stragi sta;

– Vito Ciancimino, forse anche inaspettatamente per Mori e De Donno, effettivamente si attivò immediatamente, informando (tramite Antonino Cinà) Salvatore Riina della sollecitazione al dialogo ricevuta dai Carabinieri;

– Salvatore Riina accettò la “trattativa”, autorizzando Vito Ciancimino a proseguire quei contatti con i Carabinieri


Le dichiarazioni spontanee del generale    Infine, deve darsi conto delle dichiarazioni spontaneamente rese sul punto nel presente dibattimento dall’imputato Mario Mori, pur premettendo, sin d’ora, che lo stesso in qualche passaggio ha rinviato alle più dettagliate conoscenze del coimputato De Donno (“Sull’argomento potrà interloquire anche il dottor De Donno, che fu colui che li iniziò, ovviamente da me autorizzato”), il quale, tuttavia, così come Mori, non ha accettato di sottoporsi all’esame delle parti e nulla ha riferito spontaneamente riguardo al tema dei contatti con Ciancimino qui in esame rinviando a sua volta alle dichiarazioni di Mario Mori […].

Ciò premesso, in ordine ai contatti con Vito Ciancimino ed all’esito delle dichiarazioni precedentemente rese da Massimo Ciancimino in questo dibattimento, l’imputato Mario Mori ha reso spontanee dichiarazioni all’udienza dell’8 settembre 2016.

Si omettono qui, però tutte le considerazioni del Mori riguardo alla inattendibilità di Massimo Ciancimino poiché le dichiarazioni di quest’ultimo non sono, come detto, in alcun modo utilizzate da questa Corte ai fini della valutazione delle risultanze probatorie.

Rileva, qui, piuttosto, la ricostruzione dei contatti con Vito Ciancimino.

Dunque, in particolare, in quella occasione, riguardo a tali contatti, Mario Mori ha spontaneamente dichiarato:

“Mi riferisco alla deposizione resa dal signor Massimo Ciancimino e a quelle ad esse direttamente collegate …. …. …. Nel corso del mese di giugno 92, il Capitano De Donno, sfruttando incontri casuali verificati nel corso dei suoi viaggi da e per Palermo, incontrò e prese contatto con Massimo Ciancimino, da lui conosciuto nel corso di perquisizioni a casa del padre, stabilendo con lui una corretta interlocuzione. L’Ufficiale titolare delle investigazioni sfociate nell’inchiesta mafia e appalti, ben conosceva il ruolo di protagonista che aveva rivestito e che ancora rivestiva all’epoca Vito Ciancimino nel condizionamento degli appalti pubblici e più in generale la sua situazione di cerniera tra il mondo politico e imprenditoriale e l’ambito mafioso. Nell’ottica di acquisire elementi utili alla prosecuzione delle indagini per giungere a una individuazione dei responsabili degli omicidi di quell’anno, in particolare per quanto attiene la strage di Capaci, e sulla base delle interlocuzioni avute con Massimo Ciancimino, siamo dopo l’attentato di Capaci e prima di quello di Via D’Amelio, De Donno ritenne che, opportunamente contattato, Vito Ciancimino avrebbe potuto accettare il dialogo e al limite accondiscendere a qualche forma di collaborazione se non altro per dimostrare la sua sempre proclamata estraneità a Cosa Nostra. […] Nella vicenda però ritenevo di avere un vantaggio importante dato dal fatto che Ciancimino era in attesa di decisioni connesse ai propri procedimenti giudiziari aperti, che se a lui sfavorevoli, come era ipotizzabile, lo avrebbero riportato in carcere definitivamente. Il primo incontro con me avvenne nel pomeriggio del 5 agosto 1992, nell’abitazione romana di Ciancimino, in zona di Piazza di Spagna – Villa Medici. Si veda l’agenda del 1992 mia, già in questi atti. […] Il terzo incontro avvenne il 1 ottobre 1992. Ciancimino ci disse che aveva preso contatto con l’altra parte, senza specificare l’identità dei suoi interlocutori, riferendoci che aveva riscontrato perplessità perché avendo fatto i nostri nomi gli era stato chiesto chi rappresentassimo. Convinto che il mio interlocutore tergiversasse, gli risposi di non preoccuparsi e di andare avanti così. Questa risposta che non lo poteva soddisfare in condizioni normali, in quel momento lo accontentò perché anche lui aveva esigenze impellenti da fronteggiare, che gli sconsigliavano di assumere posizioni rigide. Così prese per buona una risposta che esaustiva certamente non era e decise di procedere oltre. Nel corso dell’incontro Ciancimino ci consegnò due copie della bozza di un suo libro intitolato Le Mafie, scritto su persone e fatti politici – amministrativi da lui conosciuti come protagonista e testimone delle vicende siciliane degli anni appena trascorsi. Nel testo egli sosteneva la tesi di una sostanziale convergenza di intenti tra mafiosi e politici.

Il Ciancimino mi disse che era sua intenzione farlo pubblicare e che ne aveva già distribuito delle copie per sensibilizzare al suo caso persone in grado di aiutarlo una volta conosciuta la verità. Egli aggiunse che quelli del libro erano anche gli argomenti che voleva trattare quando fosse riuscito ad essere ricevuto nella Commissione Parlamentare Antimafia e al riguardo chiese anche un mio interessamento. Egli, convinto che dietro le morti di Salvo Lima, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre alla matrice mafiosa, vi fosse un disegno più ampio, voleva esporre questa sua ipotesi davanti ad un consesso politico e nel senso mi preannunciò una sua lettura al Presidente della Commissione nella quale avrebbe rinnovato la sua richiesta di essere sentito, già formulata sin dagli anni ottanta. Il libro Le Mafie, citato anche dal Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori, fu trasmesso dal Ros il 2 febbraio del 1993 ai Magistrati della Procura della Repubblica di Palermo. […]Nel corso del mese di novembre 1992, il Capitano De Donno, attraverso Massimo Ciancimino, seppe che Vito Ciancimino lo voleva incontrare di nuovo da solo. Ritornando dall’appuntamento, l’Ufficiale mi riferì che il Ciancimino, dichiaratosi pienamente collaborativo, gli aveva chiesto cosa effettivamente volessimo e che lui gli aveva risposto che a noi interessava catturare i capi di Cosa Nostra, cioè Riina e Provenzano. Ciancimino ne aveva preso atto, precisando subito che le indicazioni più immediatamente sfruttabili su Riina Salvatore, chiedendo a riguardo le mappe della zona di Palermo che, da Viale della Regione Siciliana, va verso Monreale, con lo schema dei relativi allacci dell’azienda municipalizzata degli acquedotti. […] Poche ore dopo l’incontro avvenuto il 18 dicembre del 1992, Ciancimino venne arrestato in esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare emesso sul presupposto del pericolo di fuga dalla Corte d’Appello di Palermo. Vito Ciancimino quindi non contribuì in alcun modo alla cattura di Totò Riina ….

[…] Il termine trattativa è stato usato da me e dal dottor De Donno nelle nostre dichiarazioni davanti alla Corte d’Assise di Firenze e Caltanissetta quando avremmo potuto adoperare altrimenti vocaboli affini quale contatto, relazione, rapporto, scambio di idee, abboccamento, discussione e altri simili. Questa espressione invece è diventata la parola d’ordine per un certo tipo di approccio del tutto forviante e scorretto ad una specifica indagine su Cosa Nostra. E su questo termine evocativo si cimentano tutt’ora i cultori di un tanto al chilo della materia per elaborare ipotesi a vanvera al solo scopo di tenere in piedi, artificiosamente, una ben definita impostazione ideologica. Per me Ciancimino era solo ed esclusivamente una potenziale fonte informativa da trattare in base al disposto dell’articolo 203 del Codice di Procedura Penale, che consente all’ufficiale di P.G. questi tipi di contatti …. […]”.

* * *  Anche in questo caso, risalta evidente il comprensibile tentativo di Mori di calibrare la ricostruzione degli accadimenti di modo da non lasciare alcuno spazio alla tesi accusatoria in verifica nel presente processo, e ciò affidandosi a dichiarazioni spontanee che, impedendo gli approfondimenti che sarebbero inevitabilmente conseguiti in caso di accettazione dell’esame delle parti, gli hanno consentito di omettere o ridimensionare alcuni passaggi della ricostruzione degli accadimenti medesimi originariamente riferita nella sua prima deposizione del 24 gennaio 1998 a Firenze.

Così in tale ultima ricostruzione v’è spazio soltanto per l’intendimento del Mori di utilizzare Vito Ciancimino esclusivamente come proprio confidente per acquisire notizie utili sull’organizzazione mafiosa.

Non v’è più alcun cenno, quindi, all’idea originaria che l’aveva determinato a cercare quel contatto e cioè quella di fare qualcosa per far cessare le stragi quanto meno concomitante con quella di individuare i responsabili della strage di Capaci […], d’altra parte, in modo ben più diretto e chiaro riferita inizialmente anche da De Donno (“… un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato”).

Ciò spiega perché nella sua ultima ricostruzione Mario Mori “dimentica” il passo forse più importante e certamente più significativo della sua interlocuzione con Vito Ciancimino (” … ‘Ma signor Ciancimino. ma cos ‘è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?’ La buttai lì convinto che lui dicesse: ‘cosa vuole da me colonnello?’ Invece dice: ‘ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo’. E allora restammo … dissi: ‘allora provi’ …”), allorché egli ebbe ad invitare quest’ultimo a prendere contatto con i vertici di “cosa nostra” per porre termine alla contrapposizione frontale, che aveva da ultimo caratterizzato le rispettive posizioni, plasticamente rappresentata da quella nuova strategia manifestatasi, dopo la sentenza definitiva del maxi processo, con l’uccisione di Salvo Lima, seguita da quella del M.llo Guazzelli e culminata con la strage di Capaci, che, peraltro, lasciava presagire ulteriori nefaste azioni già paventate sia da organi istituzionali (v. allarmi lanciati dal Capo della Polizia e dal Ministro dell’Interno di cui prima si è detto sopra), sia da possibili future vittime, tra le quali il Ministro Mannino che si era già prontamente rivolto per tale ragione anche al Gen. Subranni (ed, in proposito, a dimostrazione che il rischio di quelle ulteriori azioni veniva ritenuto concreto anche dall’Arma dei Carabinieri, si veda, altresì, la nota del 20 giugno 1992 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri indirizzata al Direttore del SISMI ed avente ad oggetto “Minacce nei confronti di inquirenti e personalità” acquisita all’udienza del 24 ottobre 2014).

Ed è appena il caso di ricordare ancora come sulla finalità di instaurare un dialogo con i mafiosi per ottenere l’immediata cessazione della strategia stragista, da ultimo tralasciata da Mori nelle dichiarazioni spontanee sopra riportate, ancora più chiaro è stato, nella sua prima deposizione, Giuseppe De Donno con riferimento alla proposta che egli e Mori fecero a Vito Ciancimino:

“E gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa nostra al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò”.

Ma, d’altra parte, pur rimandando una più approfondita valutazione delle risultanze ad un Capitolo successivo, può sin d’ ora, però, anticiparsi come appaia del tutto logico che Mori, a riprova del suo intendimento di calibrare la ricostruzione degli accadimenti per non lasciare alcuno spazio alla tesi accusatoria, abbia del tutto omesso il riferimento a quel passo della sua interlocuzione con Vito Ciancimino in quanto palesemente in contrasto e contraddizione con la sua affermazione riguardo al più limitato intendimento di utilizzare quest’ultimo quale mero confidente per raccogliere notizie utili alle indagini.

Quella frase dimostra incontestabilmente, infatti, che non si intendeva affatto raccogliere soltanto le confidenze di Ciancimino utilizzandolo come mero “informatore”, definizione utilizzata, appunto, da Mori nelle sue spontanee dichiarazioni unitamente al riferimento all’art. 203 c.p.p. fatto per giustificare l’omissione della informativa ali’ A.G. (“Per me Ciancimino era solo ed esclusivamente una potenziale fonte informativa da trattare in base al disposto dell’articolo 203 del Codice di Procedura Penale, che consente all’ufficiale di P.G. questi tipi di contatti”), ma, piuttosto, si intendeva utilizzare questi per instaurare un dialogo con “cosa nostra” e, quindi, per una attività che certamente trascende quella del mero informatore per trasmodare più in quella, semmai, di un agente provocatore, non certo consentita alla P.G. in assenza di preventiva comunicazione all’autorità giudiziaria competente per le indagini (v., con riferimento alle azioni sotto copertura, anche art. 9 comma 4 della legge 16 marzo 2006 n. 146) ed anzi, come pure si vedrà meglio più avanti, addirittura trascendendo anche quella dell’infiltrato, la cui condotta non può certo inserirsi con rilevanza causale in un’azione criminale, ma, assumendo soltanto carattere di marginalità rispetto a questa, deve prevalentemente concretizzarsi nell’osservazione, nel controllo e nel contenimento delle azioni illecite altrui, laddove, invece, nel caso in esame, con quella richiesta di dialogo avanzata dal Mori, veniva sollecitata a “cosa nostra”, determinandola in modo essenziale per il conseguente effetto di incitamento e istigazione, la formulazione di richieste di carattere minaccioso nei confronti dello Stato al cui accoglimento soltanto la stessa organizzazione mafiosa “cosa nostra” avrebbe modificato la sua già intrapresa strategia stragi sta.

Ed in tale contesto si spiega, altresì, la “retromarcia” operata nelle sue ultime dichiarazioni spontanee dal Mori riguardo a quella che originariamente, senza remore e tentennamenti, aveva egli stesso definito “trattativa”[…].

Oggi il Mori, nella sua più recente ricostruzione degli accadi menti, omette accuratamente di utilizzare tale termine e tenta di ridimensionare – rectius, rimediare alle sue precedenti dichiarazioni proponendo diverse definizioni […], che, contrariamente a quanto dallo stesso sostenuto, non sono affatto “affini” (v. dich. spontanee sopra riportate), né tanto meno sinonimi di “trattativa” .

Questa, come pure, d’altra parte, in modo sintetico e più semplice, detto da Mori comporta “una negoziazione che presuppone un dare e un avere”, o, per meglio dire, l’esplicitazione di rispettive richieste finalizzata al raggiungi mento di un accordo.

[…] E se così è, allora, è evidente che l’iniziativa del Mori comportò proprio l’apertura di una “trattativa” con “cosa nostra”, nella misura in cui il predetto sollecitò Vito Ciancimino a richiedere a vertici dell’organizzazione mafiosa cosa volessero per fare cessare la contrapposizione con lo Stato “muro contro muro” (parole testuali del Mori) e, quindi, le stragi.

La sollecitazione del Mori (ovviamente, si intende quella indirizzata ai vertici di “cosa nostra”, non essendo contestato che Ciancimino accettò di fare da tramite con questi […]), infatti, se accolta (e di ciò si dirà nel prossimo Capitolo), avrebbe inevitabilmente comportato l’accettazione della “trattativa” proposta e, conseguentemente, la formulazione di richieste da parte di “cosa nostra” al cui accoglimento subordinare la cessazione delle stragi, aspetto che successivamente si approfondirà con riferimento, non già alla stessa questione della “trattativa” che, come detto può rilevare soltanto come antecedente fattuale causale, ma alla imputazione di minaccia (al Governo della Repubblica) che è stata contestata in questa sede agli imputati dalla Pubblica Accusa.

E, forse, di ciò si è reso conto lo stesso Mario Mori, che, infatti, incidentalmente e senza apparentemente darvi alcun importanza, ha, poi, attribuito ad altri (non meglio precisati ed indicati, ma, in modo sibillino, definiti come più “qualificati” e “disponibili”) l’eventuale “trattativa” con “cosa nostra” (“Da quanto sopra si deduce che se una trattativa vi è stata, questa non è da attribuire a Mori e De Donno. ma a qualche altro che agli occhi di Cosa Nostra appariva senza altro più qualificato e disponibile…”).


I contatti segreti dell’estate 1992  Si è già visto sopra nei paragrafi precedenti che dei contatti di Mori e De Donno con Vito Ciancimino non venne mai data alcuna informativa alla Autorità Giudiziaria (di Palermo o anche di altra sede).

E ciò, non soltanto in modo formale (circostanza fattuale incontestata) anche eventualmente tacendo il nome dell’informatore avvalendosi della prerogativa di cui all’art. 203 c.p.p. pure più volte richiamato da Mori […], ma neppure in modo informale in colloqui riservati con magistrati della Procura di Palermo (o anche di altre Procure, quali in ipotesi, la Procura di Caltanissetta che indagava sulle stragi prima di Capaci e poi di via D’Amelio, ovvero anche la Procura di Roma stante che i contatti con Ciancimino iniziarono in tale città).

L’imputato Mori ha sempre giustificato tale omissione con i rapporti non idilliaci che il R.O.S. allora aveva con la Procura di Palermo a causa delle vicende del c.d. rapporto “mafia e appalti” […].

Tale giustificazione appare però chiaramente pretestuosa, tenuto conto che:

– neppure dopo l’insediamento del nuovo Procuratore della Repubblica Caselli e nonostante nel frattempo Vito Ciancimino fosse stato arrestato facendo così venire meno eventuali esigenze di riservatezza, venne mai redatta dal R.O.S., una informativa su tutti i contatti intrapresi con Ciancimino sin dal mese di giugno precedente e sugli sviluppi degli stessi;

– tale informativa, in realtà, neppure informai mente fu data al medesimo nuovo Procuratore della Repubblica Caselli, che, come si è già visto nel precedente paragrafo (v. dichiarazioni del teste Caselli già richiamate), infatti ebbe poi ad apprendere degli incontri tra i Carabinieri e Vito Ciancimino soltanto da quest’ultimo e nei soli limiti in cui lo stesso ritenne di informarlo, mentre né

Subranni, né Mori, né De Donno mai ebbero a fornirgli una effettiva e completa informazione anche con la ricostruzione dei medesimi accadimenti dal loro (necessariamente diverso) punto di vista;

– la giustificazione addotta potrebbe riguardare, al più, soltanto la Procura della Repubblica di Palermo e non spiega, quindi, perché non furono informati altri Uffici Giudiziari, primo fra tutti la Procura di Caltanissetta, tanto più che, a detta degli imputati, da Vito Ciancimino si intendevano acquisire notizie anche sulle stragi (v., ancora, dichiarazioni spontanee di Mario Mori sopra già riportate: “… mi ripromettevo di acquisire da lui elementi che mi potessero fare progredire nelle indagini, per l’identificazione di mandanti e autori delle stragi di Capaci e Via D’Amelio…”).

Già tali considerazioni rendono vana la giustificazione addotta dagli imputati ed inducono a ritenere, conseguentemente, che altra fu la ragione dell’omissione qui in esame. Ma v’è di più.

Come si è visto nei paragrafi precedenti, per stessa ammissione degli imputati Mori e De Donno, la decisione di contattare Vito Ciancimino fu presa immediatamente dopo la strage di Capaci e, già durante il mese di giugno successivo, quanto meno il solo De Donno aveva, in effetti, già contattato il Ciancimino.

Non solo, ma è emerso che di tali contatti De Donno ebbe a riferire a Liliana Ferraro alla fine del mese di giugno 1992 e, in particolare, in un giorno compreso tra il 23 (trigesimo della strage di Capaci) ed il 28 (giorno in cui, poi, la Ferraro aveva incontrato il Dott. Borsellino).

Ed allora, se già quei contatti, quanto meno sotto il profilo programmatico, erano già attuali in quei giorni e lasciavano presagire importanti sviluppi tanto che De Donno ritenne di parlarne alla Ferraro, non si comprende perché analoga informazione non venne data anche al Dott. Borsellino, per il quale, di certo, per la sua storia e per la sua nota ed incontestabile dirittura morale, non potevano valere quelle remore addotte da Mori riguardo al Procuratore della Repubblica dell’epoca (il Dott. Giammanco) od eventualmente anche riguardo ad altri magistrati di quell’Ufficio.

Eppure tanto Mori che De Donno incontrarono personalmente il Dott. Borsellino il 25 giugno 1992 in Palermo presso la Caserma Carini ed ebbero con lo stesso un lungo colloquio (v. sopra risultanze riportate nel capitolo 4) e, tuttavia, negli stessi giorni (o forse anche successivamente al giorno) in cui già avevano ritenuto di informare la Ferraro, per stessa ammissione dei predetti imputati, nulla dissero al Dott. Borsellino riguardo a Ciancimino.

Ed allora, non può che concludersi che la ragione della voluta omissione informativa qui in esame non può di certo ricondursi alla giustificazione addotta da Mori, perché di certo né quest’ultimo né altri avrebbero potuto diffidare del Dott. Borsellino, mentre ogni altra eventuale esigenza di riservatezza era già venuta meno con la informazione data alla Ferraro nonostante questa non ricoprisse alcun ruolo che la giustificasse.

Se così è, ben altra deve essere stata la ragione dell’omessa informativa, non soltanto, in generale, all’autorità giudiziaria, ma persino alla persona del Dott. Borsellino.

E tale ragione, quindi, logicamente ed ineludibilmente non può che individuarsi nell’intendimento sottostante a quell’iniziativa di contattare Vito Ciancimino, che, come si ricava dalle risultanze già prima esaminate nei paragrafi precedenti, non era quello di instaurare un semplice rapporto confidenziale per carpire qualche notizia e che certamente ben avrebbe potuto essere comunicata, non soltanto, ovviamente, al Dott. Borsellino, ma anche a qualsiasi Ufficio Giudiziario per l’ordinarietà di quell’attività tutt’al più tacendo il nome del “confidente-informatore” (ma è significativo che tale esigenza di riservatezza non abbia animato sicuramente gli imputati se è vero che essi fecero il nome di Vito Ciancimino a più soggetti quali la Ferraro, la Contri e Violante), ma, semmai, quella reale di instaurare, attraverso Vito Ciancimino, un dialogo con i vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra”.

Appare assolutamente evidente ed incontestabile, infatti, che un simile intendimento non avrebbe potuto essere rappresentato a magistrati di qualsiasi Ufficio giudiziario e, certamente, giammai, comunque, al Dott. Borsellino, che, insieme al Dott. Falcone, invertendo la linea che aveva caratterizzato sino al finire degli anni settanta il rapporto delle Istituzioni con l’associazione mafiosa, aveva sempre voluto, perseguito e mantenuto piuttosto una linea di assoluta intransigenza nell’azione di contrasto al fenomeno mafioso del tutto incompatibile con un’ipotesi di dialogo con i vertici mafiosi, quand’anche questo fosse stato finalizzato alla cessazione delle stragi, perché ciò, soprattutto dopo la positiva conclusione della lunga vicenda del “maxi processo”, avrebbe inevitabilmente rilegittimato e, conseguentemente, perpetuato il potere di “cosa nostra”.

Nello stesso solco si colloca, altresì, l’omissione di Subranni, Mori e De Donno in ordine alla documentazione, anche soltanto per uso interno del R.O.S., dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino e delle attività, in conseguenza di questi, poste in essere dai Militari.

Ed invero, a seguito di ordine di esibizione dei P.M. di Palermo e Caltanissetta, notificato il 16 novembre 2009 al Comandante del R.O.S., diretto ad acquisire “relazioni di servizio, annotazioni, appunti riservati o documentazione comunque afferente rapporti di qualsivoglia genere eventualmente intrattenuti da appartenenti al ROS” con alcuni soggetti, tra i quali Ciancimino Vito

Calogero e Ciancimino Massimo, oltre che la documentazione a qualsiasi titolo relativa a questi ultimi, sono stati consegnati dal R.O.S., in data 19 novembre 2009, i fascicoli relativi a Vito Ciancimino ed alle stragi di Capaci e via D’Amelio esistenti presso quel Raggruppamento.

Tra i documenti allora acquisiti (prodotti in copia dal P.M. all’udienza del 22 settembre 2017), v’è ne soltanto uno attinente ai fatti in esame, quello costituito dalla copia, senza intestazione e senza firma, del memoriale consegnato da Mori alla Procura di Firenze l’ l agosto 1997 ed alla Procura di Caltanissetta il 23 settembre 1997 (per il contenuto v. sopra).

Dunque, fino al 1997, né Mori, né De Donno hanno mai redatto alcuna relazione di servizio sui contatti con Vito Ciancimino e sulle informazioni ottenute (sul punto, si veda anche la testimonianza resa all’udienza del 31 marzo 2017 dal Gen. Giampiero Ganzer, già in servizio al R.O.S. dal febbraio 1993, vice comandante del detto Reparto dal mese di luglio 1997 e, infine, Comandante del R.O.S. dal 26 gennaio 2002 al 6 luglio 2012 […]”), né, d’altra parte, Subranni, allora comandante del R.O.S. e, quindi, superiore dei predetti, sia se informato sin dall’inizio, sia se informato soltanto nel mese di agosto come sostenuto da Mori, ha mai sollecitato ai suoi sottoposti la redazione di apposite relazioni di servizio in ogni caso utili, per qualsiasi eventualità, a trasmettere le conoscenze acquisite da uomini del suo Raggruppamento anche ad altri investigatori se la finalità di quei contatti fosse stata effettivamente, come asserito dagli imputati, di tipo esclusivamente investigativo.

Nessun Corpo investigativo d’elite, qual era ed è il R.O.S., può consentire che le conoscenze acquisite da un suo investigatore, soprattutto se, come nel caso in esame, sin dall’inizio ritenute di estrema importanza tanto da dame informale notizia al più alto livello politico (v. sopra), rimangano racchiuse esclusivamente nella mente e nella memoria dello stesso.

Persino lo stesso Gen. Giampiero Ganzer, teste della difesa sentito all’udienza del 31 marzo 2017, smentendo la contraria tesi della difesa dell’imputato De Donno (v. trascrizione della discussione all’udienza dei 5 aprile 2018 a proposito di asserite e presunte ragioni di sicurezza) ha dichiarato che, per norma e prassi interna al R.O.S., dovevano essere annotati gli incontri e I rapporti con i confidenti […].

Eppure è ciò che è avvenuto nella fattispecie, laddove non v’è alcuna traccia all’interno del R.O.S. dei contatti intrapresi da due dei suoi più importanti investigatori con un personaggio altrettanto importante (ovviamente sotto un diverso profilo, quello criminale) qual era Vito Ciancimino, né della disponibilità da quest’ultimo manifestata, né, ancora, di quel cenno dello stesso Ciancimino ai contatti avuti, quanto meno, con un intermediario dei vertici mafiosi, né, infine, più in generale, di tutte le notizie, comunque, raccolte durante i colloqui con Vito Ciancimino e sulle modalità ed i tempi di tali colloqui.

Di tutta questa attività nulla si sarebbe saputo se Vito Ciancimino, dopo l’arresto, non avesse deciso, sia pure con molte reticenze ed in termini alquanto generici, di informare i magistrati che si erano recati ad interrogarlo.

Può trovare giustificazione una simile omissione se Vito Ciancimino fosse stato un semplice confidente-informatore? Certamente no, perché persino i Servizi di Sicurezza lasciano traccia scritta dei contatti con le proprie fonti ancorché senza rivelarne l’identità (v. deposizione del teste Giraudo di cui si dirà esaminando in conclusione la posizione individuale dell’imputato Mori), né è utile richiamare, come ha fatto la difesa dell’imputato De Donno (v. trascrizione della discussione all’udienza del 5 aprile 2018) gli esempi dei rapporti confidenziali Riccio-Ilardo e Ravidà-Sturiale, dal momento che in entrambi i casi, in realtà, tali rapporti vennero documentati (per il primo, a prescindere dalle dichiarazioni di Riccio sull’invito proprio di Mori ad omettere le relazioni di servizio e dalle relazioni di servizio che, comunque, poi, furono riportate all’interno del rapporto “Grande Oriente” sottoscritto, non da Riccio, ma dal Col. Mauro Obinu, v’è quanto meno l’informativa ad uso interno del R.O.S. dell’ Il marzo 1996 come meglio si vedrà in seguito esaminando la relativa vicenda nel successivo Capitolo 35; per il secondo, risulta che Ravidà relazionava regolarmente, ovviamente, ciò che Sturiale gli riferiva e non viceversa, come si ricava anche dalla testimonianza di Nicolò Marino, di cui pure si dirà meglio più avanti).

V’è, poi, il caso eclatante dei contatti con Bellini, che pure sarà meglio e più approfonditamente esaminato più avanti, nel quale soltanto Mori ebbe ad omettere di lasciare traccia di tali contatti, mentre il suo omologo della D.LA. Dott. Messina, pure contattato da Bellini con modalità sostanzialmente analoghe, ebbe a redigere apposita relazione di servizio per lasciare traccia dell’accadimento (v. deposizione Messina che sarà riportata nel successivo Capitolo Il, paragrafo Il .10).

Ed allora, se così è, quella totale omissione, da parte di Mori e De Donno con l’avallo del Comandante Subranni, trova adeguata giustificazione soltanto se i contatti dei predetti col Ciancimino furono diretti ad instaurare, attraverso quest’ultimo, un dialogo con i vertici di “cosa nostra”, trattandosi, in questo caso, di un’attività evidentemente non esternabile, ed, infatti, ancora negata con decisione dagli imputati per gli effetti controproducenti, che, come si vedrà nel prosieguo, essa ha, poi, determinato.

Altrettanto eclatante e tale da contraddire la tesi difensiva degli imputati sulla finalità meramente investigativa dei contatti con Ciancimino appare, infine, l’omissione di qualsiasi attività investigativa da parte di coloro che, via Via, appresero degli sviluppi di quei contatti sul versante di “cosa nostra”.

Qui, a prescindere dai tempi di acquisizione della notizia (se sin dall’inizio dei contatti ovvero, come sostenuto da Mori, soltanto dal mese di ottobre 1992), rileva la circostanza, ammessa dagli stessi imputati, che ad un certo momento essi ebbero la certezza che Vito Ciancimino aveva effettivamente interloquito, attraverso un intermediario dallo stesso non indicato (lo avrebbe poi fatto soltanto successivamente in alcuni scritti ed in occasione degli interrogatori dopo l’arresto), con i vertici di “cosa nostra” […].

Eppure, nonostante tale certezza, nulla Subranni, Mori o De Donno fecero per tentare di sfruttare investigativamente quella notizia acquisita da Cianci mino: non fecero alcun accertamento sui pregressi eventuali spostamenti di quest’ultimo per verificare in quale momento e con quali modalità lo stesso avesse potuto instaurare quel contatto; non predisposero e non attuarono alcun successivo monitoraggio degli ulteriori contatti di Vito Ciancimino e dei movimenti dei familiari che in quel momento convivevano con lui; non richiesero alcuna attività di intercettazione e ascolto delle utenze in uso a Vito Ciancimino ed ai suoi familiari oltre che ambientale nei luoghi ove i predetti dimoravano; non disposero alcuna perquisizione (ovviamente, per non allarmare il Ciancimino, facendola eseguire ad altro reparto territoriale dei Carabinieri o altra forza di polizia e con motivazioni di comodo) per ricercare eventuali scritti in possesso di Vito Ciancimino relativi a quel contatto con l’intermediario dei vertici mafiosi.

Potevano esperti investigatori, qual erano i predetti imputati, ritenere che tali attività investigative non fossero di alcuna utilità, anzi, assolutamente ineludibili per l’acquisizione di spunti investigativi di estrema importanza per qualsiasi indagine sull’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e per l’individuazione anche di soggetti ad essa appartenenti e, in ultimo, anche per la stessa individuazione e cattura dei soggetti di vertice latitanti che essi, dichiaratamente, intendevano arrestare? Certamente no, e di ciò si rende conto lo stesso Mori, il quale, pur dopo avere respinto le critiche in più occasioni ricevute per i suoi metodi operativi (v. ancora le citate dichiarazioni spontanee: “in questa e in altre vicenda, a seconda di quali sono gli specifici interessi di chi le tratta, io e De Donno veniamo considerati alternativamente o dei fuori classe dell’investigazione, ovvero dei minus habens che procedevano nelle indagini senza la parvenza del discernimento”), già in occasione della sua prima deposizione a Firenze ebbe a preoccuparsi di giustificare l’inerzia investigativa che accompagnò i primi contatti con Ciancimino con la ristrettezza dei tempi […].

Perché, ovviamente, non sfuggiva al Mori che una parallela attività di investigazione finalizzata al monitoraggio delle reazioni di Vito Ciancimino sarebbe stata giudicata da qualsiasi investigatore indispensabile già nel momento in cui il medesimo Ciancimino, con i primi approcci da parte di De Donno, veniva “provocato” e, pertanto, il predetto ha tentato di giustificare la sua omissione con la ristrettezza dei tempi.

Sennonché è agevole rilevare che i primi approcci con Vito Ciancimino risalgono addirittura ai primi di giugno del 1992 e, comunque, – per stessa ammissione degli imputati – quanto meno al mese di luglio ancor prima della strage di via D’Amelio e sono stati poi seguiti da ulteriori incontri, anche personali con il Col. Mori, nel mese di agosto e poi ancora ad ottobre.

Eppure, dal mese di giugno o, quanto meno, luglio 1992 sino al 18 ottobre 1992, quando, secondo Mori, ebbero la certezza dei contatti avuti da Vito Ciancimino con i vertici dell’associazione mafiosa o almeno con un intermediario di questi, nulla fu fatto per monitorare le reazioni di Vito Ciancimino rispetto ai numerosi precedenti incontri, omettendo sia di effettuare quei pedinamenti di cui lo stesso Mori ha parlato […], sia, cosa certamente ancor più utile, qualsiasi attività di intercettazione ambientale e telefonica (quale quella, ad esempio, già svolta dal ROS nel mese di marzo 1992 ed inopinatamente interrotta nonostante da quelle intercettazioni fosse emersa l’esistenza, nella abitazione romana di Vito Ciancimino, di un’utenza riservata e diversa da quella già sottoposta ad intercettazione).

Ed allora, la giustificazione di Mori sulla ristrettezza dei tempi e sulla imprevedibilità della reazione di Ciancimino appare, anche in questo caso, risibile, non essendo plausibile che nel lasso di oltre quattro mesi o anche soltanto di oltre un mese (se si volesse restringere il periodo a quello compreso tra l’incontro del 29 agosto e quello del 18 ottobre 1992) non ci sia stato il tempo di organizzare l’attività di monitoraggio dei movimenti e dei contatti del Ciancimino a fronte della estrema importanza che gli stessi Mori e De Donno attribuivano a quella indagine, tanto da averne dato già notizia specifica ai più alti livelli politici sin dai precedenti mesi di giugno (incontro con la Ferraro) e luglio (incontro con la Contri).

Ma, in ogni caso, seppure si volesse prendere per buona la giustificazione addotta da Mori, non si comprenderebbe perché, dopo avere avuto la certezza (in data 18 ottobre 1992 secondo lo stesso Mori) che Ciancimino aveva effettivamente contattato un intermediario dei vertici mafiosi, ciò nonostante ancora nulla è stato fatto per monitorare il Ciancimino sino al 19 dicembre 1992 quando il predetto venne arrestato, e ciò neppure in prossimità di tale arresto quando, nei giorni immediatamente precedenti, il 17 dicembre 1992, Vito Ciancimino si recò a Palermo per contattare ancora l’intermediario […].

Né, in proposito, può valere la diversa giustificazione, invece, addotta da De Donno riguardo all’omissione qui in esame.

De Donno, infatti, anche lui evidentemente consapevole dell’anomalia della detta omissione investigativa, ha addotto a giustificazione il rischio di essere scoperti e di far venire meno, conseguentemente, il rapporto di fiducia con Vito Ciancimino […].

Sennonché, non soltanto tale giustificazione è smentita da quella diversa fornita da Mori prima ricordata, poiché quest’ultimo, che ovviamente ha avuto sin dall’inizio la direzione delle operazioni a fronte del ruolo meramente esecutivo del De Donno, ha dichiarato che aveva in animo di far effettuare il pedinamento di Ciancimino (v. dichiarazioni Mori: ” .. Ma io ero anche orientato eventualmente, se lui, come ritenevo, avesse portato a lungo la trattativa, di fare dei servizi di pedinamento su Ciancimino .. “) e che ciò non fu fatto, non già per il rischio di essere scoperti che, dunque, egli riteneva superabile, ma soltanto per mancanza di tempo (v. ancora dichiarazioni Mori: “Questo, poi, non è avvenuto perché ha bruciato i tempi, Ciancimino”); ma, in ogni caso, si tratta di una giustificazione che non appare credibile, essendo ben nota l’elevatissima professionalità del R.O.S. nell’effettuare indagini tecniche e di pedinamento nonostante le difficoltà degli obiettivi, mentre, d’altra parte, cosi come è accaduto per moltissime altre investigazioni del R.O.S. e di altre Forze impegnate contro la criminalità organizzata, il rischio di essere scoperti non può costituire una valida remora soprattutto a fronte dell’enorme importanza dei risultati investigativi che quell’attività di monitoraggio avrebbe potuto produrre (basti qui pensare alla conferma del ruolo di Vito Ciancimino, in quel momento ancora imputato in un processo in corso per il reato di associazione mafiosa, o ancora alla individuazione di soggetti facenti parte di tale associazione dal predetto eventualmente contattati, sino alla individuazione, in ipotesi, persino di taluno degli esponenti di vertice dell’associazione mafiosa in quel momento latitanti, quali Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, che, in virtù della comune provenienza da Corleone, certamente Ciancimino aveva avuto modo di conoscere).

Ed allora, l’omissione delle investigazioni conforta ulteriormente e definitivamente la conclusione che in quel momento l’intendimento di Subranni, Mori e De Donno non fosse quello minimale della raccolta di informazioni dal “confidente” Vito Ciancimino, ma, come più volte rilevato, anche in questo caso, soltanto quello di instaurare un dialogo con i vertici dell’associazione mafiosa (v. parole testuali di Mario Mori nella testimonianza resa a Firenze: “Ma non si può parlare con questa gente?”).

Mentre, infatti, nel primo caso, le investigazioni avrebbero costituito il conseguente corollario della provocazione lanciata al Ciancimino per sfruttarne la reazione ed ottenere i possibili risultati investigativi prima ipotizzati, nel secondo caso l’omissione delle investigazioni, nella consapevolezza che anche l’individuazione di tal uno degli esponenti mafiosi, anche se eventualmente di vertice, non avrebbe di certo posto termine alla strategia mafiosa stragista in corso, era, invece, strumentale alla instaurazione di quel dialogo tra parti contrapposte necessario per far cessare il “muro contro muro”.

E per raggiungere tale obiettivo era necessario lasciare a Vito Ciancimino i più ampi margini di libera manovra.

Come si è visto, dunque, l’analisi delle condotte, sia quelle attive, sia soprattutto quelle omissive, poste in essere dagli imputati Subranni, Mori e De Donno conduce univocamente ad una sola e certa conclusione: al di là dei singoli apporti e delle ragioni che più avanti saranno esaminati, essi volevano instaurare una “trattativa” con Vito Ciancimino ed, attraverso questi, con i vertici di “cosa nostra”.

Ed il termine “trattativa”, infatti, è stato correttamente ed appropriatamente usato sia da Mori che De Donno (oltre che, sin dali ‘inizio, dal loro interlocutore primario Vito Ciancimino) sino a quando, a seguito di altre acquisizioni conoscitive (soprattutto conseguenti alla collaborazione con la Giustizia di alcuni esponenti mafiosi), essi non hanno preso consapevolezza delle conseguenze nefaste di quell’improvvida iniziativa.

Essi intendevano, cioè, in quel momento, capire se vi fossero spazi di interlocuzione che potessero indurre i vertici mafiosi a recedere da quell’attacco e da quella contrapposizione frontale che era già culminata nella strage di Capaci e che tante preoccupazioni suscitava – oltre che in soggetti che per ruolo istituzionale erano stati sempre possibile bersaglio della vendetta mafiosa – ora anche in alcuni esponenti politici che temevano di dovere subire, per mano mafiosa, la stessa infausta sorte di Salvo Lima, tra i quali Calogero Mannino, che, come si è già visto sopra, si rivolse per tale ragione proprio al Gen. Subranni.

Ed intendevano conoscere – o almeno ciò prospettarono a Vito Ciancimino e, di conseguenza, ciò questi comunicò ai vertici mafiosi quand’anche non fosse stata quella la reale volontà di Subranni, Mori e De Donno, ma soltanto un “bluff’ per far venire allo scoperto i mafiosi responsabili della strage di Capaci prima e di via D’Amelio dopo – a quali condizioni “cosa nostra” avrebbe potuto porre termine alla contrapposizione frontale “muro contro muro” (v. ancora parole testuali di Mario Mori a Firenze).

In sostanza, essi, quali, si ripete, che fossero le loro intenzioni, di fatto ed in modo testualmente inequivoco (“Ma non si può parlare con questa gente?”) sollecitarono espressamente a Vito Cianci mino un’interlocuzione con i vertici mafiosi per conoscere a quali condizioni si sarebbe potuto porre termine al “muro contro muro” tra lo Stato e “cosa nostra” e, quindi, inevitabilmente, nel momento in cui tale sollecitazione fosse giunta ai vertici mafiosi, l’apertura, non si vede come potrebbe diversamente definirsi, di una “trattativa”.

Ma una importante conferma, anche in questo caso riconducibile alle stesse parole di Mario Mori (oltre che, come si vedrà, questa volta anche di Subranni) si ricava anche da una molto più recente acquisizione probatoria di questo dibattimento di cui si dirà nel Capitolo che segue.

 VITO CIANCIMINO

IL MISTERIOSO O FANTASIOSO PAPELLO “L’esempio principale di tali ultimi documenti è costituito dal c.d. “papello” per il quale, pur non essendo stata riscontrata alcuna traccia di manomissione, manipolazione o altra anomalia, non è stato possibile individuare l’autore (v. deposizione dei consulenti del P.M. di cui si è già dato conto nella Parte Seconda di questa sentenza) e che, tuttavia, nel contesto dei molti documenti di cui è stata accertata con sicurezza la falsità o, quanto meno, la – anche soltanto parziale – alterazione per opera di Massimo Ciancimino non appare possibile alcuna utilizzazione in applicazione di una doverosa regola di prudenza, potendosi ritenere elevatissimo il rischio di un apposito “confezionamento” da parte dello stesso Massimo Ciancimino per supportare le sovrastrutture da lui create sui fatti di cui ha avuto occasione di avere cognizione o (poche volte) direttamente per essersi trovato in compagnia del padre, ovvero (quasi sempre) per avere letto e sfruttato per le sue fantasiose ricostruzioni alcuni scritti del padre”.

IL DOCUMENTO “PARADIGMA DELLA COLLABORAZIONE

“Tra gli altri documenti diversi da quelli consegnati da Massimo Ciancimino, sono, invece, certamente utili tutti quelli che sono stati sequestrati a Vito Ciancimino in data 3 giugno 1996 a seguito della perquisizione effettuata all’interno della sua cella presso il carcere di Rebibbia in Roma […].

La grafia ovvero il luogo del rinvenimento consentono, infatti, la riconducibilità di tali scritti a Vito Ciancimino. Ebbene, tra tali documenti devono ricordarsi:
– due fogli manoscritti[…];
– n. 17 fogli in parte dattiloscritti e in parte manoscritti col titolo “PARADIGMA DELLA COLLABORAZIONE”, nei quali, per le parti che qui interessano, tra l’altro si legge: dattiloscritto “Un fatto importantissimo, che da solo sta a dimostrare la mia posizione personale nei confronti del fenomeno mafioso, è quello che io ho aderito all’invito dei Carabinieri (Col. Mori e Cap. Di Donno)
di collaborare con loro. Questa collaborazione, che si stava dimostrando foriera di buoni risultati è stata interrotta dall’arresto del 19/12/1992”.

LE PLANIMETRIE DI PALERMO PER LA CATTURA DI TOTO’ RIINA

“PLANIMETRIE Nel periodo in cui Ciancimino collaborò coi carabinieri prima dell’arresto, concordemente valutarono che sulla scorta di alcune indicazioni vaghe che poteva fornire il Ciancimino, se fossero state corroborate da planimetrie di Palermo e provincia e da utenze ENEL ed AMAP, con buona probabilità, si poteva arrivare ad individuare due rifugi attribuibili ai corleonesi nell’ambito di un determinato territorio a monte di Palermo. All’uopo i carabinieri fornirono planimetrie di Palermo e utenze Amap. Ma sia le une che le altre si mostrarono insufficienti perché non coprivano il territorio indicato da Ciancimino”.

DOCUMENTI PER LANCIARE MESSAGGI

CONCLUSIONI SULLE DICHIARAZIONI E GLI SCRITTI DI VITO CIANCIMINO

Orbene, come si vede, le dichiarazioni e gli scritti di Vito Ciancimino appaiono di scarso aiuto ai fini della ricostruzione più dettagliata possibile degli accadimenti, poiché il predetto, conformemente peraltro al suo noto stile ed al suo carattere riferiti da più testi anche in questo processo, ne ha raccontato sempre in modo alquanto sommario e con evidenti (volute?) imprecisioni e contraddizioni, sia sotto il profilo temporale che contenutistico, che, non infrequentemente, rendono criptici alcuni riferimenti almeno apparentemente finalizzati, anziché a spiegare e fare conoscere, a lanciare, piuttosto, per proprio tornaconto personale, messaggi comprensibili soltanto ad alcuni degli interlocutori da lui prefigurati”.


I contatti fra don Vito e i carabinieri del Ros  Costituisce fatto accertato ed incontestato anche da parte degli imputati che, all’indomani della strage di Capaci, i Carabinieri del R.O.S., nella specie nelle persone degli odierni imputati Subranni, Mori e De Donno, abbiano deciso di “agganciare” Vito Ciancimino.

Ai fini della ricostruzione dei conseguenti contatti tra i predetti Carabinieri, la Corte, non intendendo in alcun modo utilizzare il racconto di Massimo Ciancimino per le ragioni sopra esposte nella Parte Seconda della presente sentenza, si avvarrà esclusivamente di quanto risulta dalle dichiarazioni, orali o scritte, dei protagonisti dei contatti medesimi comunque acquisite nel presente processo ed esaminerà le stesse alla luce anche delle altre acquisizioni dibattimentali, iniziando dalle risultanze del primo processo che ha affrontato i temi qui in esame, quello tenutosi a Firenze per le stragi del 1993, peraltro, a sua volta, in gran parte fondate sulle testimonianze rese in quella sede dagli odierni imputati Mori e De Donno.

[…]  Nella sentenza n. 3/98 pronunziata dalla Corte di Assise di Firenze il 6 giugno 1998 (doc. 50 della produzione del P.M. all’udienza del 26 settembre 2013), per la parte che qui rileva, si legge:

“Mario Mori. Il gen. Mori ha riferito che nel 1992 era a capo del reparto Criminalità Organizzata del ROS. Fu nominato vice-comandante del ROS ai primi di agosto del 1992. Dopo la strage di Capaci colse lo sconcerto dell’opinione pubblica, degli organismi istituzionali e degli stessi investigatori per la realtà di un fenomeno, quello mafioso, che molti cominciavano a considerare “indebellabile “, perché insito nella cultura di una determinata zona del territorio nazionale. Ritenne perciò suo dovere morale e professionale fare qualcosa. La prima iniziativa che prese fu quella di costituire un gruppo speciale di operatori destinato alla ricerca del capo di “cosa nostra” (Riina).

Un ‘altra iniziativa di ricercare ”fonti, spunti, notizie” che potessero portare proficuamente gli investigatori all’interno della struttura mafiosa. Parlò di quest’idea col capitano Giuseppe De Donno, suo dipendente, al quale rappresentò la necessità di ricercare una fonte di alto livello con cui interloquire. Il De Donno gli parlò della familiarità che aveva col figlio di Vito Ciancimino, a nome Massimo, nata nel corso del dibattimento di I grado svoltosi contro il padre. Infatti, ha precisato, Vito Ciancimino era stato prima arrestato e poi portato a giudizio al termine di un ‘indagine che riguardava la manutenzione strade ed edifici scolastici della città di Palermo, condotta dal Nucleo Operativo del Gruppo di Palermo, cui era addetto il sunnominato capitano De Donno. Ciancimino fu giudicato e condannato a otto anni di reclusione per associazione a delinquere semplice, abuso d’ufficio, falso e altro.

Il De Donno suggerì di sji-uttare la familiarità che aveva con Massimo Ciancimino per tentare un avvicinamento al padre, che era, all’epoca, libero e residente a Roma. Egli lo autorizzò a ricercare “il contatto “. In effetti, ha proseguito, nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio, ci fu un primo incontro tra De Donno e Massimo Ciancimino, all’esito del quale De Donno si incontrò con Vito Ciancimino. A quest’incontro ne seguirono altri successivi (due-tre in tutto), alcuni dei quali si svolsero anche a cavallo della strage di via D’Amelio. Lo scopo di questi incontri era quello di avere da Ciancimino qualche spunto di tipo investigativo che portasse alla cattura di latitanti o, comunque, alla migliore comprensione del fenomeno mafioso (“De Donno andò a contattare Ciancimino per vedere di capire e di avere qualche notizia, qualche informazione, qualche spunto, di tipo investigativo ”).

Il dialogo tra i due si allargò e investì la stessa “Tangentopoli” e le inchieste che li avevano visti protagonisti (De Donno come investigatore; Ciancimino come persona sottoposta ad indagini). In uno di questi incontri Ciancimino fece a De Donno una strana proposta, che il teste così riferisce: “lo vi potrei essere utile perché inserito nel mondo di Tangentopoli, sarei una mina vagante che vi potrebbe completamente illustrare tutto il mondo e tutto quello che avviene “. Questo fatto convinse De Donno che il Ciancimino fosse disponibile al dialogo.

Per questo fece in modo che si incontrassero lui (Mori) e Ciancimino. Egli entrò in campo, ha spiegato, perché, quando si manifestò, concretamente, la possibilità di avere un rapporto con Ciancimino, comprese che questi “non era la solita fonte informativa da quattro soldi”, ma un personaggio che non avrebbe accettato di trattare con altri che non fossero dei capi. Per questo si rese visibile anche lui, oltre che per fornire sostegno psicologico e morale al De Donno. Invero, incontrò per la prima volta Vito Ciancimino nel pomeriggio del 5-8-92 a Roma, in via di Villa Massimo, dove il Ciancimino abitava (nota n. 1642: Il gen. Mori si è rivelato sicuro sulle date perché, ha detto, conserva l’agenda del 1992, dove sono segnati appunti che l’hanno aiutato nella memoria. Copia delle pagine dell’agenda del 5 agosto, ma anche delle giornate successive (di cui si dirà) sono state prodotte all’udienza del 24-1-98 (vedi faldone n. 32 delle prod. dib.).

Parlarono, in generale, di molte cose, soprattutto della vita palermitana (Ciancimino era palermitano ed egli aveva comandato il Gruppo Carabinieri di Palermo per quattro anni).

Ciancimino gli chiese anche notizie sui suoi diretti superiori. Egli fece il nome del gen. Subranni. Ciancimino mostrò di ricordarsi di lui (il gen. Subranni aveva diretto il Nucleo Investigativo di Palermo) e manifestò ammirazione per la sua sagacia investigativa. Quando fece rientro in ufficio accennò al gen. Subranni di quest’incontro e lo commentarono insieme. Ebbe il secondo incontro con Ciancimino il 29-8-92, sempre a casa di quest ‘ultimo. A quell’epoca, ha precisato, sapeva che Vito Ciancimino aveva una posizione “non brillantissima” dal punto di vista giudiziario, giacché gli era stato ritirato il passaporto e prima o poi sarebbe dovuto rientrare in carcere (evidentemente, per scontare una condanna definitiva). Per questo sperava che il Ciancimino facesse delle aperture (”Noi speravamo che questo lo inducesse a qualche apertura e che ci desse qualche input ”). Perciò, riprendendo il filo del discorso avviato da De Donno (quello sugli appalti), disse a Ciancimino: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?” La buttai lì convinto che lui dicesse: ”cosa vuole da me colonnello?” Invece dice: ”ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”. E allora restammo … dissi: ”allora provi”. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. Nel corso di quest’incontro, o di quello precedente, fecero qualche accenno ai guai giudiziari di Ciancimino. Si rividero 1’1-10-92, ancora a casa di Ciancimino. In questo terzo incontro Ciancimino disse di aver preso contatto con i capi di “cosa nostra”, “tramite intermediario” (di cui non gli fece il nome). Ma ecco come l’incontro viene narrato dal teste: “Allora, dice: ‘io ho preso contatto, tramite intermediario, con questi signori qua, ma loro sono scettici perché voi che volete, che rappresentate?’ Noi non rappresentavamo nulla, se non gli ufficiali di Polizia Giudiziaria che eravamo, che cercavano di arrivare alla cattura di qualche latitante, come minimo. Ma certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso, oppure gli potevo dire: ‘beh, signor Ciancimino, lei si penta, collabori, che vedrà che l’aiutiamo’. Allora gli dissi: ‘lei non si preoccupi, lei vada avanti’. Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. Ciancimino gli fece anche capire che le persone da lui contattate non si fidavano. Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: “Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io’ – Ciancimino – ‘e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio? “. Egli sapeva che a Ciancimino era stato ritirato il passaporto e che, pertanto, la proposta di continuare la trattativa all’estero era un escamotage del Ciancimino per mettersi al sicuro. Aveva messo in conto, ma solo come ipotesi remota, fin dall’inizio del suo rapporto con Ciancimino, che questi gli chiedesse cosa aveva da offrire. Non si aspettava, però, uno “show down” così precoce, pensando che il Ciancimino avrebbe tirato la cosa per le lunghe. Era convinto che Ciancimino avrebbe fatto qualche apertura “a livello più basso “, ma non che offrisse una disponibilità totale a fare da intermediario, come invece avvenne. Per questo venne colto alla sprovvista dalla disponibilità di Ciancimino e dalla richiesta di mettere le carte sul tavolo. Perciò gli rispose: “Beh, noi offriamo questo. I vari Riina, Provenzano e soci si costituiscono e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. Prosegue: “A questo punto Ciancimino si imbestialì veramente. Mi ricordo era seduto, sbattè le mani sulle ginocchia, balzò in piedi e disse: ‘lei mi vuole morto, anzi, vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno “. Quindi, molto seccamente, lo accompagnò alla porta.

Si lasciarono con la prospettiva di chiudere la trattativa “senza ulteriori conseguenze”. Ebbe la sensazione, all’esito di questo incontro, che Ciancimino avesse realmente stabilito un contatto con i capi di “cosa nostra”. Suppose anche che il Ciancimino, pressato dalla sua posizione giudiziaria, si sarebbe fatto risentire. Infatti, ha aggiunto, ai primi di novembre di quello stesso anno,

Massimo Ciancimino richiamò il cap. De Donno e gli chiese di incontrare nuovamente il padre. De Donno, con la sua autorizzazione, si incontrò, in effetti, con Vito Ciancimino (non ricorda quando). Questi gli chiese nuovamente cosa volessero in concreto e De Donno gli rispose che volevano catturare Salvatore Riina. Ciancimino si mostrò, questa volta, disposto ad aiutarli. Chiese perciò a De Donno di fargli avere le mappe di due-tre servizi (luce, acqua, gas) relative ad alcune precise zone della città di Palermo: viale della Regione Siciliana, “verso Monreale”. De Donno se le procurò presso il Comune di Palermo e gliele portò il 18-12-92. Il Ciancimino non si mostrò però soddisfatto e diede alcune altre indicazioni su ciò che gli occorreva. Il giorno dopo (19-12-92), però, Ciancimino venne arrestato. Pensava che il rapporto con lui fosse concluso, quando, qualche giorno prima dell ‘arresto di Riina (quindi, agli inizi di gennaio del 1993), fu contattato dall’avv. Giorgio Ghiron, legale di Ciancimino, il quale gli disse che il suo cliente voleva parlargli. Egli contattò allora il Procuratore della Repubblica di Palermo, dr. Caselli, al quale raccontò tutta la vicenda precorsa.

Il dr. Caselli autorizzò un colloquio investigativo col Ciancimino. Questo nuovo incontro si svolse nel carcere di Rebibbia il 22-1-93 e ad esso partecipò, come al solito, il cap. De Donno. Il Ciancimino si mostrò aperto alla formale collaborazione con lo Stato. 1n effetti, ha aggiunto, a partire da febbraio del 1993 il Ciancimino fu escusso dalla Procura di Palermo, alla quale spiegò che l’intermediario tra lui e i vertici di “cosa nostra” era stato il dr. Cinà, medico personale di Riina. – Il teste ha precisato di aver reso le prime dichiarazioni su questa vicenda alla Procura di Firenze il giorno 1-8-97. Inoltre, di aver annotato le date dei vari incontri col Ciancimino sulla sua agenda personale (nota n. 1643: La copia di alcune pagine dell’agenda è stata acquisita dalla Corte, su richiesta del PM).

All’epoca degli incontri di Roma, in via Villa Massimo, Ciancimino era libero. Agli incontri  partecipò sempre il cap. De Donno. Ha detto di aver informato il gen. Subranni, suo diretto superiore, del rapporto con Ciancimino, per avere un consiglio da lui, ma non perché fosse obbligato a farlo, in quanto gli ufficiali di polizia giudiziaria possono trattare autonomamente le fonti informative. Gli rese noto l’esito della discussione del 18-10-92. Ha insistito sul fatto che la presa di contatti con Ciancimino mirava ad avere il Ciancimino come fiduciario del ROS. Ad averlo, cioè, come un confidente che, avendo una posizione giudiziaria in sospeso, sarebbe potuto divenire un collaboratore. Quindi, richiesto di spiegare in che modo e ad iniziativa di chi Ciancimino venne ad assumere il ruolo di “interfaccia “, ha dichiarato: “Ma guardi, il problema …

Ciancimino non è il solito personaggio da quattro soldi. Cioè, bisognava gestirlo sviluppando con lui un dialogo che tenesse conto anche delle sue esigenze. Perché non gli potevamo dire brutalmente: senti, Ciancimino, la tua posizione giuridica e giudiziaria è quella che è, statti attento, se vuoi evitare la galera ti possiamo aiutare. Però tu dacci … Perché mi avrebbe accompagnato alla porta immediatamente. Perché i tempi erano diversi. Oggigiorno, forse, questo discorso brutalmente si potrebbe anche fare; nel ’92 non si poteva assolutamente fare. E allora era una schermaglia continua tra me e lui, tra lui e De Donno, in tre, cercando di cogliere … E’ stato un bel duello, possiamo definirlo così, per cercare di capire i punti in cui noi ci potevamo spingere, dove lui accettava. Dove lui ci voleva anche portare. Perché tutto sommato, ci ha l’intelligenza per gestire qualche… Quindi, inizialmente il problema era solo, dice: va be’, ci darà qualche notizia se ci va bene; sennò ci accompagna alla porta e finisce lì. Poi, il fatto che lui si presenta come addirittura disponibile ad inserirsi in un gioco sotto copertura, quasi nell’ambito dell’attività contro l’imprenditoria mafìosa. Il fatto che dovevamo, in qualche modo, allungare il brodo … lo che gli potevo dire? Brutalmente … solo quello gli potevo dire. Gli ho detto: ‘ma lei li conosce questa gente?’ Sapevo benissimo che li conosceva, Ciancimino è di Corleone. E quindi è stato quasi portato al discorso, questo ti … E’ stato un andare insieme verso quel… Perché a noi ci conveniva, guadagnavamo tempo “. Ha detto di aver avuto in mente anche di far pedinare Ciancimino, se la trattativa fosse proseguita, per capire quali persone contattava e se le contattava.

In sede di controesame ha precisato che Ciancimino gli parlò espressamente dei “corleonesi” come suoi referenti […]. Non furono mai fatte da Ciancimino proposte concrete per la trattativa. Non sentì mai parlare di “papello “. Ciancimino non diede alcun contributo all’arresto di Riina. Secondo la sua personale opinione, se la trattativa fosse proseguita li avrebbe messi in condizione di fare un’indagine seria su Riina. Le mappe richieste da Ciancimino sono state consegnate alla Procura della Repubblica di Palermo. In esse era compresa anche la zona che fu teatro dell’arresto di Riina. Erano comprensive anche della zona in cui abitava Riina. Circa le intenzioni con cui essi iniziarono la discussione con Ciancimino ha precisato, in sede di controesame: “lo pensavo, e ritengo di averlo espresso questo concetto, che Ciancimino avrebbe tirato alla lunga questa trattativa per vedere in effetti noi che cosa gli potevamo offrire come persona, non come soggetto inserito in una organizzazione. Cioè, ai suoi fini l’avrebbe tirata lunga, perché non ritenevo che fosse in condizione, o che volesse prendere contatto con Cosa nostra. Per cui io ritenevo che invece lui cercasse di sbocconcellarci il pane della sua sapienza, di fatti e di cose che potevano interessarci, su altri settori. Cioè imprenditoria mafiosa, appalti, polemiche relative … vicende giudiziarie relative al Comune di Palermo: ecco, questo era il settore dove io pensavo che lui andasse a finire. E quindi rimasi sorpreso invece dall’indirizzo che lui ebbe a dare al nostro…”

… De Donno Giuseppe. Questo teste ha dichiarato di essere stato in servizio al Nucleo Operativo del Gruppo dei Carabinieri di Palermo tra il 1988 e il 1989, come ufficiale (capitano). In tale qualità effettuò una serie di indagini sulla gestione degli appalti del Comune di Palermo, all’esito delle quali furono emesse ordinanze di custodia cautelare dal GiP di Palermo a carico di Vito Ciancimino e altri personaggi. Ciancimino fu arrestato nella primavera del 1990 e condannato poi a sette o otto anni di reclusione. Ha dichiarato di essere poi passato al ROS alla fine degli anni ’90 e di essersi interessato nuovamente di Ciancimino nel 1992. Questa volta, non per sottoporlo ad indagini, ma per questi altri motivi: “Il senso in pratica era questo: era nostra intenzione cercare di trovare un canale di contatto con il Ciancimino, per tentare di ottenere da lui indicazioni utili su quanto, sui fatti storici che si stavano verificando in quel periodo. E in ultima analisi tentare di ottenerne una collaborazione formale con l’autorità giudiziaria “.

L’idea di contattare Ciancimino fu sua, perché conosceva molto bene uno dei figli di Vito Ciancimino, a nome Massimo, che aveva incontrato varie volte mentre si sviluppava l’attività investigativa sul padre e nel corso di spostamenti aerei da Palermo a Roma. Aveva anche motivo di ritenere di non essere male-accetto a Ciancimino e alla sua famiglia, giacché si era sempre comportato con estrema correttezza nel corso dei “contatti” che aveva avuto con lui per motivi professionali. Fece presente questa sua intenzione all’allora col. Mori, comandante del reparto in cui operava, poco dopo la strage di Capaci, ed ebbe l’autorizzazione a tentare un approccio. Si rivolse a Massimo Ciancimino, che incontrò, appunto, durante uno spostamento aereo da Palermo a Roma e avanzò la sua richiesta di essere ricevuto dal padre. Incontrò, in effetti, Vito Ciancimino nella di lui abitazione romana, due tre volte, tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Prese il discorso alla larga, facendo intendere che ricercava elementi di valutazione rispetto a ciò che stava accadendo, in quel periodo, in Sicilia […]. Parlarono anche di “tutto lo sviluppo cheCc’era stato nel momento delle operazioni milanesi, il cosiddetto Manipulite”.

L’obiettivo era, comunque, a quel momento, di instaurare un rapporto di fiducia e di comprensione con Ciancimino. Ha aggiunto che, dopo la strage di via D’Amelio, fece un tentativo, riuscito, di “forzare la mano “: indurre Ciancimino a incontrarsi col colonnello Mori. Spiega così questo “innalzamento del livello “: “Questo, per una serie di motivi particolari. Primo fra tutti, la presenza del comandante rappresentava un livello nettamente superiore al mio, quindi rappresentava una sorta di riconoscimento del livello del nostro interlocutore. E ritenevo che il Ciancimino potesse sbloccarsi di più. Tra l’altro, mantenendo ferma l’idea che la nostra impostazione era comunque quella di attenerne una collaborazione, l’accettazione da parte del Ciancimino di un dialogo anche con il colonnello Mori era un passo in avanti verso questo obiettivo graduale che si doveva raggiungere “. Questo “innalzamento “, ha precisato, non era stato preventivato fin dall’inizio, ma rappresentò l’approdo del discorso fino a quel momento sviluppato. L’obiettivo finale era, comunque, quello di portare il Ciancimino alla collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.

Ecco in che modo pensarono di raggiungere questo risultato: “Allora convenimmo che la strada migliore era quella di avvicinare sempre di più il Ciancimino alle nostre esigenze, cioè di portarlo per mano dalla nostra parte. E gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa nostra. Al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò. Accettò questa ipotesi con delle condizioni. Innanzitutto, la condizione fondamentale era che lui poteva raggiungere il vertice dell’organizzazione siciliana, palermitana, a patto di rivelare i nominativi miei e del comandante al suo interlocutore “.

Essi acconsentirono a che venissero rivelati i loro nomi agli interlocutori, ma non fecero certo capire al Ciancimino che erano rappresentanti solo di sé stessi. Gli lasciarono credere che “avevano la capacità di fare questa iniziativa”. […] Il discorso del cap. De Donno è continuato, quindi, sulla falsariga di quello già fatto dal gen. Mori. Ha riferito che ci furono quattro incontri tra Mori e Ciancimino tra agosto e ottobre del 1992, avvenuti tutti a casa di Ciancimino e tutti con la sua partecipazione. […] Al quarto incontro Ciancimino disse di aver stabilito un contatto con i “vertici siciliani” e chiese loro cosa volevano. Si adirò quando si sentì dire che volevano la cattura di Riina e Provenzano in cambio di un equo trattamento per i loro familiari. Decise autonomamente che non avrebbe fatto alcun cenno al suo interlocutore della loro richiesta, perché, altrimenti, avrebbe anche corso il rischio di rimetterci la vita. Si lasciarono col tacito accordo di congelare ogni cosa, per il momento (”Quindi avrebbe dato sì un messaggio negativo, ma non un messaggio ultimativo. Cioè, comunque restava aperta la porta ad un ‘eventuale ripresa di dialogo”).

L’esito di questo discorso fu, comunque, quello di isolare Ciancimino dal suo retroterra mafioso, giacché, accettando il dialogo con i Carabinieri, si era venuto a trovare “con un piede di qua e un piede di là”, se non altro perché aveva reso evidente che “i Carabinieri avevano scelto lui per questo contatto”.

Questo fatto costringeva ormai il Ciancimino a “gestirsi in maniera estremamente accorta “, perché in Sicilia anche un minimo sospetto “può determinare conseguenze particolari “.

Praticamente, la scelta della collaborazione era ormai obbligata per Ciancimino. Ha dichiarato che, prima di dargli il via libero per i contatti con Ciancimino, il col. Mori parlò col comandante del ROS, il generale Subranni. Ha continuato dicendo di aver incontrato nuovamente Ciancimino afine ottobre (o inizi di novembre del 1992), allorché Ciancimino gli fece sapere, attraverso il figlio, che voleva vederlo. Quando si incontrarono chiese chiaramente a Ciancimino di collaborare fattivamente per la cattura di Riina Ciancimino accettò di fornire informalmente elementi utili a questo scopo, nella speranza di allontanare la prospettiva del carcere, che per lui si presentava quasi imminente. Chiese, infatti, alcune mappe particolareggiate di Palermo e alcuni documenti dell’azienda municipalizzata dell’acqua, attraverso cui pensava di poter individuare l’abitazione di Riina. Gli consegnò questi documenti il 19-12-92, ma nello stesso giorno Ciancimino fu arrestato per scontare una condanna definitiva. Successivamente, accettò di incontrare i magistrati di Palermo. In sede di controesame ha precisato che Ciancimino, nei primi incontri avuti con lui, si disse disposto a fare da “agente sotto copertura” con “la funzione di diventare il responsabile, il gestore della ristrutturazione del sistema tangentizio tra imprese e partiti “, che egli riteneva connaturato al sistema politico ed imprenditoriale italiano e necessario al suo funzionamento. Si dichiarò sempre in grado di raggiungere i vertici “corleonesi” di “cosa nostra” (“Ciancimino non si è mai dichiarato uomo d’onore, comunque era in grado di arrivare ai vertici dell’organizzazione corleonese, sì”). Rispondendo al Procuratore di Palermo il Ciancimino rivelò poi che la persona da lui contattata per giungere a Riina era il dr. Cinà, medico di Riina”.

* * *  Come si è detto e si legge nella citata sentenza della Corte di Assise di Firenze, le predette risultanze si fondano soprattutto sulle testimonianze in quel processo rese dagli odierni imputati Mori e De Donno. Tale testimonianze sono state, quindi, introdotte anche nel medesimo processo per iniziativa degli stessi predetti imputati, […].

E’ bene fissare, allora, per le valutazioni che poi saranno fatte sulle risultanze complessive, ciò che, in punto di fatto, si può ricavare dalla predetta sentenza e, ancor più dettagliatamente, dalle deposizioni testimoniai i allora rese dagli odierni imputati Mori e De Donno sulle quali prevalentemente si fondano le conclusioni di quella sentenza:

l) il Col. Mori fu mosso, dopo la strage di Capaci, dal dovere professionale di fare qualcosa per ricercare notizie all’interno della struttura mafiosa (Dich. Mori: “A fine maggio, mi sembra 24, 25, non ricordo bene, c’è la strage di Capaci ….. … … Ritenni che era un impegno morale, oltre che professionale, fare qualche cosa di più, di diverso, per venire a capo, nelle mie possibilità,

di queste vicende, di questa struttura che stava distruggendo i migliori uomini dello Stato … “);

2) De Donno suggerì di contattare Vito Ciancimino tramite il figlio Massimo, col quale aveva familiarità (Dich. Mori: “In questo ambito, in questo contesto di iniziativa mi si presentò il capitano De Donno, che da me dipendeva, il capitano Giuseppe De Donno. E mi propose un’iniziativa …… …. mi propose di tentare un avvicinamento, tramite il figlio Massimo, con Vito Ciancimino, che in quel momento era libero ed era residente a Roma”; Dich. De Donno: “L’idea di contattare il Ciancimino era stata mia …. . … …. Sì,faccio questa ipotesi al mio comandante. Che era, allora, il colonnello

Mori. E così, proponendogli questa prova, nel senso insomma di tentare, nell’immediatezza della strage di tentare un – tra virgolette, così – “un avvicinamento” del Ciancimino”);

3) Morì autorizzò De Donno a procedere In tal senso (Dich. Mori: “Lo autorizzai a procedere a questo tentativo”; Dich. De Donno: “Col comandante concordiamo che questo tentativo possa esser fatto”);

4) De Donno agganciò Massimo Ciancimino e incontrò Vito Ciancimino per la prima volta tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio (Dich. Mori: “questo primo contatto – che poi sono più di uno – tra De Donno e Massimo Ciancimino, avviene tra Capaci e via D’Amelio. Quindi diciamo nel giugno del ’92. Vito Ciancimino, sollecitato dal figlio, accetta”) e successivamente altre volte, secondo Mori, “a cavallo” della strage di via D’Amelio (Dich. Mori: “E ci sono una serie di colloqui che quindi partono … adesso, De Donno poi può essere più preciso, non so quand’è il primo, comunque partono nel giugno e si sviluppano tra il giugno e il luglio, a cavallo anche del secondo fatto grave, cioè via D’Amelio”), mentre, secondo De Donno, prima della detta strage (Dich. De Donna: “E abbiamo provato il contatto che. tra la strage di via Capaci e la strage di via d’Amelio. avviene. Perché Ciancimino accetta di incontrarmi nella sua abitazione di Roma … … .. .lo vado dal Ciancimino e incontro il Ciancimino sempre nella sua abitazione di Roma, da solo, due, tre volte. Nell’intervallo tra le due stragi: la strage del dottor Falcone e del dottore Borsellino…”);

5) lo scopo di tali incontri fu, per Mori, quello di acquisire spunti investigativi sia per la individuazione di latitanti, sia più in generale per le indagini in corso ed interrompere la strategia stragista della mafia (Dich. Mori: “Noi volevamo solo arrestare della gente che delinqueva …. … …. La trattativa nostra con Ciancimino era solo per vedere di sapere qualche cosa di più di Cosa Nostra e arrestare questa gente. E basta; A VVOCATO Li Gotti: E poi era di interrompere la strategia stragista: TESTE Mori: Certo. Certo. certo”), così come confermato anche da De Donno secondo il quale, oltre a tentare di spingere Ciancimino a collaborare con la Giustizia, essi avevano anche l’intendimento di per far cessare le stragi (Dich. De Donno: ” .. era nostra intenzione cercare di trovare un canale di contatto con il Ciancimino, per tentare di ottenere da lui indicazioni utili su quanto, sui fatti storici che si stavano verificando in quel periodo. E in ultima analisi tentare di attenerne una collaborazione formale con l’autorità giudiziaria … ……… un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto. stragista nei confronti dello Stato”);

6) il discorso, in questi stessi incontri, si allargò al fenomeno di “tangentopoli” (Dich. De Donno: ” .. tutto lo sviluppo che c’era stato nel momento delle operazioni milanesi, il cosiddetto “Manipulite'”‘) e Vito Ciancimino si offrì di fornire le sue conoscenze;

7) per tale ragione, secondo Mori, De Donno aveva organizzato il primo incontro con lo stesso Mori avvenuto il 5 agosto 1992 […], mentre secondo De Donno, egli aveva deciso di “innalzare il livello” dei contatti dopo la strage di via D’Amelio per indurre definitivamente Ciancimino a collaborare […];

8) in questa occasione Mori fece a Vito Ciancimino il nome del Gen. Subranni (comunque già informato sin dall’inizio dell’intendimento di contattare Ciancimino: v. testimonianza De Donno[…]), che il Ciancimino già conosceva (“…gli accennai che il mio superiore diretto era il generale Subranni. Al che lui si ricordò: ‘ma chi è, il maggiore che era al Nucleo Investigativo di Palermo?’ ‘Sì, il maggiore che … ‘ e commentammo questo .. “), informando, poi, di ciò Subranni […];

9) il secondo incontro avvenne il 29 agosto 1992 (“II secondo incontro avviene il 29 di agosto, quindi nello stesso mese, a fine mese”) ed in tale occasione, secondo Mori, questi sapendo dei problemi giudiziari di Ciancimino, gli chiese se, superando il “muro contro muro” tra lo Stato e la mafia, fosse possibile parlare con i vertici mafiosi […], mentre, secondo De Donno, fu anche espressamente detto a Ciancimino che il dialogo era finalizzato alla immediata cessazione della strategia stragi sta dei mafiosi (Dich. De Donno: “E gli proponemmo di farsi tramite. per nostro conto. di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa nostra. AICfine di trovare un punto di incontro. un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest ‘attività di contrasto netto. stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò”);

10) secondo Mori, Vito Ciancimino accettò, dichiarandosi in grado di poteri o fare, e Mori, quindi, lo sollecitò a farlo, mentre, secondo De Donno, Ciancimino condizionò il suo intervento alla possibilità di fare ai mafiosi i nomi dei Carabinieri con cui era in contatto, richiesta cui Mori e De Donno acconsentirono, facendo credere al Ciancimino che essi avevano il potere di rappresentare lo Stato inteso come Istituzione […];

11) secondo Mori, nel successivo incontro dell’l ottobre 1992 Ciancimino disse di avere preso contatto con i vertici mafiosi tramite un intermediario e che, però, i predetti vertici volevano sapere per conto di chi agivano quei Carabinieri […]; tale discorso, come detto al punto precedente, è collocato, invece, da De Donno nella prima occasione in cui essi avevano sollecitato Ciancimino a contattare i vertici mafiosi;

12) ancora secondo Mori, questi allora, “bluffando”, fece consapevolmente credere a Ciancimino che la sua iniziativa era nota a chi avrebbe potuto interloquire fattivamente con i mafiosi, invitando, quindi, Ciancimino ad andare avanti (” ….. Allora gli dissi: ‘lei non si preoccupi, lei vada avanti’…”); anche tale discorso logicamente collegato al precedente, ugualmente, è collocato, invece, come già detto sopra, da De Donno nella prima occasione in cui essi avevano sollecitato Ciancimino a contattare i vertici mafiosi;

13) Mori e Vito Ciancimino, dunque, lasciandosi, concordarono di “sviluppare la trattativa” (“…E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa…”); il termine “trattativa”, sul quale si tornerà più avanti anche a proposito delle dichiarazioni spontanee rese all’udienza dell’8 settembre

2016 da Mario Mori, è stato espressamente usato da quest’ultimo; anche De Donno ha usato il medesimo termine riferendo di avere detto a Ciancimino che i Carabinieri in quella, appunto, “trattativa”, rappresentavano lo Stato;

14) Mori e Ciancimino si rividero il successivo 18 ottobre 1992 ed in quella occasione il secondo disse che i mafiosi “accettavano la trattativa” (Dich. Mori: “18 ottobre, quarto incontro. Ciancimino, con mia somma sorpresa, perché fino a quel momento, anche con tutte le affermazioni: ‘io ho preso contatto’, non ci credevo. Ciancimino mi disse: ‘guardi, quelli accettano la trattativa .. “; Dich. De Donno: “Al quarto incontro. Ciancimino invece si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Cioè, ci disse: ‘sono d’accordo. Va bene, accettano”) a condizione che Ciancimino fosse l’intermediario e che la trattativa proseguisse all’estero […] con conseguente richiesta del Ciancimino di ottenere il passaporto […] e riferì, nel contempo, che i mafiosi chiedevano di sapere cosa lo Stato offrisse loro (Dich. Mori: “Voi che offrite in cambio?”; Dich. De Donno: “Vogliono sapere che cosa volete”‘); secondo De Donno, però, essi avrebbero dissuaso il Ciancimino dal richiedere il passaporto per le conseguenze per lui pregiudizievoli che ne sarebbero derivate;

15) Mori, preso alla sprovvista da quella richiesta, disse a Ciancimino di invitare i mafiosi a costituirsi con in cambio la promessa di trattare bene le loro famiglie […];

16) Ciancimino disse a Mori che mai avrebbe potuto riferire una simile offerta ai mafiosi che altrimenti lo avrebbero ucciso e, pertanto, i predetti si lasciarono con la prospettiva di chiudere la “trattativa” […];

17) tuttavia, nei primi di novembre 1992 Vito Ciancimino aveva chiesto di incontrare di nuovo i Carabinieri […] e, incontrato De Donno, gli chiese cosa effettivamente loro volessero da lui […];

18) De Donno rispose che volevano catturare Riina e Vito Ciancimino accettò di aiutare i Carabinieri, chiedendo, a tal fine, di fargli avere le mappe delle utenze di alcune precise zone di Palermo […];

19) secondo Mori, De Donno portò le mappe a Ciancimino il 18 dicembre 1992 e quest’ultimo, però, chiese di disporre di altre indicazioni che, tuttavia, non fu più possibile fargli avere perché il giorno successivo Ciancimino fu arrestato […], mentre, secondo De Donno, egli consegnò le mappe a Ciancimino lo stesso 19 dicembre 1992 poco prima che quest’ultimo fosse arrestato […];

20) soltanto quando Ciancimino nel marzo 1993 ne aveva parlato con i magistrati, Mori e De Donno avevano saputo che l’intermediario tra Vito Ciancimino e i vertici mafiosi era stato il Dott. Cinà […];

21) Mori aveva sempre informato il suo superiore Gen. Subranni dello sviluppo degli incontri con Vito Ciancimino […];

22) Mori era ben consapevole che Vito Ciancimino effettivamente conosceva i mafiosi “corleonesi” (“Dich. Mori: “Gli ho detto: ‘ma lei li conosce questa gente?’ Sapevo benissimo che li conosceva, Ciancimino è di Corleone”), cioè Riina e Provenzano, cosa di cui aveva avuto conferma quando Ciancimino si era adirato per la richiesta di far consegnare i predetti ([…];

23) Mori aveva intenzione di far pedinare Vito Ciancimino, se la “trattativa” fosse proseguita, per scoprire con chi si incontrasse il predetto […];

24) Ciancimino non formulò mai proposte concrete per la “trattativa” e, pertanto, non si parlò mai del “papello” […].

LA SENTENZA DI SECONDO GRADO DELLA CORTE DI ASSISE DI APPELLO FIRENZE

Nella sentenza n. 4/200 l pronunziata dalla Corte di Assise di Appello di Firenze il 13 febbraio 2001 (doc. 50 della produzione del P.M. all’udienza del 26 settembre 2013), per la parte che qui rileva, si legge: “La trattativa Mori – Ciancimino. La questione riveste, ad avviso di questa Corte, molta importanza nella economia del presente processo e merita quindi farvi un cenno, ancorché breve, sia perché dei rapporti fra l’allora Colonnello dei Carabinieri Mori, comandante del R.O.S. dei Carabinieri, con tale Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato per reati di mafia ha parlato il primo giudice, sia perché è stata chiesta, ancora, la l’innovazione del dibattimento per nuovo esame del predetto ufficiale, che sembra oggi sia generale dell’Arma, e del capitano De Donno, suo dipendente, da parte del difensore di Calabrò e Riina. […] La predetta sentenza di appello, dunque, nulla aggiunge ai dati di fatto già enucleati dalla sentenza di primo grado, se non nell’ inciso in cui rileva che “i contatti tra i due ufficiali” (quindi, sia Mori che De Donno) con Vito Ciancimino erano iniziati nel giugno 1992. 


Gli scritti corsari di Vito Ciancimino  Agli atti del processo sono stati, poi, acquisiti numerosi documenti attribuiti a Vito Ciancimino che contengono riferimenti ai contatti di quest’ultimo con Mori e De Donno.

Molti di tali documenti sono stati consegnati direttamente da Massimo Ciancimino nel corso dei molteplici interrogatori resi al P.M. nella fase delle indagini preliminari, ma tra questi la Corte, come prima anticipato, non intende fare alcun uso non soltanto, ovviamente, di quelli di cui è stata accertata l’alterazione, ma neppure di quelli di cui non è certa l’attribuibilità a Vito Ciancimino o ad altri ancorché non sia stato possibile accertare la loro falsità.

L’esempio principale di tali ultimi documenti è costituito dal c.d. “papello” per il quale, pur non essendo stata riscontrata alcuna traccia di manomissione, manipolazione o altra anomalia, non è stato possibile individuare l’autore (v. deposizione dei consulenti del P.M. di cui si è già dato conto nella Parte Seconda di questa sentenza) e che, tuttavia, nel contesto dei molti documenti di cui è stata accertata con sicurezza la falsità o, quanto meno, la – anche soltanto parziale – alterazione per opera di Massimo Ciancimino non appare possibile alcuna utilizzazione in applicazione di una doverosa regola di prudenza, potendosi ritenere elevatissimo il rischio di un apposito “confezionamento” da parte dello stesso Massimo Ciancimino per supportare le sovrastrutture da lui create sui fatti di cui ha avuto occasione di avere cognizione o (poche volte) direttamente per essersi trovato in compagnia del padre, ovvero (quasi sempre) per avere letto e sfruttato per le sue fantasiose ricostruzioni alcuni scritti del padre.

Analoga conclusione vale anche, ad ulteriore esempio, essendo documenti oggetto di particolare attenzione delle parti durante l’istruttoria dibattimentale, per i dattiloscritti indirizzati al Governatore della Banca d’Italia (dal 1993 al 2005) Fazio.

[…] Pochi sono allora i documenti consegnati da Massimo Ciancimino e contenenti riferimenti ai contatti dei Carabinieri con Vito Ciancimino che siano utilizzabili perché certamente opera di quest’ultimo.

[…] Tra gli altri documenti diversi da quelli consegnati da Massimo Ciancimino, sono, invece, certamente utili tutti quelli che sono stati sequestrati a Vito Ciancimino in data 3 giugno 1996 a seguito della perquisizione effettuata all’interno della sua cella presso il carcere di Rebibbia in Roma […].

La grafia ovvero il luogo del rinvenimento consentono, infatti, la riconducibilità di tali scritti a Vito Ciancimino. Ebbene, tra tali documenti devono ricordarsi:

– due fogli manoscritti[…];

– n. 17 fogli in parte dattiloscritti e in parte manoscritti col titolo “PARADIGMA DELLA COLLABORAZIONE”, nei quali, per le parti che qui interessano, tra l’altro si legge: dattiloscritto “Un fatto importantissimo, che da solo sta a dimostrare la mia posizione personale nei confronti del fenomeno mafioso, è quello che io ho aderito all’invito dei Carabinieri (Col. Mori e Cap. Di Donno) di collaborare con loro. Questa collaborazione, che si stava dimostrando foriera di buoni risultati è stata interrotta dall’arresto del 19/12/1992.

L’arresto è stato giustificato col pericolo di fuga perché avevo chiesto il passaporto alla Questura di Roma, mentre come risulta dai verbali di interrogatorio del Dott. Caselli, Procuratore Distrettuale di Palermo il passaporto era stato chiesto alla Questura col pieno accordo dei Carabinieri, che hanno sottoscritto il verbale del Procuratore Distrettuale Caselli (repetita juvant); dattiloscritto “Ognuno di questi episodi (mi riferisco come diciottesimo all’incontro del 21/01/1994 tra il Procuratore Distrettuale Caselli, il Col. Mori e me. Di questo incontro (21/01/ 1994) non si è redatto il vero verbale ma un altro (inutile) consensualmente per evitare che potesse influire sulla incolumità della mia famiglia, se reso pubblico. da solo dimostra la univoca determinazione di avere collaborato e di volere continuare, in maniera più incisiva e decisiva come ho detto al Dott. Caselli proprio il 21/01/1994. Alcuni di questi episodi sono di tale portata da conferire ogni beneficio di legge, presente passata e futura”, seguito, nella stessa pagina, da un appunto manoscritto di non agevole lettura (forse “Mappe mai inviate Appalti idem coop”); manoscritto “L’episodio importantissimo che (da solo) sta a dimostrare la posizione personale di Vito Ciancimino sta nel fatto di avere aderito ali ‘invito dei Carabinieri (Col. Mori e Cap. Di Donno) di collaborare con loro, contro il fenomeno mafioso. Questa collaborazione (iniziatasi la fine di agosto del 1992) si stava dimostrando foriera di buoni risultati quando è stata bruscamente interrotta dall’arresto di Ciancimino avvenuto il 19-12-92. L’arresto è stato giustificato col pericolo di fuga perché aveva chiesto il passaporto alla Questura di Roma. Mentre dai verbali di interrogatorio del Dott. Caselli acquisiti nella sua qualità di Procuratore Distrettuale di Palermo risulta che il passaporto alla Questura era stato chiesto in pieno accordo coi Carabinieri che hanno sottoscritto lo stesso verbale della Procura”; manoscritto “Spunto in questi articoli apparentemente slegati, nella mente di Ciancimino emerse il ricordo che la zona nella quale si sarebbe potuto trovare quei rifugi era proprio quella di Monreale. l tre articoli “fusero” nella mente di Ciancimino che il convincimento che la ricerca dei due rifugi poteva essere attuale, anche dopo l’arresto di Riina. Chiese di vedere A SOLO il Dott. Caselli ed il Col. Mori, ambedue edotti di quella ricerca iniziata prima dell’arresto: Mori per averla vissuta, Caselli per averla verbalizzata. Sono venuti caselli e Mori, soli, a Rebibbia il 21-1-94. Raccontai i fatti, le mie valutazioni, si mostrarono oltremodo interessati e rimanemmo d’intesa che entro qualche giorno avremmo potuto, adeguatamente aiutati, riprendere quel lavoro di ricerca che ritenevano molto attuale. Non ho visto né sentito più nessuno. Solo il 2 giugno presenti stavolta il Dott. Caselli ed il Dott. lngroia si riprese l’argomento mostrando i due lo stesso interesse di prima”; manoscritto “PLANIMETRIE Nel periodo in cui Ciancimino collaborò coi carabinieri prima dell’arresto, concordemente valutarono che sulla scorta di alcune indicazioni vaghe che poteva fornire il Ciancimino, se fossero state corroborate da planimetrie di Palermo e provincia e da utenze ENEL ed AMAP, con buona probabilità, si poteva arrivare ad individuare due rifugi attribuibili ai corleonesi nell’ambito di un determinato territorio a monte di Palermo. All’uopo i carabinieri fornirono planimetrie di Palermo e utenze Amap. Ma sia le une che le altre si mostrarono insufficienti perché non coprivano il territorio indicato da Ciancimino. Si decise di adeguarli conseguentemente; anzi si fissò addirittura il giorno, 22-12-92. Senonché 3 giorni prima il 19-12-92, come noto, Ciancimino venne raggiunto da mandato di cattura e quel lavoro passò nel dimenticatoio. Successivamente tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994 una serie di articoli giornalistici rievocarono in Ciancimino il ricordo di quel lavoro rimasto sospeso e che non era stato sollecitato, pur essendo noto, attraverso i verbali … “; manoscritto “Mappe topografiche per individuare (possibilmente) 2 abitazioni nell ‘hinterland di Palermo. Questa richiesta ritenuta interessante per mia espressa volontà .. è stata fatta solo al Dott. Caselli e al Col. Mori il 21-1- 1994 ed avevano origine (e continuazione) nel l’apporto iniziale dei carabinieri avvenuto dal 25/8-92 … (continuazione del periodo non leggibile nella copia del documento prodotta agli atti);

– foglio manoscritto avente il seguente contenuto “indipendentemente dalle valutazioni «PONDERALl» di Caselli[…];

– foglio manoscritto avente il seguente contenuto “Se Cangemi facesse parte della Cupola doveva sapere della trattativa condotta da con la Cupola (come membro autorevole della Cupola) d ‘accordo coi Carabinieri. I Volta condizione possibile II Volta condizione da considerare che non si è considerata (cfr. VERBALE)”;

– foglio manoscritto nella cui parte iniziale si legge “Mafioso secondo Marchese 18-11-1992. Se avessi fatto parte di una associazione mafiosa non avrei potuto ipotizzare quella collaborazione fatta coi carabinieri (nome uomo politico PAROLA INCOMPRENSIBILE) perché sarei stato costretto a dire il nome, come ho detto durante la trattativa sia al Col. Mori che al Cap. De Danno” e che poi continua con altri appunti non rilevanti;

– foglio manoscritto avente il seguente contenuto “Lei nel verbale ha scritto che la collaborazione coi carabinieri è stata priva di effetto pratico. Ma la colpa dei mancati effetti di chi è?: a) le carte richieste per tentare di individuare le possibili dimore del boss, mi sono state portate incomplete e dovevano essere integrate. AI capitano avevo fatto notare le lacune ed eravamo rimasti d’accordo che mi avrebbe fornito le carte integrative, ma ha ritardato ed intanto è intervenuto l’arresto b) Per quanto riguarda il piano “cosiddetto politico “, io di intesa coi carabinieri, sono partito per Palermo il 17-12-92 per quel contatto concordato e sono ritornato il 19 ed il 19 stesso ho avuto, alle 17,30, un incontro col capitano e lo informai che non avevo avuto il contatto e che la risposta la avrei avuto il Martedì successivo. Rimanemmo d’accordo col capitano di rivederci Martedì sia perché lui mi fornisse le carte mancanti, sia per dargli la risposta. Era il 19-12-92 il capitano se ne è andato ed io mezz’ora dopo venivo arrestato. Fatta questa premessa si può imputare a me”.

[…] CONCLUSIONI SULLE DICHIARAZIONI E GLI SCRITTI DI VITO CIANCIMINO

Orbene, come si vede, le dichiarazioni e gli scritti di Vito Ciancimino appaiono di scarso aiuto ai fini della ricostruzione più dettagliata possibile degli accadimenti, poiché il predetto, conformemente peraltro al suo noto stile ed al suo carattere riferiti da più testi anche in questo processo, ne ha raccontato sempre in modo alquanto sommario e con evidenti (volute?) imprecisioni e contraddizioni, sia sotto il profilo temporale che contenutistico, che, non infrequentemente, rendono criptici alcuni riferimenti almeno apparentemente finalizzati, anziché a spiegare e fare conoscere, a lanciare, piuttosto, per proprio tornaconto personale, messaggi comprensibili soltanto ad alcuni degli interlocutori da lui prefigurati.

Emblematiche appaiono, in proposito, anche alcune delle dichiarazioni rese da Vito Ciancimino.

Invero, sotto il profilo temporale, ad esempio, basti evidenziare che egli colloca la prima visita a casa sua del Cap. De Donno dopo la strage di via D’Amelio (v. le dichiarazioni, più vicine temporalmente ai fatti, del 17 marzo 1993: “Ma dopo i tre delitti (quello di Lima, che mi aveva sconvolto; quello di Falcone che mi aveva inorridito; quello di Borsellino che mi aveva lasciato sgomento) cambiai idea e ricevetti nella mia casa di Roma il predetto capitano”) e, nelle dichiarazioni più recenti, addirittura alla fine di agosto 1992, in particolare il giorno 25 o 26 […] e poi, quindi, il secondo incontro con lo stesso De Donno, questa volta però insieme a Mori, l’ l settembre 1992 […].

Peraltro, la ricostruzione temporale di Vito Ciancimino risulta smentita persino dal suo difensore di allora, l’Avv. Giorgio Ghiron […], il quale personalmente vide il Cap. De Donno uscire dalla abitazione romana del Ciancimino tra la fine di maggio e i primi del mese giugno 1992 […], ma, comunque, certamente entro il mese di giugno 1992, fatto di cui si è detto certo perché, successivamente, prima di allontanarsi da Roma per le vacanze, come di consueto, intorno al 20 luglio 1992, aveva incontrato Vito Ciancimino […], e gli aveva chiesto chiarimenti su quella precedente visita del Cap. De Donno, ricavando, inoltre, in quell’occasione, dalla risposta datagli, l’impressione che Vito Ciancimino avesse già incontrato anche il Col. Mori […].

E, seppure si tratta di un elemento di prova utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno […], v’è da rilevare che dalla testimonianza resa dal figlio Giovanni Ciancimino in data 20 febbraio 2011 dinanzi al Tribunale di Palermo Sezione Quarta Penale, si ricava che Vito Ciancimino ebbe a parlare col detto figlio di incontri con importanti personaggi altolocati che lo avevano incaricato di contattare l’“altra sponda”, con ciò riferendosi ai mafiosi, dopo circa venti o venticinque giorni dalla strage di Capaci e, comunque, sicuramente prima della strage di via D’Amelio.

[…] Ora, riguardo a tale testimonianza, va detto, oltre che per Giovanni Ciancimino non valgono le criticità che hanno già condotto sopra a disattendere totalmente le dichiarazioni del fratello Massimo (anche perché Giovanni Ciancimino, così come tutti gli altri familiari, si è sempre dissociato dalle iniziative del fratello Massimo e non ha mai fatto nulla per supportarne le propalazioni, tanto che anche nel presente processo, potendo farlo a differenza che nel processo Mori-Obinu, si è avvalso della facoltà di non rispondere), che non può essere dubbio che, ancorché a Giovanni Ciancimino non ne siano stati fatti i nomi, gli “importanti personaggi altolocati” fossero i Carabinieri che si erano presentati a Vito Ciancimino anche facendogli credere di operare per conto delle Istituzioni politiche, così come si ricava sia dalle ragioni degli incontri riferite al figlio da Vito Ciancimino perfettamente coincidenti con la ricostruzione emersa aliunde, sia dalle parallele dichiarazioni dell’altro figlio di Vito Ciancimino, Roberto, che, sentito, invece, nel corso di questo dibattimento, pur non potendo collocare nel tempo quegli incontri perché egli ne ebbe conoscenza soltanto successivamente alla strage di via D’Amelio, ha, però, riferito che il padre gli fece in proposito i nomi del Col. Mori e del Cap. De Donno […].

Sotto il profilo contenutistico, basti, invece, evidenziare che Vito Ciancimino ha ripetutamente sottolineato la risposta negativa – e persino sdegnosa – del suo interlocutore (il Dott. Cinà) che aveva sempre rifiutato di aprire alcun dialogo con i Carabinieri invitando il Ciancimino medesimo, semmai, a utilizzare quel contatto con i Carabinieri per risolvere i suoi problemi giudiziari personali; e, tuttavia, poi, in un passo delle sue dichiarazioni, forse inconsapevolmente (o forse no, tenuto conto della diabolicità e deI sarcasmo del personaggio che emerge persino dalle dichiarazioni dei suoi stessi familiari), ha fatto cenno, nelle dichiarazioni più vicine ai fatti del 17 marzo 1993, alla volontà ad un certo momento manifestata dai vertici mafiosi attraverso il Dott. Cinà di accettare la trattativa con i Carabinieri attraverso il Ciancimino, cui, quindi, conferirono espressa delega in tal senso (v. dich. citate: ” …. Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare”), ribadendo, peraltro, poi successivamente, nelle dichiarazioni più recenti degli anni successivi, ancora di avere ricevuto, sì, quella “delega”, ma aggiungendo anche che tale “delega” prima concerneva il Cap. De Donno e poi era stata estesa più in generale ai Carabinieri (“Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare oltre al Capitano poi pure carabinieri … ), così confermando indirettamente che i vertici mafiosi erano stati informati sin dai primi contatti con il solo De Donno e li avevano autorizzati se è vero che avevano a tal fine già “delegato” Vito Ciancimino, per poi, successivamente, estendere quella delega ai Carabinieri (più in generale) evidentemente quando era subentrato anche il Col. Mori.

Una chiara conferma di tale conclusione, peraltro, si ricava dalle dichiarazioni di Antonino Giuffrè di cui si dirà più avanti nel Capitolo 9.

D’altra parte, la negazione di una “trattativa” concretizzatasi per suo tramite tra i Carabinieri e i vertici mafiosi che appare trasparire in più passi degli scritti di Vito Ciancimino è contraddetta palesemente da altri scritti, quale, ad esempio, quello da lui manoscritto nel quale commenta che il noto Salvatore Cancemi, ove, come da questi asserito dopo avere iniziato la collaborazione con la Giustizia, avesse fatto parte dell’organismo di vertice di “cosa nostra”, avrebbe dovuto sapere della “trattativa” da questa portata avanti (v. foglio manoscritto nel quale si legge: “Se Cangemi facesse parte della Cupola doveva sapere della trattativa condotta da con la Cupola (come membro autorevole della Cupola) d’accordo coi Carabinieri”).

V’è, poi, ad ulteriore riprova di quanto appena osservato, anche quel foglio manoscritto nella cui parte iniziale Vito Ciancimino fa cenno, anche in questo caso senza alcuna vera spiegazione, ad un uomo politico ed a ciò che aveva detto a Mori e De Donno, appunto, durante la “trattativa” (v. manoscritto nel quale si legge “Mafioso secondo Marchese 18-11-1992. Se avessi fatto parte di una associazione mafiosa non avrei potuto ipotizzare quella collaborazione fatta coi carabinieri (nome uomo politico PAROLA INCOMPRENSIBILE) perché sarei stato costretto a dire il nome. come ho detto durante la trattativa sia al Col. Mori che al Cap. De Donno”).

Traspare, in conclusione, una chiara reticenza di Vito Ciancimino che, al di là di alcuni passaggi certi (quali, ad esempio, quelli dei ripetuti incontri con Mori e De Donno per la finalità di instaurare un contatto con i vertici mafiosi e quello conseguente dell’interlocuzione con Cinà di cui si dirà meglio più avanti esaminando anche altre risultanze) non consente di ricostruire adeguatamente, né sotto il profilo dei tempi, né sotto il profilo del contenuto, quei contatti che, comunque, tanto Mori e De Donno nelle loro prime esternazioni, quanto lo stesso Vito Ciancimino, concordemente ed esplicitamente hanno ricondotto in modo esplicito ad una “trattativa”.

Per meglio ricostruire tale “trattativa”, pertanto, sarà necessario ricorrere ad altre risultanze, relative, da un lato, all’operato in quella fase di Subranni, Mori e De Donno e, dall’altro, all’operato dei vertici mafiosi dell’epoca, di cui si darà conto nei capitoli successivi.


L’accusa: minaccia a “corpo politico”. Agli imputati Riina, Brusca, Bagarella, Cinà, Subranni, Mori, De Donno e Dell’Utri, unitamente ad altri soggetti nei cui confronti si è proceduto separatamente (Provenzano Bernardo e Mannino Calogero) ovvero deceduti (Parisi Vincenzo e Di Maggio Francesco), il P.M. contesta il reato di minaccia ad un corpo politico previsto dall’art. 338 c.p., per avere, in particolare, usato minaccia a rappresentanti del Governo della Repubblica al fine di turbare la regolare attività di quest’ultimo (v. imputazione di cui al capo A).

Tale contestazione, per le problematicità dell’ipotizzata figura di reato evidenziate anche dai difensori degli imputati sin dalle battute iniziali del processo (v. richiesta di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. già avanzata in sede di questioni preliminari dagli imputati Mori e Subranni e, sotto altro profilo, dagli imputati Riina e Bagarella) rende necessarie alcune considerazioni di carattere generale.

La prima, certamente principale e fondamentale, questione riguarda la configurabilità di tale reato rispetto ad un organo costituzionale qual è il Governo della Repubblica.

Si sostiene, infatti, in particolare da parte della difesa dell’imputato Dell’Utri […], con l’avallo anche di autorevole dottrina, che la nozione di “corpo politico” di cui all’art. 338 c.p. non può ricomprendere gli organi costituzionali (come, appunto, il Governo o le Assemblee legislative o la Corte Costituzionale) per i quali, infatti, il codice penale appresta una specifica tutela con la previsione di cui all’art. 289 c.p. (attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali).

Tale argomentazione è stata, poi, ripresa, nel prosieguo della discussione, anche dalle difese di tutti gli altri imputati del medesimo reato.

Ed in effetti, la nozione di “corpo politico” è stata sempre alquanto controversa nella dottrina penalistica più tradizionalista, che spesso ha stentato ad individuare gli organi riconducibili a tale previsione a differenza di quanto, invece, è più semplice fare per le concorrenti nozioni di “corpo amministrativo” e “corpo giudiziario” pure richiamate nel medesimo articolo 338 c.p. […].

In realtà, però, la difficoltà principale non va individuata nella nozione di “corpo politico”, bensì in quella più ristretta di “corpo” laddove non v’è diretta corrispondenza con l’esplicitazione normativa terminologica degli organi dello Stato.

Tuttavia, col termine “corpo” può ritenersi, in sostanza, che il legislatore abbia inteso riferirsi genericamente ad ogni autorità o organo costituiti in collegio, come si ricava dal successivo riferimento contenuto nello stesso art. 338 c.p. […].

Già tale definizione impone, dunque, con tutta evidenza, di includere tra i “corpi politici”, innanzitutto, proprio il Governo della Repubblica, che costituisce, anzi, il principale organo che, in forma collegiale, svolge una attività indubitabilmente “politica” .

Ed in tal senso, infatti, si è espressamente pronunziata la Suprema Corte con una sentenza Cv. Cass. Sez. VI 18 maggio 2005 n. 32869) volutamente pressoché trascurata dalle difese […]. In realtà, l’affermazione della Suprema Corte è assolutamente chiara ed inequivocabile, laddove fa seguire l’indicazione del Governo della Repubblica (così come quelle analoghe del Parlamento e delle Assemblee Regionali) alla definizione di “Corpo politico” che nella stessa sentenza viene offerta: “Per corpi politici vengono intesi quegli organismi che svolgono una funzione politica”[…].

La seconda questione da affrontare ancora in termini di generalità è quella della configurabilità della fattispecie criminosa dell’art. 338 c.p. nel caso in cui la violenza o minaccia sia perpetrata nei confronti, non dell’intero Governo riunito, ma nei confronti di uno o più Ministri che del Governo fanno parte.

Si è visto, invero, che soggetto passivo del reato è l’organo pubblico dello Stato nell’integrità della sua composizione collegiale mediante la quale esercita le sue funzioni. Tuttavia, deve ritenersi configurabile il reato in esame anche quando la minaccia, seppure indirizzata nei confronti di un solo componente dell’organo collegiale non in presenza dello stesso organo collegiale riunito, sia, però, diretta a minacciare l’intero organo collegiale allo scopo di impedirne o turbarne l’attività (interpretazione ora, come si vedrà, rafforzata, per quanto si dirà più avanti, dalla modifica apportata dalla legge 3 luglio 2017 n. 105 che ha inserito le parole “, ai singoli componenti” dopo le parole “Corpo politico, amministrativo, giudiziario”).

In sostanza, si configura, comunque, il reato previsto dall’art. 338 c.p. Quando l’agente, pur rivolgendo la minaccia ad un componente eventualmente non in presenza dell’organo collegiale riunito, mira non già alla persona fisica del componente medesimo, ma al corpo politico al fine di impedirne o turbarne l’attività.


La grande paura e l’inizio della Trattativa  L’omicidio dell’On. Salvo Lima eseguito il 12 marzo 1992 ha certamente destato grandi preoccupazioni sia nell’ambito delle Istituzioni sia in alcuni soggetti, principalmente colleghi di partito dell’On. Lima (v. dich. della figlia di quest’ultimo, Susanna Lima all’udienza del 24 ottobre 2013: ” … erano tutti preoccupati, anche perché era un evento che non si aspettava nessuno, non eraatteso, almeno così io avevo percepito … ….. preoccupazioni che non sapevano che cosa stava succedendo, perché non si aspettavano… Si era in piena campagna elettorale, non si aspettavano nulla del genere .. “), che concretamente percepirono, a quel punto, il pericolo di potere essere a loro volta vittime di “punizioni” o vendette mafiose.

Degli allarmi lanciati dal Capo della Polizia e dal Ministro dell’Interno Scotti nei giorni successivi all’omicidio Lima si dirà più avanti. Qui ci si intende concentrare, invece, sui timori che il predetto omicidio ebbe a suscitare in uno dei più importanti esponenti della politica siciliana dell’epoca, l’On. Calogero Mannino, appartenente al medesimo partito dell’On. Lima, la Democrazia Cristiana, ed allora, peraltro, Ministro in carica nel Governo presieduto dall’On. Andreotti.

Nell’ipotesi accusatoria oggetto di verifica in questa sede, infatti, è l’On. Mannino che, manifestando il timore di essere ucciso così come era avvenuto per l’On. Lima, sollecita alcuni Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri ad adottare iniziative che potessero salvargli la vita, ponendo, quindi, le basi per quella che oggi mediaticamente viene definita “trattativa Stato-mafia” (v. capo di imputazione con quale si contesta, appunto, al Mannino di avere contattato “a cominciare dai primi mesi del 1992, esponenti degli apparati info-investigativi al fine di acquisire informazioni da uomini collegati a “Cosa Nostra” ed aprire la sopra menzionata “trattativa” con i vertici dell’organizzazione mafiosa, finalizzata a sollecitare eventuali richieste di “Cosa Nostra” per far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista, già avviata con l’omicidio dell’on. Salvo Lima, e che aveva inizialmente previsto l’eliminazione, tra gli altri, di vari esponenti politici e di Governo, fra cui egli stesso Mannino”).

Prima di esaminare le risultanze acquisite nel presente processo, appaiono, però, opportune alcune precisazioni.

L ‘On. Calogero Mannino era originariamente coimputato per il concorso nel reato di minaccia a Corpo politico nel medesimo procedimento che ha dato luogo al presente processo. Il predetto imputato, però, a differenza degli altri imputati, in sede di udienza preliminare, ha richiesto il giudizio abbreviato e, pertanto, il relativo procedimento è stato separato e si è concluso, in primo grado, con la sentenza di assoluzione pronunziata dal Giudice per l’Udienza Preliminare in data 4 novembre 2015 (non ancora irrevocabile, essendo in corso il processo di appello promosso dal P.M.).

Esula, dunque, dal presente processo l’esame del ruolo che l’On. Mannino avrebbe avuto, in relazione alla fattispecie di reato contestata agli altri imputati del reato di cui al capo A) della rubrica, non soltanto quale “promotore” della c.d. “trattativa Stato-mafia” (v. condotta sopra già ricordata), ma, altresì, in un momento successivo anche per avere esercitato “in relazione alle richieste di “Cosa Nostra”, indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all’art. 41 bis ord. Pen.”, così “agevolando lo sviluppo della “trattativa” Stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando il proposito criminoso di “Cosa Nostra” di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista” (v. capo imputazione nella parte concernente Calogero Mannino).

In questa sede la condotta dell’On. Mannino sarà, dunque, esaminata solo ed esclusivamente quale ulteriore eventuale antecedente fattuale della c.d. “trattativa Stato-mafia”, che, d’altra parte, come è stato già sopra ricordato (ma è bene sempre ribadirlo), non configura in sé il reato oggetto di esame nel presente processo.

Invero, la condotta che rileva ai fini della responsabilità penale da verificare in questo processo in relazione alla contestazione della fattispecie criminosa prevista dall’art. 338 c.p. non è minimamente quella di colui che eventualmente abbia per propri fini (investigativi o personali) cercato contatti diretti o indiretti con la mafia e neppure quella di colui che, in ipotesi, tali contatti abbia coltivato per il fine di ottenere la cessazione, senza condizioni, di quella nuova strategia mafiosa che già l’omicidio dell’On. Lima lasciava intravedere e prevedere. La condotta penale qui da accertare, infatti, è solo ed esclusivamente quella consistente nelle minacce rivolte eventualmente dai mafiosi nei confronti del Governo della Repubblica per ottenere determinati benefici e, ancora eventualmente, quindi, nell’intervento di terzi che prima abbiano stimolato l’iniziativa dei vertici mafiosi rafforzandone il proposito criminoso e, successivamente, si siano fatti carico anche di “recapitare” le minacce (o, quanto meno, di agevolare tale recapito al destinatario) così consentendo ai mafiosi il raggiungimento del loro scopo.

Messo da parte il giudizio etico che non compete a questa Corte, resta, pertanto, certamente al di fuori del perimetro penale come sopra in sintesi delineato l’iniziale intervento sollecitatorio di possibili contatti con i vertici mafiosi finalizzati alla propria esclusione, quale vittima, dal programma criminoso omicidiario già adottato (prima parte della condotta del Mannino descritta nel capo di imputazione).

Se così è – e, comunque, ciò è quello che ritiene questa Corte -, non può esservi allora alcuna interferenza con il separato giudizio ancora pendente, per il medesimo reato, a carico di Calogero Mannino, se non con riferimento ad una fase successiva della vicenda, quella delle “pressioni”, di cui ha riferito il teste Cristella, che Mannino avrebbe fatto sul Dott. Di Maggio in relazione alla questione del 41 bis. Ma di ciò si parlerà più avanti esaminando la predetta testimonianza e le altre risultanze probatorie concernenti le vicende del 1993.

Ciò premesso, tornando temporalmente alla prima metà dell ‘anno 1992, possono ritenersi effettivamente provati tanto il timore (se non il terrore) di Calogero Mannino, subito dopo l’uccisione di Salvo Lima, di subire anch’egli la punizione o la vendetta di “cosa nostra” per non essere riuscito a raggiungere il medesimo risultato preteso nei confronti di Salvo Lima (l'<> del maxi processo) o quanto meno per avere voltato le spalle a “cosa nostra” nel momento di maggiore difficoltà di questa dopo avere per molti anni instaurato con alcuni suoi esponenti rapporti, che, seppure, con apprezzamento ex post, in concreto non avevano avuto una effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione mafiosa (l’On. Mannino, infatti, per tale ragione, pur a fronte di comprovati rapporti con esponenti mafiosi quali risultano dalle sentenze pronunziate nei suoi confronti, è stato assolto dal reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa: v. sentenze prodotte in atti dal P.M. all’udienza del 22 settembre 2017), apparivano in ogni caso ai mafiosi di buona “convivenza”; quanto il conseguente intervento del medesimo Calogero Mannino nei confronti di alcuni Ufficiali dell’Arma coi quali era in stretti rapporti affinché verificassero (ed eventualmente ovviassero a) quel pericolo che gli appariva estremamente immanente ed imminente.


Il pentito Giuffré e l’attacco allo Stato  >Sono stati acquisiti sicuri elementi di prova che consentono di collocare alla fine del 1991 l’inizio della nuova strategia mafiosa (decisa dopo alcuni anni di voluta “sommersione” in attesa della conclusione del c.d. “maxi processo”) che avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni delle Stato e, più specificamente, contro rappresentanti di queste che o avevano tradito aspettative e promesse ovvero costituivano il nucleo operativo – e, nel contempo, la “punta di diamante” – con il quale lo Stato aveva più efficacemente contrastato l’organizzazione mafiosa “cosa nostra”.

In particolare, molteplici elementi di prova indicano che nel detto periodo, certamente antecedente anche alla conferma della sentenza del maxi processo da parte della Corte di Cassazione in data 30 gennaio 1992, si tennero una riunione della “commissione regionale” ed una riunione della “commissione provinciale di Palermo” di “cosa nostra”, entrambe convocate da Salvatore Riina, all’epoca, di fatto, al di là della formale esistenza degli organismi collegiali prima ricordati, capo assoluto ed incontrastato dell’organizzazione mafiosa.

Entrambe le riunioni, quindi, sono servite al Riina per fare recepire e ratificare a quegli organismi collegiali la sua volontà di sferrare un violento attacco allo Stato e ciò una volta acquisita, da parte dello stesso Riina, la consapevolezza che, contrariamente alle tante assicurazioni a più livelli manifestategli (e da lui, quindi, “girate” ai sodali per giustificare quella fase di “sommersione” che si protraeva da alcuni anni e sostanzialmente interrotta soltanto, nell’agosto del 1991, dall’omicidio Scopelliti, commesso, però, in Calabria al fine di evitare l’immediato diretto collegamento con “cosa nostra”), il maxi processo avrebbe avuto, infine, una conclusione infausta per l’associazione mafiosa da lui capeggiata.

Delle predette riunioni ha riferito, innanzi tutto, Antonino Giuffrè, collaboratore di comprovata affidabilità per la gran mole di riscontri acquisiti, con sentenze passate in cosa giudicata, sul ruolo apicale dallo stesso svolto nell’ambito dell’associazione mafiosa (“capo” di uno dei “mandamenti” all’epoca più importanti, quello di Caccamo), sui rapporti diretti e personali con i vertici di questa, Riina e, soprattutto, Provenzano, e su molteplici vicende criminali, sia direttamente vissute, sia conosciute in virtù del suo ricordato ruolo, sempre tutte raccontate con assoluta coerenza.

Ebbene, Giuffrè ha, innanzitutto, raccontato di avere egli stesso partecipato, per la carica di capo “mandamento” che rivestiva, ad una riunione, appunto, della “commissione provinciale” che si tenne nel mese di dicembre 1991 e nella quale si deliberò di uccidere, da un lato, Lima ed altri politici che avevano tradito le attese di “cosa nostra” e, dall’altro, alcuni magistrati che storicamente venivano considerati nemici di “cosa nostra” (“lo ho partecipato alla riunione in Cosa Nostra del dicembre del 91, se la memoria non mi inganna, dove appositamente c’è stata la famosa riunione della resa di conti tra Cosa Nostra e le persone ostili a Cosa Nostra, tra cui i politici da un lato e ha cui Salvo Lima e altri politici, e la resa dei conti nei confronti dei Magistrati, quali Falcone e Borsellino.

Questo è stato fatto in una famosa riunione del 91, del dicembre del 91. Tanto è vero che poi nel 92 ci sarà l’uccisione di Lima e del dottore Borsellino, del dottore Falcone, eccetera, eccetera. Da tenere presente che nella lista dei politici vi erano … Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell’ambito politico, appositamente per il discorso che era partito politicamente della inaffidabilità, ed ecco il discorso dell’87, quando c’è stato il cambiamento di rotta, venivano … Erano stati considerati inaffidabili questi politici”).

Giuffré ha indicato, quale luogo di tale riunione, seppur non in termini di assoluta certezza, la casa di certo Guddo, certamente identificabile in Girolamo Guddo proprietario di una villa presso la quale, come emerso in molteplici processi, si tennero in quel periodo molte riunioni dei vertici mafiosi (”Non me lo ricordo con precisione, ma buona parte delle riunioni venivano fatte in unacasa di Guddo, se vado bene, nell’abitazione di Guddo, dove vi era un grande garage con attigua una grande stanza dove vi era sistemato un grande tavolo, dove ci sedevamo. […] Chi fosse il Guddo io non lo so, cioè, perché non l’ho mai frequentato, lo vedevo là, lo conoscevo, poi successivamente, a distanza di tempo, mi è stato dai Marcianò diciamo portato avanti, che aveva degli interessi sulla zona di Termini Imerese, mi sembra di avergli fatto pure qualche favore, niente di tutto questo”).

In quella occasione, quindi, ancora secondo Giuffrè, Riina comunicò la sua decisione a tutti capi “mandamento” facenti parte della “commissione provinciale” (” .. Angelo La Barbera, Raffaele Ganci, Peppino Farinella, Salvatore Madonia, io, Matteo Motisi, Salvatore Cangemi, Giovanni Brusca, Graviano, Giuseppe Graviano, Peppuccio Montalto, Salvatore Biondino, cioè tutta la commissione al completo, tutti i capi mandamento della provincia di Palermo”), i quali accolsero la decisione medesima con assoluto silenzio (“Diciamo che è stato commentato con l’assoluto silenzio, non c’è stato nessun commento. Già di per se stesso, come io ho detto in altre circostanze, è stata una riunione glaciale, di ghiaccio. Diciamo che non c’è stato … Si sentivano le mosche che volavano, non c’è stato nessun commento da parte di nessuno”).

Tale decisione del Riina fu sostanzialmente, innanzi tutto, quella di arrivare alla “resa dei conti” nei confronti di tutti coloro che avevano dato assicurazione che, alla fine, sarebbe stato possibile evitare gli ergastoli già inflitti nei gradi di merito del maxi processo (“È stato la conclusione diciamo di tutto un periodo di tempo, dalla metà degli anni 80 e anche prima, fino ad arrivare a quella data ein modo particolare da un lato vi era stato un abbandono, possiamo dire tranquillamente, da parte …

Cioè, un abbandono dell’appoggio politico di cui Cosa Nostra aveva goduto e quando parlo dell’appoggio politico, in modo particolare mi intendo riferire a quelli che erano i discorsi a livello di processi, vi erano state delle azioni molto importanti da parte delle forze di Polizia sotto la guida del dottore Falcone e del dottore Borsellino, discorsi importanti nella prima metà dell’80, quando già c’era stato Michele Greco con il mandato di cattura e poi ci saranno altre operazioni importanti che hanno interessato anche l’America, Milano, eccetera, eccetera, e poi in modo particolare con ilMaxi Processo. Cioè, nel momento in cui si è visto che le situazioni andavamo sempre peggio, diciamo che c’è stato, come ho detto, il discorso della resa dei conti nei confronti di tutti gli avversari di Cosa Nostra che avevano, ci avevano abbandonato. E anche una questione, come ho detto in altre circostanze, di immagine da parte di Salvatore Riina, dove in diverse circostanze, per rassicurare le persone che avevano dei familiari in carcere, eccetera, eccetera, diceva che la situazione dei carcerati, la situazione degli ergastoli si doveva risolvere. Mettiamoci in testa, diceva che dobbiamo farci ha nostra bella associazione, però di ergastoli nemmeno a parlarne. Poi, successivamente, il dire di Salvatore Riina è stato smentito in seno anche alla Commissione, quindic’è stata un intervento molto brutale da parte del Salvatore Riina contro quei personaggi che lui riteneva e che noi ritenevamo dei traditori. Da quel momento in poi iniziò una politica di aggressione violenta contro tutti questi personaggi”) e ciò in quanto, ormai, il Riina aveva acquisito la consapevolezza che, in realtà, a causa di un intervento attribuito al Dott. Falcone, con la sentenza della Corte di Cassazione sarebbero state confermate le condanne all’ergastolo già inflitte daigiudici di merito (“Si sapeva ufficiosamente se non vado male dei ricordi l’esito del Maxi Processo, che come ho detto è in forma ufficiosa. Ecco, posso dire che è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso …. …….. Sì. sì. lo vado a confermare perché già si vociferava che a causa di tutto un discorso anche precedente che c’era stato, cioè la sentenza andava male …. … … Diciamo che questa era ormai la strategia ufficiale, che diventava ufficiale e operativa nell’ambito di Cosa Nostra. Quindi diciamo che da quel momento in poi, dopo questa delibera. diventava ufficiale quanto era stato deciso contro i politici, cioè diciamo contro i nemici giurati di Cosa Nostra. Falcone e Borsellino. e contro i politici che si erano defilati nell’appoggiare Cosa Nostra … … …. Erano delle voci che già giravano all’interno di Cosa Nostra. quindi mi sembra che sia stato Riina in quella sede. ma già era un discorso che si avvalorava perché vi erano state… C’erano dei presupposti che già il cambiamento della sezione del processo. cioè tutto un complesso di situazioni che già nell’ambito nostro girava la voce che il processo, la sentenza andava male … … … Ricordo così diciamo a memoria a gomito, cioè, vi era stato anche un discorso travagliato in seno alla Cassazione dove doveva essere un procedimento che doveva andare in una determinata sezione. non mi ricordo sefosse quella presieduta da Carnevale e invece il processo è stato mandato in un’altra sezione. Questo è un discorso così che vagamente che mi vado a ricordare. Ci sono stati dei travagli anche all’interno della Cassazione. Comunque sono mi sembra di essere 99% certo che già a fine del 2001 si aveva sentore che il Maxi Processo prendeva una brutta piega.. … . … Cioè, chiedo scusa, parliamo del 91”).

E’ importante evidenziare per ciò che riguarda più specificamente i fatti oggetto di questo processo e per le considerazioni che si faranno sulla c.d. “trattativa”, che in quella riunione del dicembre 1991, ancora secondo Giuffré, venne esplicitato dal Riina esclusivamente un intendimento di vendetta (“La strada si doveva completamente abolire, tanto è vero che poi c’è stato l’omicidio Lima, quindi … … …. Diciamo in modo particolare in quella sede, cioè, l’eliminazione di tutti… Una vendetta cioè nei confronti di tutte quelle persone che non avevano adempiuto a dare una mano a Cosa Nostra, e qua parliamo per quanto riguarda i politici. Per quanto riguarda i Magistrati, diciamo che, come ho detto ieri, si trattava di persone, particolarmente il dottore Borsellino e ildottore Falcone, pericolose, che avevano lottato contro Cosa Nostra in modo particolarmente forte e intransigente, quindi diciamo che … “), mentre soltanto in una seconda successiva fase avrebbe poi preso campo l’intendimento di ricattare e minacciare lo Stato (“Diciamo che questo discorso di ricatto, di minaccia, è una tappa successiva al discorso delle stragi del 93, in modo particolare suFirenze, su Milano e su Roma. Diciamo che sono due tappe successive. Una prima tappa è quella dell’eliminazione delle persone che non avevano mantenuto, come ho detto, ripeto, gli impegni presi nei confronti di Cosa Nostra. Poi, successivamente, è scattato in contemporanea diciamo anche ildiscorso del ricatto e delle minacce allo Stato…. … …Il discorso poi, mi riallaccio al discorso del Provenzano in modo particolare…. … …Poi successivamente con il Provenzano. Diciamo che per quanto riguarda il 91 io le posso parlare di quello che le ho parlato, del discorso dell’eliminazione dei politici. Per quanto riguardano i discorsi di Firenze e altro, io ero completamente all’oscuro, come ho sempre detto e riferisco a questa Corte”).

Ancora per quanto riguarda il Giuffrè è opportuno qui ricordare che, secondo il predetto collaborante a quella riunione della “commissione provinciale” non partecipò Provenzano, pur non essendovi alcun dubbio, per i presenti, che quest’ultimo, come di consueto, avesse già precedentemente condiviso l’iniziativa con Riina (“Ripeto che non mi risulta a me che il Provenzano sia stato mai presente a una riunione di Commissione. Le posso tranquillamente dire che il Provenzano a detta di lui, a detta del Riina, a detta sia del Provenzano … Era a conoscenza sempre di tutto, di quello che avveniva nelle iniziative del Provenzano, tramite incontri che avevano privatamente tra di loro e tramite delle lettere che si scambiavano, questo sì …. ….. ….. C’è stato, per quello che io potevo capire, sin dall’inizio della loro ascesa al potere, diciamo, un … Hanno intrapreso la strada di comune accordo, si sono scambiati anche le zone di influenza dove potere operare ed ecco perché può sembrare una anomalia, che dice che quando mi si dice che il Provenzano ha partecipato alle riunioni di Commissioni, io devo dire no perché non l’ho mai visto, però con questo non è che vado a dire che Provenzano non c’entra niente nei discorsi. Ne è ugualmente consapevole e responsabile quanto lo è Salvatore Riina, per le ragioni di cui sto dicendo, che era sempre informato, era sempre a conoscenza e portavano avanti la stessa strategia, sia per quanto riguarda i discorsi nella guerra di mafia, sia per quanto riguarda l’eliminazione delle persone che poi dovevano essere eliminate”), circostanza che, d’altra parte, trova direttoriscontro nel fatto che già da alcuni mesi Provenzano aveva manifestato allo stesso Giuffrè l’intendimento di uccidere Lima (P.M DEL BENE: – Senta, allora procedo ad una contestazione per sollecitarle il ricordo su questo profilo, di questa interlocuzione con Provenzano, verbale di interrogatorio di Giuffrè Antonino reso alla Procura della Repubblica di Palermo il 26 settembre 2009, pagina Il, a penna, per le Difese. A specifica domanda del Pubblico Ministero, il signor Giuffrè, ebbe a rispondere: in tuffa onestà le devo dire una cosa, io ero stato informato che Lima doveva essere ucciso. Da chi? Dice il Pubblico Ministero. Giuffrè: da Provenzano. Pubblico Ministero: quando? Giuffrè: prima di andare a finire in galera, circa un sei mesi prima. Poiproseguendo, cioè, dice il Pubblico Ministero? Giuffrè: nel 91, nell’estate del ’91, settembre; DICH. GIUFFRE’: – Confermo quanto lei mi sta contestando diciamo che già c’era anche su Lima la voce che doveva essere … Per quelle circostanze che ho detto in precedenza; P.M. DEL BENE: – Quindi Provenzano era informato di questa decisione antecedentemente alla riunione a casa di Guddo, mi pare di capire. Questo vorrei capire comprendere, signor Giuffrè, mi perdoni.; DICH. GIUFFRE’: – Sì, sì, tranquillamente, tranquillamente, sì.. .. … … Contribuì indubbiamente perché, veda, Salvatore Riina un giorno mi disse che, parlando del Provenzano, che … Io con Bino posso avere delle vedute un pochino diverse, dice e forse è anche giusto così, però nel momento in cui noi ci alziamo dal tavolo, siamo in perfetta sintonia. Quindi da queste parole che mi ha detto il Salvatore Riina e da quanto mi diceva il Provenzano, diciamo che per quanto riguarda in modo particolare gli attacchi contro i politici e contro .. … …Erano… … …il Provenzano ne era a conoscenza ed era in perfettasintonia, diciamo, con il Salvatore Riina .. “).

E’ da segnalare, inoltre, che Giuffrè, però, ha negato che in occasione della detta riunione della “commissione provinciale” del dicembre 1991 si sia parlato di rivendicare gli omicidi che sarebbero stati commessi a nome della Falange Armata (“P. M. TARTAGLIA: – Per quanto riguarda le riunioni alle quali lei ha partecipato personalmente, lei ricorda se in queste riunioni, quando si parlò dell’eliminazione di Lima e delle successive attività in programma, fu avanzata da qualcuno la proposta di rivendicare queste azioni con la sigla della Falange Armata?; DICH. GIUFFRE’: – Completamente no”)

Infine, pur non avendovi partecipato per non avere titolo, Giuffrè, sulla base delle regole dell’attività di “cosa nostra” da lui conosciute, ha ipotizzato che quella riunione del dicembre 1991 potesse essere stata già preceduta da altra riunione della “commissione regionale” (“Potrebbe essere un discorso inverso … … …. Cioè che già c’erano stati degli accordi con le altre province su questastrategia e poi successivamente ne veniva data comunicazione dallo stesso Riina a livello provinciale, a Palermo”).


Strage di Capaci, la “premessa” del patto – Tra gli antefatti logico-fattuali della c.d. “trattativa Stato-mafia” di cui si dirà, assume, ovviamente, un ruolo del tutto centrale e forse determinante per la sua dirompente tragicità, anche la strage di Capaci nella quale persero la vita il Dott. Giovanni Falcone, la moglie Dott.ssa Francesca Morvillo e alcuni degli uomini della scorta del primo.

In questa sede, tuttavia, non appare necessario ricostruire quel tragici accadimenti, potendosi rinviare alle risultanze delle sentenze irrevocabili intervenute su tale delitto ed acquisite agli atti (la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Caltanissetta del 26 settembre 1997; la sentenza di secondo grado della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 7 aprile 2000; la sentenza della Corte di Cassazione del 30 maggio 2002).

Quel che semmai è opportuno evidenziare, per le valutazioni che si faranno nel prosieguo, è che dal complesso esame di tali sentenze emerge con chiarezza l’intento vendicativo e punitivo che ebbe in quel momento ad animare la feroce reazione di Salvatore Riina pur nell’esecuzione di una “condanna a morte” del Dott. Falcone risalente nel tempo, tanto da abbandonare improvvisamente la possibile più agevole esecuzione del delitto in Roma per perpetrare una strage senza precedenti e così manifestare coram populo la persistente potenza di “cosa nostra” e della propria persona (v. quanto successivamente si dirà riguardo alle risultanze delle intercettazioni eseguite nel 2013 nei confronti dello stesso Riina) nonostante il grave colpo inferto dallo Stato con la sentenza del maxiprocesso.

Si vuole dire, in altre parole, che in quel momento era ben lungi da Salvatore Riina l’intento di formulare richieste trattativiste nei confronti di Istituzioni dello Stato (che, altrimenti, sarebbe stato più utile non portare lo scontro alle estreme conseguenze con una strage così eclatante, che, nella logica delle cose, avrebbe dovuto, semmai, inevitabilmente chiudere qualsiasi possibilità di dialogo e “scatenare”, da parte dello Stato, una reazione senza quartiere diretta a sgominare definitivamente l’organizzazione mafiosa siciliana e quella sua leadership così sanguinaria), ma soltanto quella di dimostrare la forza e l’ineluttabilità della reazione di “cosa nostra” all’attacco sferrato dallo Stato con le condanne inflitte ali ‘esito del maxiprocesso.

In sostanza, dunque, non v’era ancora alla vista alcuna ipotesi di minaccia di ulteriori azioni finalizzata ad ottenere benefici (e, quindi, di ricatto), ma solo e soltanto l’esplosione della furia vendicatrice di Salvatore Riina nei confronti dei magistrati che venivano individuati quali artefici di quel successo dello Stato e di quei personaggi, gravitanti attorno all’associazione mafiosa beneficiando di appoggi elettorali e prebende economiche, che non erano stati in grado di opporsi a quell’esito infausto (per “cosa nostra”).


Sul “patto” sfilano i big della politica  Il teste Giuliano Amato è stato esaminato all’udienza dei 15 giugno 2016, allorché, in sintesi, ha riferito nelle parti più direttamente concernenti l’On. Scotti (per il resto della testimonianza, concernente anche aspetti dei contatti Mori-Ciancimino, si darà conto nel prosieguo):

– di non avere ricordo del dibattito pubblico che si sviluppò dopo gli allarmi lanciati dal Ministro Scotti e dal Capo della Polizia Parisi nel marzo 1992 e che pure, insieme ad altri esponenti politici, lo riguardavano […];

– che si pervenne alla sua nomina come Presidente del Consiglio su indicazione dell’On. Craxi nell’impossibilità di questi di assumere egli stesso l’incarico per il coinvolgimento in alcune vicende giudiziarie […];

– che soltanto dopo l’affidamento dell’incarico seppe dal Segretario Generale Gifuni della visita fatta da Scotti e Martelli al Presidente della Repubblica al fine, per quanto si diceva, di proporsi per il nuovo governo […], ma di non avere saputo e di non sapere che tale visita fu causa di dissidio tra Martelli e Craxi […];

– che il 18 giugno 1992, ricevuto l’incarico, aveva iniziato le consultazioni con i partiti, acquisendo, come di consueto, le indicazioni sui ministri da nominare […];

– che, tuttavia, in quella occasione egli ritenne di discutere alcune di quelle indicazioni sia con il segretario della D.C. Forlani, sia successivamente nell’apposita riunione avuta con il Presidente della Repubblica la mattina di domenica 28 giugno 1992 quando si decise di escludere alcuni dei proposti per il temuto coinvolgimento in vicende giudiziarie […], mentre, nella stessa occasione, non furono modificate le indicazioni per Scotti e Mancino (”Non toccai, e questo già ce lo siamo … gliel’ho detto, tra le designazioni della Democrazia Cristiana, quella di Mancino all’Interno e di Scotti agli Esteri”);

– che il Presidente Scalfaro accettò le proposte che egli gli aveva avanzato (“Beh, nell’esperienza che io ho fatto in questa occasione ci fu un maggior peso del Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica accettò quello che il Presidente del Consiglio gli proponeva. Nessuna delle proposte che io gli feci, venne contestata dal Presidente della Repubblica, devo dire la verità. […]”);

– che le indicazioni di Scotti agli Esteri e Mancino all’Interno non fu oggetto di discussione con il Capo dello Stato (“Questo non fu oggetto, no”);

– che egli si pose il problema della continuità dell’azione di governo di contrasto alla mafia, ma che il nome di Mancino che gli era stato proposto per il Ministero dell’Interno era a tal fine rassicurante (“P.M Dott. DI MATTEO – Quello è un momento particolare, era trascorso meno di un mese dalla strage di Capaci. Lo le chiedo, in particolare per la individuazione del Ministro degli Interni e di quello della Giustizia, in quel momento lei, nella veste di Presidente del Consiglio incaricato, si pose il problema – intanto le chiedo se si pose il problema, non … – di cercare di assicurare una continuità all’azione di contrasto alla mafia, che era stata portata avanti anche con una serie considerevoli di Decreti Legge o provvedimenti di vario tipo, in ultimo quello dell’8 giugno, dal precedente Governo?; TESTE G. AMATO – E certo che me ne preoccupai, anche perché poi il lavoro che facemmo fu soprattutto di assicurare il passaggio parlamentare rapido e, anzi, il rafforzamento di quel decreto dell’8 giugno. Se lei si riferisce alle persone, mah, io ritenevo, tra le proposte che ebbi da Forlani, il nome di Mancino un nome che mi tranquillizzava; lo conoscevo, era una persona che di cose del genere si era, da capogruppo, occupato, era una persona solida e quindi non avevo problemi davanti alla scelta che la Democrazia Cristiana aveva fatto con lui, né mi parve che l’avesse, appunto, il Capo dello Stato, che non obiettò, e poi Mancino si mise a lavoro su questi temi”);

– che per quanto gli fu riferito, Scotti, in un primo momento, a causa della incompatibilità col ruolo di parlamentare decisa dalla direzione della D.C., aveva deciso di restare fuori dal governo e che, quindi, quando lo stesso aveva deciso di rientrare nel governo, il ruolo di Ministro dell’Interno era stato già destinato all’On. Mancino […];

– che, d’altra parte, Scotti non gli aveva manifestato il desiderio di rimanere nel dicastero già occupato per proseguire nell’azione di contrasto alla mafia già intrapresa (“lo ricordo … guardi, io ricordo un’unica cosa.’ che una persona che io conoscevo bene, di cui mi consideravo e mi considero amico, se avesse avuto seriamente questo problema, mi sarei aspettato che mi avesse chiamato e mi avesse detto Giuliano: “Io voglio restare all’Interno, lo considero importante per la lotta contro la mafia, e qui rischia che mi mettono fuori”. Questo non è accaduto, è l’unica cosa che ricordo, questa che non è accaduta”) ed egli non aveva letto le interviste rilasciate in proposito in quei giorni dallo stesso Scotti, il quale, d’altra parte, nulla gli aveva detto neppure dopo la formazione del nuovo governo […];

– di non ricordare alcuna sollecitazione affinché Martelli non venisse confermato al Ministero della Giustizia (“So che Claudio ha detto questo; io, quando lei o qualche suo collega me l’ha chiesto, ho detto che non lo ricordavo. L’ultima volta che questa cosa mi è stata chiesta in questa lunga vicenda, io ho aggiunto, mi pare di ricordare, di averlo ex post chiesto a Salvo Andò, che era il responsabile delle questioni giustizia del PSI, perché lui meglio di me poteva ricordare se c’era la volontà da parte del segretario del partito di allontanare Martelli dalla Giustizia. E lo stesso Andò mi ha detto che non ricorda nulla in questo senso, né ricorda di essere mai stato lui designato, eventualmente, per la giustizia, perché c’era Martelli, tanto è vero che lui divenne Ministro della Difesa in quel Governo. Questa è la risposta che ho dato e che le posso confermare”);

– di non ricordare, pur non escludendolo, che Scotti già nella immediatezza della nomina come Ministro degli Esteri presentò le dimissioni e che egli lo abbia invitato a soprassedere per l’imminenza di alcuni impegni internazionali […];

– che il Ministro Mancino era assolutamente favorevole al decreto dell’8 giugno 1992 per la cui tempestiva conversione in legge si prodigò (“Era assolutamente favorevole. anzi lo considerava essenziale che concludessimo nei tempi consentiti”) anzi rafforzandolo […];

– di avere saputo, forse da Forlani, che la designazione di Mancino al governo serviva anche a liberare il posto di capogruppo da destinare a Gava […].

Il teste Arnaldo Forlani è stato esaminato all’udienza del 5 febbraio 2015, allorché, in sintesi, ha riferito:

– che il partito invitava i propri esponenti che assumevano incarichi di governo ad assumere una linea di assoluta intransigenza verso il fenomeno mafioso (“Ma io ricordo che l’atteggiamento del mio Partito nei suoi organi dirigenti, e quindi per le direttive e gli orientamenti che dava anche agli uomini che assumevano responsabilità di Governo, era di un ‘assoluta intransigenza, di una lotta sistematica al fenomeno criminale, in modo particolare alla mafia in Sicilia … … … Ia direttiva era di un ‘assoluta coerenza, anche con il passato e quindi di un’assoluta intransigenza nel perseguire questi fenomeni”);

– che in occasione della formazione del nuovo governo la Democrazia Cristiana designò Mancino quale Ministro dell’Interno[…] e ciò a seguito di decisione dell’Ufficio Politico composto dal Presidente De Mita, dal Segretario Forlani e dai presidenti dei gruppi parlamentari Gerardo Bianco e Nicola Mancino […], cui, tuttavia, si aggiungevano talvolta i responsabili di singoli settori e i due vice segretari Lega e Mattarella […];

– che tale designazione, come anche le altre, fu fatta pochi giorni prima della formazione del nuovo governo col consenso di tutti e senza alcuna drammaticità […];

– di non ricordare in proposito interventi del Presidente della Repubblica […], rettificando, quindi, sul punto una precedente dichiarazione contestatagli […];

– che anche Scotti, così come gli altri ministri uscenti, era nella lista dei ministri da proporre per il nuovo governo, ma che, poi, taluni di questi, tra cui lo stesso Scotti, si autoesclusero per la regola della incompatibilità tra ruolo di ministro e mandato parlamentare […];

– che, tuttavia, successivamente, quando era stato già indicato Mancino quale Ministro dell’Interno, Scotti aveva cambiato idea e dato la sua disponibilità ed a quel punto, quindi, fu designato per il Ministero degli Esteri […];

– che tutto avvenne nel volgere di ventiquattro ore e che fu Gerardo Bianco ad informare Scotti della nomina […];

– che non vi fu alcun dissenso nella designazione di Mancino […];

– che, poiché Scotti venne nominato Ministro nonostante la regola della incompatibilità col mandato parlamentare, certamente il medesimo ebbe, ad un certo momento, ad accettare la detta regola allorché fu contattato dall’Ufficio Politico, probabilmente dall’On. Bianco […];

– che tutti i Ministri accettarono la medesima regola e, tranne Scotti, si dimisero […];

– che non si pose un problema di continuità della linea politica del Ministero dell’Interno perché Mancino venne ritenuto assolutamente idoneo ad assumere quell’incarico (”Quello che posso dire è che l’indicazione relativa a Mancino derivava da un particolare giudizio dell’ufficio politico circa la idoneità piena del personaggi ad assumere questa responsabilità, quindi certamente la persona che veniva da noi indicata non andava al Ministero per rendere più labile e meno risoluta l’azione e la lotta nei confronti della criminalità organizzata …. … per continuare in una linea di coerente lotta alla criminalità organizzata …. . , . … questo appartiene alla logica dei Partiti, mica uno fa il Ministro in eterno, allora venne indicato Mancino. Mancino era uno dei personaggi più autorevoli, era quello che aveva avuto una lunga responsabilità parlamentare ed era concorde l’opinione che aveva doti di fermezza caratteriale e di risolutezza particolarmente idonee ad assumere quella responsabilità”);

– che, d’altra parte, nulla in proposito gli fu rappresentato da Scotti, le cui obiezioni riguardavano soltanto la questione dell’incompatibilità […], cui, però, nella immediatezza della formazione del governo, ebbe a rinunziare secondo quanto riferito in seno all’Ufficio Politico da tal uno dei suoi componenti […];

– che le misure antimafia del decreto legge del giugno 1992 ed il successivo dibattito parlamentare per la conversione in legge non furono oggetto di discussione all’interno del Partito[…];

– di non ricordare specificamente l’allarme lanciato dal Ministro Scotti nel marzo 1992 (“Ma l’allarme era un dato non di eccezione, come la parola indurrebbe a credere, era un dato di continuità assoluta”) e di avere, invece, un ricordo vago della lettera di solidarietà a Scotti pubblicata da alcuni parlamentari sul quotidiano del Partito […];

– di ricordare anche la preoccupazione che vi era allora per alcuni politici siciliani, tra i quali Mannino (“Che gli uomini della DC con responsabilità pubbliche incorressero in minacce, in rischi, questo è un dato oggettivo, insomma, che appartiene alla storia del Paese, alle vicende, agli assassini intervenuti nei confronti di uomini politici, di Sindaci, di Presidente della Regione … .. … 1’atteggiamento di lotta e di intransigente contrapposizione alla criminalità, alla mafia è una linea di coerenza della Democrazia Cristiana, sempre tenuta, e quindi non è che sia cambiata o abbia avuto degli adeguamenti diversi a seconda … Quindi Mannino era segretario in quel periodo, segretario regionale della Democrazia Cristiana, è evidente che incorreva in dei rischi le notizie allarmanti che venivano … … .. rappresentate e in termini di opinione pubblica, di stampa, e dagli stessi rapporti e relazioni di Governo, certo, ne avevamo notizia come tutti e per quanto ci riguarda comportavano orientamenti e direttive di assoluta intransigenza”).

In sede di contro esame, quindi, il teste ha ulteriormente aggiunto e precisato:

– che la designazione di Mancino avvenne in conseguenza anche del fatto che il Seno Gava aspirava e stava per essere eletto alla carica di capogruppo precedentemente ricoperta dallo stesso Mancino […];

– di non avere saputo all’epoca che Scotti ebbe a presentare una lettera di dimissioni nella immediatezza della sua nomina quale Ministro degli Esteri […] e di non sapere, quindi, spiegare perché sia stata presentata tale lettera stante che precedentemente lo stesso Scotti aveva acconsentito alla nomina (”No, non so spiegarlo, è una contraddizione che non so spiegare … … … Quello che so è che a un certo punto Scotti ha accettato di andare agli Esteri e anche di buon grado e che, quindi, accettando di fare il Ministro degli Esteri avrebbe rassegnato le dimissioni da

Parlamentare”).

Il teste Claudio Martelli è stato esaminato nelle udienze del 9 e 15 giugno 2016 ed ha reso dichiarazioni anche su molti altri fatti rilevanti in questo processo diversi da quelli più strettamente attinenti alla vicenda della sostituzione, al Ministero dell’Interno, dell’On. Scotti.

In questo capitolo, quindi, si riportano soltanto le dichiarazioni testimoniali del Martelli relative a tale ultima vicenda, in ordine alla quale, in particolare, il teste, in sintesi, ha riferito:

– che Scotti, quando gli fu proposto il Ministero degli Esteri, gli disse che era dispiaciuto, ma che non avrebbe potuto dire di no a quell’incarico prestigioso (“Quando gli si propone e lo si invita, si comunica che deve lasciare il Ministero degli Interni e si propone Ministro degli Esteri, lui mi dice che era dispiaciuto, ma come posso dire di no? Come posso dire di no … “), anche se, forse, la sua aspirazione principale era quella di segretario della DC (“E lui in realtà, secondo me, non pensava più né a una cosa, né all’altra, pensava a fare il segretario del suo partito e questo lo si capisce con tutta evidenza nel momento in cui subentra la questione dell’incompatibilità tra incarico parlamentare e incarico di Governo. In quel momento Scotti si dimette anche da Ministro degli Esteri. E perché? Perché voleva fare il segretario del partito e quindi voleva essere parlamentare, non so se è chiaro”);

– che quel colloquio era avvenuto qualche giorno prima della formazione del Governo […];

– che Scotti gli disse che nel suo partito gli facevano pagare anche provvedimenti di scioglimento di alcuni consigli comunali adottati come Ministro dell’Interno (“P. M TERESI: – A proposito di questo, si accennò mai al consenso politico o al dissenso politico che ebbero gli scioglimenti dei

Consigli Comunali?; DICH. MARTELLI: – Accidenti, questa era la spiegazione che mi dava Scotti, mi dava Vincenzo … … … Io ho rotto le scatole a troppi nel mio partito con lo scioglimento dei Consigli Comunali …. … … Questa me la fanno pagare, mi fanno pagare questa”) e che si intendeva tornare alla precedente situazione di convivenza con la mafia (”P. M TERESI: – …. ricorda se in queste interlocuzioni si parlò di un ritorno al passato, di una restaurazione del clima che riguardava i rapporti con le mafie, con la mafia?; DICH. MARTELLI: – Sì, sì, se ne parlò eccome, credo che l’espressione che usavamo era … lo dicevo più spesso normalizzazione, lui diceva tornare alla convivenza o la coabitazione tra Stato e mafia”);

– di non sapere come si pervenne alla nomina di Mancino quale Ministro dell’Interno al di là di quanto dichiarato dallo stesso secondo cui tale nomina era stata voluta innanzitutto dal Presidente Scalfaro […];

– che Scotti attribuiva prevalentemente ai suoi provvedimenti di scioglimento dei consigli comunali la ragione della sua sostituzione quale Ministro dell’Interno […];

– che Scotti ambiva a divenire segretario della D.C. e per tale ragione non intendeva dimettersi da parlamentare (“…questo lo ricordo benissimo, perché cioè pongono una questione assurda e… lui aveva l’ambizione di diventare segretario della DC e quindi non aveva nessuna intenzione di dimettersi da parlamentare … … … o quantomeno di candidarsi a quel ruolo, ben inteso, non di… “).

Le dichiarazioni rese al P.M., in data 15 dicembre 2010, da Oscar Luigi Scalfaro sono state acquisite al fascicolo dei dibattimento quale atto divenuto irripetibile a seguito del sopravvenuto decesso del detto teste, il quale, quanto alla vicenda oggetto dei presente capitolo (per le restanti dichiarazioni concernenti altri fatti si dirà in seguito), ha riferito di non conoscere i motivi della nomina dell’On. Scotti a Ministro degli Esteri (“Non conosco i motivi che indussero l ‘On. Amato, nel giugno 1992 Presidente del Consiglio incaricato, a nominare l ‘On. Scotti ministro degli esteri, piuttosto che a confermarlo nel ruolo di ministro dell’interno. Ricordo solamente che l ‘On. Scotti, in virtù di una direttiva del partito della Democrazia Cristiana che impediva la contemporanea assunzione di incarichi di governo ed esercizio dell’attività parlamentare, rassegnò inopinatamente le dimissioni dalla carica di ministro e non da quella di parlamentare. Ciò mi parve strano e decisi, nonostante l’iniziale parere opposto dal Presidente del Consiglio, di accogliere le dimissioni dell’On. Scotti dalla compagine governativa”).

Ancora riguardo all’avvicendamento del Ministro dell’Interno Scotti con Nicola Mancino, deve darsi conto anche della dichiarazioni rese da quest’ultimo in occasione della sua audizione in data 8 novembre 2010 dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, poiché, da tali dichiarazioni la Pubblica Accusa ha ritenuto di trarre elementi, oltre che a sostegno della contestazione di falsa testimonianza di cui al capo C) della rubrica riportata in epigrafe, anche a sostegno della tesi sulle reali ragioni di quell’avvicendamento (v. trascrizione della requisitoria del P.M. alle udienze dell’ Il e 12 gennaio 2018).

Ebbene, dal Resoconto stenografico n. 58 dell’audizione di Nicola Mancino in data 8 novembre 2010 dinanzi alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, risulta che il predetto, in quella occasione, quanto alla sua nomina a Ministro dell’Interno nel nuovo Governo presieduto da Giuliano Amato, ebbe, tra l’altro, a dichiarare: “Chi mi volle Ministro dell’Interno fu in primis il Presidente Scalfaro, che si formò un giudizio positivo nei miei riguardi, soprattutto nei cinque anni in cui era stato Ministro dell’Interno … … …. mi sostennero poi il Presidente del Consiglio incaricato, onorevole Amato, e anche l’onorevole Forlani… …. …. sono stato sollecitato ad andare al Ministero dell’Interno. All’epoca ero capogruppo della DC al Senato e mi sono recato dal Presidente della Repubblica, insieme al capogruppo della DC alla Camera dei Deputati e al segretario della Democrazia Cristiana, perché il Capo dello Stato faceva consultazioni su chi dovesse essere investito della responsabilità di capo del Governo … … … ero sul punto di andare via, quando il capo dello Stato mi disse: io ti conosco bene, per quanto ai fatto in Commissione Affari

Costituzionali, e ritengo tu debba – forse è più esatto dite tu possa – essere il Ministro dell’Interno. L’onorevole Scalfaro ne parlò con il Presidente Amato. Sono stato invitato dalla direzione del mio partito ad accogliere questa sollecitazione e fui nominato Ministro dell’Interno non perché dovessi attenuare l’offensiva, ma, mi si scusi la presunzione, per accrescere il contrasto nei confronti della mafia … … . .. Gava era già stato Ministro dell’Interno, aveva dovuto abbandonare per un incidente di percorso dal punto di vista della sua salute e si era perciò dimesso dalla carica …. … … mi sento offeso quando si parla di un Antonio Gava che doveva fare il capogruppo della DC, come poi avvenne ……. … Mai avrei accettato di fare il ministro perché un altro dovesse sostituirmi come capogruppo … .. , … Posso dire di avere partecipato ad una riunione dell’organismo esecutivo del mio partito e che nel corso della stessa si era parlato di un’ipotesi Mancino, qualora il dicastero dell’interno fosse toccato ad un rappresentante della Democrazia Cristiana. Comunque, me ne andai con il convincimento di dovere rifiutare perché Forlani, nell’ultimo periodo della sua segreteria, fu piuttosto intransigente sulle incompatibilità, peraltro non previste dalla Carta costituzionale, tra Ministro e parlamentare ………. Quindi non è stato solo il Capo dello Stato ad avanzare l’ipotesi della mia candidatura. Immagino che ne abbia parlato con Amato e con Forlani. lo so solo che nel momento in cui doveva recarsi dal Presidente della Repubblica, l’onorevole Amato mi disse: « ti sei deciso a fare il Ministro dell’Interno?» . Risposi che avevo deciso ma nutrivo ancora perplessità”.


La testimonianza del ministro Scotti  Vincenzo Scotti, Ministro dell’Interno dal 16 ottobre 1990 sino al 29 giugno 1992, è stato esaminato, in qualità di teste, nelle udienze del 29 maggio e 13 giugno 2014 allorché, in sintesi, ha riferito:

– di avere assunto, in particolare, la carica di Ministro dell ‘Interno il 16 ottobre 1990, mantenendo la in due diversi governi, entrambi sotto la presidenza Andreotti, nei quali, invece, la carica di Ministro della Giustizia era stata ricoperta prima da Giuliano Vassalli e poi da Claudio Martelli […];

– che in tale periodo, in piena sintonia col Ministro della Giustizia, ebbe ad adottare numerosi provvedimenti per contrastare le organizzazioni mafiose pur incontrando alcune difficoltà in sede di conversione parlamentare (“Quasi tutti, tutti i provvedimenti che abbiamo assunto nell’arco del novembre 90, che fu il primo Decreto Legge a lui partecipai, fino al Decreto Legge dell’8 giugno 92, furono presi sempre in sintonia con il Ministro di Grazia e Giustizia.

Il primo provvedimento fil il Decreto Legge preso con firma congiunta, mia e del Ministro della Giustizia. lo quando mi sono insediato, l’elaborazione era già avanzata, facemmo solo delle … Feci solo, proposi solo delle aggiunte a quel testo, soprattutto in materia di regime carcerario, che poi sono un po’ i precedenti del 41 bis dell’8 giugno 92. Noi … Quel decreto incontrò notevoli difficoltà di conversione e fu reiterato per ben sei volte con una prassi costituzionale abbastanza discutibile da questo punto di vista. Questo primo decreto e la discussione in Parlamento aiutò a impostare una serie di provvedimenti che sono tutti tra loro collegati, fanno parte di una unica, possiamo dire, strategia, non solo strategia, ma anche di segno normativo e questi provvedimenti furono elaborati dal Ministero degli Interni e dal Ministero di Giustizia con, evidentemente, delle preminenze per alcune materie del Ministero degli Interni, preminenza del Ministero di Giustizia per altre questioni. Per esempio per la istituzione della DIA, il decreto fu Ministro degli Interni, Ministro della Giustizia, il decreto della DNA fu invece Ministero di Giustizia, Ministero degli Interni. Il disegno riguardava da una parte una prima osservazione che veniva dal Maxi Processo di Palermo di Falcone, e anche prima della venuta di Falcone a Roma ci fu una discussione con il Giudice Falcone anche in relazione alla collaborazione che ci venne dal Procuratore Giuliani che aveva collaborato con Falcone ai tempi della istruttoria del Maxi Processo. La prima questione era lasciar cadere le istituzioni emergenziali e delle legislazioni straordinarie, ma affrontare le questioni attinenti alla istituzione investigativa, alla istituzione giudiziaria, nascevano dalla considerazione di Falcone … È noto, sia per quanto riguardava il problema della creazione di una autorità investigativa che mettesse insieme le diverse Forze di Polizia e avesse una visione complessiva del fenomeno mafioso, anche con riferimenti a livello internazionale e dei suoi collegamenti internazionali.

Dall’altra parte il problema giudiziario della creazione di una Procura specifica e un coordinamento e una lunga discussione che avvenne sul problema dell’avocazione possibile da parte della Direzione Nazionale Anti Mafia. Questo fu un primo blocco di provvedimenti che fu molto travagliato perché le opinioni erano profondamente diverse e si congiungevano, diciamo così, visioni garantiste da una parte, costituzionali, e altre invece visioni più particolari di non volere strutture anti mafia specifiche …. … . . .II secondo blocco è quello che riguarda la collaborazione dei pentiti, la Legge e il regolamento. Il regolamento fu steso sostanzialmente da Falcone in una Commissione presso il Ministero degli Interni in quel momento, che aveva come Presidente il sottosegretario Ruffino del Ministero degli Interni …. … … L’altro blocco di misure furono quelle relative al riciclaggio del denaro e alla confisca dei beni, due punti fermi di quella strategia …….. … L’ultimo blocco fu quello che venne adottato con un Governo dimissionario nel giugno, 1’8 giugno del 92. Il problema quale fu? C’era da una parte l’entrata in vigore del Codice di Procedura Penale che aveva creato notevoli problemi rispetto alla investigazione giudiziaria, all’intervento giudiziario per la mafia, c’erano problemi che riguardavano proprio lo svolgimento del processo, tutte norme che voi conoscete benissimo, quindi non ho bisogno di dire niente. E in quella occasione venne fuori il problema del raccordo tra mafia interna ed esterna dal carcere e venne fuori la formulazione del 41 bis”);

– che già nel 1990 si era intervenuti con una modifica della legge Gozzini che escludeva i detenuti per mafia dai benefici carcerari […];

– che in occasione della legge istitutiva della D.I.A. si manifestarono opinioni dissenzienti anche da parte di alcuni Corpi delle Forze dell’Ordine […];

– che il decreto sanciva, tra l’altro, l’obbligo di tutti i Corpi delle Forze dell’Ordine di informare la D.I.A. di quanto emerso nel corso delle rispettive investigazioni in tema di antimafia (“Questo era un presupposto la DIA per poter funzionare, per avere un quadro complessivo del funzionamento, diciamo così, della criminalità organizzata, si richiedeva che la DIA fosse messa in condizioni di avere conoscenza dei vari pezzi di investigazione esistenti sul territorio nazionale e quindi di notizie pervenute ai diversi Corpi, alle diverse responsabilità …… … La scelta dei vertici della DIA fu fatta anche con questo criterio di portare il Generale Tavormina dei Carabinieri e il Prefetto De Gennaro, rispettivamente Direttore e Vice, proprio per dare l’indicazione della necessità dell’unità e questa si basa sulla informazione, l’informazione è fondamentale”);

– che nel marzo 1992, in occasione di una audizione parlamentare, ebbe effettivamente a lanciare un allarme di un tentativo destabilizzazione in corso da parte delle organizzazioni mafiose, così come, in quegli stessi giorni, d’altra parte, aveva fatto riservatamente il Capo della Polizia con alcuni dispacci riservati trasmessi alle prefetture ed inopinatamente pubblicati sulla stampa

(” .. devo premettere una cosa per comprendere. Dalla fine dell’anno precedente, del 90, del 91, agli inizi del 92, c’è stata una intensificazione della reazione della mafia ai provvedimenti che venivano adottati dal Governo. […] i1 Capo della Polizia, in quella stessa occasione nella sua relazione, spiega questo collegamento e lui consegna al Parlamento, il 20 di marzo, una documentazione ampia di questi fatti. Noi sulla base di questi fatti, io riunii il Comitato dell’Ordine e della Sicurezza e i Servizi ed ebbi, e registrai in quelle occasioni le preoccupazioni. Qui non si tratta di prendere singolarmente i fatti, ma di mettere insieme dei fatti concreti, delle informazioni provenienti dalle Forze di Polizia e dai Servizi e attraverso una analisi di intelligence dare un quadro e indicare un significato e una direzione di quello che avveniva. Su questa base, con il capo della Polizia decidemmo di allertare Questori, Prefetti, nell’ambito delle rispettive responsabilità, e i Comitati locali, per una attenzione straordinaria. Eravamo nel pieno di una campagna elettorale … …. …. dentro questo clima noi facemmo e lo facemmo con forma segreta. Due giorni dopo, due – tre giorni dopo, il Corriere della Sera pubblica la notizia. Noi una cosa che volevamo rimanesse segreta e riservata e che fosse una direttiva di comportamento dei Prefetti e dei Questori, diventa improvvisamente un problema politico. Siamo con il Parlamento sciolto, immediatamente i Presidenti di Camera e Senato mi chiamano e mi dicono: ma che cosa c’è dietro tutto questo e perché?.. … . … E qui c’è l’intelligence che entra in gioco, se lei prende questi singoli pezzi di puzzle e li mette insieme, allora arriva ad avere un quadro di preoccupazione, non generica ma specifica. lo tre giorni prima del 20 marzo avevo parlato alla Commissione Anti Mafia … I1 17 marzo, tre giorni prima del 20 marzo, avevo parlato alla Commissione Anti Mafia sul delitto Lima e avevo chiesto alla Commissione Anti Mafia e alle Forze Politiche presenti rappresentate nella Commissione Anti Mafia, di rispondere a un interrogativo: quale era la scelta che essi volevano. Cioè una scelta di scontro e di scontro a 360 gradi con la criminalità organizzata, io parlai specificamente di guerra, nel senso anche tecnico del termine, non di guerriglia, ma di strategia di guerra, o volevano avere un atteggiamento di connivenza che avrebbe certamente consentito un clima diverso, più … meno violento, con meno quantità di violenza, ma avremmo avuto… Ci portavamo sulle spalle la responsabilità di una situazione che era di corrompimento della vita sociale, economica e politica ….. … …. lo dissi che la mia scelta era quella e l’ho ripetuto … … … Questa dello scontro frontale […] Certamente io mi sentivo, fin quando sono stato lì, di rappresentare il Governo e di esprimere una linea in questa direzione non smentita…. … … io ho detto che quelle decisioni dell’allarme, eccetera, furono decisioni assunte da me e dal Capo della Polizia, assumendoci la responsabilità di quello che facevamo, pronti a risponderne, è evidente, e ne rispondemmo in Parlamento, questa è la situazione. E poi se il Governo mi smentiva, quello può tranquillamente farlo, siamo in Democrazia, questa era la posizione del Ministro degli Interni, ma fin quando non era smentita dal Governo era la posizione, io l’ho considerata la posizione del Governo e della maggioranza in Parlamento”);

– che, tuttavia, in quegli stessi giorni si sovrappose la vicenda di una segnalazione specifica giunta dall’ A.G. di Bologna che riferiva di un allarme lanciato da un soggetto, prima non specificato, ma che poi si venne a sapere trattarsi di un noto depistatore, Elio Ciolini (“[…] Una comunicazione che mi aveva trasmesso il Capo della Polizia su un documento acquisito da un Magistrato a Bologna, documento nel quale si diceva che c’era … Si erano visti all’estero, che c’erano delle… Che ci sarebbero stati attentati, ci sarebbero state azioni, eccetera, eccetera. Siamo prima di Capaci, cioè prima di quella fase lì, cioè siamo in quei giorni. E con il Capo della Polizia guardiamo al documento e gli dico: va bè, qui ci sono del cose che possono essere vere e delle cose fatte per depistare, sta a voi capire un minuto che cosa c’è dentro e che cosa è … Va presa sul serio, su cosa, come va invece scartata come depistaggio. Mentre la mattina, di giorno sono per andare al Parlamento, una agenzia di stampa viene fuori con il nome, si trattava di Ciolini, noto depistatore di processi passati […]. Alla Commissione dei Servizi di cui sono andato dopo il 20 di marzo, due giorni dopo sono andato anche alla Commissione dei Servizi presieduta allora, in quel momento, dall’Onorevole Gitti, sono andato e abbiamo riferito con il Capo della Polizia, con qualche maggiore dettaglio, l’informativa che avevamo dato alla Camera e al senato …. … …. anche il Comitato dei Servizi riteneva che c’erano degli elementi che spingevano a richiamare l’attenzione e a stringere non solo le istituzioni, ma anche l’opinione pubblica sul quadro in cui siamo. Quello che è risultato i mesi successivi, giudichiamoli come vogliamo, sono lì a dichiarare che qualcosa in fondo … “), così che lo stesso Presidente del Consiglio ebbe a ridimensionare quell’allarme fondato su segnali diversi da quelli provenienti dal Ciolini […], tanto che egli ritenne necessario a quel punto informare personalmente anche il presidente del Consiglio […];

– di ritenere che tutti i possibili obiettivi della strategia mafiosa, quali il Presidente del Consiglio Andreotti e i Ministri Mannino e Vizzini, furono allertati (“Sono convinto di sì, ho trovato un ritaglio di stampa che è dalla rassegna stampa ufficiale del Ministero degli Interni in cui qui parla … “Scotti respinge, il Ministro Mannino si tenga la scorta. No, il Ministro non potrà fare a meno della scorta, la richiesta di revoca dei Servizi di Protezione, avanzata dal Ministro Calogero Mannino, è stata ritenuta inaccettabile da parte del Ministero dell’Interno. Lo ha reso noto un comunicato dello stesso Ministero nel quale si informa inoltre che l’Onorevole Mannino è stato invitato ad accettare ulteriormente le misure di sicurezza disposte nei suoi riguardi. La notizia, la richiesta di rinuncia da parte del Ministro Mannino, dal servizio di scorta era stata comunicata venerdì dai rappresentanti di Sindacati di Polizia durante una conferenza stampa che si è svolta a Palermo per sottolineare i problemi inerenti alla carenza di mezzi e uomini nella lotta alla criminalità organizzata e in particolare … ” …… … Questa porta la data 1 giugno 1992 … … … La Gazzetta del Mezzogiorno”);

– che il Dott. Falcone, invece, ebbe ad esprimergli solidarietà, avendo condiviso l’opportunità di lanciare quell’allarme e la strategia del Ministro di contrasto duro alla mafia (“Sì, devo dire che il dottor Falcone … Anche qui ci sono le tracce, non sono un ricordo mio di oggi, no? Ho ritrovato anche sulla stampa le tracce su questo, Falcone mi espresse tutta la solidarietà e tutta la partecipazione dicendo che era giusto, che avevo ragione, che avevamo ragione in quella circostanza …. … … Del lanciare … …. …. la mia comunicazione allaCommissione Anti Mafia del 17 marzo, io prima di farla sui contenuti, mi consultai con Falcone e lui fil, diciamo così, condivise quella impostazione e mi disse: benissimo, lo faccia … …… Sì. lo gli lessi, gli feci leggere un minuto il testo che avevo preparato per la Commissione Anti Mafia perché doveroso mio avere un consenso su quello. Lui conosceva meglio di qualsiasi altro la situazione a Palermo e mi poteva consigliare se stavo dicendo delle cose del tutto fuori dalla realtà effettiva e quindi io… Fu mia preoccupazione, mio dovere, ritenni farlo”);

– che la decisione di introdurre il regime del cosiddetto 41 bis nacque dopo la strage di Capaci (” .. Il 41 bis nasce dopo e nasce su una convergenza rapida con Martelli sulla necessità di dare non un segnale, come si suoi dire, ma di dare un provvedimento in grado di poter interrompere il rapporto della mafia che sta nei carceri e quella che sta fuori …. … Nasce subito dopo Capaci, dove …

[…] In concreto, perché le opinioni uno le può tenere, ma quando sono andato dal Presidente del Consiglio e gli ho chiesto: qui c’è un Governo dimissionario, il Capo dello Stato, siamo all’8 di giugno, sta facendo le consultazioni per la formazione del Governo, cosa facciamo? Rimettiamo al nuovo Governo queste carte e poi il nuovo Governo deciderà che cosa fare sulla base della linea che adotta, o decidiamo noi? lo insieme a Martelli ti proponiamo di decidere noi. Andreotti mi dice: ma tu lo ritieni veramente … Lo ritengo urgente perché se lasciamo passare i giorni e dire non lo facciamo perché c’è la crisi di Governo, nei confronti della mafia noi mostriamo momenti di incertezza o di debolezza. Queste sono le cose … Le risposte vanno fatto anche quando c’è difficoltà a farle, come l’essere in una crisi, in un Governo di ordinaria amministrazione. Andreotti mi pregò, allora dice: sarà opportuno che tu vada un minuto dal Capo dello Stato insieme a Martelli e gli spiegate un istante perché questo, perché è lui che deve firmare in questo momento, poi lui deve firmare il Decreto e trasmetterlo alle Camere …. … … ed ebbi la risposta che il Capo dello Stato avrebbe firmato il decreto, anche non avendo visto ancora i contenuti … . .. … sembrò che fosse essenziale fare il decreto, cioè dico che non dovessimo cedere perché sennò le cose dette in Parlamento potevano apparire dichiarazioni di indirizzo futuro …. … … La stesura del decreto legge fu frutto del lavoro congiunto dei due uffici legislativi, questa volta ci furono più riunioni con la partecipazione anche dei Ministri, data anche la delicatezza della materia … … … Il 41 bis nacque in discussione su diversi strumenti da poter mettere in campo, alla fine si convenne che forse quello che poteva avere più rilievo era proprio l’introduzione di un regime carcerario capace di influenzare quello che … Di cambiare quello che spesso si diceva essere una prassi di collegamento dell’esterno del carcere con l’interno del carcere”);

– che anche il decreto legge dell’8 giugno 1992 suscitò reazioni negative sia da parte degli avvocati, sia da parte del mondo politico nell’ambito del quale soprattutto si discuteva dell’opportunità di affrontare subito il passaggio parlamentare, come egli, d’intesa con Martelli, richiedeva, anziché attendere la formazione del nuovo governo (”Noi siamo al 9 giugno, la formazione del

Governo è in corso, il Capo dello Stato sta svolgendo le consultazioni, il Governo si formerà il 28 o 29 giugno …. … … Noi credo che nel giro di pochi giorni mandammo in Parlamento, il capo dello Stato firmò rapidamente, il decreto fil trasmesso alla Camera. (PAROLA INCOMPRENSIBILE) le reazioni soprattutto l’inizio fu le reazioni sulla prima parte, gli Avvocati, le Camere Penali, cioè dico così, presero, misero in discussione quella parte, oltre tutto sollevando il problema di avere stravolto in un certo senso la normativa del Codice di Procedura Penale Vassalli. A livello politico sì, noi chiedemmo di iniziare la discussione perché ci fu una discussione sulla … Dice il decreto è stato approvato, il decreto è vigente, lasciamo che il Governo si insedi, che la maggioranza si formi in Parlamento, facciamo esaminare dalla nuova maggioranza che si forma, il nuovo Presidente, i nuovi Ministri di poter entrare nel merito. Io d’intesa con Martelli sostenemmo invece no, l’utilità è che si iniziasse in un certo senso la discussione, cioè che il Parlamento desse un segnale di attenzione alla proposta. Si aprì a discussione innanzitutto sulla costituzionalità, lo stesso Onorevole Salvi al Senato mostrò in Commissione, diciamo così, un giudizio di grande dubbio sulla costituzionalità di alcune norme. Non specificò, nelle dichiarazioni che ho letto, mai quali fossero in particolare le norme a cui lui si riferiva. La discussione sul 41 bis fu in questa fase iniziale tenuta molto sotto traccia, non ci furono molti a scoprirsi nel dare un giudizio sul 41 bis, cioè … Anche perché non c’era stato … Il41 bis arrivò alla Camera, al Senato, arrivò tra gli esperti, tra gli operatori del Diritto improvviso, non erano quelle questioni sa cui comunque c’era stata una certa discussione, no? .. …… il 41 bis fu un po’ un fulmine a ciel sereno, cioè dico, perché non era tra le previsioni … … … Questo provvedimento arrivò così, quindi non ci fu, nella fase iniziale, una reazione scoperta. Ci fu poi… Le interpretazioni non stanno a me darle, ma ci fu una tendenza a non entrare nel merito, a lasciare che la cosa andasse al successivo Governo”);

– che egli ebbe subito la percezione che, in sede parlamentare, sarebbero stati apportati profondi cambiamenti a quel decreto (“Il provvedimento sarebbe stato oggetto di interventi molto decisi di cambiamento, eravamo convinti che la discussione parlamentare, come si era annunciata, non sarebbe stata né facile, né avrebbe portato ad una approvazione del testo che era stato introdotto dal Governo, quindi avevamo la sensazione della difficoltà enorme del passaggio parlamentare, non c’erano dubbi su questo […]);

– che in quei mesi percepì ripetuti segnali di isolamento all’interno del Partito […];

– che anche l’On. Andò, poi divenuto Ministro della Difesa nel nuovo Governo, aveva manifestato perplessità generali sul decreto legge dell’8 giugno 1992 (”Sul 41 bis no, sul decreto nel suo insieme sì, cioè anche lui aveva preoccupazioni di costituzionalità, lo ha scritto, lo ha detto, quindi non è una cosa diciamo così che … Uno scambio di battute in un corridoio, cioè è stata una sua indicazione legittima, io … Lui riteneva, come altri ritenevano che ci fossero dei profili di incostituzionalità”);

– che egli ebbe in un certo senso a sfogarsi in una intervista al giornalista D’Avanzo pubblicata il 21 giugno 1992 sul quotidiano “La Repubblica” […];

– di non avere mai avuto notizia dei contatti intrapresi dal R.O.S. con Vito Ciancimino […];

– che nel nuovo governo varato il 29 giugno 1992 gli venne affidato, non più il Ministero dell’Interno, ma il Ministero degli Esteri […];

– che, pertanto, egli presentò immediatamente al Presidente del Consiglio una lettera di dimissioni, ma, tuttavia, poi accettò la richiesta di quest’ultimo di soprassedere per far fronte ad alcuni imminenti appuntamenti di politica internazionale […];

– che alla fine di luglio 1992 il Presidente del Consiglio improvvisamente lo informò che il Presidente della Repubblica lo aveva invitato ad accogliere le sue dimissioni […];

– che soltanto dopo la firma del decreto di accettazione delle dimissione aveva avuto occasione di avere uno scambio di opinioni col Presidente della Repubblica […];

– che dopo la strage di Capaci egli aveva individuato nel Dott. Borsellino la persona più adatta per ricoprire il ruolo di Procuratore Nazionale Antimafia come ebbe a manifestare allo stesso Dott. Borsellino personalmente in occasione di un incontro alla presenza anche dell’On. Martelli (“lo ritenni che la persona più indicata per dare anche un segno di continuità, io mi preoccupai di continuità in una azione anti mafia, fosse quella della nomina di Borsellino e ci trovammo alla presentazione del libro di Arlacchi a Roma alla Libreria Mondadori, alla Casa Mondadori, quella che sta a Via Veneto, sopra, gli uffici diciamo, non la libreria, e c’era Arlacchi, Martelli, io, Borsellino e il Capo della Polizia. […] Dopo pochi giorni mi mandò una lettera riservata dicendo: lascio a lei la responsabilità di pubblicarla o meno. Dopo che le cose un po’ erano andate avanti, io pubblicai la lettera di Borsellino. Quello che mi colpì nella lettera di Borsellino fu l’estrema umanità e umiltà della persona, il suo dirsi, rispetto a Falcone … Tutte le … Ma altra fine dice: io, il mio posto è a Palermo, ho delle cose da fare. Adesso la dizione non la … … … Non era ancora formato il Governo, eravamo sulla seconda… Verso il 15 – 20 giugno del 92, 20 giugno così, cioè eravamo … … … E questa era la parte finale della lettera, quello che .. . … … “Per quanto per me attiene, le supposte riflessioni cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata in una Procura della Repubblica che sicuramente è quella più direttamente e aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità organizzata”. Questa era la conclusione della lettera, ma la lettera … “);

– che il passaggio delle consegne con il Ministro Mancino avvenne in modo rapido e pubblico e senza alcuna occasione di colloquio privato […];

– che, poi, la conversione in legge del decreto dell’8 giugno fu accelerata dalla strage di via D’Amelio […];

– che alla base dell’ allarme lanciato nel marzo 1992 vi erano stati anche alcuni episodi relativi a strane intrusioni in uffici e case riferibili al Ministro dell’Interno stesso […];

– che, per quanto si era saputo, l’avvicendamento al Ministero della Giustizia tra l’On. Martelli ed il Prof. Conso, invece, era scaturito da vicende interne al Partito Socialista […].

In sede di contro esame da parte dei difensori degli imputati, quindi, Vincenzo Scotti, ancora in sintesi, ha aggiunto:

– di avere appreso soltanto dalla lettura della lista dei ministri della nomina

dell’Ono Mancino quale ministro dell’Interno […];

– che nel settembre del 1992 organizzò una riunione presso la propria abitazione con il nuovo segretario della Democrazia Cristiana Martinazzoli, il Capo della Polizia Parisi ed il Capo di Stato Maggiore dei Carabinieri Pisani per sensibilizzare il primo sulle questioni che già da tempo lo avevano indotto a lanciare segnali di allarme […];

– di non avere avuto nel ruolo di Ministro dell’Interno alcun contrasto con il capogruppo al Senato Mancino […] e di non avere mai espresso giudizi su coloro che guidavano i vari Corpi delle Forze dell’Ordine […];

– che le prime notizie riguardo al rischio di attentati gli furono date dal Capo della Polizia tra i mesi di ottobre e novembre 1991 (“Sì, intorno a quella data quelle che sono state riferite a me. l tempi sono stati acquisiti dal Capo della Polizia, il Capo della Polizia disse a Camera e Senato nella Commissione che era da tempo che pervenivano segnali di questo tipo”) e che la segnalazione che poi fece nel marzo 1992 non era usuale […];

– di avere chiesto al Capo della Polizia di informare del pericolo anche coloro che erano stati indicati nominativamente quali destinatari delle minacce […];

– di non avere informato, prima di diramare l’allarme, né il Ministro della Giustizia, né il Presidente del Consiglio […];

– che anche nel dibattito politico di quel periodo si contrapponevano due diverse idee di contrasto alla criminalità mafiosa (“Erano sempre, io l’ho detto allora, lo ripeto adesso, sempre che in questo paese nella lotta alla mafia ci sono stati sempre due grandi filoni, uno tendente a ridurre la mafia entro confini controllati in uno scambio di istituzioni e dall’altra parte invece la tesi di una necessità di fare una azione tra virgolette di guerra nei confronti della mafia, queste sono dentro e si sono alternate spesso, ma queste sono le due faccende. […]);

– che tra il Presidente della Repubblica Scalfaro e il Capo della Polizia Parisi vi erano rapporti che trascendevano i ruoli istituzionali […];

– che l’allarme lanciato comprendeva anche segnali azioni concernenti la Falange Armata […] e che della Falange Armata ebbe a parlargli anche l’Ambasciatore Fulci […];

– di non essere stato mai informato di incontri personali avvenuti tra 1’0n.

Mannino, il Gen. Subranni e il Dott. Contrada […];

– di non avere mai ricevuto al Ministero dell’Interno il Dott. Contrada (“lo non ho mai ricevuto il dottor Contrada, né lui aveva accesso al secondo piano, al Gabinetto e al Ministro. Poi il problema, il Viminale è anche un porto di mare, quindi non posso dirgli quali frequentazioni … “).


Lillo Mannino al bar: “Ci fottono tutti”  Infine, deve darsi conto delle risultanze probatorie acquisite in ordine ad un più recente incontro (nel dicembre 2011) tra Calogero Mannino e Giuseppe Gargani e del contenuto del relativo colloquio riferito dalla teste Sandra Amurri, che, ancora secondo la Pubblica Accusa, costituirebbe un riscontro alla falsità delle giustificazioni fornite da molti testi allorché sono stati esaminati sulle ragioni dell’avvicendamento del Ministro dell’Interno Scotti (v. ancora trascrizione della requisitoria del P.M. all’udienza dell’11 gennaio 2018). […] Sandra Amurri, giornalista de “II Fatto Quotidiano”, esaminata all’udienza del 9 gennaio 2014, […] ha, innanzi tutto, dettagliatamente raccontato quanto accaduto il giorno 21 dicembre 2011 allorché ebbe ad ascoltare occasionai mente una conversazione svoltasi nei pressi del bar Giolitti di Roma tra 1’On. Mannino ed un altro personaggio successivamente riconosciuto nell’On. Gargani (“Allora, il 21 dicembre io avevo … Era uscito un po’ fuori questo scandalo della compra volta dei Senatori, no? Se ricordate erano un po’ quegli gli anni, e quindi io avevo appuntamento con l’Onorevole Aldo Di Biagio per, insomma, così, per farmi un po’ raccontare se era stato contattato, da chi, come, cosa gli avevano offerto. Ed era una giornata molto fredda a Roma, freddissima direi. Sono arrivata … Avevamo appuntamento al Bar Giolitti, […]. Quando stavo bevendo questo cappuccino, ho alzato lo sguardo e ho visto arrivare da Piazza del Parlamento, diciamo, verso il Pantheon, direzione quella lì, l’Onorevole Mannino e un altro signore che io non ho riconosciuto. Ovviamente l’Onorevole Mannino, insomma, è un personaggio di grande… Come dire, chi non può conoscerlo? Né tanto meno io insomma, occupandomi di queste cose. I due sono entrati dentro al bar, sono entrati dentro al bar e sono usciti immediatamente perché, ripeto, il bar era molto affollato e si sono messi in piedi fisicamente. Allora, io ero seduta così, con le spalle metà al bar, diciamo, al muro del bar, e con lo sguardo rivolto verso Piazza del Parlamento. E l’Onorevole Mannino mi dava le spalle, ma a questa distanza, cioè, immagini qui, e di fronte … pochi centimetri proprio, e non mi hanno vista, cioè diciamo… O meglio, probabilmente hanno visto questa persona così, insomma, tutta incappucciata, con la sciarpa, il cappello, e hanno iniziato a parlare e inizialmente, non conoscendo l’altra persona, non aveva attirato la mia attenzione la loro conversazione. La mia attenzione invece è stata, come dire, attratta dal fatto, quando ho iniziato ad ascoltare le prime cose che si dicevano. O meglio, che l’Onorevole Mannino diceva all’altro signore, fino a quel momento per me un estraneo. E l’Onorevole Mannino, con tono molto concitato e preoccupato, diceva: no, tu glielo devi dire, tu adesso che vai giù glielo devi dire a De Mita, glielo devi dire, hai capito? Lui è stato chiamato, è stato chiamato e lui deve dire, deve confermare la nostra versione, perché questa volta ci fottono. E io non riuscivo a capire, cioè, De Mita, cioè proprio non riuscivo, come dire, a collocare. E Gargani diceva: sì, sì, non ti preoccupare. Con la testa bassa diceva: sì, sì, sì, sì, non ti preoccupare.

Gargani, ovviamente, che ho scoperto dopo. … E l’Onorevole Mannino continuava a ripetere, proprio come un ritornello, perché questa volta hanno capito tutto a Palermo e questa volta ci fottono. lo, come ho ascoltato Palermo, bè, lì ho iniziato e ho pensato: Oddio, ma adesso potrei registrarlo. Ma no, se mi muovo, lì ho pensato, poi si accorgono di me e quindi non debbo muovermi, e sono rimasta lì ferma e scrivevo, così, alcuni appunti, perché avevo timore … E ad un certo punto l’Onorevole Mannino dice: perché – scusate il termine, ma lo debbo riferire testualmente – quel cretino di Ciancimino figlio di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità. Perché tu lo sai, no? Il padre, il padre di noi, insomma, sapeva tutto. A quel punto, cioè, io continuavo a non capire chi fosse l’altro e poi perché Mannino fosse così interessato. Non sapendo io che fosse indagato, no? Per, appunto, per il processo sulla Trattativa e non conoscendo l’altro, dico: ma perché tutto questo interesse, De Mita, da dove esce fuori? E come dire, mi si accavallavano tutti questi pensieri e cercavo di ascoltare con attenzione e il mio timore era quello di non riuscire a fotografare l’altra persona per riuscire a mettere insieme. . .. E a quel punto

Mannino dice: comunque tu … Sì, lo so che hai capito, ma io te lo ripeto, tu devi dire a De Mita che deve assolutamente dire le stesse cose nostre, assolutamente, assolutamente. E lui continuava a fare: sì, sì, ho capito. A quel punto, a quel che solo allora dice qualcosa all’orecchio alla persona, all’onorevole Gargani, e l’altro fa una espressione, insomma, meravigliata, sorpresa, non so come dire, e i due si fanno gli auguri di buon Natale e si salutano. […]”).

La teste, poi, ha aggiunto che l’appuntamento con l’On. Di Biagio era stato fissato tramite utenza cellulare e che […] il colloquio tra il Mannino e l’altro interlocutore era durato all’incirca venti minuti, pur con qualche incertezza nel quantificare tale durata in ragione del coinvolgimento emotivo e del turbamento causatole dall’occasionale ascolto di tale conversazione, turbamento, peraltro, immediatamente avvertito, al momento del suo arrivo al bar Giolitti, anche dall’On. Di Biagio […].

[…] La teste Amurri, ancora, ha aggiunto di non avere precedentemente mal conosciuto di persona l’On. Mannino, col quale, infatti, in passato, aveva avuto soltanto alcune conversazioni telefoniche per concordare una intervista in relazione al tentato omicidio dell’Ispettore Calogero Germanà, intervista che, però, poi non era stata più fatta, […] ed ha ribadito che, a suo parere, ad un certo punto, il Mannino si era accorto della sua presenza ed aveva sussurrato, quindi, qualche parola all’orecchio del suo interlocutore, salutandolo ed allontanandosi subito dopo […].

La teste, quindi, era corsa dietro l’interlocutore del Mannino, scattando alcune fotografie (mostrate dal P.M. alla teste medesima e da queste riconosciute) in prossimità dell’Hotel Nazionale con l’intento di identificarlo […], ancor prima di farle esaminare alla sede del giornale, inviandole al Dott. Ingroia, che conosceva da lungo tempo, ignorando, però, che il telefono di questi non fosse abilitato a riceverle […] .

Tornata, nel frattempo, al bar Giolitti per pagare il cappuccino, la giornalista era stata raggiunta dall’On. Di Biagio, che, come detto prima, si era accorto del suo stato d’animo, al quale aveva raccontato succintamente quanto accaduto senza riferire il contenuto della conversazione e senza mostrare le fotografie […], che, poi, invece, recatasi alla sede del giornale, aveva mostrato prima inutilmente al Direttore […] e poi al collega Travaglio che, quindi, aveva riconosciuto l’On. Gargani […]. La Amurri, poi, ha raccontato che, a quel punto, il collega Travaglio aveva ipotizzato che il Mannino potesse essersi riferito al processo della c.d.”trattativa”, ma che, poiché non si aveva notizia né che il Mannino fosse indagato, né della citazione dell ‘Ono De Mita, fosse necessario, prima di pubblicarla, approfondire la notizia per mettere il giornale al riparo da una eventuale querela, cosa che, però, la Amurri aveva rinviato essendo in procinto di partire per Taranto per visitare la madre che versava in precarie condizioni di salute […].

A causa di ciò, la Amurri, secondo quanto ancora riferito da questa, non si era più occupata della questione sino a quando, nel gennaio 2012, una agenzia di stampa aveva dato notizia dello status di indagato dell’On. Mannino nel processo c.d. “Trattativa” ed, a quel punto, la teste medesima, aveva contattato il Travaglio, che si trovava a Torino, ed aveva cominciato a lavorare sulla notizia […].

La teste ha riferito, quindi, di avere successivamente contattato telefonicamente il Dott. Di Matteo raccontandogli l’accadimento e questi, in attesa di una formale verbalizzazione, le aveva chiesto di inviargli appena possibile una mail con il racconto per iscritto […], cosa che ella aveva fatto pur informando il medesimo Dott. Di Matteo che avrebbe comunque pubblicato la notizia […].

Poco dopo, la Amurri era stata contattata da un ufficiale della DIA che le aveva rappresentato l’opportunità di procedere a Taranto ad una verbalizzazione con il Dott. Ingroia che si sarebbe trovato lì per la presentazione di un libro […], dal momento che, per le condizioni di salute della madre, ella sino a quel momento non si era più allontanata da Taranto […].

La teste, inoltre, ha riferito di avere parlato del colloquio ascoltato il 21 dicembre 2011 anche con il Commissario Rino Germanà, che conosceva dal tempo del tentativo di omicidio da questi subito nel 1992, sia con il Dott. Grasso, allora Procuratore Nazionale Antimafia, il quale le aveva consigliato di verbalizzare tutto quanto […].

3.3.3 LA TESTIMONIANZA DI GIUSEPPE GARGANI   Del teste Giuseppe Gargani sono state già riportate sopra (v. paragrafo 3.1.5) le dichiarazioni testimoniali rese in ordine a quanto di sua conoscenza sull’avvicendamento del Ministro dell’Interno Scotti con Nicola Mancino. Ma la seconda parte del predetto esame testimoniale condotto dal P.M. Ha riguardato, invece, l’episodio dell’incontro del Gargani con l’On. Mannino in cui si discusse della convocazione dell’On.De Mita da parte della Procura di Palermo per essere sentito nel corso delle indagini che hanno dato luogo al presente processo e di cui, pertanto, deve darsi qui conto.

In proposito, il teste ha, innanzitutto, riferito che fu Mannino […] ad informarlo della convocazione di De Mita, dicendogli di essere contento perché De Mita conosceva tutta la storia della Democrazia Cristiana […], che quell’incontro avvenne nei pressi del bar Giolitti di Roma […] e di non ricordare se Mannino gli chiese di parlarne a De Mita, pur confermando, poi, sul punto, quanto dichiarato al P.M. nel corso delle indagini preliminari (“[…] P. M DI MATTEO : – Senta, lei quando è stato sentito ha detto cosa diversa su questo punto …. … … Pagina 4 intanto, Pubblico Ministero che aveva già diciamo contestato altre risultanze: a noi risulta che Mannino in quella circostanza, tra l’altro manifestando una forte preoccupazione, le ha detto: stavolta i Magistrati di Palermo hanno capito tutto, devi dire a De Mita che dobbiamo dare tutti la stessa versione perché stavolta ci fottono, ci incastrano. Gargani: assolutamente no, né allora e né altrove, si raccomandava, si raccomandava che De Mita ricordasse tutto, perché De Mita era in condizione di chiarire. L’ha incaricata di contattare l’Onorevole De Mita? Che è la stessa domanda che le ho fatto poc’anzi io, a cui lei mi ha detto assolutamente no. E lei ha risposto: sì, dice, parlagliene, ricordagli, questo sì, di contattarlo. Poi nel senso che De Mita, quando io poi lo contattai, eccetera, eccetera; DICH.

GARGANI : – lo non ho difficoltà a dire, Presidente, però che se ho dichiarato quello può darsi che Mannino mi abbia detto avverti… … . … No, avverti, forse mi disse come io ho detto lì, avverti De Mita, ma lo saprà già perché probabilmente ha detto così. De Mita infatti lo sapeva …. … … Ma quello sacrosanto che io ricordo è che lui disse non di parlare con De Mita per qualcosa, siccome De Mita ricorda tutto, digli che ricordasse tutto fino infondo. Ecco lui, come dire, faceva una invocazione a me … … … Siccome si fidava di tutti i ricordi di De Mita, probabilmente anche senza avere (PAROLA INCOMPRENSIBILE) rispetto agli altri, perché De Mita ha vissuto intensamente la storia della Democrazia Cristiana, conosceva le cose che ha fatto Mannino, come dire, era contento che De Mita … Ecco, se posso dire quale era l’espressione anche visiva, ricordo che era contento perché De Mita chiarirà tutto, quindi i ricordi di De Mita siano chiarissimi per poter fare una deposizione al Pubblico Ministero adeguata. […] Le so bene le cose di Mannino, del processo precedente, quindi non è che mi sfuggiva, però quali fossero le cose in particolare la sua opposizione all’interno della Democrazia Cristiana era la lotta alla mafia, quello che aveva fatto … … … Disse che Ciancimino continuava a dire menzogne e si meravigliava come la Magistratura in qualche modo … … …. Ciancimino figlio, certo … …… è stato sempre un menzognero e continua ad essere menzognero e si meravigliava che la Magistratura in qualche modo … … …. non c’è stato l’oggetto in quella riunione, in quella discussione che è durata tre o quattro minuti, perché poi ci siamo fatti gli auguri per Natale, […] Me lo ricordo perché poi nei ricordi che il dottore Di Matteo mi ha suscitato nel colloquio, in quanto stavamo sotto un cornicione, è durato tre o quattro minuti e lui diceva delle cose, io pensavo le solite cose di cui si parla da quindici anni, che riguardavano le questioni di Ciancimino. Ciancimino continua… E io siccome avevo fretta e non avevo, non ho approfondito, non ho chiesto perché e non so neppure De Mita che cosa doveva dire fino in fondo”).

Gargani ha raccontato di essersi, poi, effettivamente incontrato con De Mita, il quale gli aveva, però, soltanto confermato di essere stato convocato dalla A.G. […].

Il teste ha anche confermato che Mannino ebbe ad usare un’espressione che manifestava preoccupazione per l’azione della magistratura (“P. M DI MATTEO : – Senta. una cosa. le ho già chiesto del colloquio con l’Onorevole Mannino. L’Onorevole Mannino ha utilizzato in qualche modo il termine ci vogliono fregare. ci vogliono fottere? Qualcosa del genere?; DICH. GARGANI: – Sì. credo fottere no. ma insomma non l’ha detto solo in quell’occasione ma l’ha ripetuto, io questo credo di averglielo detto anche allora.; P. M DI MATTEO: – In quella occasione lo utilizzò questo termine?; DICH. GARGANI: – Sì. sì. in quell’occasione. non che ci fregano. che c’è la volontà di … Perché credono niente di meno. credono a Ciancimino. questo era il senso del pensiero di Mannino; P. M DI MATTEO: – Utilizzò l’espressione. in quella circostanza, ci vogliono fottere, ci stanno fottendo, qualcosa del genere?; DICH. GARGANI : – Le sto dicendo credo no, la parola no, ci vogliono fregare forse, insomma, non è una cosa che usa frequentemente.; […] DICH. GARGANI : – O fregare o fottere, adesso io non … …. …. Sì, sì, una delle due, credo più la prima, quella meno, meno efficace”), aggiungendo di non sapere perché Mannino non aveva contattato direttamente De Mita […] e di non ricordare, comunque, se poi egli riferì al Mannino l’esito del colloquio con De Mita […]. Su specifica domanda del P.M., Gargani ha negato di avere parlato con De Mita dopo avere ricevuto la citazione per essere esaminato in questo processo […].

Successivamente, sollecitato delle difese degli imputati, Gargani ha ribadito che l’On. Mannino non gli disse mai che Ciancimino aveva detto la verità su di loro […] e che il Dott. Falcone in più occasioni gli aveva detto che l’On. Mannino lo aveva aiutato per far celebrare il c.d. Maxiprocesso (” ..Falcone mi ha ripetuto più di una volta che se doveva ringraziare un politico che l’ha aiutato a fare il Maxi Processo, che tutti sanno era contestato, era una novità anche sul piano organizzativo, oltre che sul piano sistematico, e che Mannino lo aveva fortemente aiutato, questo me l’ha detto almeno due o tre volte”).

[…] Le difese degli imputati hanno fortemente contestato l’attendibilità della testimonianza di Sandra Amurri ed appare necessario, pertanto, svolgere, in proposito, alcune considerazioni.

Orbene, la Corte, contrariamente all’assunto delle dette difese di taluni degli imputati, ritiene che non siano ravvisabili elementi che possano inficiare l’attendibilità della suddetta deposizione della teste Sandra Amurri, tanto più che, anzi, come si vedrà, sono stati acquisiti in proposito riscontri di assoluto rilievo.

[…] Le dichiarazioni della teste Amurri, d’altra parte, trovano già un primo riscontro, da un lato, nel fatto che effettivamente soltanto appena tre giorni prima (il 18 dicembre 2011) era stata notificata all’On. De Mita la citazione per essere sentito il successivo 12 gennaio 2012, e, dall’altro, nella deposizione dell’On. Di Biagio (v. sopra paragrafo 3.3.2), il quale, all’udienza del 9 gennaio 2014, ha confermato, infatti, lo stato di estrema agitazione in cui ebbe trovare la Amurri e che quest’ultima ebbe subito a raccontargli, pur senza entrare in dettagli, di quell’incontro cui poco prima aveva assistito e che l’aveva sconvolta.

Tale ultimo riscontro, per la “neutralità” e il disinteresse del teste Di Biagio, appare particolarmente rilevante e non sembra possa essere inficiato soltanto per le secondarie discordanze sul prosieguo dell’incontro […], restando, comunque, il fatto che non si comprenderebbe, altrimenti, perché, in assenza del colloquio oggi riferito dalla Amurri, quest’ultima avrebbe dovuto manifestare quella agitazione così chiaramente percepita dal Di Biagio.

In tale contesto, inoltre, la deposizione della Amurri non sembra possa essere inficiata neppure dal ritardo con la quale la stessa ebbe a riferire il fatto al Pubblico Ministero di Palermo.

A prescindere dalle vicende personali riferite dalla teste che la costrinsero a trattenersi in Taranto nei mesi successivi, infatti, una volta accertato che la Amurri non disponeva al 21 dicembre 2011 di elementi sufficienti per ricondurre con certezza il dialogo ascoltato ad una vicenda giudiziaria specifica (e, quindi, all’indagine sulla “trattativa Stato-mafia”), si inserisce in modo assolutamente coerente con lo sviluppo dei fatti il contatto intrapreso dalla Amurri medesima con il P.M. Di Matteo soltanto alla fine del mese di febbraio ed, in particolare, con la e-mail inviata, dopo un primo accordo telefonico, in data 24 febbraio 2012 (v. documento acquisito all’udienza del 9 gennaio 2012).

[…] Ma, a fugare ogni dubbio sull’attendibilità della testimonianza dell’Amurri sono poi sopravvenute le dichiarazioni del teste Gargani, il quale, seppure abbia negato che Mannino ebbe a pronunziare il giudizio sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino riportato dalla Amurri […], però, ha dovuto sostanzialmente confermare, per il resto, tanto l’incontro con il Mannino nelle circostanze di tempo e di luogo indicate dall’ Amurri, quanto, soprattutto, l’oggetto della conversazione concernente la citazione di Ciriaco De Mita e la richiesta del Mannino di contattare quest’ultimo, cosa che Gargani ha altresì ammesso di avere effettivamente fatto […], nonché sostanzialmente il motivo della preoccupazione del Mannino (diverso da quello sostenuto dalla difesa di Subranni e Mori in sede di discussione all’udienza del 9 marzo 2018) relativo alle dichiarazioni di Scotti sulla sua sostituzione con Mancino […] e persino le parole usate dal Mannino medesimo per definire l’azione dei Pubblici Ministeri di Palermo […] ed il riferimento a Ciancimino […].

Non solo, ma il Gargani ha anche ammesso di essersi, poi, effettivamente incontrato con De Mita e di avere parlato con lui della convocazione dei magistrati di Palermo […], seppur asserendo, però, di non ricordare se successivamente a tale incontro aveva ancora parlato con Mannino.

[…] La “non conferma” da parte del teste Gargani di quell’unico tratto della conversazione col Mannino concernente il giudizio sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (peraltro del tutto irrilevante in questa sede) va ricondotta, dunque, proprio al contesto in cui è maturato l’intendimento del medesimo Mannino di influenzare in qualche modo le dichiarazioni che a breve Ciriaco De Mita avrebbe dovuto rendere e che, poi, con tratti di evidente inverosimiglianza (v. paragrafo 3.1.4.1), ha effettivamente reso.


Un ministro al posto dell’altro– L’On. Vincenzo Scotti fu nominato Ministro dell’Interno il 16 ottobre 1990, nel Governo presieduto da Giulio Andreotti, a seguito delle dimissioni dell’On. Gava ed ha mantenuto tale carica sino al 29 giugno 1992, allorché, insediatosi il nuovo Governo presieduto da Giuliano Amato di seguito alle elezioni della primavera precedente, gli venne affidato il Ministero degli Esteri.

La Pubblica Accusa ha sostenuto che tale avvicendamento sia stato determinato dalla intransigenza mostrata da Scotti nei confronti soprattutto delle organizzazioni criminali di tipo mafioso ed al fine di favorire l’abbandono da parte della principale di esse, quella imperante (ma non solo) in Sicilia denominata “cosa nostra”, della strategia di attacco allo Stato e di vendetta contro uomini delle Istituzioni che ne avevano tradito le aspettative (quali l’On. Lima, ucciso nel marzo 1992, ed altri politici di cui si temeva già che potessero essere uccisi), ovvero che l’avevano particolarmente avversata (come il Dott. Falcone).

Anzi, ancora secondo tale ipotesi accusatoria, tale avvicendamento nel ruolo di Ministro dell’Interno sarebbe stato l’esito finale dell’iniziale sollecitazione dell’On. Mannino ad intraprendere ogni iniziativa utile ad interrompere la strategia mafiosa di cui egli riteneva di poter essere uno dei prossimi e più imminenti obiettivi (ed in effetti, come si è già visto sopra, possono ritenersi ampiamente provati sia l’individuazione del Mannino come esponente politico che, dopo e come Lima, avrebbe dovuto essere ucciso, sia la consapevolezza acquisita dal Mannino medesimo di tale intendimento criminoso, sia il frenetico attivarsi di quest’ultimo per evitare quell’infausta conseguenza).

A sostegno di tale ipotesi sono stati prodotti ed acquisiti numerosi documenti e sono stati esaminati i testimoni di cui si è dato conto sopra.

Il fulcro della ricostruzione operata dalla Pubblica Accusa, muovendo dalle mosse dell’On. Mannino di cui si è detto e dall’appartenenza di quest’ultimo, in quel frangente storico, al medesimo raggruppamento politico interno alla Democrazia Cristiana cui aderiva anche l’On. Mancino designato in luogo di Scotti come nuovo Ministro dell’Interno, poggia su due diversi dati fattuali che, in termini oggettivi, sono stati effettivamente riscontrati all’esito della complessa istruttoria dibattimentale pure operata su tale specifica vicenda: da un lato le iniziative legislative di contrasto alla criminalità mafiosa e le chiare e (per l’epoca) inusuali prese di posizione del Ministro Scotti sia nel denunziare la deriva destabilizzatrice delle Istituzioni verso la quale si dirigeva inesorabilmente la strategia della mafia, sia nell’affermare l’irrinunciabile necessità di contrastarla, come in effetti aveva iniziato a fare, con interventi legislativi ed operativi sempre più rigorosi, rifiutando qualsiasi prospettiva di accomodamenti o ammorbidimenti che potessero indurre la mafia a ritenere che quella strategia potesse produrre risultati per sé utili (è significativo, in proposito, il giudizio espresso da uno dei più importanti capi mafia dell’epoca, Giuseppe Graviano, in una delle conversazioni intercettate di cui è stata acquisita la trascrizione peritale ali ‘udienza del 19 ottobre 2017 di cui si dirà meglio più avanti, e, specificamente, nella conversazione del 22 novembre 2016, nel corso della quale il Graviano, appunto, dice: “il Ministro Scotti, ddru crasto ‘i Scotti, Martelli … che poi li hanno tolti e hanno messo al posto di Scotti misiru a Mancini, chiddru Scotti un crastu … …. …… Scotti un crasto è!”); dall’altro, l’apparentemente inopinata sostituzione del Ministro Scotti, che, in quanto formalmente ed ufficialmente motivata soltanto con il rifiuto del predetto diaccettare l’incompatibilità con la carica di parlamentare decisa (o, quanto meno, applicata) dai vertici del suo Partito per la prima volta soltanto alla vigilia della formazione del nuovo governo, dava oggettivamente adito a diverse interpretazioni (tra le quali anche quella di una volontà di modificare la linea politica sino ad allora portata avanti da quel Ministro nel contrasto contro le mafie) nel momento in cui il medesimo rifiuto di quella incompatibilità non era stato ritenuto d’ostacolo per la nomina dello stesso Scotti a Ministro degli Esteri.

Va detto, però, che all’esito della corposa istruttoria compiuta, si è fatta sufficiente chiarezza soltanto sul primo punto e non (almeno fino in fondo) anche, come si vedrà, sul secondo.

Sul primo punto, invero, fanno chiarezza, innanzitutto, al di là della testimonianza dello stesso Scotti (v. sopra), le iniziative legislative sostenute da quest’ultimo dal suo insediamento sino alla promulgazione del decreto legge dell’8 giugno 1992 ed i documenti acquisiti, sia quelli riferibili al Ministero dell’Interno, sia, ancor più, quelli relativi ad alcuni interventi del predetto in sede parlamentare, in occasione dei quali l’On. Scotti non ha mostrato remore nell’attribuire una “valenza destabilizzante” ad alcune intimidazioni provenienti da associazioni mafiose anche in rapporti con formazioni eversive di estrema destra (” .. non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive, stipulino con la criminalità organizzata, accordi di collaborazione a fini operativi per la destabilizzazione del paese … “) ed alla strategia ad esse sottese (” .. io ritengo, l’ho detto anche alla Commissione Antimafia, quindi non ne parlo oggi, che io ritengo il quegli omicidi e ritengo la criminalità organizzata in questo momento in Italia e per come si comporta un pericolo grave alla destabilizzazione delle istituzioni. Lo dico con fermezza e con chiarezza… . … ….. E non è una novità il giudizio che io ho fermo sul carattere eversivo della criminalità organizzata e del suo comportamento terroristico della condizione nella quale noi ci troviamo .. “) culminata in quel momento con l’omicidio dell’On. Lima nel marzo del 1992 (” …i1 fatto esiste si è sparato a un uomopolitico, comunque, di grande peso nella sua regione e nell’interno del suo partito. Questo non può non essere un fatto di destabilizzazione molto forte, rispetto al quale, io debba attivare, tutti gli strumenti e tutte le iniziative”), nonché nel sollecitare un inevitabile cambio di rotta per prevenire ulteriori attacchi criminali che prevedibilmente, da lì a poco, come poi in effetti è accaduto, avrebbero rischiato di incrinare le stesse fondamenta della democrazia (” .. un altro aspetto nuovo che sembra assumere la criminalità organizzata è quello di cospargere il terreno della lotta politica di cadaveri eccellenti avvalendosi delle tecniche che, a suo tempo, furono proprie del brigatismoeversivo … …… se la democrazia italiana vuole salvarsi da un condizionamento crescente della criminalità, allora dobbiamo essere tutti pronti ad affrontare un calvario doloroso, segnato anche da fatti estremamente preoccupanti … … Oggi siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le istituzioni, bensì a piegarne gli apparati ai propri fini … … .. La pericolosità è diventata quindi maggiore nel momento in cui la criminalità organizzata, vista l’impossibilità di avvalersi dei metodi tradizionali, ricorre alle tecniche terroristiche come avviene sempre più spesso”).

E non v’è dubbio che ad un certo momento, più evidentemente dal marzo 1992, il Ministro Scotti sia apparso isolato in quella sua visione della situazione politico-criminale di particolare preoccupazione per l’escalation di fatti e segnali via via sempre più gravi provenienti dal mondo della criminalità organizzata e diretti al mondo della politica e delle Istituzioni: in particolare, tale isolamento è emerso, come detto, in modo eclatante all’indomani della fuga di notizie sull’allarme lanciato riservatamente dal Ministro dell’Interno e dal Capo della Polizia il 16 marzo 1992 con telefax indirizzato ai Prefetti, Commissari di Governo e Questori (v. doc. n. 19.e della produzione del P.M.: ” . .Da qualche tempo est in atto vasta campagna intossicatoria ed disinformativa che, avvalendosi di messaggi intimidatori (telefonate anonime, lettere apocrife) ed fondata su azioni violente, tende minare credibilità pubbliche istituzioni ed ingenerare stati diffusa apprensione ed mobilitazione protesta…. …. . … Eventi omicidiari riferiti inducono at ulteriore mobilitazione et più attenta vigilanza, specie ove si consideri che, nel contesto dei luttuosi episodi, sono state rivolte minacce di morte contro signore presidente del consiglio, ministro Carlo Vizzini et ministro Calogero Mannino … …. … Da quanto sopra riferito affiorano fondati indizi in ordine at pretesa interrompere linea statuale fermezza per recupero pieno della legalità et correlata esistenza progetto complessivo di destabilizzazione del sistema democratico nel nostro paese, presumibilmente at opera di centrali eversive compromesse anche at livello esterno traffici illeciti .. “) e della conseguente audizione in data 20 marzo 1992 degli stessi Ministro dell’Interno Scotti e Capo della Polizia Parisi, per riferire sulla “situazione dell’ordine pubblico”, dinanzi alle Commissioni Affari Costituzionali ed Interni del Senato e della Camera dei Deputati (riunione congiunta), allorché, prendendo spunto dall’inaffidabilità di una sola delle fonti presa in considerazione in quella segnalazione (la propalazione di Elio Ciolini) e trascurando, invece, tutti gli altri motivi di concreto ed attuale allarme tratti da eventi delittuosi già verificatisi in quei mesi dal dicembre 1991 in poi (sino all’uccisione dell’On. Lima) ridotti a fatti di criminalità locale, quell’allarme e la ricostruzione del contesto in cui esso si inseriva vennero criticati da ampi settori delle forze politiche e soprattutto dallo stesso Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il quale, a fronte di una richiesta di commento da parte della stampa, ebbe a sintetizzare il suo pensiero affermando testualmente “E’ una patacca” (questo, almeno, fu il titolo dell’articolo pubblicato dal Corriere della Sera mai smentito dall’On. Andreotti, né oggetto di precisazioni da parte dello stesso Presidente del Consiglio quanto meno al fine di circoscrivere quel giudizio al solo Ciolini facendo salvo il più ampio contesto descritto e denunciato dal Ministro dell’Interno e dal Capo della Polizia, tanto che il primo venne, poi, apertamente tacciato di eccessiva superficialità: V. dich. dello stesso Scotti già sopra riportate, laddove, tra l’altro, ha riferito sul punto, che” … certamente la cosa fu presentata dai giornali come un eccesso di superficialità, usiamo l’espressione in uso traducendole in un linguaggio un po’ meno brutale di quello che utilizzò la stampa. lo ricordo sempre con grande amarezza, ebbi una vignetta di Forattini sul Corriere della Sera in cui c’era scritto: “reo confesso”, io e il capo della Polizia tenuto per mano. La cosa è di ridurre una questione che poteva essere analizzata, valutata, cioè… Ma non ad una questione di depistaggio o di eccesso di superficialità in questa direzione, i problemi erano quelli.. “).

Ora, non può essere dubbio che le reazioni all’allarme lanciato dal Ministro dell’Interno ebbero ad indebolire la posizione dell’On. Scotti facendolo apparire, almeno per quella che poteva essere la percezione dell’opinione pubblica, isolato persino all’interno del Governo, dal quale mai gli pervenne alcun attestato di solidarietà e di aperto e pubblico riconoscimento dell’opera di contrasto alla criminalità organizzata e della giustezza di quell’allarme e ciò neppure quando nei mesi successivi si verificarono altri gravissimi delitti riconducibili a quella strategia di destabilizzazione delle Istituzioni (dall’omicidio del Maresciallo Guazzelli, allora del tutto sottovalutato e, come altri precedenti analoghi fatti delittuosi, ricondotto a problematiche locali se non addirittura a questioni estranee alla criminalità mafiosa, sino alla strage di Capaci) e lo stesso Ministro Mannino ebbe a manifestare a più soggetti di rilievo nell’ambito del proprio Partito (oltre che a rappresentanti delle Forze dell’Ordine) la concreta preoccupazione di essere oggetto di progetti omicidiari già elaborati da “cosa nostra” nell’ambito di quella medesima strategia che aveva visto cadere l’On. Lima (ciò senza considerare che, peraltro, a prescindere dalla esattezza della indicazione dei Ministri Vizzini e Mannino come possibili future vittime di cui allora in parte poteva non aversi certo riscontro, comunque la stessa propalazione del Ciolini, al di là della riconosciuta inaffidabilità dello stesso, avrebbe meritato qualche ulteriore riflessione ed approfondimento quanto meno dopo la strage di Capaci e le pesanti ripercussioni che la stessa ebbe ad avere anche sulla vita politica del Paese, influenzando, sia pure indirettamente, persino l’elezione del nuovo Capo dello Stato).

A ciò si aggiungano, poi, anche le reazioni al decreto legge dell’8 giugno 1992, che, sebbene in molti casi ammantate ed animate da sincere convinzioni in tema di garanzie costituzionali della persona, non potevano non apparire, oggettivamente, all’opinione pubblica (e nell’ambito di questa, anche ai mafiosi), non certo addentro a sottigliezze e disquisizioni giuridiche, all’indomani del più grave attacco della criminalità mafiosa mai sferrato allo Stato ed alla democrazia con la strage di Capaci, come un rifiuto o abbandono della volontà politica di contrastare con assoluto rigore il fenomeno mafioso, rinunciando a misure che sarebbero apparse assolutamente punitive per i mafiosi in carcere e per i loro familiari, pur di ritornare a quel “quieto vivere” che per molti anni aveva consentito, si, alla mafia di prosperare economicamente gestendo i propri affari, ma anche, nel contempo, di evitare però attacchi così gravi alle Istituzioni e la temuta vendetta anche nei confronti di esponenti politici in passato apparsi più condiscendenti verso tale contemperamento di contrapposti interessi.

Si aggiunga, poi, ancora, che con quel Ministro dell’Interno non vi era alcuno spazio per possibili contatti riservati con esponenti mafiosi diversi da coloro che avevano intrapreso la via della collaborazione ufficiale con lo Stato, non essendovi dubbio, alla stregua delle iniziative e delle dichiarazioni allora fatte dall’On. Scotti di cui si è detto sopra, che quest’ultimo già allora fosse fermamente convinto della impercorribilità di tale strada, così come dallo stesso, poi, espressamente dichiarato in occasione di una sua più recente audizione dinanzi la Commissione Parlamentare Antimafia del 28 ottobre 2010 […].

A fronte del rigore manifestato dal Ministro Scotti e del rifiuto da parte di questi di qualsiasi iniziativa che potesse apparire con un “patteggiamento” con le associazioni mafiose perché, appunto, “radicalmente incompatibile con la scelta di guerra” (v. sopra) e nel contesto di un complessivo dibattito politico che lo mostrava, almeno per quei che appariva all’esterno, isolato sia nell’ambito del Governo (con l’eccezione del Ministro Martelli certamente influenzato dal ruolo svolto presso il Ministero della Giustizia dal Dott. Falcone e, poi, dall’uccisione di un suo così valente Collaboratore), sia, soprattutto, nell’ambito dei Partito della Democrazia Cristiana, v’è stata la imprevista sostituzione dell’On. Scotti nel suo ruolo di Ministro dell’Interno, ai più, se non a tutti, apparsa del tutto inopinata per le ragioni che ufficialmente l ‘hanno accompagnata.

Sulla stampa (e, quindi, all’opinione pubblica), invero, tale sostituzione è stata presentata come conseguenza del rifiuto da parte dell’On. Scotti di accettare la regola della incompatibilità tra il ruolo di ministro e quello di parlamentare per la prima volta introdotta (o, come già accennato sopra, quanto meno applicata: v., infatti, dichiarazioni del teste De Mita secondo cui, in realtà, tale regola era sempre esistita ancorché mai applicata ed anzi, come è emerso dalle deposizioni di tanti importanti esponenti dell’epoca di quei Partito, addirittura ignorata nella sua stessa esistenza) dalla Direzione della Democrazia Cristiana in occasione della formazione del nuovo Governo nei giugno del 1992.

E tale rifiuto di sottomettersi a tale regola fu certamente manifestato dall’On. Scotti nei giorni immediatamente precedenti la formazione del detto Governo, sia con dichiarazioni pubbliche, sia nei colloqui con coloro che, per il Partito della Democrazia Cristiana (in primis, ma non soltanto, il Presidente ed il Segretario), si stavano concretamente occupando di definire la delegazione dei Ministri.

Sennonché, l’On. Scotti, poi, non fu conseguentemente estromesso da quel Governo, ma, come dallo stesso riferito, senza che egli avesse mai manifestato alcuna disponibilità (ma sul punto, si vedrà più avanti quanto dichiarato dall’On. Forlani e da altri testi) tanto da apprenderlo ascoltando la dichiarazione pubblica del Presidente del Consiglio incaricato all’uscita dell’incontro col Capo dello Stato (v. testimonianza Scotti sopra riportata), fu designato quale Ministro degli Esteri.

Ora, poiché anche per quest’ultimo ruolo valeva la regola dell’incompatibilità sancita dalla Direzione del Partito, è apparso subito evidente agli occhi di tutti gli osservatori politici, dell’opinione pubblica e, persino, dello stesso Scotti (v. ancora testimonianza già citata), che vi erano altre non dichiarate ragioni che avevano indotto la Democrazia Cristiana a volere la sostituzione di Scotti presso il Ministero dell’Interno con altro esponente del medesimo Partito appartenente ad altra “corrente” (l’Ono Mancino).

Ebbene, è stato giocoforza in tale contraddittorio contesto ricollegare quella sostituzione alla situazione di almeno apparente isolamento del Ministro dell’Interno Scotti, maturato già da diversi mesi (quanto meno dal marzo 1992 quando vi era stata la sua audizione parlamentare a proposito degli allarmi allora diramati), di cui si è detto sopra.

Sennonché, l’istruttoria dibattimentale espletata in proposito, non ha consentito di pervenire ad una certa e così netta conclusione di causa e effetto.

Invero, sono emersi, da un lato, alcuni contraddittori comportamenti dell’On. Scotti di seguito alla sua designazione come Ministro degli Esteri e prima che, infine, fossero formalizzate le sue dimissioni.

Se è vero, infatti, che l’On. Scotti, come dallo stesso dichiarato, ebbe a presentare immediatamente al Presidente del Consiglio Amato la lettera di dimissioni, accettando, poi, su invito di questi a soprassedervi per far fronte ad alcuni imminenti impegni di politica internazionale […], è però, altresì, vero che, in realtà, poi l’On. Scotti aveva formalizzato anche una richiesta di dimissioni dalla carica di parlamentare pervenuta […] alla Camera dei Deputati l’11 luglio 1992, successivamente, però, revocata contestualmente alla comunicazione di avere rassegnato, invece, le dimissioni da Ministro degli Esteri […].

Dall’altro lato, invece, sono emersi dalle deposizioni di altri esponenti della Democrazia Cristiana protagonisti di quelle vicende elementi che effettivamente, se non sono sufficienti a provare in termini di certezza (per la contraddittorietà dei ricordi dei testi anche su circostanze fondamentali), non consentono, comunque, di escludere che alla decisione di sostituire 1’On. Scotti quale Ministro dell’Interno abbiano quanto meno concorso questioni piuttosto collegate alle dinamiche interne alla Democrazia Cristiana ed ai rapporti di forza tra le sue “correnti” ed i relativi esponenti.

Peraltro, le incertezze sopra ricordate non sono state chiarite, ma anzi forse  ancor più acuite, dalla deposizione del teste Forlani, all’epoca segretario del Partito della Democrazia Cristiana e, dunque, principale artefice delle designazioni per la nuova compagine ministeriale […]

La testimonianza del teste Forlani sopra riportata, infatti, pur nella spiegazione del percorso tutto interno al partito della Democrazia Cristiana che condusse a designare Mancino quale Ministro dell’Interno nel nuovo governo, non aiuta a superare la contraddittorietà delle risultanze sopra ricordata, perché, l’accettazione, addirittura di buon grado […], che, secondo, appunto, il teste Forlani, Scotti avrebbe in ultimo manifestato riguardo alla nomina a Ministro degli Esteri, appare del tutto in contrasto, non soltanto con la testimonianza dello stesso Scotti, il quale, invece, ha negato di avere mai dato la disponibilità alla nomina e di avere saputo della sua designazione prima dell’annuncio formale della composizione del nuovo Governo fatto dal Presidente del Consiglio Amato, ma anche con il dato fattuale della lettera di dimissioni da Ministro, già nella immediatezza della nomina presentata da Scotti, seguita dall’invito del Presidente del Consiglio Amato di soprassedervi sino alla conclusione di alcuni imminenti impegni internazionali.

Analoga contraddittorietà si riscontra anche riguardo alla corrispondente deposizione del teste Pomicino, secondo il quale, addirittura, Scotti “scelse” di andare al Ministero degli Esteri [

Anche in questo caso, poiché la “scelta” di Scotti, se vi è effettivamente stata, è maturata nelle ore immediatamente precedenti al varo del nuovo Governo (tutti i testi informati di tali vicende, infatti, hanno riferito i frenetici contatti protratti si sino a tutta la notte tra il 28 e il 29 giugno 1992), resterebbe senza una adeguata spiegazione la lettera di dimissioni scritta da Scotti lo stesso 29 giugno 1992 […], fatto che, invece, appare coerente con la “sorpresa” di essere stato nominato Ministro degli Esteri raccontata dallo stesso Scotti.

Ugualmente non appare di aiuto, nel senso richiamato, neppure la testimonianza dell’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato, secondo cui, infatti, l’indicazione dei Ministri Scotti e Mancino, rispettivamente per i dicasteri degli Esteri e dell’Interno, è maturata esclusivamente nell’ambito del partito della Democrazia Cristiana cui “spettavano” quelle designazioni [..

Certo, non può non suscitare perplessità, che il teste Giuliano Amato abbia detto di non ricordare nulla delle polemiche, pubbliche e con ampio risalto sulla stampa (basti ricordare l’intervista del giornalista Giuseppe D’Avanzo a Scotti pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” il 21 giugno 1992), che accompagnarono un’ipotizzata sostituzione dei Ministri Scotti e Martelli, impegnati in una manifesta azione di contrasto alla mafia e particolarmente esposti su tale fronte ancor più dopo la strage di Capaci, in vista della formazione del nuovo Governo, né che tali temi non siano stati oggetto di alcuna valutazione, lasciando prevalere le esigenze di equilibrio interne di un partito della coalizione, ma è, però, anche vero che, veniva proposto in sostituzione di Scotti un politico stimato e di riconosciuta capacità […], per il quale, al di là del segnale che determinati ambienti avrebbero potuto, eventualmente anche ingiustificatamente ma oggettivamente, percepire, non v’era alcuna ragione di dubitare che avrebbe proseguito l’azione di contrasto al fenomeno mafioso con altrettanta fermezza del suo predecessore […].

A ciò si aggiunga, poi, che non è neppure da escludere che possa essersi, in effetti, verificato quanto ipotizzato dallo stesso Giuliano Amato sia pure sulla base di generiche “voci” che circolavano all’epoca e cioè che, di fronte ad un iniziale rifiuto di Scotti di rinunciare al ruolo di parlamentare, il partito della Democrazia Cristiana avesse designato al Ministero dell’Interno Nicola Mancino e soltanto successivamente avesse deciso di mantenere comunque Scotti nel Governo […], rinviando ad un momento successivo la questione dell’incompatibilità (che, d’altra parte, riguardava anche altri Ministri), cosi che fu giocoforza, stante l’impegno già assunto con Mancino, dirottare Scotti ad altro Ministero, peraltro, di maggior “peso”, nella speranza che ciò lo inducesse a rinunziare alla sua opposizione.

Si vuole dire in altre parole che non vi sono elementi, sulla base di quelle dichiarazioni del Mancino alla Commissione Parlamentare Antimafia, per collocare gli accadimenti riferiti nella esatta sequenza temporale e ciò, quindi, in particolare, anche rispetto al prospettato avvicendamento del Ministro Scotti al Dicastero dell’Interno, in ipotesi, già eventualmente deciso per quelle ragioni connesse agli aggiustamenti degli equilibri interni alle correnti del partito della Democrazia Cristiana.

[…] Resta da esaminare, allora, l’episodio dell’incontro tra Calogero Mannino e Giuseppe Gargani di cui ai paragrafi 3.2 e 3.3, che rafforza indubbiamente l’intuizione accusatoria del P.M., ma che, per quanto si dirà, non può ritenersi definitivamente decisivo per individuare, in termini di certezza ed univocità, la ragione della sostituzione del Ministro Scotti.

Orbene, deve, innanzi tutto, rilevarsi che, alla stregua delle risultanze probatorie acquisite, non può residuare alcun dubbio sul fatto che la preoccupazione del Mannino per la deposizione di De Mita riguardasse la questione dell’avvicendamento del Ministro Scotti con Mancino, dal momento che è stato lo stesso Gargani […] a confermarlo […].

Tale conclusione, d’altra parte, è avvalorata anche dal fatto che In quell’occasione il medesimo Mannino ebbe a fare riferimento “al figlio di Ciancimino che ha detto la verità” e, quindi, a Massimo Ciancimino, il quale, in effetti, aveva, tra l’altro, dichiarato di avere saputo in anticipo dal padre che Scotti, con il quale Vito Ciancimino non riteneva possibile alcun dialogo, sarebbe stato sostituito da Mancino quale Ministro dell’Interno (v. dich. Massimo Ciancimino sopra riportate nella Parte Seconda della sentenza, Capitolo 2).In proposito, occorre, però, precisare e ribadire che le richiamate dichiarazioni di Massimo Ciancimino, per il mancato superamento del necessario vaglio preliminare, non possono minimamente utilizzarsi e, in concreto, non si utilizzano in questa sede nel loro intrinseco contenuto, ma solo nella loro oggettiva esistenza utile per comprendere il senso dell’iniziativa del Mannino, tanto più che anche in questo caso Massimo Ciancimino potrebbe avere sfruttato, per sorreggere le sue ardite sovrastrutture di fantasia (v. Parte Seconda della sentenza), o, più probabilmente, le conoscenze acquisite successivamente sulla vicenda in questione, ovvero anche, al più, in ipotesi, una eventuale conoscenza sulla imminente nomina di Mancino già all’epoca trasmessagli dal padre Vito Ciancimino (al quale, d’altra parte, non mancavano di certo i referenti all’interno della Democrazia Cristiana).

Tuttavia, alla stregua delle risultanze sinora esposte, non v’è dubbio che il riferimento fatto in quella occasione da Mannino, peraltro, avallato dallo stesso Gargani con la sola eccezione del giudizio di veridicità delle relative dichiarazioni,[…], conferma ulteriormente quale fosse la ragione del timore del Mannino, quello di essere in qualche modo collegato alla sostituzione del Ministro Scotti.

Da ciò, dunque, deve necessariamente ricavarsi che Mannino temeva in qualche modo quanto avrebbe potuto dichiarare il teste De Mita riguardo all’avvicendamento tra Scotti e Mancino.

Ora, un simile timore, tanto più che in quel momento non era stata ancora mossa alcuna contestazione al Mannino, può trovare giustificazione, sotto il profilo logico, solo ed esclusivamente in un coinvolgimento personale di quest’ultimo nella detta vicenda e, quindi, nella preoccupazione che tale coinvolgimento fosse scoperto con la imminente testimonianza di De Mita.

Allora, se così è, è giocoforza ritenere che Mannino fosse a suo tempo in qualche modo intervenuto nei confronti di De Mita per perorare la scelta di un nuovo Ministro dell’Interno meno intransigente nel contrasto alle organizzazioni mafiose rispetto a Scotti e ciò, d’altra parte, del tutto coerentemente con le risultanze già esposte nel precedente Capitolo 2 riguardo al timore del Mannino medesimo, dopo l’omicidio di Salvo Lima, di essere a sua volta ucciso e alla conseguente sua convinzione che soltanto un attenuazione del rigore nei confronti del fenomeno mafioso che aveva caratterizzato l’azione dei Ministri Martelli e Scotti (grazie anche alla decisiva spinta di Giovanni Falcone) gli avrebbe consentito di avere salva la vita.

[…] In altre parole, la Corte ritiene che neppure l’episodio dell’incontro tra Mannino e Gargani, seppur ricostruito nei termini prima esposti, consenta di superare definitivamente e senza possibilità di dubbio la contraddittorietà delle complessive risultanze e, quindi, di attribuire la sostituzione di Scotti in via esclusiva al desiderio di Mannino e/o di altri di un ammorbidimento della linea governativa della fermezza per favorire i contatti già intrapresi dai Carabinieri con i vertici mafiosi.

Ma, pur dovendosi necessariamente raggiungere la conclusione che, anche a causa delle testimonianze spesso lacunose e contraddittorie di molti testi, come già detto sopra, non è stato possibile acquisire sufficienti elementi a sostegno della tesi dell’Accusa secondo cui il Ministro dell’Interno Scotti venne deliberatamente sostituito per volere di coloro che all’interno della Democrazia Cristiana (Mannino, ma anche il Presidente della Repubblica Scalfaro, […]) auspicavano un ammorbidimento della politica di forte e intransigente contrasto al fenomeno mafioso sino ad allora dal predetto Ministro propugnata al fine di evitare ulteriori aggressioni da parte delle organizzazioni mafiose allo Stato e (forse ancor più) l’uccisione di taluni di essi (come era già avvenuto per l’On. Lima e si temeva per altri, tra i quali, innanzitutto, lo stesso On. Mannino), va, in ogni caso, evidenziato che quel rileva nel presente processo è […] che, l’assenza di una comprensibile e pubblica esplicitazione delle reali ragioni di quella sostituzione […], autorizzava tutti coloro che vivevano e osservavano dall’esterno quegli accadimenti a ritenere, indipendentemente da colui che da quel momento avesse assunto l’incarico, che si volesse a quel punto cambiare la linea politica del Ministero dell’Interno e, quindi anche, per un verso, l’organizzazione mafiosa “cosa nostra” a ritenere che un qualche effetto per essa favorevole era stato prodotto dalla strategia culminata sino ad allora nella strage di Capaci e che vi era la possibilità di “trattare” per ottenere qualche beneficio in cambio della cessazione della strategia stragistica, e, per altro verso […], taluni esponenti delle Forze dell’Ordine a ritenere che si potesse a quel punto portare avanti una linea investigativa (non apprezzata – e che, quindi, non sarebbe stata mai avallata – da Scotti) di ricerca di contatti con i vertici dell’organizzazione mafiosa per raggiungere il medesimo obiettivo della cessazione delle uccisioni di esponenti politici e delle Istituzioni eventualmente mediante la cattura di quegli esponenti mafiosi che ne apparivano essere gli istigatori (Riina ed i suoi più fidati sodali).

Certo, come evidenziato anche dal Pubblico Ministero in sede di esame di alcuni dei testi di cui si è dato conto in questo Capitolo, se è vera la ricostruzione operata in questa sede da tal uni esponenti della Democrazia Cristiana esaminati in qualità di testimoni, è certamente grave che il principale Partito protagonista della politica dell’epoca, all’indomani della strage di Capaci, la cui efferatezza non aveva precedenti nella storia repubblicana, abbia inserito la “casella” del Ministero dell’Interno nell’ordinaria “spartizione” di poltrone che caratterizzava la formazione dei Governi, senza minimamente preoccuparsi […].

Si vuole dire, in sostanza, che anche addivenendo ad una ricostruzione della vicenda che escluda la più grave ipotesi accusatoria della deliberata e consapevole sostituzione del Ministro Scotti per attenuare la frontale contrapposizione dello Stato all’organizzazione mafiosa con il fine, se non di far salva la vita a tal uni esponenti politici che temevano di soccombere per mano mafiosa, quanto meno di far cessare quell’aggressione di tipo terroristico che impediva il normale svolgersi della vita del Paese e rischiava conseguentemente di indebolire il Partito che storicamente ne assumeva la responsabilità, comunque, non viene meno, in termini di rilievo quanto meno oggettivo, l’effetto sopra ricordato sia sul fronte della percezione dei mafiosi, sia su quello della percezione di tal uni apparati investigativi, che, convergentemente, come è emerso incontestabilmente all’esito dell’istruzione dibattimentale, a quel punto hanno iniziato a cercarsi reciprocamente per addivenire ad un soddisfacente accordo che potesse produrre benefici risultati per le contrapposte esigenze.

Quali siano stati gli effetti prodotti da tali contatti sarà oggetto di successiva analisi in altro apposito Capitolo.


I ricordi sbiaditi di Ciriaco De Mita  – All’udienza del 25 settembre 2014 è stato esaminato, in qualità di testimone, Ciriaco De Mita, il quale, in sintesi, ha, innanzitutto, riferito riguardo sia agli incarichi ricoperti nel Partito della Democrazia Cristiana sia agli incarichi di governo […], specificando di avere militato, in particolare, nella “corrente” del predetto partito politico indicata come “sinistra di base” unitamente, tra gli altri, all’On. Gargani ed al Sen. Mancino, nonché dopo un convergenza con altre “correnti”, all’On. Mannino […].

Il teste, poi, ha riferito più specificamente sui suoi rapporti con l’On. Gargani […], con il Sen. Mancino […], con l’On. Scotti (“Ma il rapporto con Scotti credo che cominci negli anni sessanta. No, pressappoco, però è stato sempre un rapporto di conoscenza più che di solidarietà …. … … facevo fatica a recuperare nella memoria a quale corrente appartenesse.. … … Lui le ha attraversate un po’ tutte, rendendo difficile anche la collocazione, aveva una volatilità frequente, però il rapporto personale, almeno finché poi c’è stata la Democrazia Cristiana, c’era”) e con l’On. Lima (“Rapporti personali no, lo conoscevo, l’ho incontrato quando qua il Partito è entrato in difficoltà, all’inizio della mia esperienza, quando fu cambiata la classe dirigente, fu eletto Orlando Sindaco. lo mi sono occupato della D.C. in maniera rilevante, come per le regioni di confine. Nelle elezioni regionali dell’85 io svolgevo funzione politica, non giudiziaria, però valutando alcuni fenomeni che non erano da me condivisi introdussi la regola che i Consiglieri Regionali che avessero avuto tre legislature non erano ricandidabili … … … La organizzazione del Partito era, come dire, molto discussa, si verificavano casi di non delimitazione di confine tra le attività politiche e attività censurabili dal punto di vista del costume, della moralità. […] Le sto spiegando che introducendo quel criterio io non ho fatto riferimento ai rappresentanti di corrente. Evidentemente poi nelle nuove candidature certo che ci saranno state anche indicazioni di persone politicamente collegate a Lima, ma io avevo necessità di cambiare classe dirigente e non, come dire, di distinguere le persone. E lui era parlamentare europeo, quindi non rientrava nelle mie competenze, almeno finché io sono stato segretario della D. c.. “).

Indi, il teste ha riferito di un incontro avuto con il Dott. Falcone pochi giorni dopo l’omicidio dell’On. Lima, allorché il predetto lo aveva messo sull’avviso paventando che, dopo tale omicidio, la mafia avrebbe alzato ancor più il livello dello scontro con lo Stato (” .. . quando Lima è stato ucciso io sono stato chiamato, attraverso un Magistrato amico, da Falcone perché voleva parlarmi … ….. Dopo alcuni giorni, non. .. Eravamo alla vigilia della campagna elettorale, per la verità pensavo che fosse funzionale a qualche altra ragione, non all’informazione. E dissi che ero fuori Roma. Siccome ha insistito, mi sembrò scortese non trovare una ragione e gli dissi che io passavo per Roma, credo il 15 di marzo, quindi pochi giorni dopo l’uccisione, e concordammo di vederci. Lui gentilmente venne a prelevarmi all’Hilton, dove io ero, entra in macchina con me e dall’Hilton all’Eur mi dà la sua spiegazione sull’uccisione di Lima e mi dice: preparatevi perché la mafia dopo la sentenza della Cassazione che confermava la procedura inaugurata da lui, deve organizzarsi e per organizzarsi eleverà il livello di scontro con lo Stato …. … … E io gli obiettai, cioè gli obiettai, pensai sì, ma Lima non era un uomo simbolo come Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, e lui mi rispose: Lima non è mafioso … … … Poi gli chiedo: ma lei queste cose perché le dice a me? Non sono Presidente del Consiglio, non sono un Ministro di Grazia e Giustizia. E lui mi disse: le dico a lei perché è una persona che stimo. Poi gli chiedo: ma me lo dice perché ha qualche sospetto sulla mia incolumità? lo mi ero molto occupato della Sicilia … … … E dice: dovete prepararvi all’elevazione dello scontro tra mafia e Stato. E io gli dico: ma perché queste cose non le scrive? Disse: perché in questo momento non passano … “), precisando di avere, poi, parlato di tale colloquio con alcuni colleghi di partito quali Orlando, Mattarella e Mancino[…] e con il direttore del quotidiano La Repubblica Scalfari […], ma non con il Ministro dell’Interno Scotti, né col Ministro della Giustizia Martelli (“Onestamente no perché, come dire, il colloquio è diventato angoscioso quando hanno ammazzato Falcone. Quando me l’ha raccontata in me ha suscitato molta curiosità e debbo dire che trovavo la sua diagnosi degna di attenzione, ma eravamo in campagna elettorale e poi quando Falcone è stato ucciso bisognava fare il nuovo Governo.[…]”).

Il teste, quindi, ha negato di avere mai saputo dell’allarme per l’ordine democratico lanciato dal Ministro dell’Interno Scotti e dal Capo della Polizia e della conseguente audizione parlamentare dei predetti nel marzo 1992 […].

Poi il teste ha ricostruito la vicenda della elezione del Capo dello Stato nel maggio 1992 […]. Ancora il teste ha raccontato che anche dopo la strage di Capaci non ebbe in alcun modo ad interessarsi delle conseguenze di quell’efferato delitto e delle misure che il Governo ebbero ad adottare, essendosi in quel periodo concentrato esclusivamente sulla formazione del nuovo Governo (“P. M DI MATTEO : – Senta, poc’anzi lei ha, con una espressione molto forte, ha detto che la sensazione che già le aveva provocato il contenuto dell’incontro con Giovanni Falcone diventò poi angosciosa dopo l’uccisione di Giovanni Falcone. Io le chiedo: proprio alla luce della strage di Capaci, che già per le sue modalità rappresentava un innalzamento, un primo adempimento purtroppo, una prima verifica della giustezza dell’analisi di Giovanni Falcone, si avvio anche all’interno del partito una discussione per approfondire questa escalation criminale, l’allarme di una ulteriore prosecuzione della strategia anche con il Ministro degli Interni Scotti?; DICH DE MITA : – lo ho presente e teniamo presenti entrambi, cioè il percorso che c’era, Falcone è stato ucciso un giorno prima dell’elezione del Capo dello Stato. Eletto il Capo dello Stato sono iniziate le consultazioni per la formazione del Governo, che furono accompagnate dalle vicende che conosciamo tutti e si dà l’incarico all’Onorevole Amato. Quindi la discussione all’interno della D.C è stata fatta sulla formazione del Governo .. “), riferendo, quindi, come si pervenne alla indicazione del Sen. Mancino quale nuovo Ministro dell’Interno […], né riguardo all’appello sottoscritto da un gruppo di parlamentari a favore della conferma del Ministro dell’Interno Scotti pubblicato sul quotidiano il Popolo e ripreso da altri quotidiani nazionali […].

D’altra parte, il teste ha riferito che, per l’impressione che ebbe, il Ministro Scotti era soprattutto interessato a mantenere l’immunità parlamentare (“Se io poi debbo, come dire, dire la mia opinione, a Scotti interessava la conservazione dell’immunità, non la scelta … “), aggiungendo di non sapere se la nomina di Mancino al Ministero dell’Interno sia stata voluta dal Presidente Scalfaro […], poi, però, in parte correggendo tale dichiarazione a seguito di contestazione del P.M. (”[…] P. M. DI MATTEO : – Scalfaro voleva Mancino Ministro o Mancino Ministro dell’Interno?; DICH DE MITA : – Ministro dell’Interno, non Ministro”).

Il teste ha ancora espressamente ribadito che la sostituzione di Scotti venne ampiamente discussa in presenza di quest’ultimo senza che venissero rappresentate esigenze di continuità con l’opera intrapresa dal Ministro dell’Interno […].

In proposito il teste ha anche riferito sulla regola della incompatibilità tra ministro e parlamentare, a suo dire da sempre esistente in quel partito anche se fino ad allora raramente applicata […], ribadendo, che nel decidere l’avvicendamento di Scotti, non si tenne minimamente conto dell’azione di governo sino ad allora da questi svolta e dei provvedimenti straordinari che il medesimo aveva ritenuto di adottare per contrastare la gravità della minaccia mafiosa che aveva raggiunto il suo apice con la strage di Capaci, ma soltanto delle contemperamenti imposti dai rapporti all’interno del Partito […].

Comunque, il teste non è stato in grado di collocare correttamente nel tempo la strage di via D’Amelio (“P. M DI MATTEO : – Senta. lei quindi … Lei poi ricorda quando intervenne la strage di Via D’Amelio?; DICH. DE MITA : – La data precisa no … . ….. È avvenuta d’estate. credo il mese d’estate. l’anno dopo di Falcone”), aggiungendo di non essersi interessato neppure dopo questa delle questioni concernenti la trasformazione in legge del decreto sul 41 bis (“P. M DI MA TTEO : – Avvenne 57 giorni dopo. forse un po’ di distrazione, diciamo, c’era. non avvenne l’anno dopo, 57 giorni dopo. Le voglio chiedere se dopo che avvenne la strage di Via D’Amelio il 19 luglio del 92 si pose un problema politico per la conversione in Legge del 41 bis. Non ne ha ricordo? Non ha ricordo.; DICH. DE MITA : – lo non mi occupavo di questi problemi”).

In sede di controesame, quindi, sempre in sintesi, De Mita ha aggiunto:

– di non avere parlato con Mannino del colloquio avuto con il Dott. Falcone […];

– che il Dott. Falcone in quel colloquio aveva iniziato la sua riflessione muovendo dalla sentenza del maxi-processo (“L’inizio della sua riflessione era dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha avallato le procedure, la mafia ha avuto un colpo duro da quel processo e allora ha bisogno di riorganizzarsi e per riorganizzarsi eleverà lo scontro a livello dello Stato, non più sul territorio”);

– di non avere avvertito alcun mutamento di linea politica del Governo conseguente alla nomina di Mancino quale Ministro dell’Interno […];

– che nella nomina di Scotti a Ministro degli Esteri era implicito che avrebbe dovuto dimettersi da parlamentare […];

– di non avere mal avuto cognizione di trattative tra rappresentanti delle Istituzioni e mafiosi (“Ma che io sia stato a conoscenza, abbia avuto sospetti o abbia rilevato comportamenti che avallassero una cosa del genere no”);

– che Scotti non espresse riserve per il ruolo di Ministro degli Esteri, ma chiese espressamente di restare al Ministero dell’Interno […].

3.1.4.1 PRIME CONSIDERAZIOI SULLA TESTIMONIANZA DI CIRIACO DE MITA

Appare necessario anticipare qualche breve considerazione riguardo alla testimonianza appena riportata. Non competono a questo Collegio valutazioni di carattere etico sui testimoni e, pertanto, ci si astiene dal fame. Tuttavia, appare veramente arduo esaminare le dichiarazioni rese dal teste De Mita disgiungendole dalla valutazione, inevitabilmente negativa per quanto si dirà, della condotta tenuta dal predetto nel 1992 come dallo descritta e riferita.

E’ appena il caso di ricordare che in quel periodo si sono verificati eventi di assoluta gravità (alcuni, sotto tale profilo, senza precedenti nella storia repubblicana) che hanno inciso anche – e forse incidono ancora – nell’ordinario e ordinato evolversi della vita democratica del Paese.

Nel marzo del 1992 v’è stato l’omicidio dell’On. Lima (esponente della Democrazia Cristiana la cui importanza trascendeva i confini locali per il peso che rivestiva nella corrente di quel Partito facente capo al Presidente del Consiglio allora in carica) da tutti recepito, oltre che in termini punitivi nel confronti del detto parlamentare, anche come risposta dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” allo Stato per la conclusione del c.d. “maxi-processo”; nel successivo maggio 1992 v’è stata la strage di Capaci, della cui gravità non sembra necessario aggiungere alcunché, seguita, a breve distanza di tempo nonostante il timore generalmente manifestato, dalla strage di via D’Amelio.

Ebbene, in tale contesto, già nell’immediatezza dell’assunzione dell’esame testimoniale, ha destato particolare sconcerto che uno dei più importanti esponenti politici dell’epoca, già Presidente del Consiglio dei Ministri ed, in quel frangente, Presidente del Partito della Democrazia Cristiana che ancora costituiva il principale architrave della vita democratica del Paese e del Governo in carica, secondo quanto riferito in questa sede, abbia relegato i suddetti avvenimenti in secondo piano rispetto al suo principale interesse indirizzato a risolvere le problematiche della formazione di un nuovo governo che tenesse conto del peso delle “correnti” interne al Partito e delle aspirazioni di alcuni altrettanto importanti esponenti politici.

E’ apparso veramente singolare che il teste, ancora secondo quanto dallo stesso riferito, pur dopo l’omicidio Lima e gli avvertimenti personalmente rivolti gli dal Dott. Falcone, si sia del tutto disinteressato delle denunce del Ministro dell’Interno (appartenente al medesimo Partito) e del Capo della Polizia e delle diffuse polemiche che ne conseguirono con ampio risalto sia in sede parlamentare, sia sulla stampa nazionale; e, ugualmente, sconcerta forse ancora di più che, pur dopo la strage di Capaci, il teste, come emerge dalle sue dichiarazioni, si sia nella stessa misura disinteressato delle conseguenze di un così grave evento (si ripete, senza precedenti anche per le modalità organizzative indicative di un rilevante spiegamento di forze e di una micidiale potenza criminale) e della necessità di adottare urgentemente provvedimenti di contrasto della strategia mafiosa che dessero il segno della capacità dello Stato di reagire e di respingere un siffatto attacco.

Ma il teste ha riferito (v. paragrafo precedente), appunto, di non essersi minimamente interessato di tutto ciò e di avere, pertanto, del tutto ignorato le iniziative del Governo allora in carica (compreso l’urgente emanazione del decreto legge dell’8 giugno 1992, nonostante le molte polemiche che lo seguirono anche in questo caso con ampio risalto sulla stampa), essendo del tutto concentrato sulla attività interna del Partito e sulle trattative in corso all’interno di questo e con le formazioni politiche alleate, per la formazione del nuovo Governo (ovviamente nella sola ottica del soddisfacimento delle pretese dei maggiorenti della Democrazia Cristiana e non certo di quella del superiore interesse del Paese che quel Governo avrebbe dovuto guidare nella temperi e di quel momento storico).

E sorprende ancora massimamente che il medesimo teste abbia riferito di non avere in alcun modo percepito quelle manovre che miravano a delegittimare il Ministro Scotti e che ebbero risalto persino nell’organo di stampa ufficiale della Democrazia Cristiana (Il Popolo), asseritamente neppure letto da colui che pure ricopriva la carica di Presidente del Partito editore di quel giornale.

In sostanza, dalla testimonianza qui in esame la figura dell’On. De Mita emerge come quella di un di un soggetto totalmente estraniato da tutto ciò che accadeva in quei mesi del 1992 (tanto che, pur essendo apparso in questa sede lucidissimo e capace di elaborate argomentazioni nonostante l’età non più giovane, espressamente richiesto nel corso del suo esame, ha collocato la strage di Via D’Amelio addirittura ad un anno di distanza dalla strage di Capaci) che in quel momento aveva come sua unica preoccupazione la soddisfazione ed il mantenimento degli equilibri interni del Partito, ancorché, a tutti gli osservatori esterni, tali manifestati interessi che animarono allora il De Mita appaiano oggettivamente risibili al cospetto di quegli avvenimenti prima ricordati.

Ma qui, come detto, si rischia di trascendere nel giudizio morale della persona e della sua condotta ed è necessario, allora, fermarsi e limitarsi, quindi, a prendere atto, in termini oggettivi, dei fatti riferiti dal teste, inquadrandoli e valutandoli nel contesto delle altre risultanze processuali.

Orbene, allora, il nocciolo della testimonianza del De Mita è costituito dalle affermazioni secondo le quali né il Ministro Scotti, né altri ebbero a rappresentargli l’opportunità di confermare quel Ministro per dare un segno di continuità alla linea politica di rigore nel contrasto alla criminalità mafiosa e lo stesso Scotti, prima della formazione del nuovo Governo, fu informato, accettandolo, del trasferimento dal Ministero dell’Interno a quello degli Esteri.

Tali sono i fatti riferiti che saranno, quindi, valutati nel prosieguo ai fini della ricostruzione della vicenda oggetto del presente capitolo, senza, tuttavia, tralasciare, tanto più alla luce delle considerazioni appena esposte, le risultanze sul tentativo di influenzare la testimonianza del De Mita di cui si dirà più avanti nel paragrafo 3.3.


Le proposte del generale a Luciano Violante  – Come si è visto, il teste Luciano Violante ha confermato, ripetutamente e senza titubanze, che Mori ebbe a chiedergli di incontrare in modo riservato Vito Ciancimino (v. dichiarazioni Violante sopra già riportate: ” .. il Generale Mori venne a trovarmi dicendomi che Ciancimino intendeva avere un colloquio con me, ma con me, non con la Commissione, riservato …. …….. lo dissi che non facevo colloqui riservati, chi voleva essere sentito era sentito dalla,Commissione facendo una richiesta formale … …….. Dunque, lui mi dice questo, primo che Ciancimino è libero e abita a Roma dalle parti di Piazza di Spagna. Secondo, appunto che vuole parlarmi. ma riservatamente…. .. ..

…. probabilmente avrebbe chiesto qualcosa … … … Avrebbe chiesto qualcosa e se non erro in questo momento, insomma, sono queste le cose di fondo di questo colloquio che non fu … ……. Non mi precisò che cosa, né io chiesi perché non avevo interesse al colloquio personale … ……. No, perché non avevo interesse al colloquio, né avevo interesse ad approfondire una negoziazione che non mi interessava insomma …. ……… Sì, io ho il dovere di dire la verità .. ; P. M TERESI ” – Sì. Lei ricorda … Ah, no, certo. Però nella sua difesa lei questa cosa la fa presente, che c’è una contestazione da parte sua sulla versione di Mori.. . .. .. .Io dico che Ciancimino mi voleva incontrare per un colloquio riservato, il Colonnello Mori ha detto nella sua memoria che invece Ciancimino era disponibile subito ad essere sentito in Commissione, era questa la sostanza del contrasto … ….. E lo conferma oggi? Questo volevo sapere; DICH. VIOLANTE “- Certo”).

La richiesta di un colloquio riservato con Vito Ciancimino, è stata, invece, negata dall’imputato Mori, secondo il quale, peraltro, i documenti prodotti in allegato alle dichiarazioni spontanee rese ali ‘udienza del 21 gennaio 2016, dimostrerebbero che l’On. Violante aveva appreso della richiesta di audizione di Ciancimino già prima dell’arrivo della lettera di quest’ultimo (che, infatti, venne protocollata il 29 ottobre 1992), e che, quindi, Violante era stato informato da Mori soltanto di tale volontà del Ciancimino e non già, appunto, come invece testimoniato dallo stesso Violante, di una richiesta di incontro riservato.

In realtà, i documenti prodotti ed acquisiti agli atti, a parere della Corte, non sono idonei a smentire il teste Violante.

La sintetica verbalizzazione della Riunione del 27 ottobre 1992 non consente, infatti, di escludere che Violante abbia informato l’Ufficio di Presidenza proprio della lettera che egli aveva ricevuto, fatto che, d’altra parte, appare già confermato dal riferimento alla rinunzia di Cianci mino alla presenza delle televisioni che effettivamente era contenuta nella lettera in questione.

D’altra parte, deve rilevarsi che, come risulta dai documenti prodotti in atti, nelle due facciate della busta contenente la lettera non v’è alcun timbro di arrivo o di protocollo, che, come detto, risulta essere stato apposto, invece, direttamente sulla lettera.

Inoltre, sulla detta busta non v’è alcun timbro di spedizione postale.

Ne consegue che, poiché la busta era indirizzata al Presidente della Commissione e dovendosi per ciò escludere che qualcuno diverso dal destinatario possa averla aperta precedentemente, appare del tutto ovvio concludere:

– che inizialmente tale busta contenente la lettera datata 26 ottobre 1992, senza transitare dall’Ufficio Protocollo (che, altrimenti, vi avrebbe apposto il timbro di arrivo), sia stata direttamente portata a mano da un incaricato di Vito Ciancimino (nella specie, verosimilmente, il figlio Massimo Ciancimino che in quel periodo sbrigava tutte le incombenze per conto del padre), lasciandola nella portineria di Palazzo San Macuto, sede della Commissione Parlamentare Antimafia;

– che, quindi, la detta busta sia stata consegnata direttamente al Presidente Violante che ne era il destinatario;

– che, pertanto, quest’ultimo l’abbia pnma aperta e letta, informandone la Commissione nella seduta del 27 ottobre 1992;

– che, infine, soltanto successivamente la medesima lettera (si ripete, già aperta e, quindi, letta dal destinatario e da questi comunicata ali ‘Ufficio di Presidenza) sia stata trasmessa all’Ufficio competente per la sua protocollazione (dovendosi escludere che tale protocollazione possa essere già stata fatta nella portineria di Palazzo San Macuto, poiché, come si è detto, nella busta non v’è indicato alcun protocollo), a quel punto avvenuta il 29 ottobre 1992, dal momento che il detto Ufficio non avrebbe di certo potuto retrodatare la sua registrazione, essendo stati, ovviamente, nel frattempo protocollati in continuità altri documenti.

Di ciò, peraltro, appare ben consapevole anche lo stesso Presidente Pisanu, il quale, infatti, nella nota inviata all’Avv. Pietro Milio, appunto, riferisce espressamente “che dell’arrivo della lettera è stata data comunicazione nell’ufficio di Presidenza del 27 ottobre 1992”.

Dai documenti prodotti dalla difesa dell’imputato Mori sopra citati, dunque, non può ricavarsi alcuna smentita alle dichiarazioni dell ‘Ono Violante, risultando, anzi, rafforzata l’ipotesi che quest’ultimo ebbe ad informare l’Ufficio di Presidenza della richiesta di audizione formalmente avanzata da Vito Ciancimino a mezzo lettera e ciò indipendentemente dall’esattezza o meno del ricordo del medesimo Violante riguardo ad un secondo incontro con Mori ricompreso nel periodo tra il giorno del primo, in occasione del quale egli fu informato della richiesta di interlocuzione riservata del Ciancimino (verosimilmente il 20 ottobre 1992), e il giorno in cui gli fu consegnata la lettera di quest’ultimo (verosimilmente nella stessa data del 26 ottobre 1992 nella quale fu scritta tale lettera o, al più, il successivo giorno 27 ottobre 1992), anziché, come sostenuto da Mori sulla base di una annotazione riportata nella sua agenda, in data 28 ottobre 1992 (allorché, però, Mori ebbe a consegnare a Violante la copia della bozza del libro di Ciancimino).

Ed in proposito, è opportuno evidenziare anche che nell’agenda cui si è riferito Mori per datare gli incontri con Vito Ciancimino sono ovviamente annotati gli incontri dello stesso Mori, ma non certo anche quelli che eventualmente De Donno abbia potuto avere con lo stesso Ciancimino senza la presenza di Mori ovvero i contatti che comunque, direttamente o indirettamente, lo stesso De Donno, artefice del collegamento sin dalla sua instaurazione, potrebbe avere avuto, appunto, con Vito Ciancimino, facendo, poi, da tramite tra quest’ultimo e Mori.

Per completezza, poi, riguardo ancora alle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato Mori all’udienza del 21 gennaio 2016 a proposito della testimonianza dell’On. Violante e sopra già interamente riportate, va detto che, contrariamente a quanto sostenuto dal predetto imputato, il fatto che egli abbia informato Violante dei suoi incontri con Ciancimino non necessariamente è in contraddizione con la ricostruzione accusatoria che egli contesta, poiché, nell’ipotesi, appunto, della “trattativa” segreta intavolata tramite il Ciancimino, se questi avesse chiesto – come in effetti ha chiesto secondo il teste Violante – un incontro diretto e riservato con quell’esponente delle Istituzioni, l’imputato Mori non avrebbe potuto di certo evitare di informare lo stesso Violante dei suoi incontri con Ciancimino a meno di non rinunciare a dare corso alla sollecitazione di quest’ultimo e, quindi, all’ulteriore prosieguo della “trattativa” medesima che ineludibilmente richiedeva contraccambi reciproci.

Peraltro, va ricordata, in proposito, l’assoluta segretezza mantenuta da Mori sino ad allora (e che avrebbe poi mantenuto per molti anni ancora) sui suoi incontri con Vito Ciancimino verso l’Autorità Giudiziaria, tanto da non averne fatto cenno neppure quando alla Procura di Palermo era subentrato il nuovo Procuratore.

In occasione della testimonianza resa il 22 gennaio 2016, Gian Carlo Caselli, infatti, ha riferito che allorché egli si era insediato quale nuovo Procuratore della Repubblica di Palermo, Mori e De Donno gli avevano soltanto segnalato che Ciancimino, nel frattempo detenuto, intendeva parlargli (” … mi si dice il signor Ciancimino vuole parlare con lei perché ha delle cose interessanti da dire .. “) e di avere, quindi, appreso dei pregressi incontri dei predetti Mori e De Donno con Ciancimino soltanto da quest’ultimo […], circostanza fattuale che fa venire meno la giustificazione dell’imputato Mori secondo cui egli, quando aveva incontrato Ciancimino, non si fidava della Procura di Palermo ed intendeva, quindi, attendere il nuovo Procuratore.

Ed allora, non può non osservarsi che, proprio il fatto che l’imputato Mori si sia fatto portavoce del Ciancimino parlando con Violante (oltre che con gli altri “referenti politici” di cui ai paragrafi precedenti) nonostante la segretezza mantenuta sino ad allora sui suoi incontri con Ciancimino tanto da non averne fatto alcun cenno ali’ Autorità Giudiziaria, rafforza inevitabilmente, anche in questo caso, la tesi che, sia pure nell’ottica di una contropartita, Mori intendeva assecondare (ed ha, di fatto, almeno in quel caso – ma v’è anche l’episodio del passaporto prima esaminato – assecondato) le richieste che gli provenivano dalla controparte.

Inoltre, qui va, altresì, evidenziato il fatto che Mori, che pure dichiaratamente intendeva avvalersi delle prerogative riconosciute dall’art. 203 c.p.p. relativamente al Ciancimino, tanto, come detto, da non rivelare quei suoi contatti neppure all’Autorità Giudiziaria, pur tuttavia, ha svelato il nome del suo asserito confidente all’On. Violante e ciò, a seguire il ragionamento difensivo dell’imputato Mori, senza alcuna logica e comprensibile ragione (oltre che con un’ intrinseca contraddittorietà rilevata, come si è visto sopra, anche dal suo interlocutore secondo quanto da questi pure testimoniato allorché ha osservato che quella giustificazione di Mori con riferimento all’art. 203 c.p.p. “oggettivamente appare contraddittoria, in quel contesto mi apparve, come dire, comunque io c ‘ho una clausola, come dire, formale di salvaguardia, no? In ragione è questa, ma comunque una clausola formale di salvaguardia”, laddove, nel contempo, Mori gli aveva detto di non avere informato l’A.G. Dei suoi incontri con Vito Ciancimino perché “si trattava di una questione politica”): se lo scopo di Vito Ciancimino fosse stato solo quello di essere formalmente audito dalla Commissione Parlamentare Antimafia, e non già soltanto dal suo Presidente in forma riservata, non v’era alcun motivo per il quale Mori avrebbe dovuto rivelare a Violante i suoi incontri segreti col medesimo Ciancimino, il quale ben avrebbe potuto, come poi effettivamente ha fatto, inviare direttamente la lettera con la sua richiesta, appunto, di formale audizione.

In altre parole, si vuole dire che, per la sola richiesta di una formale audizione presso la Commissione Antimafia da parte di un soggetto politico ampiamente noto per i suoi rapporti con la mafia, non vi sarebbe stata alcuna logica ragione per indurre Mori a svelare a Violante la sua fonte confidenziale ed i suoi incontri con la stessa, che intendeva mantenere assolutamente in quel momento segreti tanto da non averne riferito in alcun modo – formale o informai e – alla autorità giudiziaria, al solo fine di perorare quella richiesta o, ancor meno giustificatamente, di anticipare a Violante quella richiesta poi formulata per iscritto da Ciancimino.

A ciò si aggiunga, ancora, che, se solo quello fosse stato l’interesse di Mori (anticipare o perorare la richiesta di Ciancimino di formale audizione in Commissione), l’imputato avrebbe potuto attendere le determinazioni della Commissione Antimafia e, poi, semmai, se fossero state negative, intervenire per sollecitare l’accoglimento della richiesta, rinviando a questo momento, soltanto eventuale (perché non v’era ragione di ritenere che la Commissione avrebbe rifiutato l’audizione di Ciancimino una volta che questi avesse rinunziato ad imporre la presenza delle televisioni), la rivelazione dei suoi incontri segreti col Ciancimino.

In conclusione, dunque, deve ritenersi provato – in forza della deposizione resa dal teste Violante, della cui attendibilità, d’altra parte, anche per la sua notoria storia personale e per il suo disinteresse nella questione, non v’è minimamente ragione di dubitare – che effettivamente Mori ebbe a sollecitare al medesimo Violante un incontro personale e riservato con Ciancimino.

Ed allora, se così è, appare del tutto evidente che anche tale episodio smentisce la tesi riduttiva degli imputati sul ruolo di Vito Ciancimino e sulle dichiarate finalità dei contatti con quest’ultimo, mentre è, invece, totalmente coerente con la necessità di assecondare quell’interlocutore, non già per avere informazioni confidenziali di sorta, ma per dimostrare allo stesso che quei Carabinieri che lo avevano contattato erano in grado di (ed intendevano effettivamente) coinvolgere esponenti delle Istituzioni a vari livelli (come si è visto, Ministro della Giustizia, Presidente del Consiglio dei Ministri e Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia), così da dare credibilità alla richiesta di dialogo indirizzata, tramite Vito Ciancimino, ai vertici mafiosi.


Gli incontri al Ministero della Giustizia –  E’ opportuno, innanzitutto, dare conto delle risultanze riguardo all’approccio fatto da De Donno e Mori con la Dott.ssa Liliano Ferraro, già vice direttore generale e poi, dall’agosto 1992, direttore generale degli Affari Penali presso il Ministero della Giustizia, iniziando dalla testimonianza che quest’ultima ha reso in questo processo.

Deve premettersi, però, che qui di seguito si darà conto di tutti i temi affrontati da Liliana Ferraro nel1a sua deposizione testimoniale […], perché sin d’ora utili per formulare alcune considerazioni di carattere generale sul1e dichiarazioni nel tempo rese dalla Ferraro che non possono non suscitare, come si vedrà, forti perplessità sul1a condotta dal1a stessa tenuta nella col1aborazione richiestale per la ricostruzione processuale degli accadimenti.

La teste Liliana Ferraro, esaminata il 16 giugno 2016, in sintesi, ha riferito: di non avere avuto significativi rapporti con De Donno che aveva conosciuto in occasione di un viaggio col Dott. Falcone […], mentre aveva avuto modo di incontrare più spesso il Col. Mori pur non avendo con lo stesso alcuna confidenza (“P.M TARTAGLIA – Sempre con riferimento a quel momento temporale, lei aveva invece rapporti di conoscenza, confidenza o altro con Mario Mori?; DICH. L. FERRARO – Di conoscenza sì, confidenza no […]”);

– che, dopo la morte del Dott. Falcone, De Donno si recò a trovarla al Ministero informandola che stavano tentando di contattare Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo e chiedendole di informare di ciò il Ministro Martelli, cosa che ella accettò di fare anche se riteneva che il punto di riferimento di quell’iniziativa avrebbe dovuto essere l’A.G. e, specificamente, il Dott. Borsellino (“In quei giorni dopo la morte del Dottor Falcone veniva a trovarmi al Ministero una marea di gente, da persone che venivano dall’estero a persone, collaboratori del Dottor Falcone che magari non avevo neppure mai conosciuto… .. … Uno di questi incontri… una di queste persone fu il Capitano De Donno che mi venne a salutare e che, come ho ripetuto in alcune altre occasioni, mi colpì perché piangeva, era molto commosso. Io avevo verificato in passato, l’ho ricordato prima, che era molto in confidenza con il Dottor Falcone, si davano del “tu “, mi disse che erano disperati perché non avevano punti di riferimento, ritenevano di non avere più possibilità di andare avanti, che però avrebbero fatto di tutto per tentare di scoprire gli assassini del Dottor Falcone, che in questa ottica avevano – lui usava il plurale – avuto l’idea di… poiché in passato lui aveva incontrato Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo … aveva avuto l’idea di cercare di vedere se il padre del Ciancimino, essendo stato condannato, essendo stato … oramai aut… voleva fare un salto di collaborazione, quindi poteva dare delle notizie a aiutare a trovare gli assassini del Dottor Falcone. Mi chiese in quella circostanza, il tempo è passato, so che molti ci lavorano e ci hanno lavorato sopra … mi chiese di dirlo al Ministro Martelli. E io dissi che lo avrei sicuramente informato il Ministro Martelli, come era mia abitudine, per tutta quella che era l’attività che io svolgevo, che però questa loro iniziativa, che appartiene ad una iniziativa investigativa chiaramente, però aveva un unico punto di riferimento a mio avviso, che era il punto di riferimento obbligatorio. A parte l’Autorità Giudiziaria … ma l’Autorità Giudiziaria per me era Paolo Borsellino, che era non solo l’Autorità Giudiziaria ma era diciamo quello che … era l’erede di Giovanni Falcone, per me era automatico … “);

– che De Donno parlò al plurale, ma non specificò cosa essi avevano già fatto, ma solo che era loro intenzione raggiungere Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo […];

– di non ricordare più se De Donno parlò di stragi (“P.M TARTAGLIA – Questo sul proposito, comunque sull’attività in corso, è molto importante anche che lei ci riferisca quello che le fu detto da De Donno sulla finalità di questa iniziativa …. .. … La domanda specifica è questa, se De Donno le disse che questa iniziativa di contatto con i Ciancimino avesse dei collegamenti con la questione delle stragi; DICH. L. FERRARO – Guardi, ci ho pensato tantissimo, questa cosa delle stragi nasce anche da una… credo di avere anche una spiegazione del perché io ho parlato di strage, quando ho riferito questa cosa … …. …. DICH. L. FERRARO – Io non lo ricordo con precisione che cosa … chiedo scusa, ma non ricordo con precisione se mi parlò di stragi e di omicidi … sicuramente … credo che c’era stato un omicidio … a parte l’omicidio Lima c’era stato l’omicidio ad Agrigento, un tenente o un carabiniere… … . … Parlava di varie cose, può darsi che abbia usato “stragi” … non lo so con certezza; P.M TARTAGLIA – …. io le chiedo di ricordare se lei ricorda che De Donno quando le fece questo discorso parlò di esigenza connessa alla strage o allo stragismo o ad altra espressione che eventualmente lei ricordi; D/CH. L. FERRARO – Non lo ricordo con precisione; P.M TARTAGLIA – E allora io su questo punto … faccio riferimento, Presidente e signori difensori, al verbale del 17 novembre del 2009 pomeridiano, si tratta in particolare del confronto tra la Dottoressa Liliana Ferraro e l’Onorevole Claudio Martelli, è la pagina 02 del verbale … … . …. Per quel che riguarda il contenuto del colloquio avuto col De Donno la Dottoressa Ferraro dichiara: «È possibile che abbia utilizzato in occasione delle conversazioni telefoniche da ultimo avute col Dottor Martelli il termine “fermare lo stragismo” per indicare le finalità che il R.O.S. intendeva ottenere con la collaborazione di Ciancimino, ma intendendo comunque riferirsi all’escalation di violenza, di cui peraltro parlava sempre il Dottor Falcone dopo l’omicidio Lima, che aveva portato proprio all’omicidio dell’Onorevole Lima ed alla strage di Capaci»; DICH. L. FERRARO – Confermo nel senso che … esattamente quelle parole”);

– che in tempi più recenti, nel 2009, Martelli le aveva telefonato per avere conferma del suo ricordo e lei lo aveva, però, corretto quanto alla interlocutrice che era stata, appunto, lei e non già la Dott.ssa Pomodoro […], parlando, poi, forse, di stragismo […];

– di ricordare, comunque, che De Donno disse che intendevano acquisire elementi di conoscenza da Ciancimino […] e che ella non chiese spiegazioni, limitandosi ad invitarlo a rivolgersi al Dott. Borsellino […];

– che, per quel che ricorda, i Carabinieri non avevano ancora parlato con il Dott. Borsellino […];

– che disse anche a De Donno che riteneva non necessario avvertire anche il Ministro, cosa che, comunque, avrebbe fatto […];

– che, in sostanza, i Carabinieri volevano un sostegno politico stante la caratura del personaggio Ciancimino […], pur non avendo approfondito tale aspetto […];

– che pur ritenendo la cosa di nessuna importanza, aveva ritenuto doveroso informare il Ministro per fargli sapere che i Carabinieri stavano facendo di tutto per scoprire gli assassini del Dott. Falcone […]; […]

– che è possibile che avesse parlato a Martelli del sostegno politico richiesto dai Carabinieri […];

– di ritenere di avere, allora, riferito dettagliatamente a Martelli il colloquio con De Donno […];

– di non ricordare quando avvenne il colloquio con De Donno, ma che dalle ricostruzioni successivamente operate questo avvenne nei giorni tra il trigesimo della strage di Capaci ed il giorno 28 giugno in cui, secondo quanto risultante da una agenda del Dott. Borsellino, aveva incontrato quest’ultimo […];

– che De Donno non fece altri nomi, ma che ella pensò ovviamente al ROS […];

– di ricordare di avere parlato con Martelli in quella stessa settimana probabilmente prima di parlare con il Dott. Borsellino[…];

– che il Ministro Martelli si irritò molto (“P.M TARTAGLIA – Ricorda quale fu la reazione del Ministro Martelli quando lei riferì questa circostanza?; DICH. L. FERRARO – Si irritò molto… … . .. Perché lui diceva che questi si intromettevano in indagini che avrebbe dovuto fare la D.I.A. “), invitandola a parlrne con Borsellino (“«Fai benissimo a parlare con Borsellino»”);

– che l’incontro del 28 giugno 1992 col Dott. Borsellino fu concordato perché anche il predetto aveva necessità di parlarle […] e, comunque, ella non aveva ravvisato particolare urgenza di riferire quanto appreso da De Donno […];

– che l’incontro avvenne in una saletta riservata della Polizia a Fiumicino […] ed ella riferì quanto detto da De Donno (“lo ho riferito al Dottor Paolo Borsellino esattamente quello che abbiamo detto qui, quello che all’epoca ricordavo, quello che mi aveva detto il Capitano De Donno… … . ..io ho riferito tutto al Dottor Paolo Borsellino”), anche della richiesta di sostegno politico, e Borsellino rispose che ci avrebbe pensato lui (“P.M TARTAGLIA – Riferì anche della richiesta di sostegno politico?; DICH. L. FERRARO – Assolutamente sì. E il Dottor Paolo Borsellino mi rispose … questo l’ho ricordato sempre e mi colpì … «Ci penso io»”);

– che il Dott. Borsellino non disse né le fece capire se fosse stato già informato di quei fatti […];

– che il Dott. Borsellino non le parlò di incontri avuti di recente con De Donno e Mori […], ma le chiese di ricostruire la vicenda dell’invio al Ministero, da parte della Procura di Palermo, del rapporto “mafia-appalti” (“Lui volle che io gli raccontassi nuovamente tutto il percorso che lui aveva conosciuto attraverso quello che gli aveva detto Giovanni Falcone, dell’arrivo del rapporto al Ministero di Grazia e Giustizia. Lui sapeva che io conoscevo questo percorso perché glielo aveva detto il Dottor Falcone … cioè questo rapporto era stato inviato … era arrivato al Ministro Martelli e il Dottor Falcone era appena partito per Palermo, dalla segreteria del Ministro avevano avvertito il Dottor Falcone che c’era questo faldone che … “) e si parlò anche di colloqui investigativi in relazione a Mutolo (“P.M TARTAGLIA – Si parlò anche di colloqui investigativi?; DICH. L. FERRARO – Col Dottor Paolo Borsellino abbiamo parlato … gli ho riferito della visita di De Donno, del rapporto mafia – appalti, dei colloqui investigativi, ma con riferimento a Mutolo, perché c’era il problema di andare a sentire Mutolo. Mutolo voleva essere sentito soltanto dal Dottor Paolo Borsellino e il Procuratore della Repubblica di Palermo aveva invece delegato prima altro Magistrato da solo, la richiesta del Dottor Paolo Borsellino, ed era la ragione per la quale poi mi aveva chiamata, quindi mi ha spiegato che mi sollecitava a scendere a Palermo per questa ragione, cioè per andare a parlare anch’io con il Procuratore della Repubblica, che era il Dottor … … …. Giammanco … che era il Dottor Giammanco, per dirgli che era opportuno che il colloquio investigativo lo facesse il Dottor Paolo Borsellino, in quanto il primo contatto con Mutolo lo aveva avuto il Dottor Falcone e aveva garantito il Dottor Falcone a Mutolo che sarebbe stato affidato a persone di fiducia”);

– di essere abbastanza sicura di avere detto anche al Dott. Borsellino di avere parlato col Ministro Martelli (“lo sono abbastanza sicura di avere detto che avevo parlato col Ministro, non lo so se ho detto a Paolo Borsellino anche della reazione del Ministro Martelli. Questo non lo ricordo”);

– che quell’anno, nell’autunno, ebbe altri incontri con Mori e De Donno […], il ricordo di uno dei quali le fu sollecitato ancora da Martelli […] e che potrebbe essere certamente quello annotato nell’agenda del Gen. Mori alla data del 21 ottobre 1992 […] ed anche in questo caso sicuramente sollecitato dallo stesso Mori (“P.M TARTAGLIA – Lei è in grado di ricordare innanzitutto se questo incontro fu cercato da Mori, fu cercato da altri o fu cercato da lei?; DICH. L. FERRARO – Da me sicuramente no. Sicuramente fu cercato o da Mori o … cioè fu cercato da loro”);

– che a tale incontro era probabilmente presente anche De Donno e si parlò della richiesta di Vito Ciancimino per il rilascio del passaporto […];

– che anche tale incontro, come il precedente, avvenne nel suo ufficio[…];

– di non ricordare in dettaglio tale richiesta, ma di avere, comunque, invitato i Carabinieri a rivolgersi alla A.G. […];

– di non ricordare se chiese ai Carabinieri perché si rivolgessero a lei […];

– che anche in questo caso percepì la singolarità di quella richiesta, tanto da riferirla al Ministro, anche se probabilmente i Carabinieri non la informarono che a carico di Ciancimino vi era un processo pendente […];

– di non avere saputo nulla di quanto era avvenuto dopo l’incontro di De Donno del giugno precedente riguardo a Ciancimino, tanto che poi si stupì della richiesta di colloquio investigativo che il ROS avanzò pochi giorni dopo l’arresto di Riina (”Non ho mai saputo niente, tant’è vero che ho anche dichiarato che mi stupii anche quando dopo la cattura di Riina mi arrivò una richiesta dei R.O.S., sei giorni dopo o sette giorni dopo, di un colloquio investigativo e io mi domandai per quale ragione facessero questa cosa”);

– che con Mori e De Donno si parò anche di colloqui investigativi per il fatto che essi sollecitavano che questi potessero essere estesi anche ad altri non appartenenti ai reparti specializzati del ROS, dello SCO e del GICO […];[…]

– che ella era titolare della delega del Ministro per i colloqui investigativi (“Ebbi l’incarico del Ministro di dare i colloqui investigativi, la delega del Ministro per la concessione del colloquio investigativo”) e, per tale ragione, ricevette il 20 gennaio 1993 la richiesta del ROS, a firma Subranni, di un colloquio investigativo con Vito Ciancimino […];

– che rimase stupita da tale richiesta (“Ho già detto che mi sono stupita molto … … …. ho detto che mi stupì moltissimo …. … …. Perché era otto giorni dopo la cattura… … . .. cinque giorni dopo la cattura di Riina, l’ho vissuta come la conferma che non avevano concluso niente … … …. Parliamo di Ciancimino, Pubblico Ministero, non parliamo della cattura di Riina. La cattura di Riina era avvenuta per quello che io avevo appreso attraverso un’operazione fatta dai Carabinieri con Di Caprio e tutto il gruppo che aveva lavorato giù a Palermo. Questo io ho saputo”);

– che non era infrequente che le questioni carcerane passassero anche dall’ufficio deli Affari Penali e che, per tale ragione, espresse, nella qualità di Direttore del detto Ufficio, il 12 agosto 1992, un parere contrario alla proposta del Direttore del DAP Amato di applicazione generalizzata in alcune carceri del regime del 41 bis comma l […];

– che probabilmente apprese già all’epoca della mancata proroga dei provvedimenti di 41 bis del novembre 1993, per quel che ricorda, attribuita all’intendimento di allentare la tensione carceraria, cui ella manifestò contrarietà […];

– di avere conosciuto il dotto Di Maggio dopo la morte del Dott. Falcone, anche se questi, in precedenza, gli aveva prospettato di chiamarlo a collaborare con lui alla Direzione Affari Penali del Ministero, cosa che l’aveva stupita essendo a conoscenza dei trascorsi rapporti non buoni tra gli stessi […];

– che dopo la morte del Dott. Falcone, quindi, Di Maggio si recò a trovarla al Ministero per proporsi ancora agli Affari Penali […];

– che dopo molto tempo, nel 1993, Di Maggio tornò, dicendole, però, che si erano create le condizioni per la sua destinazione al DAP […];

– che, per quel che ricorda, Di Maggio disse che aveva parlato col Ministro Conso […]e che, però, anche il Presidente Scalfaro era informato […];

– che in quel primo colloquio Di Maggio si era riferito genericamente al settore carcerario senza riferimenti al ruolo di direttore o vice direttore del DAP di cui parlò successivamente

[– che Di Maggio le chiese conferma della sua mancanza di titoli, o per meglio dire di anzianità, per ricoprire il ruolo di vice direttore del DAP e le chiese come ovviare […];

– che Di Maggio le chiese di aiutarlo a preparare una bozza del provvedimento di nomina da sottoporre, poi, al Consiglio dei Ministri […];

– che tale bozza fu, quindi, preparata nel suo ufficio con l’aiuto anche del Dott. Loris D’Ambrosio […];

– che non vi sarebbe stato bisogno di alcunché, invece, se Di Maggio fosse andato alla Direzione degli Affari Penali o all’Ufficio Detenuti […];

– che D’Ambrosio non le aveva mai esternato le perplessità sul provvedimento di nomina di Di Maggio cui aveva fatto cenno nella intercettazione del colloquio avuto il 25 novembre 2011 con Mancino […];

– di avere ritenuto che fu Di Maggio a chiedere di andare al DAP poiché non v’era più Falcone agli Affari Penali […];

– che la predisposizione della bozza del decreto di nomina le fu sollecitata soltanto da Di Maggio come favore personale […] per il quale ella non informò alcuno […] anche perché Di Maggio le aveva detto che aveva concordato con Conso quel trasferimento e che il Presidente Scalfaro era informato […];

– che dopo la mancata proroga dei 41 bis del novembre 1993 aveva, quindi, chiesto spiegazioni a Di Maggio e questi le aveva detto che gli “avevano preso la mano” […];

– che Di Maggio non specificò a chi si riferisse, ma aggiunse che erano “uno peggio dell’altro” […];

– di essere a conoscenza che Di Maggio aveva rapporti con ufficiali già del ROS quali Bonaventura e con lo stesso Mori col quale andava a cena […];

– che quando era stata sentita il 25 gennaio 2012 non ricordava nulla della vicenda della nomina di Di Maggio che aveva potuto ricostruire soltanto successivamente quando era divenuta pubblica e, quindi, nota, nel giugno 2012, l’intercettazione della conversazione D’Ambrosio-Mancino […];

– di non sapere spiegare perché, dopo avere elaborato il ricordo, non si fosse spontaneamente ripresentata alla A.G. per rettificare le precedenti dichiarazioni […];

– che quando arrivò al Ministero il plico contenente il rapporto “mafia-appalti” trasmesso dalla Procura di Palermo il Dott. Falcone la pregò di esaminarlo per riferirgli […], ma poi la richiamò dicendole che non era più necessario perché aveva saputo di cosa si trattava e che occorreva, quindi, preparare una lettera del Ministro per restituire il plico alla Procura di Palermo […];

– di avere riferito dell’incontro con De Donno soltanto nel 2009 perché aveva dimenticato quell’episodio, anche se precedentemente ne aveva parlato anche col Dott. Chelazzi in occasione di una testimonianza pur se in tale occasione ciò non era stato verbalizzato […];

– che, infatti, quando il 10 maggio 2002 il Dott. Chelazzi le aveva fatto domande sulla questione carceraria, poi, il verbale era stato redatto soltanto in modo parziale e, quindi, era stato interrotto per un impegno dello stesso Dott. Chelazzi che si era, quindi, ripromesso di richiamarla un’altra volta […];

– di non ricordare se riferì al Dott. Chelazzi anche della richiesta del passaporto per Ciancimino […];

– che il verbale riassuntivo fu fatto subito senza alcun cenno alla vicenda De Donno per mancanza di tempo […];

– di non sapere spiegare come mai non ebbe subito a ricordarsi della vicenda De Donno-Mori quando, durante la registrazione, il Dott. Chelazzi le fece una domanda specifica proprio sulle frequentazioni ministeriali di Mori […];

– che nell ‘incontro del 28 giugno 1992 il Dott. Borsellino le aveva fatto molte domande sulla vicenda dell ‘arrivo del plico con il rapporto “mafia-appalti” al Ministero […];

– che nella stessa occasione aveva telefonato al Procuratore Giammanco per avvertirlo che voleva incontrarlo per parlargli dei colloqui investigativi […];

– che il giorno dopo rappresentò a Giammanco l’opportunità che fosse delegato al Dott. Borsellino l’interrogatorio di Mutolo, ma Giammanco si mostrò in disaccordo, anche se, poi, aveva accettato di delegare Borsellino insieme, al Dott. Aliquò […];

– che la notte successiva alla strage di via D’Amelio il Direttore del DAP Amato le disse che non condivideva il provvedimento di trasferimento dei detenuti nelle carceri e che non spettava a lui predisporre il decreto, tanto che dovette ella predisporre quel decreto e farlo firmare al Ministro all’aeroporto di Palermo […];

– di avere percepito una modifica della linea tracciata dal Dott. Falcone già subito all’arrivo del Ministro Conso […];

– che la decisione del trasferimento dei detenuti nella notte successiva alla strage di via D’Amelio fu presa con l’accordo di tutti i Ministri presenti […];

– che soltanto Nicolò Amato espresse contrarietà […] anche parlando personalmente col Ministro Martelli […];

[…]  – che il tentativo di agganciare Vito Ciancimino era funzionale alla cattura degli assassini del Dott. Falcone […];

– di non ricordare la data in cui avvenne l’incontro con i Carabinieri per la questione del passaporto di Ciancimino[…];

– che Mori in sostanza le chiese quale fosse la procedura attraverso la quale Ciancimino avrebbe potuto ottenere il passaporto […];

– che anche se giudicò il colloquio con Mori relativo al passaporto di Ciancimino di nessuna rilevanza, ritenne, comunque, di riferirlo a Martelli perché la questione riguardava Palermo [

LA VALUTAZIONE DELLA TESTIMONIANZA DI LILIANA FERRARO

Prima di esaminare le risultanze delle dichiarazioni rese da Liliana Ferraro nella parte qui rilevante relativa ai due incontri del giugno e dell’autunno 1992 che ella ebbe con De Donno e Mori, rinviando, invece, al prosieguo l’esame di altre controverse questioni pur rilevanti ai fini della complessiva ricostruzione degli accadimenti, succedutisi tra il 1992 e il 1993, che è necessaria in relazione alla specifica formulazione dell’imputazione di cui al capo A) della rubrica di cui in epigrafe (tra le quali anche quello della nomina del Dott. Di Maggio quale vice direttore del D.A.P. di cui pure si tratterà approfonditamente), è opportuno formulare sin d’ora alcune considerazioni di carattere generale sulla predetta deposizione della teste Ferraro, che, per certi versi, è apparsa sorprendente soprattutto per il rapporto “storico” dalla stessa intrattenuto con il Dott. Falcone e che avrebbe dovuto portarla a fornire, tempestivamente e in modo assolutamente spontaneo, informazioni, che, quale che possa essere la loro considerazione, comunque, nell’intento degli investigatori che se ne occupavano (o le ricercavano), erano dirette a meglio ricostruire quei contesto che ha preceduto e seguito le stragi di Capaci e di via D’Amelio, oltre che le successive stragi dei 1993.

Ed invece è emerso dalle contestazioni effettuate dal P.M. all’udienza del 16 giugno 2016 di cui prima si è dato conto che la Dott.ssa Ferraro soltanto il 14 novembre 2009, per la prima volta e soltanto dopo che ne aveva riferito Claudio Martelli (v. testimonianza di questi prima pure riportata), ritenne di dovere riferire gli incontri avuti con i Carabinieri del ROS nel corso dei quali si parlò di contatti con Vito Ciancimino.

Né può sostenersi che quegli episodi fossero per lei privi di rilevanza e che, quindi, li avesse totalmente dimenticati sino ad allora (e, d’altra parte, che, invece, fossero ben presenti nella sua mente è dimostrato anche dal fatto che, sebbene colta alla sprovvista in strada con una telefonata, non ebbe alcuna esitazione a ricordarli, correggendo anzi il diverso ricordo di Martelli, quando questi la chiamò per avere, appunto conferma del suo ricordo: v. testimonianza Martelli sul punto già prima riportata), perché la stessa Ferraro ha riferito che le sovvennero già spontaneamente nel 2002 allorché era stata esaminata dal Dott. Chelazzi proprio su vicende evidentemente connesse.

Ed occorre dire che la ricostruzione operata dalla Ferraro quando era nota soltanto la verbalizzazione riassuntiva di tale atto investigativo compiuto dinanzi al Dott. Chelazzi (secondo la quale ella ebbe, in realtà, a riferire quegli episodi a quest’ultimo ancorché gli stessi non vennero verbalizzati per mancanza di tempo) appare veramente poco credibile: dalla trascrizione della registrazione integrale ora acquisita dal P.M. e, quindi, contestata alla teste nella predetta udienza del 16 giugno 2016, emerge che già nel corso di quell’esame il Dott. Chelazzi ebbe a fare alla Ferraro dirette e specifiche domande, in generale, sulle “frequentazioni ministeriali” di Mori nel 1992 e, più specificamente, sulla visita di Mori in data 21 ottobre 1992 […], ottenendo, a registratore acceso, una risposta assolutamente evasiva (“«Adesso io non ricordo perché venne, però io conoscevo il Colonnello Mori, tra l’altro avevo la delega per i colloqui investigativi anche, quindi può essere stato per una qualsiasi cosa, ma anche per una chiacchierata»”), così che appare inverosimile che soltanto dopo la conclusione tanto della registrazione quanto della successiva verbalizzazione riassuntiva la Ferraro, come ella ora afferma, si sia ricordata delle dette frequentazioni e le abbia riferite al Dott. Chelazzi.

D’altra parte, a riprova di tale inverosimiglianza, v’è la circostanza che il Dott. Chelazzi, il cui scrupolo investigativo aveva pochi pari e che attribuiva a quelle frequentazioni ed ai contatti Mori-Ciancimino particolare importanza nel contesto delle sue indagini, non richiamò più la Ferraro per verbalizzare quelle dichiarazioni, da questa asseritamente rese in modo informale, nei molti mesi che ancora trascorsero prima del suo improvviso decesso e nonostante ancora nei giorni antecedenti a tale infausto evento si stesse occupando a tempo pieno della C.d. “trattativa” e di Mori (v., sul punto, anche le dichiarazioni del teste Alfonso Sabella).

Ma ancora più eclatanti appaiono le “dimenticanze” della Ferraro quando venne esaminata dal P.M. il25 gennaio 2012.

Anche in questo caso il P.M. ebbe a farle domande dirette e specifiche stavolta sulla nomina di Di Maggio a vice direttore del DAP nonostante non avesse l’anzianità professionale (essendo ancora “magistrato di tribunale”) per ricoprire tale ruolo e ciò sulla base di quanto precedentemente riferito da altro teste, il magistrato Calabria, in sede di Commissione Parlamentare Antimafia (di questa vicenda, come anticipato, si parlerà ampiamente nel prosieguo).

Ebbene, a fronte di tale richiesta specifica e precisa del P.M. (“Pubblico Ministero: «E questo problema di Di Maggio come venne superato?»”), la Ferraro, che, come ha poi dichiarato, era stata direttamente investita della questione dallo stesso Di Maggio ed aveva avuto un ruolo diretto e di primo piano nella sua risoluzione, addirittura ha riferito di avere appreso di come era stato superato quel problema soltanto leggendo informazioni su internet (“Ferraro: «Con … ecco, però, ripeto, questo l’ho visto su internet»”), ribadendo di non ricordare altro nonostante le fosse stato poi chiesto se in qualche modo ella era stata coinvolta in quella vicenda (“Pubblico Ministero: «E lei ebbe in quel momento in relazione a quella soluzione di nomina del Dottor Di Maggio … …. … Venne coinvolto in qualche modo?» Ferraro: «Che io ricordi no. Tra l’altro, ripeto, non ricordavo neppure… non ricordo, ecco, non ricordo neppure … non ricordavo neppure e non ricordo che c’era questa perdita delle funzioni giudiziarie”).

Orbene, anche in questo caso appare assolutamente incredibile che, a fronte di quelle specifiche ed inequivoche sollecitazioni, la Ferraro potesse non ricordare che, invece, come detto, era stata la principale artefice della soluzione trovata, essendo stata direttamente e personalmente investita della questione proprio da Di Maggio, e che addirittura nel suo ufficio era stata predisposta la bozza del decreto poi sottoposto alla approvazione del Consiglio dei Ministri e che, però, poi, si sia ricordata di quanto accaduto soltanto pochi mesi dopo quando era emerso che il fatto era ormai noto per averne parlato Loris D’Ambrosio in una conversazione intercettata ed a quel punto resa pubblica.

D’altra parte, è significativo che la Ferraro, magistrato, che pure aveva decisamente negato il proprio coinvolgimento in quella vicenda in una testimonianza resa alla A.G. nell’ambito di importanti indagini, non si sia, a quel punto, spontaneamente presentata alla medesima o ad altra A.G. per rettificare le erronee informazioni precedentemente rese.

Ora, si è ritenuto opportuno formulare le suddette considerazioni perché, pur senza volere ritenere che, come adombrato dal P.M. attraverso alcune domande, quelle reticenti dichiarazioni possano essere conseguenza del rapporto in qualche modo instaurato dalla Ferraro con i Servizi di Sicurezza di questo Paese quale consulente del competente Dipartimento presso la Presidenza del

Consiglio diretto dal Sottosegretario Gianni Letta, non v’è dubbio che traspare dalla testimonianza della Ferraro un atteggiamento complessivamente ambiguo che fa il paio con l’evidente tentativo di minimizzare gli approcci del ROS con Vito Ciancimino.

Basti qui considerare, In proposito, ma di ciò si darà conto più approfonditamente più avanti, di quanto riferito riguardo alle motivazioni sia della prima sollecitazione di De Donno del giugno 1992 (far sapere al Ministro Martelli che il ROS si stava prodigando per scoprire gli assassini di Falcone, come se qualcuno potesse dubitare che, in quel momento, tutte le Forze dell’Ordine stessero profondendo il massimo impegno per raggiungere quell’obiettivo), sia, ancor più, della seconda visita fatta da Mori in cui si parlò del passaporto per Ciancimino, quasi, a sentir la Ferraro, soltanto a livello conoscitivo dell’iter della pratica necessaria e non già, come non pare possa dubitarsi perché non vi sarebbe altrimenti alcuna logica spiegazione, per sollecitare in qualche modo un intervento al fine di agevolare quel risultato.

D’altra parte, se i termini dei colloqui poi riferiti dalla Ferraro a Martelli fossero stati quelli oggi raccontati e minimizzati, pur se si volesse prescindere da quanto diversamente dichiarato dallo stesso Martelli (v. sopra), non si comprenderebbe l’estrema irritazione di quest’ultimo raccontata dalla medesima Ferraro, irritazione ben comprensibile, invece, se il primo colloquio avesse avuto ad oggetto, come appunto riferito da Martelli, la richiesta di una “copertura politica” e il secondo il rilascio di un passaporto in favore di Vito Ciancimino. Ma di ciò, come detto di parlerà più diffusamente esaminando il complesso delle risultanze probatorie.


Paolo Bellini e i “piani alti” dello Stato E’ necessario, però, a questo punto, ancora prima di affrontare il tema delle risposte date da Riina alle sollecitazioni che gli pervennero tramite Vito Ciancimino, esaminare anche un’altra vicenda che in parallelo si svolse nella stessa estate del 1992.

Ci si intende riferire a quel tentativo di trattativa tra le cosche mafiose ed i Carabinieri portato avanti da Paolo Bellini, “un ambiguo personaggio legato ad ambienti dell’estrema destra eversiva” […]. Anche su tale vicenda è stata svolta un’intensa attività istruttoria di cui deve darsi conto, muovendo proprio dalle dichiarazioni rese dal Bellini.

[…] L’esame ha preso le mosse dall’avvio della collaborazione iniziata, prima, come testimone di giustizia affidato al Servizio centrale di protezione, e poi come collaboratore di giustizia, tra il 1999 ed il 2002 […]. Nell’ambito della detta collaborazione il Bellini ha riferito spontaneamente di omicidi commessi per conto proprio e di omicidi commessi per la ‘ndrangheta, quale consigliere killer della ‘ndrina; questi ultimi omicidi sono stati commessi nel territorio di Reggio Emilia […].

Bellini ha chiarito, quindi, come era iniziata la sua appartenenza alla ‘ndrangheta, allorché, dopo un arresto subito a Firenze per un omicidio, si era trovato in cella, nel carcere di Prato, con tale Vasapollo Nicola, inserito in una “famiglia” di Cutro, Dragone, un clan calabrese, e che viveva a Reggio Emilia, avendo ivi anche parenti; il Vasapollo conosceva i trascorsi criminali del Bellini e gli aveva chiesto uno scambio di favori, il Bellini avrebbe dovuto uccidere una persona per conto della ‘ndrangheta e questa avrebbe ucciso una persona per conto del Bellini […].

Indi, il Bellini ha raccontato dei periodi di latitanza trascorsi all’estero, in particolare in Brasile dove si era recato dopo un delitto grazie all’appoggio fornitogli da Avanguardia Nazionale e, in particolare, dalla sezione di Massa Carrara di Pietro Fioroni, che gli aveva procurato un passaporto falso per consentirgli l’espatrio, mentre, poi, in Brasile egli non aveva più avuto contatti con tale organizzazione ed aveva utilizzato documenti con una identità brasiliana ottenuti sfruttando una legge locale […].

Bellini ha riferito ancora più dettagliatamente dei suoi rapporti con Avanguardia Nazionale, fondata da Stefano delle Chiaie, che Belllini, però, non aveva mai conosciuto, avendo avuto contatti solo con la sezione di Massa Carrara […].

Bellini si è soffermato, a questo punto, sulla sua detenzione a Sciacca negli anni ’80 con il nome falso utilizzato in Brasile, ovvero Roberto Da Silva, fin dal primo arresto di Firenze per furto di opere d’arte […].

Bellini, quindi, ha riferito dei suoi rapporti con Antonino Gioè, da lui conosciuto in carcere a Sciacca nel periodo di detenzione tra il 1981 e il 1982, dopo il proprio trasferimento da Firenze […], precisando che inizialmente anche il Gioè lo conosceva con l’identità falsa di Roberto Da Silva, ma che, poi, egli gli aveva comunicato la sua vera identità in occasione del trasferimento a Palermo […] ove già si trovava Gioé, che, peraltro, in quella occasione gli ebbe a dare l’impressione di essere già precedentemente a conoscenza di quel trasferimento In particolare, egli aveva confidato al Gioè di essere italiano e questi gli aveva risposto che lo aveva già intuito, ma che per riservatezza non gli aveva chiesto niente […], mantenendo, da quel momento, i contatti col Gioé anche per via epistolare quando entrambi erano stati trasferiti in altri carceri […].

I contatti con Gioè, quando entrambi erano ormai liberi, erano ripresi nel 1991, forse dicembre, allorché Bellini si era recato in Sicilia per effettuare il recupero crediti o la gestione degli stessi per conto della propria azienda Finbelco e, dovendo, in particolare, recuperare due crediti, uno su Palermo e uno su Catania del notevole importo di circa tre miliardi di lire provenienti da forniture dentistiche e non sapendo con quali soggetti si sarebbe dovuto confrontare in Sicilia, aveva pensato di contattare il Gioè per chiedergli informazioni sui debitori ed eventualmente un aiuto per quell’attività di recupero; pertanto, dopo essere sbarcato a Messina, nell’intento di recarsi ad Altofonte per rintracciare il Gioè di cui non aveva il numero di telefono, aveva preso l’autostrada per Catania e, il 6 dicembre 1991, si era fermato a dormire ad Enna nell’albergo principale, Hotel Sicilia, negando, nonostante le domande incalzanti del Pubblico Ministero, di avere avuto altre ragioni per raggiungere Palermo attraverso l’autostrada da Catania e per effettuare quella sosta ad Enna […].

Da Enna Bellini aveva telefonato a casa di Gioé e gli aveva risposto la moglie di quest’ultimo informandolo che il marito si trovava presso il distributore di carburanti da lui gestito […], ove forse lo aveva raggiunto il giorno dopo […] e gli aveva esposto le ragioni del suo viaggio […].

Tale versione dei fatti è stata ribadita dal Bellini nonostante le contestazioni del Pubblico Ministero che ha invitato più volte il teste a spiegare come mai si fosse recato in Sicilia senza preventivo contatto con i clienti e senza preventivo contatto con il Gioè, con il rischio quindi di fare un viaggio a vuoto […].

Bellini, poi, ha riferito dei suoi successivi viaggi in Sicilia ancora per incontrare  Gioé, ma, questa volta, per ragioni diverse relative ad una vicenda di droga ed al recupero di opere d’arte trafugate dal museo di Modena, che, poi, aveva avuto ben altri sviluppi […].

In particolare, Bellini ha, innanzitutto, ricordato di avere contattato Gioè probabilmente dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio […], poiché, precedentemente, sia l’Ispettore Procaccia della Polizia che conosceva da tempo, sia il M.llo Tempesta del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico che aveva conosciuto tramite un ricettatore di San Benedetto del Tronto, tale Agostino Valorani, lo avevano interpellato per il recupero delle opere d’arte rapinate qualche mese prima alla Pinacoteca di Modena […].

Bellini ha riferito, quindi, che, manifestando il proprio sentimento di sconcerto per le stragi in cui avevano perso la vita Falcone e Borsellino, aveva proposto al M.llo Tempesta di infiltrarsi in “cosa nostra” […].

L’epoca di tale incontro è stato oggetto di specifica contestazione del P.M., a seguito della quale Bellini ha dichiarato che il riferimento alle elezioni politiche del 1992 che aveva fatto in occasione del suo esame del 29 novembre 1994 riguardava l’incontro con l’ispettore Procaccia (d’altra parte, facilmente databile in relazione ad un articolo apparso sui giornali emiliani, dallo stesso Bellini sollecitato, relativo alla pubblicità del suo interessamento per il recupero delle opere d’arte della Pinacoteca di Modena) e non quello con il Maresciallo Tempesta, che, invece, doveva collocarsi o dopo entrambe le stragi o almeno dopo la strage di Capaci […].

Bellini ha anche raccontato che il M.llo Tempesta gli aveva fornito alcune fotografie raffiguranti opere d’arte rubate poste all’interno di una busta gialla intestata “Nucleo Tutela Patrimonio Artistico” o “Patrimonio Artistico” affinché egli potesse interessarsi al recupero attraverso i suoi contatti con mafiosi siciliani e veneti […].

Bellini ha, quindi, riferito di un successivo incontro col M.lIo Tempesta avvenuto, dopo che questi aveva parlato con il Col. Mori, in agosto a Roma presso un distributore di benzina sul raccordo anulare ove il Tempesta era arrivato a bordo di una autovettura Fiat Uno rossa turbo con un collega, che però era stato fatto allontanare durante il loro colloquio privato, e lo aveva informato dell’autorizzazione data dal Col. Mori senza la quale egli non avrebbe proceduto nell’intento di infiltrarsi in “cosa nostra” […].

Bellini non ha saputo indicare quanto tempo fosse trascorso tra il primo incontro con il Tempesta ed il secondo presso l’autogrill […], ma ha ribadito che il M.llo Tempesta gli disse che il Col. Mori aveva autorizzato l’operazione […] e che per infiltrarsi avrebbe potuto sfruttare la vicenda del furto delle opere della Pinacoteca, pur raccomandandogli di non prendere con i mafiosi impegni che poi non si sarebbero potuto rispettare e chiedendogli, nella occasione, se egli faceva parte dei servizi segreti […].

Bellini ha aggiunto che ad Antonino Gioè, non potendo dire che la vicenda del recupero delle opere d’arte interessava i Carabinieri, sfruttando il timbro del Ministero dei Beni Culturali apposto sulla busta gialla contenente le fotografie, aveva detto che la richiesta di informazioni ed il recupero delle opere interessava sia i politici locali di Modena, sia, su contestazione del P.M., il Ministero dei Beni Culturali […], negando, però, di avere fatto al Gioè il nome di Spadolini, che peraltro non conosceva, perché sarebbe stato un’arma a doppio taglio qualora fosse stato richiesto in cambio proprio qualche favore da realizzare attraverso l’intervento di quel politico […].

Nel secondo incontro, invece, Gioè gli aveva consegnato un foglio con alcuni nomi di soggetti ai quali far avere gli arresti domiciliari o ospedali eri, che egli non conosceva, ma che avevano allarmato il M.llo Tempesta quando gli aveva consegnato quel biglietto per farlo avere al Col. Mori […]. Bellini, poi, su suggerimento del M.llo Tempesta, al fine di mantenere aperto quel canale di contatto, aveva detto al Gioé che, forse, soltanto per uno o due di quei nomi si poteva vedere di ottenere gli arresti domiciliari […], anche perché lo stesso Gioè non gli aveva proposto la cosa in termini assoluti […].

Bellini ha, altresì, raccontato che anche Gioè, non ricorda se nel secondo o terzo incontro, gli aveva consegnato alcune fotografie di opere d’arte, che avrebbero potuto recuperare, diverse da quelle rapinate a Modena e che egli aveva consegnato al M.llo Tempesta […], precisando, poi, che si trattava di quadri rubati in Sicilia […] e che, d’altra parte, lo stesso Gioè era in possesso di opere d’arte,tra cui un trittico di particolare valore, detenute presso una sua casa ancora in costruzione, che gli aveva mostrato […].

Bellini ha detto di non ha ricordare, però, ove aveva incontrato il M.llo Tempesta per consegnargli il bigliettino con i nomi e la busta con le fotografie delle opere d’arte che aveva ricevuto da Gioè […].

Ancora Bellini ha ribadito che il M.llo Tempesta non intendeva far da referente e che per tale ragione gli aveva rappresentato che sarebbe stato contattato da qualcuno del ROS, anche se sino a quel momento ciò non era avvenuto […], avendo già parlato con il Col. Mori […] e per tale ragione invitandolo a mantenere aperto il canale con i mafiosi[…].

Bellini, poi, ha ricordato che tale incontro presso la cava era avvenuto dopo che egli aveva riportato al Gioé la risposta parzialmente negativa del Tempesta sui cinque nomi contenuti nel biglietto e che, proprio in occasione dell’incontro presso la cava, Gioè si era lamentato della poca serietà dei suoi interlocutori istituzionali ed aveva fatto un cenno ad un possibile attentato ai danni della Torre di Pisa (“lo mi ricordo che gli ho dato la risposta per quel che mi avevano detto, cioè che non si poteva, praticamente, per tutte queste persone, che però forse, sempre questo forse, suggeritomi tra l’altro da Tempesta, si poteva vedere per una forma più leggera ospedaliera, per uno o due di quei nominativi. Tutto qua. Si è preso atto, poi non se ne parlò più. Poi ci fu cava

Buttidda dove Gioè mi disse che quella gente non era gente seria, che comunque così, “che ne direste se un giorno scomparisse la Torre di Pisa” e non su sollecitazioni mie, ma parole sue, testuali, verbali, che io poi ho riferito subito al maresciallo Tempesta”), sollecitando il suo parere […]. Ancora ai fini della collocazione temporale di tale incontro Bellini ha riferito che subito dopo egli aveva telefonato al Ministero dei Beni Culturali per rintracciare il M.llo Tempesta, presentandosi a chi gli aveva risposto con il solito pseudonimo di “Aquila Selvaggia” 

[…] In proposito, dopo esplicita contestazione, il Bellini ha confermato quanto già dichiarato al P.M. di Firenze il 7 giugno 1997 […], pur non riuscendo a collocare con certezza nel tempo l’occasione in cui aveva avuto quel colloquio con Gioé […] anche se, d’altra parte, negli ultimi mesi del 1992 il discorso sull’ipotizzato scambio tra opere d’arte e arresti ospedalieri per qualche esponente mafioso si era, di fatto, ormai concluso, a dire del Gioé, per la poca serietà degli interlocutori istituzionali […] e non per l’instaurarsi di altra trattativa con i “piani alti” dello Stato […].

La circostanza che di tale trattativa con i “piani alti” dello Stato fosse stata riferita dal Bellini per la prima volta soltanto quando era stato esaminato in sede di udienza preliminare è stata, quindi, oggetto di contestazione da parte del P.M. […] ed in tale contesto Bellini ha riferito che, però, della questione aveva già parlato con un giornalista dopo una deposizione di Brusca a Firenze ed in tale occasione Bellini aveva suggerito al giornalista di chiedere a Brusca della seconda trattativa di cui egli aveva appreso dal Gioé, come risultava dagli articoli di stampa pubblicati da quel giornalista […].

[…] Bellini ha ricordato, quindi, di essere rientrato dal Portogallo intorno a giugno 1993 e che dopo qualche giorno era stato arrestato […]. Il Bellini, inoltre, ha riferito di avere appreso dalla stampa della lettera lasciata dal Gioè e che nella stessa veniva fatto il suo nome […] e che il Gioé si era sbagliato nell’indicarlo come creditore, essendo egli debitore del Gioè […], mentre il fratello citato dal Gioè doveva essere verosimilmente la persona che si era presentata ai familiari del Bellini […].

Ancora riguardo a quella lettera, Bellini ha confermato di avere effettivamente svolto un ruolo da infiltrato […] e che la conoscenza della verità attribuitagli dal Gioé doveva riferirsi a ciò che, infine, egli stava raccontando a proposito della seconda trattativa […].

Bellini, invece, ha dichiarato di ignorare chi fosse quel Domenico Papalia citato dal Gioè, pur non escludendo di averlo potuto conoscere durante qualche detenzione carceraria (“non ho mai parlato con Antonino Gioè di boss della ‘Ndrangheta, lui non sapeva che io facevo parte di ‘ndrina, non conosco persone che potessero essere in contatto della ‘Ndrangheta con Antonino Gioè […]”).

Bellini, poi, ha riferito di un colloquio avuto con Gioé a proposito dell’omicidio Lima allorché il predetto gli aveva detto che con l’uccisione di Lima si erano raggiunti due risultati, quello di eliminare chi non aveva rispettato i patti a Roma in relazione al maxi-processo e quello di mandare un messaggio a Giulio Andreotti […].

Quanto a nuovi referenti politici a cui eventualmente aveva fatto riferimento il Gioè, il Bellini ha chiarito che questi gli aveva parlato dell’aiuto dato al Partito Socialista durante le elezioni e dei collegamenti con la massoneria di Trapani […].

Bellini, quindi, ha detto di non ricordare di avere mai parlato con Gioè della strage di via D’Amelio, anche se, dopo tale strage, aveva notato che Gioè appariva cambiato, molto nervoso, agitato e temeva di morire in un conflitto a fuoco o in carcere […].

Quanto alla sigla Falange Armata, Bellini ha riferito di averne sentito parlare soltanto sulla stampa, non ricordando se ne avesse parlato con Gioè […] e ignorando, comunque, se tale organizzazione sia effettivamente esistente […].

[…] Bellini ha ribadito ancora che era stato Gioè a ipotizzare attentati verso monumenti (“lo non ho mai avanzato di queste cose, fu Antonino Gioè che mi disse molto stizzito… innanzitutto bisogna precisare che era il momento in cui, secondo loro, non c’era la possibilità di una trattativa reale, e lui mi disse: “Quella è gente che non è seria “, riferita a quelli che io … chi praticamente mi mandava per fare il recupero delle opere. E lui mi proferì proprio la frase precisa “Che ne diresti se un giorno scomparisse o saltasse o si sgretolasse la Torre di Pisa? “, fu lui, non fu io certamente”) e che, quando, dopo le stragi, egli aveva proposto al M.llo Tempesta di infiltrarsi in “cosa nostra” quest’ultimo gli aveva detto che ne avrebbe dovuto parlare con il Col. Mori […].

[…] Bellini, poi, ha detto di non avere mai conosciuto Giovanni Brusca e di non sapere cosa dichiarato dal predetto a proposito del “papello”, pur non escludendo di avere letto qualche notizie di stampa sul punto […].

Ancora, Bellini ha ricordato che, sia pure genericamente, Gioè gli aveva riferito di una trattativa che loro stavano conducendo con americani forse parenti di Riina […] di cui aveva già fatto cenno nel medesimo verbale del 20 novembre 2011 […].

Sul motivo per quale il riferimento alla trattativa con i piani alti sia stato fatto dal Bellini solo nei verbali dell ‘anno 200 l resi innanzi al Dott. Ingroia ed invece non ne abbia parlato nei precedenti interrogatori innanzi ad altre autorità, Bellini ha risposto che tali specifiche domande gli sono state poste in quella sede per la prima volta e che, comunque, vi era anche una ragione di prudenza come per la vicenda del Carabiniere […], precisando, poi, che della trattativa con i “piani alti” e del filone americano aveva parlato con il Gioè in occasioni diverse […], avendo fatto diversi viaggi in Sicilia e avendo parlato con il Gioè di tante cose, compresi problemi personali e familiari, nel 1992 […].

[…] Bellini ha detto, poi, di avere saputo di alcuni viaggi in Inghilterra del Gioé […].

* * *  […] Successivamente, invece, all’udienza del 17 aprile 2014, col consenso delle parti, sono state, altresì, acquisite le seguenti quattro informative di P.G. Relative ad attività di ricerca di riscontri alle dichiarazioni del Bellini prodotte dal P.M. alla precedente udienza del 10 aprile 2014.

In particolare, l’informativa della Questura di Firenze – D.LG.O.S. in data 7 aprile 1994 con relativi allegati, dalla quale risulta, tra l’altro, che: – sono state accertate due presenze Di Bellini Paolo presso il Motel Agip di Palermo, la prima il 6 agosto 1992 e la seconda il 30 dicembre 1992, in entrambi i casi da solo;

– è stato accertato che il Bellini, ancora da solo, ha soggiornato presso l’Hotel Sicilia di Enna il giorno 6 dicembre 1991, contestualmente alla presenza di Giammanco Vincenzo (nato a Palermo il 24 ottobre 1956) e di Inguì Francesco (nato a Marineo il 15 ottobre 1952);

– il Bellini ha soggiornato presso l’Hotel Calura di Cefalù l’ 11 luglio 1992 ed è stato accertato che “nello stesso contesto temporale” ha soggiornato presso l’Hotel Baia del Capitano di Cefalù “l’estremista di destra Coletti Duilio”, mentre presso I ‘Hotel Calura hanno soggiornato il 27 luglio 1992 Maiorana Alberto e il 30 luglio 1992 Cacciola Biagio Renato, “entrambi con precedenti per reati di natura eversiva”.

L’informativa della D.I.A. n. 125/RM3°SETT/H2-24/4746 in data 7 giugno 1996, alla quale è allegata, innanzi tutto, una scheda “biografico-criminale di Bellini”, dalla quale, tra l’altro, risulta:

– che il nominativo del predetto era emerso perché citato da Gioé Antonino nello scritto redatto in occasione del suo suicidio il 29 luglio 1993 ed il medesimo era stato, poi, identificato su indicazione di La Barbera Gioacchino;

– che Bellini era “segnalato come pluripregiudicato e pericoloso estremista di destra militante prima nel Fronte della Gioventù e poi ad Avanguardia Nazionale”, che “nel 1977 aveva iniziato la sua latitanza fuggendo in Brasile ave aveva assunto il nome di Roberto Da Silva”, rientrando in Italia il 16 giugno 1977; […].

Gli elementi probatori raccolti non hanno sicuramente consentito una compiuta ricostruzione dell’intera vicenda emersa a seguito delle dichiarazioni rese da Paolo Bellini e ciò, da un lato, per i contrasti su alcuni punti (anche non secondari) di tali dichiarazioni con quelle del teste Tempesta, e, dall’altro, per i contrasti tra queste ultime dichiarazioni e quelle, rimaste senza contraddittorio, dell’imputato Mori.

A ciò si aggiunga che le conoscenze dei collaboratori di Giustizia sopra ricordati sono tutte necessariamente parziali, perché l’unico altro vero protagonista della vicenda è stato Antonino Gioé, che, però, si è suicidato prima di potere essere interrogato (anche) su tali fatti.

In ogni caso, però, la rilevanza di tale vicenda in questo processo è alquanto limitata perché, per quanto è emerso, del tutto parallela e non collegata alla vicenda della “trattativa” sollecitata attraverso Vito Ciancimino e, soprattutto, a differenza di questa, priva di concreto sbocco.

Tuttavia alcuni spunti di quanto emerso riguardo alla “vicenda Bellini” sono utili a comprendere meglio ciò che in parallelo avveniva riguardo ai fatti più propriamente oggetto di questo processo.

Sul fronte di “cosa nostra” v’è, innanzitutto, la conferma che in quella fase (estate del 1992) Riina aveva deciso di aprire alle sollecitazioni che da più parte gli provenivano (o che, quanto meno, gli apparivano provenire) per metterle a frutto ed ottenere benefici per l’organizzazione mafiosa da lui guidata che gli avrebbero, tra l’altro, consentito di riacquistare il prestigio interno intaccato dalla conclusione per lui negativa del “maxi processo” e di riaffermare anche nei confronti dello Stato il potere che per molti decenni (sino ai primi anni ottanta) “cosa nostra” aveva esercitato incontrastata.

Si è visto sopra, infatti, che l’iniziativa partita dal Bellini e la proposta di operare per ottenere benefici per importanti esponenti dell’associazione mafiosa anche particolarmente vicini ai “corleonesi” fu portata direttamente alla conoscenza di Riina e Bagarella da Brusca e che Riina autorizzò l’eventuale “scambio” tra quei benefici e la riconsegna di opere d’arte per il cui recupero si adoperò.

V’è da dire che si trattava di un canale, comunque, diverso da quello apertosi con l’approccio di De Donno con Vito Ciancimino, dal momento che, per quanto emerso, né Brusca e, quindi, né Riina ebbero a sapere che il M.llo Tempesta si era rivolto, o aveva intenzione di rivolgersi, al Col. Mori.

Tutti i collaboranti esaminati hanno confermato che, appunto, si trattava di due canali di “trattativa” del tutto diversi, anche se certo non può essere dubbio che il canale Bellini, per quanto sicuramente secondario e del tutto ipotetico rispetto a quello principale certamente più autorevole per la caratura di Vito Ciancimino, abbia confermato nel Riina l’intendimento delle Istituzioni di venire a patti con lui (“si sono fatti sotto”).

Sul fronte opposto v’è la conferma, anche in questo caso, di una condotta non soltanto “opaca”, ma addirittura contra legem, del Col. Mori, il quale, infatti, pur promettendo al M.llo Tempesta che si sarebbe attivato per approfondire l’iniziativa del Bellini, ebbe ad evitare, come nel caso dei contatti con Vito Ciancimino, di lasciare qualsiasi traccia documentale, sia dissuadendo il M.llo Tempesta dal redigere una relazione di servizio[…], condotta che vanifica il tentativo della difesa dell’imputato Mori di “scaricare” sul Tempesta la relativa omissione […], sia, soprattutto, trattenendo per sé un documento che certamente costituiva “corpo di reato”.

Ci si intende riferire a quel bigliettino con annotati i nomi dei mafiosi detenuti oggetto della richiesta di benefici penitenziari, che, secondo Bellini, era stato redatto di proprio pugno da Gioé […] e che il M.llo Tempesta ha riferito di avere consegnato al Col. Mori (sul punto, come si è già detto sopra, la testimonianza del M.llo Tempesta è confortata da quanto quest’ultimo ebbe allora a riferire a Bellini secondo quanto questi ha, a sua volta, raccontato: “… un biglietto ……. ….. che io ho consegnato al maresciallo Tempesta, il quale mi ha detto che l ‘aveva consegnato al colonnello Mori…”).

Peraltro, la consegna di tale bigliettino a Mori è stata riferita da quest’ultimo già con la testimonianza che ebbe a rendere dinanzi alla Corte di Assise di Firenze il 7 giugno 1997 nel procedimento n. 12/96 R.G. a carico di Bagarella ed altri […] e poi ancora confermata con le dichiarazioni spontanee rese dal medesimo imputato in questo processo il 26 giugno 2014[…] e, quindi, riconosciuta anche dalla sua difesa in sede di discussione (v. ancora trascrizione discussione all’udienza del 9 marzo 2018).

Eppure, il Col. Mori, pur trattenendo a sé quel biglietto manoscritto o, comunque, non conservandolo […] ha omesso, oltre che di sequestrare un documento costituente corpo del reato, sia di informare l’Autorità Giudiziaria, sia, comunque, di svolgere qualsiasi indagine, certamente doverosa, diretta a individuare l’autore di quello scritto e, quindi, i soggetti (Gioé e coloro  che lo supportavano in quell’iniziativa) partecipi dell’associazione mafiosa “cosa nostra” nel cui interesse quel medesimo biglietto era stato redatto e consegnato al Bellini.

Ed è appena il caso di osservare che, di certo, una simile indagine non poteva di certo apparire impossibile (ancor meno ad un navigato ed esperto investigatore qual era già all’epoca il Col. Mori), non essendo ovviamente difficile (ove anche non si fosse voluto utilizzare la collaborazione offerta dal Bellini) seguire i movimenti del Bellini medesimo per individuare il suo contatto con gli ambienti mafiosi ed eventualmente, a quel punto, identificare l’autore dello scritto mediante accertamento grafico, fatto che, peraltro, non è secondario rilevarlo, avrebbe consentito di disarticolare già nell’estate del 1992 una delle “famiglie” mafiose (quella di Altofonte) più vicine e fedeli ai “corleonesi”, partecipe di efferati crimini già compiuti (la strage di Capaci) e di ulteriori progetti criminosi già allora in cantiere (basti pensare al progettato attentato al Dott. Grasso poi non portato a termine, nell’autunno del 1992, soltanto per difficoltà tecniche: v. dichiarazioni di Gioacchino La Barbera).

[…] Ora, in assenza di qualsiasi spiegazione da parte dell’interessato [Mori ndr.] (che non può essere certo quella dell’impraticabilità della richiesta veicolata dal Bellini, né la personalità di quest’ultimo in assenza di qualsiasi indagine finalizzata a verificare se questi avesse o meno effettivamente millantato i contatti con esponenti mafiosi), è inevitabile ritenere che il Col. Mori, a costo di violare i suoi più elementari doveri (persino, come si dirà meglio più avanti, il sequestro di un “corpo di reato” assimilabile ad un “mini papello” di richieste di provenienza mafiosa e ciò in palese contrasto con quanto dallo stesso affermato per negare di essere stato mai in possesso dell’altro “papello”, allorché, infatti, ha dichiarato dinanzi alla Corte di Assise di Firenze che tale documento “non è mai passato per le mie mani, perché altrimenti sarebbe agli atti in qualche Procura”), non abbia voluto che la vicenda interferisse con quel tentativo già in corso (il 25 agosto 1992, data dell ‘incontro del Col. Mori con il M.llo Tempesta, vi erano stati numerosi incontri di De Donno con Vito Ciancimino ed almeno un incontro del Col. Mori col medesimo Vito Ciancimino secondo quanto riferito dagli stessi imputati) di interloquire con i vertici dell’associazione mafiosa che evidentemente si prospettava fruttuoso e che sarebbe stato inevitabilmente interrotto da una azione investigativa diretta a colpire coloro che, sia pure attraverso una diversa via, si ponevano nel solco della “trattativa” con le Istituzioni.

In sostanza ed in conclusione, dalla “vicenda Bellini” si ricavano, oltre che alcune considerazioni sulla condotta dell’imputato Mori che, come detto, saranno successivamente sviluppate esaminando più specificamente la posizione del predetto […], anche la conferma del mutamento della situazione di contrapposizione allo Stato da parte dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” che precedentemente si era cristallizzata con la strage di Capaci e, conseguentemente, dell’intendimento di Riina di accettare le richieste di dialogo che via via gli pervenivano ad iniziare da quella, più concreta e riscontrata, veicolatagli da Vito Ciancimino.


Il “papello” e le condizioni per la pace  Si è già visto, altresì […] che, però, già dopo la strage di Capaci che, a quel momento, aveva costituito il culmine di tale furente reazione, Salvatore Riina raccoglie le sollecitazioni che gli provenivano da più parti, ma soprattutto quella veicolata da Vito Ciancimino da lui ritenuta  più concreta per la diretta richiesta di indicare le sue condizioni per far cessare il “muro contro muro”, e decide di “accettare la trattativa” e di dettare, appunto, le sue condizioni.

E queste, conseguentemente, non potevano che riguardare il problema dei detenuti, diventato il suo principale problema dopo l’esecuzione delle condanne del “maxi processo” nei confronti di un numero sino ad allora senza pari di associati mafiosi, molti dei quali appartenenti al gotha di “cosa nostra”, problema poi ulteriormente aggravato dalla prospettata riapertura delle carceri nelle isole e dalla prima introduzione di un regime carcerario individuale più rigoroso mediante l’introduzione del secondo comma all’art. 41 bis O.P. (v. D.L. 8 giugno 1992 n. 306) successivamente attuati dopo la strage di via D’Amelio.

Era inevitabile, dunque, che proprio la questione dei detenuti fosse al centro dei “desiderata” di Salvatore Riina anche per governare il malcontento che si era creato all’interno di “cosa nostra” e che rischiava di indirizzarsi nei suoi confronti per effetto delle assicurazioni sull’esito del “maxi processo” che egli, per anni, fidandosi dei suoi referenti politici, aveva dispensato.

E, come si vedrà, la questione dei detenuti costituirà il filo rosso che lega tutte le azioni di “cosa nostra” anche negli anni successivi al 1992.

Ma che già sin dai primi momenti di tale mutamento di strategia da parte di Riina (da quella vendicativa a quella “trattati vista”), avvenuto in conseguenza delle sollecitazioni di dialogo pervenutegli, al centro dei pensieri (e, quindi, delle richieste) di quest’ultimo vi fosse il problema dei detenuti, trova conferma nelle dichiarazioni di Giovanni Brusca.

Quest’ultimo, infatti, ha, innanzitutto, riferito che, appunto, allorché alcuni soggetti istituzionali “si erano fatti sotto”, Riina aveva risposto rivolgendo loro un “papello” di richieste […].

Ora, tralasciando per il momento la questione “papello” inteso come documento scritto cui si è già fatto cenno sopra nella Parte Seconda della sentenza dedicata alla valutazione delle dichiarazioni di Massimo Cianci mino e sulla quale si tornerà nelle conclusioni del presente Capitolo, tanto più che Brusca non ha mai visto, se effettivamente esistente come documento scritto, il “papello”, rileva che, secondo quanto riferito dal detto collaborante (in questa sede anche imputato) tra le richieste del Riina v’erano la revisione del “maxi processo” (v. sopra, nonché, nel seguito: ” … quando io parlavo con Totò Riina si parlava della revisione del Maxiprocesso…”) e, in generale, benefici per i detenuti […], nonché l’eliminazione dell’ergastolo […].

Come si vede, dunque, si trattava di richieste tutte più o meno direttamente connesse, appunto, all’esito del “maxi processo” che aveva scatenato la furia di Riina e, quindi, dirette a rimediare alle conseguenze carcerarie che ne erano derivate per molti mafiosi.

E va detto che sul tema del “maxi processo” si rinviene un riscontro già nella testimonianza di Roberto Ciancimino, il quale, sentito all’udienza dell’11 dicembre 2015, ha riferito che il padre Vito ebbe a raccontargli di avere ricevuto una lettera con la quale, tra l’altro, per fermare le stragi, si prospettava in contropartita, appunto, la revisione del “maxi-processo” (v. testimonianza di

Roberto Ciancimino citata: “Mio padre ottenne un permesso per arrivare a Palermo. Venuto a Palermo mi racconta questo episodio e mi racconta … Mi disse che voleva vedere che aria tirava a Palermo. Poi mi riferì di avere ricevuto una lettera scritta in cui si diceva che per … Mi riferì mio padre, perché non ho visto niente, mi disse che per fermare le stragi bisognava arrivare alla revisione del Maxi Processo … “), aggiungendo, peraltro, che, ancorché poi in concreto gli fu detto soltanto della revisione del “maxi processo”, il padre gli aveva parlato di più richieste da parte dei mafiosi (“Mi ha parlato di richieste assurde, però a me mi parlò solo della revisione… … …Assurde … … Richieste, al plurale…. … …Mi parlò di richieste, però… … …Parlò al plurale, però mi parlò specificamente solo della revisione perché voleva illustrato, insomma … …… Tecnicamente cosa era la revisione”).

V’è, poi, un ulteriore non necessario riscontro utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno che ne hanno chiesto l’acquisizione ex art. 468 comma 4 bis c.p.p., nella convergente testimonianza resa da Giovanni Ciancimino all’udienza del 20 febbraio 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo Sezione Quarta Penale nel processo a carico di Mori e Obinu, poiché anche il predetto teste, avvocato così come il fratello Roberto prima citato, ha riferito che ugualmente il padre Vito gli aveva chiesto notizie sulla praticabilità della richiesta di revisione del “maxi processo” consultando nel contempo un foglio scritto di cui era in possesso […].

Il tema carcerario, unitamente ad altri più risalenti pure interessanti i mafiosi (leggi su “pentiti” e sequestri di beni, argomento quest’ultimo di cui pure Vito Ciancimino ebbe a parlare al figlio Giovanni come da questi riferito in occasione della testimonianza prima ricordata che, però, si ribadisce, è utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donna), è presente anche nelle dichiarazioni rese da Salvatore Cancemi sin dalle sue prime propalazioni sia con riferimento alla vicenda dei quadri, perché le “persone alle quali dovevano essere fatte vedere le fotografie potevano far uscire dal carcere Pippo Calò, Bernardo Brusca, forse anche Gambino Giacomo Giuseppe, ed altri importanti personaggi di cosa nostra” ed erano in grado “di fare levare l’ergastolo, nel senso di ottenere una modifica legislativa ed inoltre potevano influire per cambiare la legge sui pentiti e anche la legge sulla confisca dei beni, sia con riferimento ad un altro specifico incontro successivo alla strage di Capaci in occasione del quale Riina aveva, appunto, specificato, sia pure riferendosi, secondo Cancemi, ad altri soggetti (Dell’Utri e Berlusconi, però non citati nelle iniziali dichiarazioni), quali richieste intendeva avanzare […].

Ora, a prescindere dalla citazione di Dell’Utri e Berlusconi, come detto, del tutto tardiva e, quindi, di per sé sospetta, quel che rileva è, comunque, la conferma che in quel periodo Riina aveva a cuore, appunto, tra le altre cose, soprattutto le problematiche concernenti i detenuti.

Ma, in ogni caso, un ‘ulteriore conferma si può trarre dalle dichiarazioni di altro collaborante, Naimo Rosario, per il quale, a differenza che per Cancemi, si è già pervenuti ad un giudizio di sicura attendibilità intrinseca […].

Naimo, infatti, ha raccontato di un incontro che ebbe intorno al mese di ottobre 1992 con Riina, il quale gli manifestò l’intendimento, appunto, di “aiutare i carcerati” .

In particolare, Naimo ha riferito che Riina, prendendo lo spunto dal paventato allontanamento del Dott. Cinà per recarsi in America, gli aveva detto di essere in attesa di ricevere qualche beneficio che avrebbe aiutato i detenuti […].

Peraltro, lo stesso Naimo nel medesimo periodo aveva avuto conferma del fatto che in “cosa nostra” si era in attesa di ricevere notizie riguardo ai detenuti anche da un sodale particolarmente vicino a Riina e cioè dal noto Salvatore Biondo (”[…]….Il Biondo mi disse, dice: Sarò, dice, stiamo aspettando da un momento all’altro notizie di… Qualche notizia buona che possano … Che ci possano aiutare a sti disgraziati. per sta gente che è in galera con il 4 l bis. Dice: aspettiamo da un momento all’altro buone notizie. Questo è ciò che mi disse, Io ci ho detto: speriamo… “).

Dunque, dalle dichiarazioni di Rosario Naimo, fondate su due diverse fonti, si trae conferma, non soltanto del contenuto delle richieste di Salvatore Riina, ma, altresì, del fatto che nell’autunno del 1992 quest’ultimo era in attesa di una risposta e che, quindi, precedentemente, quelle richieste erano state già inoltrate per il tramite del Dott. Cinà, del quale, infatti, lo stesso Riina paventava l’allontanamento che avrebbe reso più difficoltoso il dialogo intrapreso.

E se il Dott. Cinà era stato il tramite delle richieste del Riina, allora, deve giocoforza concludersi che, come già rilevato sopra sulla base del complesso delle risultanze probatorie di cui si è dato conto nei Capitoli precedenti, il canale utilizzato dal medesimo Riina e sul quale questi faceva affidamento non era, in quel momento, di certo quello indicato (peraltro in modo tardivo e sospetto da Cancemi) di Dell’Utri e Berlusconi (i quali, d’altra parte, in quell’anno erano ancora lontani dall’assumere responsabilità di governo), ma piuttosto quello ritenuto concreto ed attuale di Vito Ciancimino, il quale soltanto, infatti, a seguito della sollecitazione al dialogo con i vertici mafiosi ricevuta dai Carabinieri, si era, appunto, rivolto al Dott. Cinà per fare da tramite con Salvatore Riina.

In estrema sintesi, dunque, emerge dal compendio probatorio indicato che Riina già nell’autunno del 1992, in risposta alla sollecitazione veicolatagli da Vito Ciancimino, aveva condizionato la cessazione della strategia stragi sta al ricevimento di benefici a vario titolo interessanti i detenuti di “cosa nostra” e che il medesimo, in quel periodo, era in attesa di una risposta che si augurava positiva a riprova della affidabilità e serietà che egli aveva attribuito alla sollecitazione derivante dalla iniziativa dei Carabinieri allorché questi avevano contattato Vito Ciancimino.

V’è da dire, poi, per completezza, che tali conclusioni appena sintetizzate hanno trovato un (ancorché non necessario) riscontro anche nelle dichiarazioni di Pino Lipari prima in dettaglio già analizzate (v. sopra Capitolo 10).

Quest’ultimo, infatti, a sua volta ha dichiarato che tanto Vito Ciancimino quanto Cinà gli dissero che le richieste di Riina ricevute dallo stesso Vito Ciancimino attraverso il Dott. Cinà concernevano, appunto, tra l’altro, la revisione di processi, l’ergastolo ed il 41 bis […].

Ancora per completezza, va, infine, aggiunto che il medesimo contenuto delle richieste del Riina è stato riferito anche da Giuseppe Di Giacomo ancorché le dichiarazioni di quest’ultimo debbano essere vagliate con rigore per la loro tardività. […]

Qui è sufficiente ricordare che anche Di Giacomo, secondo quanto asseritamente raccontatogli direttamente dal Cinà, ha riferito che le richieste del Riina riguardavano il 41 bis e l’ergastolo (v. dich. Di Giacomo: “Tra le altre cose, esternò il fatto che, dice, pago il papello che scrisse o cristiano, perché noi in quel caso u cristiano era espressamente rivolto, era un appellativo convenzionale, al Totò Riina … … … come se c’è, diciamo, nei suoi confronti un peso, un fardello non indifferente per quello che fece precedentemente quando scrisse e rappresentò il papello, diciamo, quelle richieste scritte, no? Dice io pago anche quel prezzo, per aver scritto questo papello. Che poi in vari punti diciamo ne parlammo, che rivedeva il 41 bis. l’ergastolo, che rappresentò … O cristiano era Totò Riina, in quel caso noi lo menzionammo come u cristiano”).

E’ opportuno, a questo punto, esaminare meglio la questione del “papello”.

Nel presente processo il “papello” è stato documentaI mente identificato dalla Pubblica Accusa in uno scritto contenente un’elencazione di richieste (“1- Revisione Sentenza Maxi Processo; 2- Annullamento Decreto Legge 41 bis; 3- Revisione Legge Rognoni – La Torre; 4- Riforma Legge Pentiti; 5- Riconoscimento Benefici Dissociati – Brigate Rosse – Per condannati di mafia; 6- Arresti Domiciliari dopo 70 anni di età; 7- Chiusura Super Carceri; 8-Carcerazione vicino le case dei familiari; 9- Niente censura posta familiari; 10- Misure Prevenzione – sequestro – non familiari”) consegnato da Massimo Ciancimino agli inquirenti e, quindi, prodotto agli atti di questo processo (n. 3 della produzione documentale del P.M. all ‘udienza del 26 settembre 2013).

Orbene, nella Parte Seconda della presente sentenza dedicata alla valutazione delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ancorché non sia stato possibile accertare l’autore della grafia di tale documento (v. esito analisi scientifica sulle comparazioni effettuate di cui hanno riferito gli esperti incaricati nei termini già sopra riportati), si sono già manifestati forti dubbi sulla sua autenticità, se non la certezza della sua falsità, tenuto conto delle accertate falsificazioni che con sicurezza possono, invece, addebitarsi a Massimo Ciancimino (v. sopra).

La valutazione di autenticità del documento in questione, in ogni caso, è rimasta rimessa esclusivamente alle dichiarazioni del Massimo Ciancimino, le quali, peraltro, a prescindere dal giudizio di complessiva inattendibilità cui si è pervenuti nella citata Parte Seconda della sentenza, anche sul punto appaiono comunque caratterizzate da numerose oscillazioni ed incertezze nella ricostruzione dell’iter, che, a partire dal rinvenimento del documento medesimo, ha condotto sino alla sua tardiva consegna alla A.G. dopo molti precedenti interrogatori.

Si vuole dire, in sostanza, che, pur in assenza di elementi indicativi di una falsificazione di tale documento (ed, in effetti, nella Parte Seconda, Capitolo 4, si è visto che tali elementi sono assenti, trattandosi, con elevata probabilità, di una prima fotocopiatura di un originale eseguita con toner in uso sino alla metà degli anni novanta e con carta compatibile con l’epoca interessata), il fatto stesso che il documento medesimo sia stato consegnato (con le contorte modalità di cui si è detto) da Massimo Ciancimino e che possa identificarsi col “papello” soltanto per le parole di quest’ultimo, costituisce un ostacolo insormontabile alla conclusione – ancora sostenuta dal P.M. nella sua requisitoria all’udienza dell’11 gennaio 2018 – che possa trattarsi del “vero papello”.

E, d’altra parte, se effettivamente dovesse, invece, trattarsi del “vero papello”, ci si troverebbe ancora di fronte al frutto avvelenato della scellerata condotta di Massimo Ciancimino che impedisce in radice di utilizzare persino quel nucleo di fatti veri sui quali egli ha, poi, ricostruito le fantasiose e non più distinguibili sovrastrutture di cui si è detto sopra nella Parte Seconda della sentenza.

In ogni caso, la convinzione della Corte – certamente soggettiva perché non fondata sul documento in sé, ma influenzata dalla sua provenienza da un soggetto totalmente inaffidabile qual è Massimo Ciancimino – appare suffragata anche dalle parole di Salvatore Riina in occasione di uno dei colloqui intercettati di cui si dirà più avanti nella Parte Quinta della sentenza e cui, quindi, qui si rinvia.

Ciò premesso, si è pure, però, già precisato che la probabile falsità del detto documento (così come per gli altri di cui, invece, la falsità è certa) non significa che Vito Ciancimino non sia stato effettivamente destinatario di richieste (eventualmente anche scritte: v. dichiarazioni di Roberto Ciancimino e Pino Lipari) dei vertici mafiosi quali, almeno in parte, quelle contenute nel “papello” esibito da Massimo Ciancimino e qui acquisito agli atti, poiché la falsificazione documentale è stata utilizzata dal predetto imputato/dichiarante per supportare le sovrastrutture artificiosamente e artatamente aggiunte (v. sopra Parte Seconda della sentenza) alle conoscenze che egli aveva potuto acquisire negli anni sia dal padre sia da altri soggetti, quali, ad esempio, Brusca Giovanni, che, in proposito, aveva reso dichiarazioni sin dal 1996 anche in questo caso abilmente (?) sfruttate dal medesimo Ciancimino.

Ed è proprio Brusca, infatti, che, ben prima di Massimo Ciancimino, ha riferito di un “papello di richieste” che Riina avrebbe rivolto a coloro che, tramite Vito Ciancimino, lo sollecitavano a porre termine alla strategia stragi sta iniziata nel 1992 […].

E’ bene, però, precisare che Brusca non ha mai visto un “papello” inteso come documento scritto da recapitare agli interlocutori del Riina (v. ancora dich. Brusca: ” .. . che io non ho visto, non ho letto e non ho partecipato alla stesura … “) e che l’espressione utilizzata dal Riina (“Gli ho fatto un papello così di richiesta “), nel linguaggio corrente, non è riferibile necessariamente ad un documento scritto, usando si notoriamente tale espressione, più in generale, per indicare una sfilza di richieste quand’anche soltanto oralmente rivolte.

Ne consegue che non v’è neppure certezza che sia mai esistito un documento scritto di pugno di Riina (evenienza, peraltro, esclusa dallo stesso Riina: v. intercettazione dell’8 novembre 2013 di cui si dirà meglio nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo l), ovvero da questi dettagliatamente dettato ad altri, direttamente recapitato (tramite Cinà) a Vito Ciancimino, non potendo neppure escludersi, infatti, che il biglietto che, invece, Cancemi ha detto di avere visto nelle mani di Riina (v. dich. Cancemi già sopra riportate: ” …. aveva una specie di, un biglietto nelle mani, una cosa, un pezzo di carta nelle mani, mi ricordo, si .. “), se tale dichiarazione è vera (non essendovi riscontri), fosse soltanto un semplice appunto personale del Riina medesimo, tanto più che la formulazione delle richieste era in quel momento ancora in itinere […].

V’è soltanto Lipari che, per essergli stato riferito da Ciancimino, ha riferito di un documento scritto recapitato a quest’ultimo, dal Cinà, all’interno di una busta (v. dich. Lipari: “P. M DI MATTEO : – … Ciancimino le disse cosa conteneva questa busta?; DICH. LIPARI GIUSEPPE : – Sì, mi fece una … Un accenno me lo fece, quelle cose che abbiamo detto, 41 bis, ergastoli, beni, cose … … … diceva che era… Anche lui pensava che era una richiesta eccessiva perché… . … … Papello, lo ha chiamato Papello, questo Papello lo ha chiamato”), ma, in proposito, non potrebbe neppure escludersi che si sia trattato, in questo caso ed in ipotesi, di una annotazione del Cinà su quanto oralmente rappresentatogli da Riina, così come, d’altra parte, sembra ricavarsi anche dalla confidenza fatta dal medesimo Cinà a Giuseppe Di Giacomo secondo quanto da quest’ultimo riferito in questo dibattimento (v. dich. Di Giacomo: “… Dice io pago anche quel prezzo, per aver scritto questo papello… “).

Ne consegue che, in proposito, non appaiono neppure dirimenti le dichiarazioni testimoniali rese da Roberto Ciancimino e Giovanni Ciancimino […].

Il primo, Roberto Cianci mino, esaminato all’udienza dell’ 11 dicembre 2015, ha riferito, sì, che il padre, allorché gli aveva raccontato degli incontri avuti con i Carabinieri, gli aveva, altresì, raccontato che, dopo avere attivato i suoi contatti, aveva ricevuto una lettera con la quale, tra l’altro, per fermare le stragi si prospettava in contropartita la revisione del “maxi-processo”, condizione dal padre stesso ritenuta irrealizzabile […], ma, anche specificamente sollecitato, ha ribadito di non avere visto quella lettera (”No. non l’ho vista. me ne ha solo riferito”) che il padre aveva ricevuto dopo che aveva contattato un “amico degli amici” […].

In proposito, infatti, il padre gli aveva soltanto detto che la lettera conteneva richieste assurde, parlandogli, però, poi, soltanto della revisione del “maxiprocesso” […], ancorché il padre gli avesse parlato di richieste al plurale […].

Il secondo, Giovanni Ciancimino (le cui dichiarazioni, si ripete, sono utilizzabili – e, dunque, vengono qui concretamente utilizzate – soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno), allorché venne esaminato quale testimone in data 20 ottobre 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo nel processo a carico di Mori e Obinu, ha, invece, riferito che una volta il padre gli aveva chiesto cosa fosse la revisione del processo penale […] e se fosse possibile la revisione del “maxi

processo” […], tirando fuori subito dopo dalla tasca un foglio di carta (“Disse: “Ah, va bene, va bene”, e aveva … e aveva tirato dalla tasca un pezzo di carta, un pezzo di carta arrotolato o mò dei temi o dei compiti, che si entrano magari durante gli esami, sa questo … questa specie di… come se fosse … il rotolo, il classico rotolo”) e chiedendogli anche della confisca dei beni […].

Il detto teste, nella stessa occasione, ha ribadito che il padre, durante quel colloquio, aveva consultato un solo foglio di carta […].

In sostanza, come si vede, se certamente le predette testimonianze supportano ulteriormente tutte le risultanze sin qui esposte ed anche il racconto di Pino Lipari, le stesse non appaiono utili a confermare che vi sia stato un “papello”, inteso come documento scritto da Salvatore Riina o chi per lui e, soprattutto, per quel che qui rileva, che tale “papello” possa identificarsi con il documento scritto consegnato da Massimo Ciancimino di cui si è già detto nella Parte

Seconda di questa sentenza, non potendo escludersi che lo scritto di cui hanno parlato i predetti Lipari e Roberto Ciancimino (nonché, con i limiti di utilizzabilità indicati, Giovanni Ciancimino) sia un documento diverso successivamente distrutto da Vito Ciancimino e, quindi, “ricostruito” dal figlio Massimo nella sua accertata foga di accreditarsi come depositario di tutti segreti del padre.

Ma in ogni caso, quel che qui occorre evidenziare è che non è certo necessario accertare se Riina abbia effettivamente scritto o fatto scrivere un “papello” inteso come documento cartaceo contenente le sue richieste, ma va soltanto accertato che il medesimo Riina, eventualmente anche soltanto oralmente […], abbia posto le condizioni per l’abbandono della strategia mafiosa e che tali condizioni siano state via via trasmesse ed inoltrate sino al destinatario finale (ai fini della configurabilità del reato contestato in questa sede, il Governo della Repubblica).

Finora è stata raggiunta la prova sulla formulazione – e sull’inoltro – da parte di Riina, attraverso il canale Ciancimino apertosi a seguito dell’iniziativa dei Carabinieri, di alcune espresse condizioni cui eventualmente subordinare la cessazione della contrapposizione totale di “cosa nostra” allo Stato.

Si vedrà nel seguito se potrà ritenersi ugualmente provato che le condizioni poste da Salvatore Riina per conto di “cosa nostra” siano effettivamente giunte sino alla cognizione del loro destinatario finale (individuato dallo stesso Riina nel Governo: v. intercettazione del 18 agosto 2013 di cui si dirà meglio più avanti e più specificamente nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo I).

Nel frattempo, però, è opportuno sin d’ora verificare se tali condizioni possano effettivamente qualificarsi come minacce, essendo questo l’indefettibile presupposto logico dell’imputazione di cui al capo A) qui in esame.

La violazione dell’art. 338 c.p.p. addebitata agli odierni imputati al capo A) della rubrica è stata formulata con riferimento ad una soltanto delle due modalità consumative, quella della minaccia (non essendo stato contestato, invece, l’uso della violenza), che nella sua materialità consiste nella condotta di prospettare ad altri un male futuro.

Poiché, pertanto, la minaccia integra l’elemento costitutivo della fattispecie criminosa qui in esame, è opportuno formulare alcune considerazioni di carattere generale, appunto, in tema di minaccia, per poi verificare se le richieste formulate da Riina in risposta alla sollecitazione dei Carabinieri veicolatagli da Vito Ciancimino siano qualificabili come minaccia.

Orbene, al predetto fine, non può che muoversi dalla specifica previsione della condotta delittuosa punita dall’art. 612 C.p.

In quest’ultima fattispecie, come è noto la minaccia viene conformata come reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l’attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l’effetto di diminuirne la libertà psichica e morale di autodeterminazione. Peraltro, è pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina che per la consumazione del reato non occorra che il predetto effetto si verifichi in concreto, essendo sufficiente che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo (ma quest’ultimo aspetto, quello del raggiungimento del destinatario finale-soggetto passivo, come anticipato nel paragrafo che precede, si vedrà nel prosieguo ).

[…] Ed è opportuno, altresì, sin d’ora precisare che è pure possibile che la minaccia sia esercitata da un terzo o per il tramite di un terzo, il quale, se consapevole, ne risponderà a titolo concorsuale secondo la regola generale dell’art. 110 C.p.

La minaccia deve avere ad oggetto, poi, un male ingiusto e, quindi, antigiuridico nel senso di contrarietà rispetto all’ordinamento giuridico, […].

Si tratta, in sostanza, di ciò che, in termini comuni (ma non estranei ad alcuni ordinamenti giuridici vigenti in altri Paesi) viene definito “ricatto” (ed è appena il caso di evidenziare che, come si vedrà, non a caso questo è proprio il sostantivo utilizzato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, allorché è stato esaminato in qualità di teste all’udienza del 28 ottobre 2015, per definire la condotta attribuita alle cosche mafiose dopo le stragi del luglio 1993).

Ed allora, se questi sono i parametri che individuano la minaccia penalmente sanzionabile, non può essere minimamente dubbio che essi ricorrano in concreto nel caso delle richieste prospettate da Salvatore Riina, nell’interesse di “cosa nostra”, quali condizioni per porre termine alla contrapposizione frontale con lo Stato e, quindi, per porre termine alle stragi ed ali ‘uccisione di ulteriori uomini delle Istituzioni (sia che fossero ritenuti “nemici”, sia che fossero, invece, ritenuti “amici traditori” da punire).

Ed invero, all’indomani della strage di Capaci che aveva manifestato alla massima potenza la capacità di “cosa nostra” di colpire in ogni luogo anche gli uomini più protetti, non v’è dubbio che la sola prospettazione da parte di Riina di richieste da soddisfare cui egli condizionava il non compimento di ulteriori stragi, era assolutamente idonea ad intimorire i destinatari e, quindi, a diminuire la libertà psichica e morale di autodeterminazione degli stessi.

I destinatari, infatti, venivano posti di fronte alla alternativa tra subire o correre il rischio di subire il male prospettato (le ulteriori possibili stragi ed uccisioni) ovvero sottrarvisi realizzando la condotta richiesta loro dal Riina nel tentativo di coartarne la volontà ed ottenere un aliud facere.

Ugualmente, non può di certo minimamente dubitarsi che sia stato prospettato dal Riina un “male ingiusto” e che, al fine della sussistenza di tale presupposto, è, altresì, irrilevante che le condotte pretese (in ipotesi anche i provvedimenti diretti ad attenuare il rigore della carcerazione) fossero in astratto leciti nel senso della loro conformità alle potestà riconosciute ai destinatari della minaccia, dal momento che è l’intervento intimidatorio di un soggetto privo di un qualsiasi titolo legittimante che è, in ogni caso, contra jus.

In conclusione, dunque, possono già ravvisarsi nella condotta del Riina (e, quindi, di coloro che hanno moralmente o materialmente concorso in essa sotto il profilo della istigazione, codecisione, condivisione od attuazione esecutiva), consistita nella prospettazione di condizioni per la cessazione della contrapposizione frontale con lo Stato e delle stragi ed uccisioni già decise in conseguenza di questa, gli estremi della minaccia punibile penalmente se portata (o, comunque, pervenuta) a conoscenza del soggetto passivo.

Quest’ultimo profilo attinente alla concreta configurabilità del reato, come detto, sarà esaminato nel prosieguo.

Prima, infatti, è necessario esaminare un’altra vicenda, pure introdotta nel presente processo, che ha segnato un punto di svolta nelle dinamiche interne a “cosa nostra” e che dalla Pubblica Accusa è stata in qualche modo collegata alla “trattativa” (così come altre due vicende, quella del mancato arresto di Benedetto Santapaola a Terme Vigliatore e quella del mancato arresto di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, entrambe temporalmente successive e che saranno, quindi, esaminate separatamente più avanti) in forza di alcune singolari “anomalie” investigative (ulteriori rispetto a quelle già sopra evidenziate nel Capitolo 6 di questa Terza Parte della sentenza) che in qualche modo hanno visto protagonista soprattutto l’imputato Mario Mori.


Tutti i misteri del covo di Totò Riina   Si tratta di un vicenda che è stata oggetto di un processo penale a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio già definito con sentenza passata in giudicato. Ed è bene, pertanto, muovere dalle risultanze di tale sentenza ritualmente acquisita agli atti del presente processo.

Dalla sentenza del Tribunale di Palermo Sezione Terza Penale del 20 febbraio 2006 pronunziata nei confronti dell’odierno imputato Mario Mori, come detto divenuta irrevocabile, concernente la vicenda della mancata perquisizione della villa nella quale abitava Salvatore Riina all’epoca del suo arresto e con la quale il detto Mori ed il coimputato Sergio De Caprio sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato dal delitto di favoreggiamento personale aggravato, si ricava, innanzi tutto, in termini di fatto, per quel che può rilevare in questo processo, che:

– la individuazione della villa all’interno di un residence con ingresso nella via Bernini di questa città e la perquisizione della stessa sono stati effettuati per la prima volta il 2 febbraio 1993, trovando l’immobile svuotato da ogni cosa, con i mobili accatastati e le pareti ritinteggiate;

– all’epoca del fatto il comandante del ROS era il Gen. Antonio Subranni ed il vice comandante operativo era il Col. Mori;

– nel luglio 1992, secondo quanto riferito dall’allora Col. Sergio Cagnazzo (cfr. deposizione resa all’udienza dell’ l giugno 2005), all’epoca vicecomandante operativo della Regione Sicilia, si tenne una riunione presso la Stazione dei Carabinieri di Terrasini, cui parteciparono il comandante di quella stazione M.llo Dino Lombardo, il superiore gerarchico di quest’ultimo, Cap. Baudo, all’epoca comandante della stazione di Carini, il Magg. Mauro Obinu, in servizio al ROS, i Capitani Sergio De Caprio e Giovanni Adinolfi, al fine di costituire una squadra, composta sia da elementi del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura di Salvatore Riina;

– vi fu, poi, una seconda riunione nel mese di settembre, cui parteciparono i medesimi Col. Cagnazzo, M.llo Lombardo, Magg. Obinu, Cap. De Caprio ed il M.llo Pinuccio Calvi, in servizio presso la prima sezione del ROS, nella quale il Lombardo indicò in Raffaele Ganci, a capo della famiglia mafiosa del quartiere denominato “Noce” di Palermo, e nei suoi figli le persone più vicine al Riina in quel momento, in quanto incaricate di proteggerne la latitanza;

– Baldassare Di Maggio venne arrestato a Borgomanero, a seguito di una perquisizione e del conseguente rinvenimento di un’arma, in data 8 gennaio 1993 e, condotto in caserma, ebbe a parlare col Gen. Delfino, comandante della Regione Piemonte e Valle d’Aosta dei Carabinieri;

– il 9 gennaio 1993 Di Maggio ebbe ad indicare come accompagnatori del Riina Raffaele Ganci e Giuseppe (detto Pino) Sansone, nonché alcuni luoghi in cui egli in passato lo aveva incontrato, oltre ad altri due soggetti che lo frequentavano, tale Vincenzo De Marco (che abitualmente, a suo dire, accompagnava i figli del Riina) e tale Salvatore Biondolillo (successivamente identificato in Biondino Salvatore, soggetto in compagnia del quale Riina venne, poi, arrestato il 15 gennaio 1993);

– 1’11 gennaio 1993 Di Maggio fu trasferito a Palermo e custodito in caserme dei Carabinieri;

– tra i luoghi indicati da Di Maggio, vi era anche un casolare sito nel Fondo Gelsomino in Palermo, nel quale, in particolare, egli aveva incontrato cinque anni prima Riina insieme a Raffaele Ganci;

– il 13 gennaio 1993 fu individuato il complesso residenziale ove abitavano i Sansone e, specificamente, quel Pino Sansone indicato da Di Maggio;

– il giorno 14 gennaio 1993 venne posizionato dai Carabinieri un furgone, dotato di telecamera interna, a circa una decina di metri dal cancello, di tipo automatico, che consentiva sia l’ingresso che l’uscita delle autovetture dalla via principale al viale interno del residence, conducente alle varie villette di cui era costituito;

– quella stessa sera, visionando le cassette con le registrazioni, Baldassare Di Maggio riconobbe, nelle immagini che stava visionando, uno dei figli di Salvatore Riina, la moglie “Ninetta” Bagarella e l’autista Vincenzo De Marco;

– l’indomani mattina fu ripreso il servizio di osservazione, notando, alle ore 8.52, Salvatore Biondino che entrava nel complesso e ne usciva alle ore 8.55 in compagnia del Riina, seduto sul lato passeggero, riconosciuto da Di Maggio che si trovava all’interno dello stesso furgone;

– informato immediatamente via radio, il Cap. De Caprio con i suoi uomini procedeva all’arresto del Riina e del Biondino alle ore 9.00 su v.le Regione Siciliana, altezza P.le Kennedy, a circa 800 metri di distanza dal complesso di via Bernini;

– il furgone rimase sul posto, con ancora all’interno Di Maggio, sino alle ore 16,00 e quella stessa sera, secondo quanto riferito dai testimoni M.lli Santo Caldareri e Pinuccio Calvi, il Cap. De Caprio espresse l’intenzione di non proseguire il servizio l’indomani per ragioni di sicurezza del personale impiegato;

– nella conferenza stampa il Gen. Cancellieri ebbe a riferire la versione concordata, secondo cui il Riina era stato intercettato, casualmente, a bordo della sua auto guidata da Salvatore Biondino, mentre transitava sul piazzale antistante il Motel Agip;

– il Dott. Luigi Patronaggio, pubblico ministero di turno, già nella mattinata del 15 gennaio 1993, aveva, d’accordo con il nuovo Procuratore della Repubblica appena insediatosi, il Dott. Giancarlo Caselli, predisposto i relativi e necessari provvedimenti per procedere alla individuazione della villa all’interno del residence ed alla sua perquisizione e, a tal fine, era stata già disposta la costituzione di due squadre, con gli uomini dei gruppi l e 2 del Nucleo Operativo guidati dal Magg. Balsamo e dal Cap. Minicucci, i quali avrebbero dovuto procedere dapprima agli accertamenti sui luoghi ed in seconda battuta, una volta, appunto, individuata la villa, alla perquisizione di questa;

– le due squadre rimasero in attesa per tutta la mattina, ma non si procedette alla perquisizione in considerazione della richiesta del Cap. De Caprio prima e del Col. Mori poi, di soprassedere all’operazione al fine di non pregiudicare possibili sviluppi investigativi;

– già il 16 gennaio 1993 il Commissariato di P.S. di Corleone comunicò il rientro a Corleone dei familiari di Riina e lo stesso giorno alcuni i giornalisti, sulla base di una confidenza del Magg. Ripollino, avevano individuato il residence di via Bernini;

– in data 21 gennaio 1993 si procedette, con ampio spiegamento di forze e risalto mediatico, alla perquisizione del Fondo Gelsomino, di cui, in precedenza (nel corso delle indagini che infine avevano condotto all’arresto del Riina) era stata verificata l’assenza di elementi collegabili alla presenza del Riina medesimo;

– infine, in data 2 febbraio 1993 si procedette alla individuazione ed alla perquisizione, da parte del Nucleo Operativo dei Carabinieri, della villa in cui aveva abitato Riina con la sua famiglia, constatando, secondo quanto riportato nella sentenza in esame, “l’esistenza di: un guardaroba blindato ali ‘interno della camera da letto matrimoniale; ali ‘altezza del pianerottolo, una intercapedine in cemento armato di forma rettangolare di mt. 3×4 di larghezza e 75 cm di altezza, chiusa da un pannello di legno con chiusura a scatto e chiavistello; nel sottoscala, a livello del pavimento, una botola lunga circa mt 2 chiusa da uno sportello in metallo con serratura esterna; nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall ‘adiacente vano bagno, risultò vuota”.

* * *   Dalla predetta sentenza, quindi, risulta che il Tribunale, pur riscontrando in astratto gli elementi materiali del contestato reato di favoreggiamento personale aggravato, ebbe, tuttavia, ad assolvere gli imputati Mori e De Caprio per l’assenza dell’elemento psicologico del reato medesimo, stante, in particolare, ma, in estrema sintesi, per quel che interessa in questa sede, l’impossibilità di risalire alla causale della condotta degli imputati suddetti in considerazione anche della contraddittorietà tra l’ipotesi che tale condotta fosse riconducibile ad un accordo con l’associazione mafiosa e il fatto che, però, quest’ultima aveva proseguito nella sua strategia stragistica e progettato di uccidere il Cap. De Caprio.

* * *  Prima di proseguire nell’esame delle risultanze sulla vicenda in esame, è opportuno precisare che, fermo il principio del “ne bis in idem”, non v’è alcuna preclusione nel valutare i fatti sopra esposti ed anche la condotta degli stessi imputati di quel processo se rilevanti per l’accertamento del diverso reato per il quale si procede in questa sede […].

[…] Deve, peraltro, tenersi conto che la valutazione dei fatti da parte del Tribunale di Palermo si è basata, anche riguardo alla ricerca della possibile causale delle condotte esaminate, su un compendio probatorio del tutto esiguo ed assolutamente limitato rispetto a quello che in questa sede è stato possibile acquisire all’esito di una istruttoria dibattimentale di ben altra ampiezza e che consente, oggi, di valutare collegamenti e interezioni tra l’episodio oggetto di quel giudizio e innumerevoli altri eventi, sia antecedenti che successivi, in grandissima parte non conosciuti e, comunque, non esaminati in quella sede.

[…]  Il teste Gian Carlo Caselli, che ebbe ad insediarsi quale Procuratore della Repubblica di Palermo proprio lo stesso giorno, il 15 gennaio 1993, nel quale venne catturato Salvatore Riina, esaminato all’udienza del 22 gennaio 2016, riguardo alla vicenda oggetto del presente Capitolo, in sintesi, ha riferito:

– che nel dicembre 1992, prima di prendere servizio a Palermo, era stato contattato dal Gen. Delfino per informarlo dell’arresto e della collaborazione di Baldassare Di Maggio ed egli, non sapendo allora dei non buoni rapporti intercorrenti tra Delfino e Mori, aveva organizzato un incontro coinvolgendo quest’ultimo ed attivandosi subito per informare anche i magistrati di Palermo e per fare trasferire Di Maggio a Palermo al fine di individuare l’abitazione di Riina (” … il CSM mi ha nominato, non sono ancora arrivato … …… Un giorno il Generale Delfino, comandante non so se Brigata, Divisione, comunque Comandante dei Carabinieri in Piemonte e Valle d’Aosta, mi dice venga da me, che ho una cosa da dirle. Ci vado e mi dice di Baldassare Di Maggio inteso

Balduccio, arrestato a Borgo Manero, disponibilità di questo Balduccio Di Maggio a dare elementi per la cattura di Salvatore Riina. In quel giorno io avevo appuntamento con il Colonnello, o Capitato anche lui, Secchi, uno dei … Un braccio destro, tanti erano i bracci destri del Generale Dalla Chiesa all’epoca del terrorismo, dell’anti terrorismo. E Secchi ne aveva, quando avevamo organizzato il pranzo, detto: guarda che c’è … …… Che a Torino c’è anche Mori, se non c’è niente in contrario, direi anche a Mori di venire a pranzo. Dico questo perché quando Delfino mi dice di Balduccio e di Salvatore Riina, la prima cosa, automaticamente, io sono ingenuo, non sapevo che tra Delfino e Mori c’era lo stesso rapporto che c’è tra il diavolo e l’acqua santa .. … … E allora dico: Generale, so che c’è a Torino il Colonnello, Generale Mori, Colonnello credo, Mori, che è a capo comunque, di fatto dirige il Ros di Palermo, mi sembra che lo dobbiamo chiamare subito. Delfino non fa una piega, come se fossi io l’Ufficiale superiore, telefona a Mori, lo fa cercare e

Mori arriva. Mori racconta … Mori ascolta il racconto che Delfino aveva già fatto a me, dopo di che intervengo io, non ero ancora Procuratore, i miei limiti di manovra sono molto ristretti, telefono a Vittorio Aliquò dicendogli: guarda, Vittorio, c’è questa novità importante, organizzati subito tu con i colleghi, quelli che crederai per seguire la vicenda. Dopo di che telefono mi sembra al Capo della Polizia per dire senza dire come e perché, ci sarebbe bisogno di un aereo speciale, per i trasporti speciali, per un viaggio da Torino a Palermo, senza dire chi, come, quando e perché. Il Capo della Polizia mi dice sì. E allora Di Maggio parte in aereo speciale da Torino per Palermo, a Palermo stabilisce il contatto con il Ros di Palermo e il lavoro del Ros è seguito fin da subito da Vittorio Aliquò non so bene con chi. Ecco, tutto qua”);

– che egli in occasione della mancata sorveglianza dell’abitazione di Riina aveva riposto massima fiducia sulla sollecitazione a non procedere alla perquisizione fatta dal Cap. De Caprio certamente in accordo con Mori (“Ma ripeto, dopo l’episodio, come dire, terribile della mancata sorveglianza, più che mancata perquisizione del covo di Riina, l’insistenza questa volta né di De Donno, né di

Mori, l’insistenza del Capitano Ultimo, un eroe nazionale in quel momento, lui aveva messo le manette a Riina, lui, lui, lui ripetutamente dice: non andate a perquisire. Noi eravamo con il predellino sull’auto, ecco, per così dire, con il piede sul predellino dell’auto. Lui dice non andate a perquisire perché rischiamo di rovinare una indagine, una operazione molto più vasta che deve rimanere coperta per il momento. E io mi fido di De Caprio, perché era l’eroe nazionale, così considerato da tutti e da molti ancora oggi, che aveva arrestato Riina. Come mi fido di lui, conseguentemente non potevo non fidarmi… O qualcuno mi dice De Caprio ha avuto l’ordine preciso … Sicuramente De Caprio agiva in sintonia con i suoi superiori e però, ecco, io mi sono fidato di De Caprio e quindi questa fiducia si è, per così dire, riverberata anche successivamente sul colpo di appartenenza di De Caprio, con delle riserve, delle riserve… Con dei punti di domanda dentro di me, con una amarezza profonda, però, ecco, senza qualcosa che potesse toccare … Quando cinque anni dopo emergeranno elementi, allora lei lo sa meglio di me, dottor Teresi, prenderemo posizione allora, dopo, quando emergeranno nuovi, concreti elementi nell’ipotesi dell’accusa”);

– che gli era stata assicurata la sorveglianza dell’abitazione di Riina (“Era scontato, il Procuratore della Repubblica non sospende la perquisizione se non c’è una vigilanza sull’obiettivo, altrimenti il Procuratore della Repubblica dovrebbe cambiare mestiere. Aliquò ha seguito questa vicenda, Aliquò aveva degli appunti particolareggiati e quindi … Di più, un elemento che può essere utile, ad un certo punto l’Arma Territoriale, non ricordo in che giorno, viene da me e mi dice: facciamo una azione diversiva su Fondo Gelsomino, si chiamava così, perché si stanno troppo avvicinando al covo e c’è il rischio che le nostre attività siano compromesse.. .. . .. Allora io ordino, o dico a qualcuno di predisporre, probabilmente lo dico a qualcuno, la così detta operazione Gelsomino e loro fanno un’imponente manifestazione di presenza sul posto per distogliere l’attenzione … Se questo non significa che la stessa Arma Territoriale era convinta che il covo veniva sorvegliato, non so cosa altro (PAROLA INCOMPRENSIBILE) convincere. Tant’è che io non ho il minimo dubbio”);

– di non avere avuto alcun chiarimento diretto in occasione dei successivi incontri con Mori (”Non mi sembra, del resto sarebbe stato assolutamente inutile perché quello che un Carabiniere scrive nelle relazioni di servizio che ci ha mandato su nostra domanda, è in suo punto di vista e non lo cambierà mai neanche cascasse il mondo”), col quale, d’altra parte, non aveva particolare confidenza […], non ricordando neppure di averlo conosciuto durante il periodo in cui aveva svolto le funzioni di giudice istruttore a Torino […];

– che il Dott. Patronaggio era pronto ad intervenire per procedere alla perquisizione della abitazione di Riina, ma poi era stato convinto a desistere da De Capri o per conto del ROS (“… ricordo che il dottor Patronaggio, d’accordo con me, stava per intervenire. Ricordo che, l’ho già detto prima, siamo stati convinti, fortemente convinti… … Ultimo non parlava a titolo personale … … Si è messo in prima fila, per così dire, sicuramente”).

Anche Giovanni Brusca, nelle udienze dell’Il e del 12 dicembre 2013, ha reso dichiarazioni riguardo alla vicenda in esame, dichiarando, in particolare:

– che egli non conosceva il luogo in cui Riina trascorreva la latitanza in quel periodo, ma sapeva soltanto che della stessa si occupavano i Sansone (“Questa volta, al contrario delle altre volte, non sapevo l’ubicazione, però sapevo chi stava in mano ai Sansoni sapevo bene o male la zona dell’Uditore, però non ero stato mai a casa sua, in quest’abitazione …….. …. Sì, sino a quella … un’altra casa dell’Uditore, un attico, a Mazara del Vallo, a San Giuseppe Jato, a Borgo Molara, conoscevo tutti”) e che, comunque, Riina disponeva sempre di cassa forti o nascondigli per i suoi documenti, come egli stesso aveva potuto constatare allorché gli aveva fatto visita in precedenti abitazioni; […]

– che egli il giorno dell’arresto di Riina si trovava ad attenderlo, per un incontro, nei pressi di un bar a San Lorenzo […];

– che successivamente si era occupato anche di far sgomberare l’appartamento di Riina (“Sempre io, mi sono interessato, parlando con Bagarella di potere prelevare quelle che erano le vettovaglie, vestiti, argenteria, quello che si poteva recuperare. M’incontro con Angelo La Barbera, che a sua volta era il capo famiglia dei Buscemi, dei Sansoni, e gli dico: “Angelo, vediamo di potere risolvere questo problema” e lui si interessa a fare sgombrare tutto e mi fa avere solo l’argenteria, tutto il resto, c’erano pellicce, c’era biancheria, il corredo di madre, cioè, tutto quello che c’era mi hanno detto che l’avevano bruciato. Quando ho detto questa cosa a Bagarella si è un po’ adirato, arrabbiato, dice: “Che avevano la rogna? Si spaventavano a uscire … ” In particolar modo per il corredo di famiglia fatto a mano, lenzuola e tutta ‘sta roba qua … … …. Quello dei familiari in giornata, allo stesso di … l’arresto, lo stesso giorno di Riina, cioè quando poi tutte le televisioni hanno parlato che la sera stessa si recò a Riina e noi l’abbiamo fatto intorno alle sei e mezzo, le sette di pomeriggio, già all’imbrunire ……….. .Invece per quanto riguarda il fatto di togliere le cose io mi sono incontrato con Angelo La Barbera dopo tre, quattro giorni, quando poi realmente l’hanno fatto non glielo so dire, a distanza di tempo mi ha detto che l’unica cosa che avevano conservato era l’argenteria, tutto il resto l’avevano bruciato”)

– che era stata, invece, sempre ritenuta infondata la voce che attribuiva l’arresto di Riina a Provenzano […];

[…] Antonino Giuffré, esaminato nelle udienze del 21, 22 e 28 novembre 2013, riguardo alla vicenda qui in esame, in sintesi, ha dichiarato:

– che nell’ambito di “cosa nostra” si riteneva che Riina fosse stato “venduto” e che, pertanto, la perquisizione della sua casa fosse stata appositamente evitata per evitare di sequestrare documenti […];

– che, dunque, la cattura di Riina, in sostanza, era stata “comprata” dallo Stato (“Diciamo quella parte di Stato che, per alcuni versi diciamo che avevano avuto una vicinanza con Cosa Nostra, diciamo quello spezzone di Stato. Alcuni indubbiamente operando in buona fede, altri convincendo, ricattando altri, e altri in assoluta mala fede. Quindi per eliminare questo attacco, cioè, che si è permesso il Riina di sferrare contro il potere, quel potere politico. Non parlo di tutto il potere politico, ma per una parte del potere politico che aveva avuto un ruolo nell’appoggiare Cosa Nostra. Poi, successivamente le stragi perché sono state fatte? Sono state fatte appositamente per indurre anche in buona fede quella parte di Stato onesto, chiamiamola ragione di Stato, chiamiamola come vogliamo, per indurlo appositamente a porre fine a questa cosa. Quindi la consegna, il prezzo da pagare con la messa a parte di tutta quella frangia violenta di Cosa Nostra che aveva attaccato direttamente lo Stato e tante persone che con lo Stato e con le stragi non c’entravano, e quindi per indurre quella parte di Stato che non era completamente diciamo… Per ricattare, diciamo, con la forza, con la violenza lo Stato sano italiano”) quando Provenzano aveva deciso che fosse più utile la strategia della “sommersione”[…];

– di non sapere chi sia impossessato dei documenti che si trovavano nella abitazione di Riina al momento del suo arresto e di avere soltanto ipotizzato che potessero essere pervenuti a Mat1eo Messina Denaro […];

non v’è dubbio che la condotta posta in essere dai Carabinieri allora guidati dall’odierno imputato Mori in occasione dell’arresto di Salvatore Riina desti nell’osservatore esterno profonde perplessità mai chiarite.

Da ultimo possono richiamarsi, in proposito, le considerazioni della Corte di Appello di Palermo che ebbe a valutare anche tale aspetto delle complessive condotte dell’imputato Mori nel processo conclusosi con l’assoluzione di quest’ultimo per il reato di favoreggiamento della latitanza di Provenzano.

Nella sentenza del 19 maggio 2016 della Corte di Appello di Palermo, divenuta irrevocabile 1’8 giugno 2017 ed acquisita agli atti di questo processo, infatti, al riguardo si legge: “Orbene, col senno di un osservatore esterno che a distanza di tempo si posiziona in un punto di osservazione svincolato dalla giustificabile concitazione del momento, la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo. Preme, comunque, sottolineare al riguardo che la scelta condivisa di non perquisire immediatamente il covo blindandola con un servizio di osservazione esterno all’ingresso del complesso edilizio appare davvero singolare ove si consideri che il detto servizio anche ove fosse stato mantenuto per qualche giorno ancora non avrebbe evitato che qualcuno dall’interno provvedesse a “ripulire” la villetta, cosa che, con tutto il comodo possibile, fu effettivamente fatta.

Altra circostanza che il collegio ritiene di sottolineare concerne l’affermazione contenuta in sentenza secondo la quale la decisione di abbandonare il servizio di osservazione fu presa dal De Caprio, senza che il Mori ne fosse informato, come precisato in udienza dal predetto teste.

Orbene, appare davvero difficile credere che una decisione di tale importanza non fosse stata comunicata al Mori che era il “dominus” dell’operazione. tenuto conto che ancor più difficile appare che egli non se ne sia mai interessato, se non quando a distanza di più di un mese fu chiamato dal Procuratore Caselli a renderne conto.

Ancor più difficile da spiegare, e a ben guardare nemmeno l’ha spiegato lo stesso Mori, appare il fatto che la cessazione del servizio non fu comunicato tempestivamente all’A.G.

Invero, la giustificazione fornita: l’essersi mosso “in uno spazio di autonomia decisionale consentito” appare davvero inadeguata, in specie ove si consideri che il servizio venne tolto poche ore dopo la decisione di effettuarlo come contraltare alla mancata immediata perquisizione dell’abitazione. Cosa possa essere in quel limitato frangente di tempo essere accaduto di tanto importante da smettere di dar corso ad una decisione presa di comune accordo con l’A.G. è cosa che la Corte non riesce a spiegarsi e. a ben vedere in maniera specifica non l’hanno spiegato nemmeno gli imputati”.

In ogni caso, però, alla stregua della sentenza definitiva pronunziata dal Tribunale di Palermo prima ricordata, deve, innanzitutto, prendersi atto che è stato escluso, sotto il profilo della carenza dell’elemento soggettivo del reato allora contestato, che Mori e De Caprio, omettendo di perquisire l’abitazione nella quale Riina trascorreva la sua latitanza, abbiano voluto favorire altri esponenti dell’associazione mafiosa “cosa nostra”.

E, tuttavia, anche la conferma della condotta materiale ravvisata in quella stessa sentenza evidenzia la grave anomalia che in quella occasione ebbe a verificarsi per l’improvvida condotta degli imputati, essendo quello l’unico caso nella storia della cattura di latitanti appartenenti ad una associazione mafiosa (ma anche di latitanti responsabili di altri gravi reati) in cui non si sia proceduto all’ immediata perquisizione del luogo in cui i latitanti medesimi vivevano al fine di reperire e sequestrare eventuali documenti utili per lo sviluppo di ulteriori indagini quanto meno finalizzate alla individuazione di favoreggiatori (si veda, in proposito, anche la meraviglia manifestata da Salvatore Riina nelle intercettazioni dei suoi colloqui in carcere di cui si darà ampio resoconto più avanti nella Parte Quinta della presente sentenza per il fatto non soltanto che la sua abitazione, appunto, non venne perquisita, ma anche che così fu consentito ai suoi nipoti di svuotarla e ripulirla interamente).

E tale anomalia appare ancora più grave se rapportata alla figura di quel latitante, cioè di Salvatore Riina, che in quel momento era indiscutibilmente il ricercato numero uno al mondo per essere a capo dell’organizzazione criminale allora più potente e pericolosa e responsabile di delitti tra i più efferati mal commessi (da ultimo le stragi di Capaci e via D’ Amelio).

Né vale rilevare, in proposito, che, come si vedrà nella Parte Quinta della sentenza, Riina, conversando con Lo Russo, abbia escluso che nella cassaforte della propria abitazione (di cui conferma l’esistenza) vi fosse documentazione di qualsiasi tipo (v. intercettazione del 10 agosto 2013: Ma io non … ….. … unn ‘aveva niente… … … e io non ho mai detto a nessuno che haiu documento… … …documenti importanti non l’avevo e non li tenevo … ” e intercettazione del 29 agosto 2013: … io onestamente … devo dire la verità, un scriveva nenti e un tineva nenti dintra a casa … …. … perché non scriveva io … … … e picchì c’è … c’era a mente … … …… io … io cose importanti non … non … non ne aveva e si l’aveva l’aveva ‘nta mente …… … e mi tineva ‘ntesta … “), poiché, tale affermazione, oltre che in sé inverosimile, è smentita incontestabilmente dal fatto che al momento dell’arresto indosso al Riina vennero rinvenuti anche alcuni “pizzini” (v. sentenza del 20 febbraio 2006, dalla quale si ricava anche la gravità degli effetti di quella mancata perquisizione a prescindere dalla riconosciuta assenza di prova sul dolo degli imputati), così che la stessa affermazione va ricondotta ad una sorta di autocelebrazione ed autoesaltazione del personaggio.

Certo, in astratto, la decisione di non procedere immediatamente alla perquisizione della abitazione di Riina avrebbe potuto pur trovare giustificazione in una strategia attendista finalizzata alla individuazione ed all’arresto di correi quale quella prospettata da Mori (e dal suo subordinato De Caprio), ma ciò solo nel contesto di una effettiva sorveglianza dell’abitazione del Riina che avrebbe potuto, comunque, preservare ciò che in tale abitazione era custodito.

Ma, come si è visto, in realtà, quello stesso giorno, a distanza di poche ore dall’arresto del Riina, senza che fossero in alcun modo informati i magistrati della Procura di Palermo, quel servizio di osservazione fu rimosso senza alcuna comprensibile motivazione, perché, quali che fossero le ragioni addotte a sostegno di tale decisione[…], a questa avrebbe dovuto, comunque, conseguire l’immediata perquisizione dell’abitazione di Riina (che non era certo difficile individuare all’interno del complesso di via Bernini a costo di perquisire tutte le certo non molte ville, appena nove, site al suo interno).

Ma ciò non fu fatto, tanto che, non soltanto nell’immediatezza fu possibile prelevare i familiari del Riina per farli rientrare a Corleone, ma, addirittura, dopo alcuni giorni dall’arresto del Riina, fu possibile per esponenti mafiosi accedere all’abitazione di quest’ultimo per svuotarla completamente (v. anche intercettazione Riina del 10 agosto 20 I 3 di cui si dirà meglio nella Parte Quinta della sentenza).

Nessuna spiegazione minimamente convincente di tale defaillance investigativa è stata mai data da Mori (v. quanto osservato in proposito anche dalla Corte di Appello di Palermo con la sentenza sopra richiamata), tanto da non riuscire mai a superare le perplessità sia degli altri corpi investigativi (v., ad esempio, quanto alla Polizia, le perplessità del Questore La Barbera riferite dal giornalista Guglielmo Sasinini all’udienza del 2 luglio 2015: ” … con La Barbera c’era un rapporto decisamente più amicale…. …. . … mi disse non mi convincerà mai questa storia perché non perquisirono il covo di Riina insomma, questa era la…”), sia dei magistrati della Procura di Palermo, per i quali, come ben rappresentato in dibattimento da uno dei più illustri ed esperti di essi, la mancata perquisizione della abitazione di Riina, nonostante il trascorrere degli anni, è rimasta sempre una “ferita ancora sanguinante” (v. deposizione del Dott. Giuseppe Pignatone all’udienza del 14 gennaio 2016: “Certamente quello che io le posso dire è che il Ros ha continuato a svolgere indagini con la Procura di Palermo, questo è fiuori discussione, anche importanti. Quali fossero i rapporti personali non lo so ovviamente, tra il dottore Caselli, il Colonnello Mori, o Generale che fosse all’epoca, Mori e gli altri. Che la vicenda mancata perquisizione del covo di Riina sia rimasta una ferita aperta per la Procura di Palermo, certe volte sanguinante, certe volte meno, è altrettanto vero e credo notorio. Dopo di che il fatto istituzionale è un’altra cosa e quindi le indagini, anche indagini molto importanti dei Carabinieri, ci sono state anche in quegli anni.. … …sui rapporti personali, ovviamente insisto, non so cosa dire. Sui rapporti istituzionali, che erano quelli di cui ho parlato sette anni fa e quello che ho detto oggi, cioè le indagini venivano svolte, non è che, come a volte è successo anche in altre Procure, una Procura decide di non avere più indagini con un determinato ufficio di Polizia, questo non è avvenuto. Anche nel 93 stesso, il Ros ha continuato a lavorare e a fare indagini di alto livello e di grande importanza con la Procura di Palermo, e questo è quello che ho definito allora istituzionale. Dopo di che, oggi forse sono stato con un aggettivo un po’ più, diciamo, fantasioso. Quello che intendo dire è che dal 93 in poi nessuno, credo, di noi della Procura di Palermo ha mai chiuso completamente la vicenda covo di Riina. Poi ci sono momenti in cui… Non è che nessuno di noi se l’è mai dimenticata. mandata in un archivio mentale e mai… È una cosa che abbiamo vissuto, dopo di che ognuno di noi ha le sue idee in materia, il processo sappiamo tutti come è finito e ci sono stati poi momenti di polemica giornalistica che non riguardano credo il 95, credo siano successive, ed è quello che … In quella dichiarazione ho detto alti e bassi e oggi ho detto una ferita certe volte sanguinante. Mi pare che il concetto sia identico…”).

Ed allora, se così è, escluso, in dovuto ossequio al giudicato, l’intento favoreggiatore nei confronti di esponenti mafiosi (e, tra questi, quindi, anche del Provenzano secondo quanto, invece, ipotizzato in questa sede dalla Pubblica Accusa), e dovendosi, nel contempo escludere che una simile defaillance investigativa possa essere dovuta ad incapacità professionale del Mori per la sua storia personale, non può, però, farsi a meno di saldare l’anomala omissione della perquisizione alle condotte, anche omissive, già esaminate sopra nel Capitolo 6 e, quindi, inquadrare anche tale omissione nel contesto delle condotte del Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti.

E’ logico ritenere, in sostanza, in mancanza di altre plausibili spiegazioni, che, pur in assenza di qualsiasi preventivo accordo con Provenzano o con altri a questo vicini e di una volontà riconducibile al reato di favoreggiamento, si volesse lanciare un segnale di disponibilità al mantenimento (o alla riapertura) del dialogo nel senso del superamento della contrapposizione frontale di “cosa nostra” con lo Stato precedentemente culminata nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Ed, infatti, tale singolare “anomalia” investigativa, proprio perché costituente un unicum, è stata immediatamente colta e percepita non soltanto direttamente da Salvatore Riina […], ma, più in generale anche nell’ambito di “cosa nostra”, così come risulta dalle dichiarazioni dei collaboratori prima ricordate, tanto che si cominciarono a formulare le più disparate ipotesi su di essa tutte connesse ad un possibile accordo o tradimento interni e, soprattutto, emersero in forma esplicita le perplessità di tal uni sulla strategia portata avanti da Riina e si iniziarono a formare due distinti schieramenti, il primo dei quali ebbe il sopravvento nella immediatezza, mentre il secondo, anche per il sopravvenuto arresto dei principali esponenti dell’ala contrapposta, prevalse negli anni successivi. Di ciò si parlerà nel Capitolo che segue.


I due “partiti” mafiosi dopo le stragi   Si è già visto che Salvatore Riina fu, di fatto, il vero artefice di tutte le decisioni strategiche assunte da “cosa nostra” riguardo alle risposte ed alle reazioni da opporre al grave colpo subito dalle cosche mafiose per effetto delle condanne inflitte all’esito del “maxi processo” (v. sopra Capitolo 2 di questa Terza Parte della sentenza).

Certo, tutte le decisioni, come pure si è visto sopra, venivano comunicate nelle riunioni degli organi di vertice dell’associazione mafiosa e, quindi, da questi ratificate e fatte proprie, ma spesso nel silenzio dei presenti che non avevano il coraggio – né la forza – di opporsi al volere di colui che, dopo la seconda guerra di mafia dei primi anni ottanta, aveva, di fatto, assunto, inizialmente con il suo alter ego corleonese Bernardo Provenzano e poi progressivamente in modo sempre più autonomo ed egemonico, l’effettiva direzione dell’associazione mafiosa (si vedano, in proposito, anche le intercettazioni dei colloqui in carcere di Salvatore Riina di cui si dirà approfonditamente nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo 1).

Al volere del Riina, dunque, soprattutto, devono essere ricondotti sia la contrapposizione stragista allo Stato, sia, dopo la strage di Capaci, l’almeno apparente disponibilità al dialogo finalizzata ad ottenere benefici per gli associati mafiosi, accompagnata, però, pur sempre da ulteriori manifestazioni di forza che potessero indurre lo Stato a cedere alle sue richieste.

In tale ottica, e anche di ciò si è detto sopra nel Capitolo 4 di questa Terza Parte della sentenza, si inquadra la strage di via D’Amelio, ma non solo.

Pur “accettando la trattativa” (v. sopra Capitoli 5-9), infatti, Riina, per evitare che la stessa si arenasse, continua nella sua strategia di attacco allo Stato, cui vanno ricondotti, oltre che la strage di via D’Amelio di cui si è detto, anche il tentato omicidio del Commissario Calogero Germanà nel luglio 1992 […] e l’uccisione di Ignazio Salvo nel settembre 1992 (v. sentenze in atti), oltre che alcuni progetti omicidiari dell’autunno 1992 per varie evenienze fortunatamente non portati a termine (tra questi soprattutto quelli ai danni del Dott. Pietro Grasso e, dopo la sospensione del primo progetto del luglio 1992, ancora dell’On. Calogero Mannino di cui hanno riferito, anche in questo dibattimento, alcuni di coloro che ne furono incaricati, successivamente divenuti collaboratori di Giustizia […]).

La spirale senza prevedibile fine della violenta reazione voluta da Salvatore Riina, unitamente alla conseguenze negative che in quel momento si erano manifestate soprattutto con l’irrigidimento delle condizioni carcerarie dei detenuti di “cosa nostra” (tale questione sarà oggetto di successivo specifico esame in successivi Capitoli), aveva determinato in una parte di “cosa nostra” malcontento e disapprovazione per quella strategia, che, tuttavia, non aveva trovato alcuno sbocco in aperte manifestazioni di dissenso sino all’arresto di Riina per timore delle usuali violente reazioni che questi, come da molti riferito anche in questo dibattimento, non disdegnava certo di adottare, non soltanto nei confronti di coloro che gli erano “nemici”, ma persino nei confronti di coloro che pure gli manifestavano amicizia se solo avessero osato dissentire dal suo volere.

Soltanto dopo l’arresto di Riina, dunque, v’è un chiaro ed aperto confronto tra due opposte fazioni interne a “cosa nostra” per decidere quale strategia portare avanti e cioè se proseguire nell ‘attacco frontale allo Stato sino a che questo, piegandosi, non avesse accolto le condizioni poste da Riina (v. sopra Capitolo 12) così ribadendo la supremazia di “cosa nostra”, ovvero adottare la diversa strategia della “sommersione”, in attesa che la reazione dello Stato si attenuasse, di modo da riprendere le “ordinarie” attività e la convivenza (rectius, connivenza) che avrebbero consentito il più tranquillo protrarsi degli affari illeciti propri dell’associazione mafiosa (traffico di stupefacenti, estorsioni, accaparramento di lavori e fondi pubblici e così via).

Nel dibattimento sono state acquisite, in proposito, molteplici e concordi fonti di prova di cui si dirà qui di seguito […].

[…] Tra le dette fonti di prova acquisite nel corso del dibattimento si vuole qui iniziare proprio dalle dichiarazioni rese da Giovanni Brusca, perché queste, come già sopra accennato, grazie ad un inatteso, imprevedibile e straordinario riscontro per bocca direttamente di Salvatore Riina, assurgono già da sole a piena prova dei fatti oggetto del presente Capitolo.

Ma è bene muovere da ciò che Brusca ha raccontato riguardo alle dinamiche interne a “cosa nostra” successive all’arresto di Salvatore Riina.

Ebbene, nel corso del suo esame nelle udienze dell’11 e 12 dicembre 2013 Brusca, in sintesi, ha riferito:

– che dopo il suo arresto, Riina gli fece comunicare, per il tramite del figlio Giovanni, la volontà di proseguire nella strategia stragista (“…l’unico messaggio da parte di Totò Riina, con il figlio Giovanni, di continuare nelle stragi, no gli attentati, Magistrati e politici locali”);

– che, però, già poco dopo l’arresto di Riina, v’era stata una prima riunione di esponenti dell’associazione mafiosa per decidere il da farsi ed in tale occasione Raffaele Ganci aveva mosso critiche all’operato del Riina medesimo e successivamente aveva riferito a Giuseppe Graviano che anche Brusca, che, invece, era rimasto semplicemente silente, condivideva tali critiche (“Allora, nell’immediato, come avevo accennato stamattina, la prima riunione che io faccio la faccio con Raffaele Ganci, Biondino, Biondo Salvatore “il Corto”, Cancemi Salvatore e Angelo La Barbera che io non avevo mai visto nelle fasi esecutive, attenzione, quando si stabiliva il da farsi. Quindi io in quella fase mi limito solo ad ascoltare e il primo che rinnega l’operato di Totò Riina e lo critica in maniera molto… non dice parole, però che non condivideva la sostanza, gli effetti o quello che stava facendo, fu Raffàele Ganci, dice: “Ormai quello che abbiamo fatto fatto, sbagliato o giusto non lo so, però ci dobbiamo calmare”. Quindi il primo che si defila dal progetto di andare avanti, quelle che erano le indicazioni di Riina. Queste parole che io solo li ascolto, Raffaele Ganci li tramuta, li trasferisce a Giuseppe Graviano dicendo che io ero d’accordo a questa fase di stallo ed io … “), tanto che, poi, egli aveva dovuto spiegare a Bagarella, che per quel comportamento silente lo aveva rimproverato, che non era intervenuto in quella occasione per ragioni di prudenza, ma che condivideva la volontà del medesimo Bagarella di portare avanti la strategia stragista (“…Bagarella è venuto da me rimproverandomi, dice: “Ma tu, come, ti sei ritirato indietro in questa strategia?” Ci dissi: “No, io non mi sono ritirato indietro, se facciamo un confronto, chi sbaglia paga, io mi sono limitato ad ascoltare, non ho parlato perché c’era Angelo La Barbera e non sapevo se sapeva, se non sapeva, cosa gli avevano detto, io prima di avventurarmi su fatti che non mi riguardano ci vado un po’ cauto, quindi facciamo un confronto che io non intendo … cinque minuti nella fase più convincente di andare avanti quella che era la strategia di Totò Riina”);

– che, nel frattempo, sempre a seguito dell’arresto di Riina, v’era stata una riunione della “famiglia” mafiosa di Corleone nella quale Bagarella aveva offerto a Provenzano di prendere il posto di Riina purché concordasse con lui (Bagarella) qualsiasi decisione così come prima Riina concordava il da farsi con lo stesso Provenzano (” ….. Allora, io ho saputo che avevano avuto, al solito loro, dopo l’arresto di Riina, una riunione della famiglia di Corleone per stabilire chi doveva prendere il posto di Totò Riina. Allora per rispetto e per garanzia Bagarella ha detto: “Lo prendi tu, Bernardo Provenzano, però, al solito, prima che tu prendi impegni con chicchessia devi concordare con me “. Cioè, prima Riina-Provenzano, ora Provenzano-Bagarella”);

– che successivamente, dopo la riunione che Brusca aveva fatto con Raffaele Ganci e gli altri e il conseguente chiarimento che il medesimo Brusca aveva avuto con Bagarella, entrambi questi ultimi si erano recati a incontrare Bernardo Provenzano per decidere sulla prosecuzione della strategia stragi sta (“… Era successo che nel frattempo, dopo l’arresto di Riina io faccio un ‘altra riunione con Raffaele Ganci, Angelo La Barbera, Raffaele Ganci e Angelo La Barbera … … .. Dopo questa riunione, che poi vi spiego il motivo, a causa di … in base a questa discussione, questa con Provenzano fu oggetto di discussione tra me e Bagarella, dopodiché siamo andati da Provenzano per stabilire la strategia stragista, se continuare o meno con quello che stava portando avanti Totò

Riina. Bernardo Provenzano pensava che lui aveva preso non solo il mandamento di Corleone, ma pensava di essere diventato il capo provincia, aveva in sostanza preso il ruolo di Salvatore Riina”) e, quindi, ad informarlo che avevano deciso di portare avanti tale strategia per far sì che coloro che già

“si erano fatti sotto” con Riina, tornassero a trattare (“…Allora proprio io gli ho detto … ci dissi: “Guardi, ci sono persone che sono venute … si sono fatte sotto, quindi noi vorremmo portare questa cosa avanti affinché questi tornano”. Bagarella e lui non è che mi hanno risposto e hanno detto: “Ah, sì?” Provenzano, Bagarella mi asseconda e dice: “Noi vogliamo andare” a questa strategia stragista ancora da stabilire gli obiettivi e via dicendo”);

– che allora Provenzano aveva manifestato apertamente il proprio disappunto dicendo che non avrebbe saputo come giustificarsi con gli altri esponenti mafiosi a lui vicini che già si erano detti contrari a proseguire nella strategia di Riina, ma, poi, di fronte all’attacco anche canzonatorio e provocatorio di Bagarella che, per il tono, aveva sorpreso lo stesso Brusca, il Provenzano non aveva avuto la forza di opporsi al volere di Bagarella (“[…] Provenzano, come ho detto poco fa, quando abbiamo avuto quel confronto dopo l’arresto… … …. … subisce, subisce la volontà di Bagarella e di tutto il resto. Però non è che era allo scuro, sapeva quello che stavamo facendo … …… Sono stato io per primo a parlare del cosiddetto … che si sono fatti sotto. È avvenuto a Belmonte Mezzagno, oggetto poi di sopralluogo con le Forze di Polizia, con la DIA, che li ho individuati, quindi è stato individuato e trovato, credo che siamo febbraio, marzo, dopo l’arresto di Riina … …. … Che Bernardo Provenzano non era d’accordo con la strategia stragista, quella portata avanti da Totò Riina, al solito suo voleva fare le cose, ma sempre in modo con effetti meno… meno … Non mi viene la parola, meno … … …. Eclatanti, dimostrativi e andare avanti. Invece Bagarella dice: “No, noi andiamo avanti, non facciamo niente in Sicilia, però al nord possiamo fare quello che vogliamo e tu ti metti il cartello e ci scrivi «lo non so niente»”…. …. … Ma totale provocazione e un. per dire: “Sei miserabile “, in sostanza, dice: “Noi andiamo avanti, tu al solito tuo”, tutte e due le cose”);

– che, in tale contesto, fu deciso dallo stesso Brusca, da Bagarella e da Messina Denaro di spostare il luogo degli attentati al di fuori dalla Sicilia […];

– che, comunque, la finalità degli attentati nel continente era sempre quella di indurre i politici a trattare sulle richieste di Riina (“Era la finalità a far ritornare questi… appunto questi attentati al nord sono tutti finalizzati a fare tornare questi a trattare. Questi contatti che aveva avuto Riina … …. … che si erano bloccati. a un dato punto dice: “Sono assai”, poi non ha avuto modo di potere specificare. Con Riina erano assai e cioè qualche cosa gliela potevano dare, poi non so gli sviluppi dove sono arrivati, so solo che con Bagarella, con Provenzano prima e con Bagarella dopo questi attentati erano per fare riaprire questo dialogo. Costringere chi era di competenza a o trovare un altro soggetto o andare a trovare a Totò Riina in carcere, un po’ come ai tempi della guerra … tra le Seconda Guerra Mondiale”);

* * * Orbene, come si è già anticipato, il racconto del Brusca ha trovato un inatteso, imprevedibile e straordinario riscontro riguardo al dissenso di Provenzano sulla decisione di proseguire la strategia stragista anche dopo l’arresto di Riina proprio nelle parole di quest’ultimo intercettate il 18 agosto 2013 all’interno del carcere nel quale era detenuto.

[…] In proposito, a prescindere dagli altri molteplici elementi che ne confermano genuinità, può già anticiparsi che anche il passo dell’intercettazione qui in esame costituisce da solo una incontestabile ed insuperabile conferma, poiché, Riina, nel raccontare al suo interlocutore l’episodio che di seguito sarà ricordato e soprattutto quello specifico particolare di cui si dirà, non poteva di certo sapere – e prevedere – che tale particolare sarebbe stato, poi, raccontato anche da Brusca nel successivo dicembre di quell’anno in questo dibattimento e ove, invece, fosse stato a conoscenza dell’analoga dichiarazione già precedentemente resa dal Brusca in altre occasioni, giammai, evidentemente, avrebbe volutamente e falsamente confermato una circostanza riferita dal predetto collaborante che il Riina ha sempre avversato, tanto da definirlo nelle stesse intercettazioni un “pallista”.

E, nel contempo, poiché quando Brusca ha raccontato a sua volta il medesimo particolare della vicenda non era ancora noto il contenuto delle intercettazioni di Riina, l’intercettazione costituisce un incontestabile riscontro della attendibilità del Brusca medesimo che fa assurgere la sua propalazione sul fatto qui in esame al rango di piena prova senza necessità di ricercare ulteriori riscontri (che pure, però, vi sono, come si vedrà esaminando le dichiarazioni di altri collaboratori di

Giustizia) e ciò tanto più se si considera che, come risulta dalla sentenza in atti della Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998, Brusca ebbe a raccontare l’episodio di cui si dirà (sia pure con qualche oscillazione sul fatto di essere stato presente al colloquio tra Bagarella e Provenzano) non soltanto in quel processo, ma addirittura sin dagli interrogatori dell’ Il agosto 1996 e del 10 settembre 1996 e, quindi, sin dall’inizio della sua collaborazione con la Giustizia.

Ci si intende qui riferire soprattutto a quel passo delle dichiarazioni di Brusca nel quale riferisce la reazione canzonatoria e provocatoria di Bagarella al tentativo di Provenzano di prendere le distanze, insieme ai suoi alleati con i quali altrimenti non avrebbe saputo come giustificarsi, dalla decisione comunicatagli dallo stesso Bagarella e da Brusca di proseguire nella strategia stragista.

Ebbene, a fronte della titubanza manifestata da Provenzano[…] ed all’imbarazzo di questi per le spiegazioni che avrebbe dovuto dare, appunto, ai suoi alleati, Bagarella, secondo quanto raccontato da Brusca, ebbe ad apostrofare Provenzano dicendogli “Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente»”[…].

Ebbene, balza del tutto evidente l’assoluta coincidenza di tale racconto del Brusca con quel passo di un’intercettazione effettuata all’interno del carcere nel quale era detenuto Riina, allorché quest’ultimo, a sua volta, racconta al suo interlocutore le perplessità che Provenzano aveva manifestato sulla strategia stragista.

Riina, infatti, ad un certo punto racconta di avere invitato il Provenzano a mettersi un cartellino al collo con la scritta “io non ne so niente” (v. intercettazione del 18 agosto 2013[…]).

E’ appena il caso di evidenziare che, ovviamente, Riina in quel momento era detenuto e, quindi, non aveva colloqui diretti con Provenzano, ma ciò non era certamente d’ostacolo per veicolare i suoi voleri attraverso i familiari che andavano al colloquio in carcere con lui, prima fra tutti la moglie Antonietta Bagarella, che, essendo sorella di Leoluca Bagarella, non aveva di certo alcuna difficoltà a comunicare al fratello il volere del marito.

Ed, infatti, è proprio Leoluca Bagarella che, evidentemente facendo le veci del cognato detenuto, apostrofa Provenzano esattamente con quella frase pronunziata da Riina.

In ogni caso, per la precisione del riscontro, non può minimamente dubitarsi che Riina, tramite i familiari comuni con Bagarella, sia stato esattamente informato del colloquio intercorso tra quest’ultimo e Provenzano in ordine alla strategia futura di “cosa nostra”.

Si tratta, dunque, di un riscontro straordinario ed eccezionale che ha una triplice valenza, perché contemporaneamente comprova:

– la genuinità delle intercettazioni […] perché giammai Riina, che ha sempre avversato Brusca in quanto divenuto collaboratore di Giustizia e che lo ha definito nel corso delle stesse intercettazioni un “pallista”, avrebbe falsamente confermato la veridicità di un episodio già riferito da Brusca ove fosse stato a conoscenza delle precedenti propalazioni dello stesso, mentre in caso contrario (mancata conoscenza da parte di Riina della precedente analoga dichiarazione di Brusca) non avrebbe potuto, in quel momento, Riina, sapere e prevedere ciò che soltanto alcuni mesi dopo Brusca, alla presenza dello stesso coimputato Riina, avrebbe raccontato in questo dibattimento;

– l’attendibilità di Brusca non essendo nota, quando questi ha raccontato quel fatto in questo dibattimento, l’intercettazione in questione e non potendo, ovviamente, prevedere il medesimo Brusca, quando per la prima volta ebbe a raccontare lo stesso episodio nell’interrogatorio dell’11 agosto 1996 […], che ben diciassette anni dopo avrebbe trovato una conferma nelle parole dell’irriducibile Salvatore Riina;

– e, infine, soprattutto la formazione all’ interno di “cosa nostra” di due opposte fazioni sull’opportunità di proseguire nella strategia stragi sta, la prima facente capo a Provenzano che, tuttavia, in quella prima fase non aveva potuto opporsi al volere dei fedelissimi del Riina, e la seconda facente capo a quest’ultimi e, quindi, innanzitutto a Bagarella, che, in virtù del suo rapporto parentale, rappresentava, di fatto (al di là della soltanto formale investitura a Provenzano della guida dei “corleonesi”), la continuità operativa del volere del Riina.

* * *  Peraltro, come si è già anticipato, la formazione di quei due schieramenti emerge anche dalle dichiarazioni di altri collaboratori di Giustizia che ne hanno riferito nel dibattimento e, principalmente, per la profondità e la diretta fonte delle sue conoscenze, dalle dichiarazioni di Antonino Giuffrè.

[…] Ed invero, in occasione dell’esame effettuato nelle udienze del 21, 22 e 28 novembre 2013, Giuffré, riguardo alle dinamiche successive all’arresto di Riina, in sintesi, ha riferito:

– che dopo l’arresto di Salvatore Riina cominciò a delinearsi un cambio di strategia del quale egli prese contezza allorché ebbe ad incontrare Bernardo Provenzano a Belmonte Mezzagno […];

– che in occasione di tale incontro egli, infatti, rimase sorpreso dal nuovo atteggiamento di Provenzano, prima non certo alieno alle violenze, che, però, in quel momento gli prospettò la necessità della “sommersione” e, quindi, di porre termine alla contrapposizione frontale con lo Stato […];

– che Provenzano, pertanto, in quel periodo subiva il volere di Bagarella (“Diciamo che per lo stesso Provenzano, il 93 non sarà … il 93 e il 94 non sarà un periodo tranquillo, perché troverà in Luchino Bagarella diciamo la persona che lo contrasta abbastanza bene, anche nei suoi movimenti il Provenzano diciamo che è limitato, tanto è vero che come ho detto in altre circostanze il Bagarella e il Brusca, nell’ambito della Regione Siciliana, vanno prendendo sempre più spazio, vanno prendendo sempre più consensi su Trapani, con Matteo Messina Denaro su Agrigento con un Fragapane che è l’ultimo dei provinciali nominati da Riina, quindi prima con Fragapane e poi con Fanara”), il quale, di fatto, aveva assunto il ruolo di Riina per la prosecuzione della strategia stragista insieme ai suoi più stretti alleati, Brusca e Graviano […];

– che Provenzano, tuttavia, per non fare definitivamente prevalere Bagarella nella guida di “cosa nostra”, continuava a dialogare con lo stesso Bagarella […];

[…] Come si vede, dunque, v’è piena coincidenza nel racconto del Giuffré riguardo agli schieramenti già indicati da Brusca, al ruolo-guida assunto di fatto da Bagarella dopo l’arresto di Riina ed alla accettazione, più o meno forzata, del volere di Bagarella da parte di Provenzano, il quale, però, nel contempo, con i suoi alleati propugna la linea della “sommersione” che, tuttavia, riuscirà a fare prevalere soltanto dopo l’arresto dei principali oppositori (Graviano nel 1994, Bagarella nel 1995 e Brusca nel 1996).

[…] Tra gli altri elementi di prova ugualmente confermativi delle risultanze appena esposte (che, come detto, però, sono già autonomamente sufficienti per provare i fatti nel senso sopra riferito), v’è, innanzitutto, la conferma, anche da parte di Gioacchino La Barbera, che effettivamente Brusca ebbe ad incontrare Provenzano e che all’esito di tale incontro era stato deciso di andare avanti con la strategia stragista […].

[…] L’accertata contrapposizione creatasi all’interno di “cosa nostra” dopo l’arresto di Riina, o, per meglio dire, l’emergere di una opposizione alla strategia stragi sta di Riina sino al predetto momento rimasta pressoché silente e latente, dimostra, indirettamente ma con ineludibile forza logica, l’esattezza della ricostruzione sin qui operata anche con specifico riferimento alla c.d. “trattativa” accettata dal medesimo Riina e, soprattutto, per quel che rileva in questa sede in relazione al reato contestato, la formulazione di richieste alla cui soddisfazione veniva condizionata la cessazione della strategia stragi sta e, quindi, in definitiva, la minaccia indirizzata da “cosa nostra” nei confronti del Governo cui quelle richieste erano inevitabilmente indirizzate.

Si vuole dire, in altre parole, che se, dopo l’arresto di Salvatore Riina, una parte di “cosa nostra”, quella più fedele a quest’ultimo capeggiata dal cognato Leoluca Bagarella, intendeva portare avanti la strategia stragi sta (cosa che, poi, è effettivamente accaduta con le gravissime stragi del 1993) per far sì che coloro che già “si erano fatti sotto” con Riina tornassero a riprendere i contatti e, comunque, di fronte alla ripresa delle stragi, accogliessero le condizioni della cessazione della contrapposizione frontale poste dal medesimo Riina, significa inevitabilmente, sotto il profilo logico, che tali condizioni erano state già effettivamente e concretamente comunicate da Riina ai suoi interlocutori.

Significa, cioè, che Riina aveva, appunto, accettato la “trattativa” (nel senso, ovviamente, non di un possibile “patteggiamento” assolutamente contrario alla sua mentalità […]) che, a prescindere da quali fossero le intenzioni dei promotori, di fatto, gli era stata sollecitata tramite Vito Ciancimino ed aveva, quindi, appunto, posto le sue condizioni per porre termine alla contrapposizione frontale con lo Stato decisa e scatenata dopo la conclusione del maxi processo.

Significa ancora, dunque, che Riina aveva già effettivamente minacciato i suoi interlocutori istituzionali (si vedrà nel prosieguo, come anticipato, se tale minaccia abbia raggiunto i suoi destinatari finali inevitabilmente individuabili nel Governo della Repubblica che disponeva dei poteri esecutivi necessari) delle implicite conseguenze negative che sarebbero derivate per lo Stato ove non fossero stati adottati i provvedimenti, soprattutto attinenti, in senso lato, alla situazione carceraria dei detenuti di “cosa  nostra”.


Le bombe in Continente del 1993  Già nell’estate del 1992 si comincia a fare strada in “cosa nostra” l’idea che, oltre a colpire – e dopo avere già colpito – uomini simbolo delle Istituzioni (quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), il potere “contrattuale” di “cosa nostra” si sarebbe ancor più accresciuto se fossero stati presi di mira monumenti al di fuori del territorio siciliano e, quindi, nel continente.

Sotto altro profilo, peraltro, tale “idea”, seppur personalmente non condivisa dal Riina nella parte in cui si escludeva la Sicilia e, soprattutto, Palermo per gli attentati […] tanto che sarà attuata fuori dal territorio siciliano soltanto dopo che questi sarà arrestato, appare del tutto consequenziale alla finalità comunque già balenata nella mente del Riina, quella di costringere le Istituzioni a concedere i benefici cui lo stesso Riina condizionava la cessazione della contrapposizione frontale che aveva dato luogo già alle stragi del 1992.

Infatti, il messaggio che si intendeva inviare sarebbe stato meglio e più direttamente percepito dal Governo della Repubblica (ineludibile interlocutore delle richieste di “cosa nostra”, essendo a questo in primo luogo riconducibile la linea di rigore carcerario già attuata subito dopo la strage di via D’Amelio) se le nuove stragi fossero state compiute in danno di monumenti e ancor più se non nella periferica Sicilia nella quale confinare il “problema mafia”, ma nelle principali città della Nazione, fatto che, nel contempo, per la reazione dell’opinione pubblica, inevitabilmente più diffusa anche in settori che fino ad allora avevano guardato con distacco, per la sua lontananza, al fenomeno mafioso, avrebbe con maggiore forza potuto indurre, appunto, il Governo a a cedere al ricatto e attenuare quindi l’azione di contrasto alla mafia

Un’importantissima conferma di tale nuova linea nella strategia di “cosa nostra” si ricava già nella dichiarazioni di un collaboratore di Giustizia appartenente ad altra organizzazione di tipo mafioso, Salvatore Annacondia.

[…] Nel corso dell’esame dell’ Annacondia è stato acquisito, col consenso delle parti, il Resoconto della audizione del predetto dinanzi la Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno della mafia in data 30 luglio 1993 allorché venne sentito per acquisire infonnazioni sulla criminalità pugliese.

Nel corso di tale audizione Annacondia spiega le ragioni e le modalità del suo “pentimento” (pag. 2475 e segg.) e, dopo avere ampiamente parlato di affari criminali della sua organizzazione, ad un certo punto (pag. 2504), il Presidente della Commissione chiede all’Annacondia se ha saputo degli attentati che vi erano stati in quei giorni in Italia e se ne avesse mai sentito parlare. Annacondia, tra l’altro, dichiara: “Signor presidente, non volli verbalizzare una certa cosa perché una persona può essere presa per un megalomane, ma feci un colloquio investigativo con il dottor Alberto Maritati nel quale io accennai ad attacchi e stragi ai musei. Ne parlai appunto con il dottor Maritati; PRESiDENTE: Quando?; SALVATORE ANNACONDIA: Alcuni mesi fa; PRESIDENTE: Può spiegare alla Commissione questa cosa?; SALVATORE ANNACONDIA: Ultimamente ai carceri dell’Asinara e di Rebibbia sono stati fatti gli stessi ragionamenti e gli accordi erano quelli oramai. Si doveva lanciare un piccolo segnale, ma il segnale grosso si doveva lanciare dopo il 20 luglio, se avessero rinnovato il 4i bis che scadeva il 20 luglio. Non è che non volevo verbalizzare questo fatto, ma non me la sentivo di farlo perché mi auguravo che non succedesse niente. Ne parlai poi con l’investigatore, il dottor Maritati, che mi venne ad ascoltare: tutti gli attacchi bisognava farli ai musei .. .. … Perché il museo fa parte della città, del paese, della storia. E adesso che sono passati all’attacco di più possono esserci grosse stragi, perché questa è gente.. .. … perché i prossimi attacchi, di cui si parlò, saranno diretti alla Sardegna … .. … Bisogna attaccare la Sardegna perché c’è l’Asinara, perché i turisti non devono andare più, perché la distruzione ai musei.. … …Su queste stragi non faccio supposizioni: a me tocca parlare, signor presidente, poi, le indagini sono affidate a voi. Vi dico che va cercato neI4i-bis; ……. .. PRESIDENTE: Può spiegare bene tra chi avvenivano i discorsi relativi agli attentati ai musei?; SALVATORE ANNACONDIA: E’coperto, signor presidente; PRESiDENTE: Non tra quali persone fisiche. Appartenenti a quali organizzazioni?; SALVATORE ANNACONDIA: Campania e Sicilia; PRESIDENTE: Se invece il 4i-bis fosse stato revocato non ci sarebbero stati gli attacchi ai musei. E lei dice che però, se la cosa va avanti, questi alzano il tiro; SALVATORE ANNACONDIA: Si, perché tutti sapevano che il 20 luglio sarebbe stato revocato”.

Più avanti (pag. 2537) il Commissario Fausti ritorna sull’argomento chiedendo maggiori precisazioni e “se ha avuto l’opportunità di esprimere queste preoccupazioni in altri colloqui con i magistrati inquirenti”. Annacondia aggiunge: “No, sto parlando adesso che sto fuori, che sto verbalizzando. Dissi ad un maggiore che non intendevo verbalizzare perché non mi sentivo di dire certe cose che potevano sembrare allucinogene. Il maggiore riferì queste mie parole al dottore Maritati. Quando mi è arrivata la prima notizia, è stato all’Asinara; per quel poco che stessimo all’Asinara, si parò del più e del meno, che bisognava .. e i napoletani dall’altra sezione, perché noi stavamo in una sezione dove eravamo pugliesi, calabresi e siciliani, era la prima sezione, mentre alla seconda sezione erano tutti napoletani.

OMISSIS stessa fonte, seppi pure di là che quanto prima si doveva iniziare a mettere qualche bomba a qualche museo … … … Perché già c’erano i guai di queste due stragi che erano avvenute a Palermo e allora le bombe si dovevano mettere davanti ai musei e non nelle ore che potevano causare la strage … … … Però posso dire che a Maritati dissi proprio che entro il 20 di luglio, se non veniva abolito questo 41-bis, ci sarebbero state delle stragi e degli attacchi ai musei, perché colpendo il museo colpisce il cuore dello Stato, colpisce l’amore degli italiani, colpisce l’opinione pubblica; …… …. PRESIDENTE: .. E si era anche parlato di fare attentati fuori dalla Sicilia? Questi attentati ai monumenti?; SALVATORE ANNACONDIA: Si, perché non è che in Sicilia ci siano bei monumenti. I monumenti belli sono a Roma, a Firenze, a Milano”.

* * * Orbene, rinviando, innanzitutto, a quanto già rilevato riguardo alla attendibilità generica del predetto collaborante (v. sopra Parte Prima della sentenza, Capitolo4, paragrafo 4.1), peraltro neppure contestata dalle difese (v., ad esempio, trascrizione della discussione della difesa degli imputati Subranni e Mori all’udienza del 9 marzo 2018), va osservato che il contributo conoscitivo offerto dall’ Annacondia appare di estrema importanza perché risalente ad epoca in cui non era ancora emersa all’esterno la strategia mafiosa diretta a condizionare l’azione del Governo al fine di attenuare gli effetti del rigore carcerario deciso e pianificato all’indomani della strage di Capaci e poi attuato all’indomani della strage di via D’Amelio.

Annacondia ha riferito di avere avvisato coloro che si occupavano della sua sicurezza dopo la decisione di collaborare con la Giustizia e, poi, anche il Dott. Maritati dell’intendimento di “cosa nostra”, in accordo con le altre organizzazioni mafiose campane, calabresi e pugliesi, di compiere attentati a monumenti proprio per ottenere la modifica del regime del 41 bis.

Ora, seppure non v’è un diretto riscontro delle confidenze anticipatamente fatte dall’Annacondia ai predetti soggetti rispettivamente nel gennaio e nel maggio del 1993, v’è, però, un importantissimo e sicuro riscontro, ancorché di natura indiretta, nel fatto che il predetto abbia, comunque, con certezza esplicitato quell’intendimento di “cosa nostra” già il 30 luglio 1993 in occasione della sua audizione dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia.

Invero, in proposito rileva, da un lato, il fatto che l’ Annacondia nella detta occasione non ha esitato ad indicare coloro che erano stati destinatari delle sue precedenti confidenze, così esponendosi al rischio, se non avesse detto il vero, di essere smentito e che, però, nessuna smentita è sopravvenuta, tanto che la propalazione dell’Annacondia è stata persino ripresa nella relazione redatta dal CESIS il 6 agosto 1993 nella quale, tra l’altro, si legge: “Le voci raccolte nel circuito carcerario dal pentito Annacondia sull ‘intendimento di effettuare attentati terroristici confermerebbero la determinazione di questi ambienti a reagire ali ‘attuale situazione, ritenuta disarticolante delle strutture criminali”; e, dall’altro, che, peraltro, ancora il 30 luglio 1993 (data dell’esternazione dell’Annacondia) non v’era alcuna certezza investigativa né sugli attentatori di Roma e Milano (e prima di Firenze), né sul movente di tali attentati ai monumenti, tanto che da molti anche qualificati investigatori si tendeva ad accreditare una pista internazionale.

Soltanto successivamente sarebbe emersa la riconducibilità degli attentati di Firenze, Roma e Milano a “cosa nostra” e ciò, dunque, rafforza in modo determinante l’attendibilità del racconto fatto dall’Annacondia sulla matrice mafiosa e sulla causale dei detti attentati, perché antecedente, comunque, anche a volere prendere a riferimento la data del 30 luglio 1993 anziché quelle delle precedenti informai i confidenze, alla gran mole di acquisizioni probatorie che soltanto successivamente avrebbero definitivamente accreditato quella matrice mafiosa e quella causale (v. sentenze di Firenze di cui si dirà più avanti).

Se così è, allora, deve ritenersi provato (non essendo, comunque, contestato dalle difese: v. trascrizione citata dell’udienza del 9 marzo 2018) che già nel settembre 1992 (e, quindi, in epoca certamente coincidente, anche a volere accreditare i tempi indicati da Mori e De Donno, con le sollecitazioni al dialogo dei Carabinieri pervenute a Riina per il tramite di Vito Ciancimino) “cosa nostra” ebbe a programmare la nuova strategia diretta a “uscire” dal territorio siciliano ed a colpire obiettivi che, per la loro notorietà anche internazionale e per la conseguente risonanza degli attentati, sarebbero serviti a far comprendere al Governo della Repubblica che soltanto con l’accettazione delle condizioni poste dall’organizzazione mafiosa sarebbero potuti cessare la contrapposizione frontale e, quindi, le stragi.

Le propalazioni dell’ Annacondia confermano, poi, che la principale delle condizioni poste da “cosa nostra” concerneva il regime del 41 bis e che, quindi, il messaggio ricattatorio della detta organizzazione mafiosa era indirizzato proprio al Governo della Repubblica cui competeva tanto l’applicazione che l’eventuale modifica di quel rigoroso regime carcerario.

[…] Che le stragi del 1993 fossero finalizzate a rafforzare il ricatto che “cosa nostra” aveva indirizzato nei confronti del Governo della Repubblica sin dall’estate dell’anno precedente allorché Riina aveva dettato le condizioni alle quali avrebbe potuto porre termine alle stragi, emerge con assoluta chiarezza, non soltanto dal complesso degli elementi probatori già sopra esaminati, ma anche dalle sentenze che, con giudizi ormai irrevocabili, si sono pronunziate su tutti gli attentati compiuti dall’associazione mafiosa in quell’anno al di fuori del territorio siciliano.

Tutte tali sentenze sono state acquisite nel corso del dibattimento e possono essere, dunque, utilizzate nei limiti già indicati nella Parte Prima, Capitolo 3, paragrafo 3.1 di questa sentenza cui si rimanda.

Ci si intende qui riferire, innanzitutto, alla sentenza della Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998 che per prima ha colto il nesso sussistente tra lo stato di “sofferenza” dei mafiosi per le condizioni carcerarie determinatesi dopo le stragi del 1992, alcune “improvvide iniziative” verificatesi nella stessa estate del 1992, il ricatto di “cosa nostra” allo Stato (per ottenere la modifica del regime del 41 bis, la chiusura delle carceri nelle isole e la modifica della legge sui “pentiti”) e, infine, l’attacco “in grande stile” lanciato dall’organizzazione mafiosa contro quest’ultimo nel 1993 per piegare definitivamente la controparte ed ottenere i benefici richiesti.

Si legge, invero, tra l’altro, in proposito, nella richiamata sentenza (v. pago 889): “Dall’esame di questo insieme di elementi si comprende che mai, prima del mese di luglio ’92, vi fu “attenzione “, da parte di esponenti mafiosi siciliani, verso il patrimonio artistico e storico nazionale; che la reazione statale alle stragi del 1992 (soprattutto a quelle di Capaci e via D’Amelio) determinò uno stato di “sofferenza” nei singoli e nei gruppi che componevano l’universo mafioso siciliano; che, lentamente, si fece strada nella mente di alcuni mafiosi l’idea di ricattare lo Stato attraverso la minaccia alle persone e ai beni culturali; che alcune improvvide iniziative “istituzionali” rafforzarono questo convincimento; che nell’aprile 1993, per la prima volta in questo Paese (e, probabilmente, per la prima volta in Europa), prese corpo la risoluzione criminosa di un attacco in grande stile allo Stato, per piegarlo, con la forza, agli interessi della consorteria criminosa di appartenenza (la “mafia “).

Lo scopo di questa campagna fu, genericamente, quello di ricostituire condizioni di “vivibilità” per l’associazione. Lo scopo generale prese corpo in una pluralità di scopi specifici e, in taluni casi, soggettivi. Scopi specifici furono l’abrogazione della normativa penitenziaria contemplante l’isolamento carcerario dei mafiosi; la chiusura di alcune carceri “speciali” (Pianosa e l’Asinara); la sterilizzazione della normativa sui “collaboratori di giustizia “; l’avvilimento della cultura dell’antimafia mediante l’eliminazione di un giornalista (a torto o a ragione, non interessa) considerato esponente di quella cultura” .

La Corte di Assise di Firenze, poi, non manifesta alcun dubbio nel ravvisare gli effetti perversi che l’iniziativa del ROS intrapresa attraverso Vito Ciancimino, indipendentemente dalle sue ragioni e pur attenendosi alla sola ricostruzione operata in quella sede dai testimoni Mori e De Donno (per la quale, tuttavia, la Corte non ha omesso di rilevare alcune contraddizioni, leggendosi a pago 954: “non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992 – secondo le parole del gen. Mori – si sia potuto presentare a “cosa nostra” per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-/0-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di “Show down “, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo”), aveva determinato in “cosa nostra”: secondo quella Corte “rafforzò, nei capi mafiosi dell’epoca, il convincimento che la strage fosse pagante” (v. ancora pago 954).

Ed ancora più chiara, sul punto, è la medesima sentenza laddove, nel prosieguo afferma che l’iniziativa del ROS nelle persone di un suo capitano, quindi De Donno, del suo vice comandante, quindi Mori, e del suo comandante, quindi Subranni, avendo tutte le caratteristiche della “trattativa”, aveva definitivamente convinto i capi mafiosi che le ulteriori stragi avrebbero portato vantaggi all’organizzazione mafiosa nel senso dell’accoglimento delle condizioni poste dai capi medesimi per la cessazione delle stragi medesime: “Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino.

Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa “, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del ROS, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa.

Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra “. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto questi aspetti vanno detto senz’altro alcune parole non equivoche.’ l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa “; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fil quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione” (pag. 954 cit.).

Analoghe conclusioni sul collegamento tra la richiesta dei mafiosi di eliminazione del regime del 41 bis e le stragi del 1993 e, ancor prima, quale postulato necessario, alla C.d. “trattativa” dell’estate del 1992 sono state raggiunte all’esito di un più recente processo per le medesime stragi continentali svoltosi nei confronti di altro imputato individuato successivamente.

Ci si intende riferire alla sentenza pronunziata dalla Corte di Assise di Appello di Firenze il 24 febbraio 2016 con la quale Tagliavia Francesco è stato condannato, appunto, per le stragi del 1993.

Tale sentenza è divenuta irrevocabile in data 20 febbraio 2017 ed è stata acquisita ali ‘udienza del 23 febbraio 2017. In essa, alle pago 118 e segg., riguardo al “movente della strategia stragista”, si legge: “Va qui richiamata l’approfondita motivazione, conseguente all’altrettanto approfondita istruzione dibattimentale, che la sentenza di primo grado in sintonia con precedenti pronunce, riserva all’individuazione del movente delle stragi e a quello, strettamente connesso, della cd. trattativa Stato-mafia. Su quest’ultimo argomento condivisibilmente il primo giudice si è astenuto dall’emettere valutazioni definitive, consapevole della necessità di ulteriori esplorazioni investigative necessarie e opportune dato che per la sua vischiosità, il tema mal si prestava a essere compiutamente e definitivamente accertato nell’ambito della istruzione dibattimentale, connotata dal principio del contraddittorio, da maggior rigidità procedimentale e dalla pubblicità della fase dibattimentale in corso (v. sentenza di primo grado pago 426-511).

Pur tuttavia si può considerare come dato storicamente e processualmente raggiunto, che la strategia stragista, strumento del tutto inconsueto per la compagine mafiosa tradizionalmente interessata più al controllo del territorio e di attività illecite lucrose, abbia rappresentato un salto di qualità strategico con l’attingimento di obiettivi diversi ed indifferenziati rispetto alla eliminazione di specifici avversari soggettivamente individuati, rispondente dunque non solo a impulsi utilitaristici di natura vendicativa, ma al raggiungimento di obiettivi di natura terroristica. All’elaborazione di tale strategia si giunse tuttavia per gradi, intravedendosi un vero e proprio distacco dal perseguimento dell’obiettivo immeditato, solo dopo il fallito attentato a Costanzo che effettivamente si colloca in posizione intermedia. Lo scopo prefissato di tutto ciò è stato individuato, attraverso puntigliosa ricostruzione nel corso della istruttoria dibattimentale di primo grado del presente procedimento, e da quelle dei processi che l’hanno preceduta, nell’eliminazione dell’art 41 bis dell’ordinamento penitenziario, all’epoca di recente conio, che oltre a rendere realmente più penosa la permanenza dei boss in ambito carcerario, avrebbe soprattutto scardinato il sistema comunicativo fino ad allora vigente, impedendo il flusso di contatti e dunque il mantenimento della influenza malavitosa ali ‘esterno dei boss detenuti, fino a quel momento garantita dalla permeabilità dell’istituzione carceraria nella concreta gestione.

Tutto ciò era già emerso per bocca dei collaboratori che avevano reso dichiarazioni accreditate dalle pronunce irrevocabili sulle stragi, richiamate dettagliatamente a pag. 430 della motivazione della sentenza di primo grado. La finalità ricattatoria è stata poi riversata da collaboratori anche nel corso del presente processo, Di Filippo Pasquale, Ciaramitaro Giovanni, Cannella Tullio, Pietro Romeo e Giovanni Brusca. Ed infine anche da Gaspare Spatuzza.

Altro dato acquisito al processo è poi l’interesse e la vicinanza manifestati dai vertici mafiosi e profusi in raccomandazioni di voto, sul partito di Forza Italia (v. dichiarazioni di Brusca Giovanni, Grigoli Salvatore e Cannella Tullio) , dopo la rinuncia alla istituzione di una nuova formazione politica di diretta emanazione mafiosa, “Sicilia Libera”.

Molto più complessa e non definitiva invece è la conclusione alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo. in ordine alla esatta individuazione dei termini e dello stadio raggiunto dalla cd. Trattativa, la cui esistenza comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi. è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto non avrebbe difatti senso alcuno se non ne fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obiettivi verso la presunta controparte.

In altri termini la pressione e le retrostanti pretese alla cui soddisfazione era legata la cessazione degli attentati terroristici dovevano essere chiaramente comprese dagli interlocutori. Si può dunque considerare provato che dopo la prima fase della cd. trattativa avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via d’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso lo natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione. Il programma delittuoso non si arrestò a maggior ragione dopo l’arresto di Riina la cui determinazione stragista fu raccolta da Bagarella”.

La stessa sentenza prosegue, poi, con altre considerazioni concernenti fatti non ancora esaminati in questa sentenza (dal mancato rinnovo dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis al successivo fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma, sino ai contatti, attraverso Vittorio Mangano, con Dell’Utri) e che, pertanto, saranno riprese soltanto successivamente.

Quel che qui rileva, intanto, è che nei processi conc1usisi con le sentenze sopra citate sono stati acquisiti molteplici elementi probatori che confortano e confermano gli elementi acquisiti in questa sede, che, a loro volta, provano, oltre ogni ragionevole dubbio, gli effetti che quell’improvvida iniziativa dei Carabinieri ebbe nel tramutare la pregressa strategia mafiosa di totale ed incondizionata contrapposizione allo Stato decisa dopo la sentenza del “maxi processo” in quella nuova di sfruttare la debolezza oggettivamente manifestata dallo Stato (perché, per i mafiosi, Mori rappresentava, appunto, lo Stato, stante ciò che lo stesso Mori aveva fatto loro intendere) allorché aveva chiesto loro quali fossero le condizioni per porre termine alle stragi e, quindi, stabilire, appunto, tali condizioni (prime delle quali non potevano che essere il miglioramento della condizione carceraria e l’eliminazione dell’ergastolo) e, poi, “ricordarle” ancora con le successive stragi del 1993 al fine di piegare definitivamente la resistenza dello Stato.


I negoziati con la mafia passo dopo passo  Si è visto sopra,[…], che può ritenersi provato, oltre ragionevole dubbio, che fu proprio l’improvvida iniziativa dei Carabinieri del R.O.S. ad indurre Riina a tentare di sfruttare ai propri fini quel segnale di debolezza delle Istituzioni che gli era pervenuto già dopo la strage di Capaci.

Costituisce, infatti, dato assolutamente incontestato ed incontrastato che già nei giorni immediatamente successivi alla detta strage il Cap. De Donno, su disposizione del suo superiore Col. Mori, ebbe a contattare Vito Ciancimino.

Ciò, infatti, risulta inequivocabilmente dalle dichiarazioni rese dagli stessi Mori e De Donno già nella testimonianza nel processo di Firenze.

Il detto momento iniziale dei contatti con Ciancimino, peraltro, viene sostanzialmente confermato da Mori e De Donno anche in una più recente conversazione telefonica intercettata 1’8 marzo 2012 ed acquisita agli atti, nonostante, tuttavia, i predetti, essendo in quel momento già nota l’indagine ed avendo la chiara consapevolezza di potere essere, appunto, intercettati […], tentino di ridimensionare tali contatti al fine di escludere il collegamento tra la propria iniziativa e l’uccisione del Dott. Borsellino (v. intercettazione citata quando, ad un certo momento, De Donno dice:”Quindi non siamo noi. Cioè, ammesso che i nostri contatti volessero essere ipotizzati come trattativa, non siamo noi, perché giugno … lui lo sa a giugno e noi a giugno non stavamo ancora a parlare con Ciancimino … …….. ma loro l’unico riferimento che fanno a noi è il fatto che dice che Borsellino sapeva della … dei contatti del ROS, perché glielo dice la Ferraro … ……. però, voglio di’ sono i contatti, cioè noi non stavamo discutendo con Ciancimino, quindi non si può ipotizzare che fosse quello … “; mentre Mori, ben consapevole, come si vedrà più avanti, a differenza di De Donno, degli sviluppi successivi di quei contatti, fa un fugace ma significativo riferimento all’avvicendamento al D.A.P. di cui si dirà nel Capitolo successivo: “ma no, ma il problema è questo … io penso che questo dipenda dal fatto che loro individuano a giugno il problema, quando viene tolto Amato e messo Capriotti, no? Che poi il 26 di giugno fa quel documento e innova un pochettino…”).

Ma, in ogni caso, che la finalità di quei contatti con Ciancimino fosse quella di utilizzare quest’ultimo (se non esclusivamente, quanto meno anche) quale canale di collegamento con i vertici mafiosi per sondare gli intendimenti degli stessi e tentare di porre termine a quell’attacco frontale che appariva foriero di ulteriori gravissimi lutti, risulta inequivocabilmente dimostrato dai contatti pressoché parallelamente intrapresi degli stessi Mori e De Donno con l’eventuale controparte istituzionale dei mafiosi e, dunque, con soggetti (la Dott.ssa Ferraro e la Dott.ssa Contri) in grado di informare (come in effetti fecero) rappresentanti del Governo principalmente interessati (rispettivamente il Ministro della Giustizia e il Presidente del Consiglio) per ottenere la relativa e necessaria “copertura politica” (v. Parte Terza, Capitolo 6 e, per alcune più specifiche conclusioni, il paragrafo 6.3).

Di ciò si è dato ampiamente conto nei Capitoli precedenti.

Sotto altro profilo, invece, risulta provato che certamente Vito Ciancimino ebbe ad informare Riina già sin dal suo primo approccio con il Cap. De Donno (dunque a giugno 1992), tanto da essere subito “delegato” a portare avanti quel contatto ancor prima che subentrasse anche il Col. Mori (fatto, poi, come pure si è già visto sopra, oggetto di ulteriore “informativa” di Vito Ciancimino ai vertici mafiosi e di ulteriore “autorizzazione” ad andare avanti nella prospettata richiesta di “trattativa”: v. Parte Terza, Capitolo 5 e, per alcune più specifiche conclusioni, il paragrafo 5.7.3).

Orbene, se queste sono le risultanze che possono già ritenersi assodate, perde allora pressoché rilevanza ricostruire in termini di certezza temporale i successivi sviluppi dei fatti appena ricordati, sui quali, invece, non è stato possibile acquisire elementi di altrettanta sicura certezza temporale.

E ci si intende riferire, da un lato, al momento in cui Mori ebbe, poi, personalmente a sollecitare a Vito Ciancimino una “trattativa” con quelle parole esplicite già più volte ricordate (“Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”) e, dall’altro, al momento in cui a Mori fu comunicata dallo stesso Vito Ciancimino l’accettazione della “trattativa” da parte dei vertici mafiosi (” … quelli accettano lo trattativa … “).

Sull’esatta collocazione temporale di tali sviluppi fattuali, invero, v’è contrasto anche per le ambigue risultanze degli scritti e delle dichiarazioni di Vito Ciancimino e per talune (almeno apparenti) contraddizioni della ricostruzione offerta da Mori e De Donno, alcune delle quali ben messe in evidenza già anche dalla Corte di Assise di Firenze con la sentenza prima ricordata del 6 giugno 1998.

Ed in proposito non è secondario rilevare che un seppure indiretto riscontro della incompletezza – se non della quanto meno parziale falsità – della ricostruzione degli accadi menti operata da Mori e De Donno nel processo di Firenze che ha dato luogo alle contraddizioni ed alle incongruenze evidenziate dalla Corte di Assise, si rinviene in quello scritto di Vito Cianci mino classificato “06” di cui si è già detto sopra nel Capitolo 5, paragrafo 5.7.2.

E’ bene premettere che si tratta di un manoscritto originale a matita attribuito a Vito Ciancimino […]. In tale scritto Vito Ciancimino annota di essere stato citato per deporre in quel medesimo processo di Firenze dalla difesa degli imputati, che, informata dai “clienti”, voleva così “sbugiardare” Mori e De Donno (v. scritto citato nel quale, tra l’altro, si legge: ” .. . sia Mori che De Donna hanno reso falsa testimonianza al processo di Firenze, a cui sono stato chiamato a testimoniare. In sostanza, la difesa degli imputati, appunto perché informate dai loro clienti, volevano che io deponessi per sbugiardare i Carabinieri, Col. Mori e Cap. De Donno … “).

Ora, è stato riscontrato, non soltanto che effettivamente Vito Ciancimino fu citato per deporre nel processo di Firenze e che lo stesso non rispose avvalendosi della relativa facoltà, ma soprattutto che Vito Ciancimino fu citato su richiesta dei difensori degli imputati Salvatore Riina e Giuseppe Graviano.

Conseguentemente, erano questi ultimi i “clienti” che avevano informato rispettivi difensori e che volevano “sbugiardare” Mori e De Donno per quanto già testimoniato in quel processo.

Ciò consente di escludere che l’episodio sul quale, secondo Vito Ciancimino, Mori e De Donno, avevano “reso falsa testimonianza al processo di Firenze” fosse quello della richiesta del passaporto (stante il riferimento pure contenuto in quel manoscritto alla revisione del processo dallo stesso Ciancimino “battezzato del passaporto”) o altro attinente personalmente ai rapporti tra i predetti e di dedurre, per ineludibile conseguenza logica, che doveva allora necessariamente trattarsi di fatti attinenti, sì, ai detti rapporti, ma che avevano coinvolto Riina e Graviano consentendo loro di venire a conoscenza e, dunque, fatti attinenti allo svolgimento della “trattativa” in maniera “falsa” testimoniati a Firenze da Mori e De Donno.

In ogni caso, va aggiunto che neppure appare utile, al predetto fine della collocazione temporale della “trattativa”, la testimonianza di Roberto Ciancimino perché questi ha potuto soltanto collocare nel periodo successivo alla strage di via D’Amelio il momento in cui il padre Vito ebbe a dirgli di avere avuto contatti con il Col. Mori e il Cap. De Donno (“Guardi, io non posso collocare nel tempo l’incontro tra mio fratello, mio padre e i Carabinieri. Io posso collocare nel tempo sicuramente quando mio padre mi ha informato di questi colloqui, che è stato sicuramente dopo le stragi mafiose, la strage Borsellino. Però quando mi ha informato non mi ha detto … … …. Ha detto ho avuto questi contatti per questo e questo … …… mio padre non ha detto li ho incontrati il giorno dopo, quindi non glieli so collocare. lo sono stato informato dopo”).

Più utile appare, invece, la testimonianza resa da Giovanni Ciancimino il 20 ottobre 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo, la cui trascrizione è stata acquisita su richiesta, ex art. 468 comma 4 bis C.p.p., degli imputati Subranni, Mori e De Donno e che, dunque, però, è utilizzabile solo nei confronti degli stessi.

Giovanni Ciancimino, che in questa sede si è avvalso della facoltà di non rispondere in quanto fratello dell’imputato Massimo Ciancimino, in quel processo, infatti, ritenne di testimoniare ed ha, quindi, raccontato che egli ebbe ad incontrare il padre Vito a Roma dopo circa venti o venticinque giorni dalla strage di Capaci e che fu in quella occasione che il padre gli riferì di essere stato contattato da importanti personaggi altolocati per trattare con l’« altra sponda» con ciò riferendosi ai mafiosi (”[…] P. M DOTT. DI MATTEO: ”Lei cosa intese con riferimento ”per contattare quelli dell’altra sponda “?; DICH. CIANCIMINO G.NNI: ”Intesi la mafia. Intesi questo, intesi la mafia… … …. “L’altra sponda “, lui spesso usava il termine “altra sponda” … … … Era un suo termine, non e’ un termini che lui disse… … . … Quella volta per la prima volta, perché, le ripeto Dottore, lui non usava mai la parola mafia, mafiosi, raramente. E lì litigammo furiosamente … ……. “E’ una cosa che può agevolare tutti”, lui ribadiva, perché io subito manifestati la mia … invece lui era sicuro di quello che … lui era sicuro di quello che faceva, era molto pieno di se, era molto sicuro, era molto convinto. Tant’è che io… io non ero solito, diciamo, avere contrasti con mio padre, perché raramente avevo … anche perché mio padre era un personaggio che raramente si poteva contraddire su tutte le tematiche, non so se. Non era un persona con cui normalmente si poteva dialogare e quindi discutere serenamente, lo dico … perché lui così, e io litigai furiosamente, tant’è che me ritornai …. … … Come, litigammo furiosamente, litigammo furiosamente, e lui mi disse: “io sono stato condannato a dieci anni, vuoi che mi faccio dieci anni di carcere? “, a me vuoi che mi faccio, e che cosa c’entro io, non so se. “lo se entro di nuovo in carcere questa volta muoio, non sono in grado di sopportare una condanna di questo tipo”. E io ci dissi: “ma scusa ma io che cosa, perché non sono io il tuo interlocutore”, non so se… .. . …. Ma io ero convinto … … …. Che lui intendesse dire che lui avrebbe potuto avere dei benefici. Dei benefici, tant’è che era ringalluzzito”) o, anzi, per meglio dire, che il padre più che parlare di contatti, aveva fatto riferimento ad un incarico ricevuto (”[…] DICH CIANCIMINO G.NNI: ”Incaricato, si, investito, lui … io ebbi la sensazione che lui …… … … Si, incaricato, incaricato. Lui ha avuto un compito, io ero convinto che lui… lui diede la sensazione di avere avuto. di essere stato investito di un compito e di potere trarre benefici … “), dicendosi, poi, assolutamente certo che tale colloquio fosse avvenuto prima della strage di via D’Amelio […] anche perché egli fu poi toccato particolarmente da tale strage dal momento che lavorava, in quel periodo, a stretto contatto col fratello di Agnese Borsellino (“DICH. CIANCIMINO  G.NNI: ”La strage di via D’Amelio a me mi tocco profondante anche più delle altre persone perché io fui colpito particolarmente da vicino da questa cosa, da questa tragedia … … … Fui colpito molto da vicino …. … …. Si. si. A parte lo sdegno che ovviamente hanno tutti per questa cosa, ma io oltre allo sdegno fui colpito da vicino … … … E glielo dico subito perché io quando ero all’ufficio legale della Cassa di Risparmio il mio, che poi il mio maestro tra l’altro, perché era più grande di me, é il capo … Noi eravamo divisi in settori all’ufficio legale, il capo del mio settore era l’avvocato Ninni PlRAINO, fratello di AGNESE BORSELLINO. Persona con cui io praticamente stavo a contatto otto ore. Io qualsiasi cosa, qualsiasi parere, qualsiasi cosa la sottoponevo a lui. Io … era il mio diretto superiore. Persona, tra l’altro squisita.[…]”).

Ugualmente utile appare, al fine qui in esame, anche la testimonianza di Fernanda Contri già sopra riportata nel Capitolo 6, paragrafo 6.2.1 cui si rinvia.

Ma, in realtà, l’individuazione più precisa dei dati temporali presenta, in questa sede, scarsa rilevanza ai fini della verifica dell’ipotesi accusatoria oggetto della contestazione di reato formulata nei confronti degli imputati qui giudicati, poiché, come pure si è voluto già precisare sin dagli esordi di questa Parte Terza della sentenza (v. Capitolo I), tale contestazione non concerne tanto la “trattativa” (che, in sé, infatti, non ha rilevanza penale), quanto piuttosto la minaccia rivolta dall’organizzazione mafiosa al Governo della Repubblica, dal momento che è tale minaccia che, se sussistente, integra la fattispecie criminosa prevista dall’art. 338 c.p.

Allora, se così è, appare del tutto evidente che ai fini della prova della detta fattispecie criminosa rileva soltanto accertare se una minaccia sia stata effettivamente formulata dall’organizzazione mafiosa e, in caso positivo, se sul fronte opposto, tal uno abbia eventualmente istigato o sollecitato tale minaccia o eventualmente anche soltanto rafforzato il proposito delittuoso minaccioso, nonché, infine, in caso di positivo esito della predetta verifica, se la minaccia, o attraverso gli stessi che l’avevano istigata ovvero attraverso altri soggetti, abbia in qualche modo raggiunto il suo destinatario individuato nel Governo della Repubblica, così integrando tutti gli elementi richiesti dalla norma penale.

Ora, si è visto che finora risulta provato:

– che l’organizzazione mafiosa, nel periodo compreso tra la fine del mese di giugno e l’inizio del mese di luglio (v. Parte Terza, Capitolo 12), ebbe a effettivamente a comprendere che avrebbe potuto utilizzare la grande manifestazione di forza, culminata nella strage di Capaci e che di lì a poco avrebbe potuto replicare con quella che poi sarebbe stata la strage di via D’Amelio (v. anche Parte Terza, Capitolo 4), per mitigare gli effetti per lei sfavorevoli della sentenza del maxi processo e, più in generale, della forte azione di contrasto, che, grazie all’opera incessante di Giovanni Falcone, lo Stato aveva intrapreso, e, dunque, per imporre a quest’ultimo, dalla posizione di forza raggiunta, la concessione di benefici soprattutto attinenti al tema carcerario (dal ritorno a quelle condizioni carcerarie che in passato avevano reso assolutamente sopportabile la detenzione dei mafiosi consentendo loro anche di continuare i propri affari illeciti e persino di mantenere i ruoli direttivi nell’organizzazione, sino alla eliminazione della pena dell’ergastolo che avrebbe reso per tutti possibile la speranza di un non lontano ritorno allo stato di libertà);

– che la ragione di tale mutata strategia, rispetto a quella di totale ed assoluta contrapposizione frontale precedentemente perseguita con scopi principalmente vendicativi e di imposizione di un primato incondizionato nel territorio siciliano controllato dall’organizzazione mafiosa (v. Parte Terza, Capitolo 2, paragrafo 2.1, nonché intercettazioni dei colloqui in carcere del Riina di cui si dirà più avanti nella Parte Quinta della sentenza), fu quella improvvida iniziativa dei Carabinieri (subito compresa da Vito Ciancimino e, quindi, riferita ai vertici mafiosi), perché questa fu percepita dalla medesima organizzazione come un segno di debolezza dello Stato e di disponibilità ad un dialogo che avrebbe potuto ragionevolmente consentire l’ottenimento di quei benefici sopra ricordati (v. ancora Parte Terza, Capitolo 12);

– che, dopo l’ulteriore segnale di forza lanciato dall’organizzazione mafiosa con la strage di via D’Amelio, il proposito “trattativista” e, quindi, la decisione di dettare le proprie condizioni per la cessazione della strategia stragista fu definitivamente rafforzato dall’ulteriore intervento del Col. Mori, il quale, ancor dopo (e nonostante) la detta gravissima strage di via D’Amelio che avrebbe dovuto determinare esclusivamente una risposta di tipo fortemente repressivo, aveva, invece, ribadito, peraltro questa volta espressamente, la volontà di instaurare un dialogo con i vertici mafiosi, proponendosi quale rappresentante delle Istituzioni a ciò autorizzato e delegato ovvero, quanto meno, ma ciò era già del tutto sufficiente per rafforzare quel proposito criminoso, facendo credere ai suoi interlocutori di essere stato effettivamente autorizzato e delegato (v. dichiarazioni dello stesso Mori);

– che tale ulteriore iniziativa del Mori aveva, quindi, indotto i vertici mafiosi a ritenere “percorribile” quella strada che avrebbe condotto ad ottenere gli auspicati benefici per l’organizzazione mafiosa e, dunque, anche al fine di superare la stasi nella “trattativa” che si era determinata dopo la formulazione delle proprie condizioni cui non era stata data alcuna risposta, a programmare ulteriori attacchi allo Stato, prima, negli ultimi mesi deI 1992, ancora in Sicilia (ad iniziare dall’uccisione del Dott. Grasso) che non si realizzarono per ragioni diverse, e, successivamente, dopo l’arresto di Riina, dovendosi comporre in qualche modo la volontà dei più stretti alleati di quest’ultimo con la volontà contraria di Bernardo Provenzano (v. ancora intercettazioni dei colloqui in carcere di Riina che saranno riportate nella Parte Quinta della sentenza), al di fuori della Sicilia e con il diverso obiettivo dei monumenti per costringere il Governo della Repubblica a riprendere il dialogo che appariva interrotto, piegandone definitivamente la resistenza all’accoglimento delle condizioni imposte già dal Riina.

Per l’effetto, in conclusione, non può che rilevarsi che non è necessaria, ai fini della verifica dell’ipotesi di reato contestata agli imputati, l’esatta collocazione temporale degli accadimenti succedutisi a partire dall’estate del 1992 quando risulti, comunque, accertata, oltre che ovviamente la minaccia rivolta dai vertici mafiosi allo Stato sotto forma di condizioni per la cessazione della contrapposizione frontale decisa in conseguenza dell’esito del “maxiprocesso”, la condotta dei soggetti che prima hanno istigato e sollecitato il detto proposito criminoso della minaccia e, poi, lo hanno altresì rafforzato così contribuendo alla sua ulteriore attuazione, con la precisazione, peraltro, che ciascuna delle due condotte prima delineate, sia quella istigatrice e sollecitatrice, sia, se successiva, quella agevolatrice e rafforzatrice del proposito criminoso, è idonea, di per sé, ad integrare la fattispecie concorsuale nel reato di minaccia che, poi, si sarebbe consumato successivamente con la percezione da parte del suo destinatario finale (il Governo della Repubblica, destinatario, infatti, espressamente individuato, come si vedrà meglio più avanti nella Parte Quinta della sentenza, dallo stesso Salvatore Riina in un colloquio in carcere intercettato il 18 agosto 2013: “…io o’ guviernu c’è vinniri (inc.) muorti c ‘è vinniri, o’ guviernu muorti c ‘hannu a dari…”).


Il cambio improvviso del capo delle carceri   Come si è già anticipato, taluni imputati contestano l’assioma da cui muove la Pubblica Accusa secondo cui il Direttore del D.A.P. Amato, dopo le stragi del 1992, in piena sintonia col Ministro Martelli, fosse strenuo fautore dell’applicazione del regime del c.d. 41 bis e, più in generale, della instaurazione di un regime carcerario di particolare rigore nei confronti dei detenuti più pericolosi ed, in primis, tra questi, proprio degli appartenenti all’associazione mafiosa resasi responsabile di quei efferati delitti.

Tale contestazione delle difese muove, invece, a sua volta, innanzitutto dalle dichiarazioni rese proprio dal Ministro Martelli già in altre sedi (infatti, specificamente contestate al teste Amato in sede di controesame) secondo cui Amato sarebbe stato, appunto contrario alla riapertura dei carceri di Pianosa e Asinara, al trasferimento dei detenuti deciso la notte successiva alla strage di via

D’Amelio e al regime del c.d. 41 bis, nonché, più in generale, all’eccessivo rigore carcerario nei confronti dei mafiosi, tanto da essersi sottratto dalla firma dei decreti di applicazione del 41 bis delegati dal Ministro al D.A.P. e da avere esplicitamente sollecitato una revisione in senso meno afflittivo del regime carcerario con l’appunto indirizzato al Ministro Conso il6 marzo 1993.

Orbene, quanto al primo punto, quello relativo alle pregresse dichiarazioni del Ministro Martelli sopra sintetizzate, va registrata, innanzitutto, la replica, a tratti veemente, del teste Amato che ha contestato puntigliosamente in fatto le affermazioni dell’ex Ministro, sentendosi addirittura “offeso” dalla ricostruzione degli avvenimenti successivi alle due stragi del 1992, per essersi egli, piuttosto, prodigato sia per la riapertura delle carceri di Pianosa e Asinara (“… la cosa che abbiamo fatto, che io ho fatto, è stata quella di riaprire … naturalmente c’è statala necessità di un certo periodo di tempo, Asinara e Pianosa … … … È stata una mia iniziativa. Cioè io ho preso, le dico subito, ho preso un Ispettore molto esperto degli istituti di pena, che era il dottor Ciccotti, Raffaele Ciccotti, un vecchio Ispettore, persona molto esperta, l’ho mandato immediatamente a Pianosa e all’Asinara perché mi indicasse i lavori che erano necessari fare per riadattare queste due isole, che avevamo abbandonato, a finalità penitenziarie, soprattutto per la riapertura dei reparti di massima sicurezza. Fornelli all’Asinara e la sezione Agrippa a Pianosa …. … … La prima cosa che noi abbiamo fatto è stata quella di riattivare le isole a fini penitenziari, l’isola di Pianosa e l’isola dell ‘Asinara, questo è quello che abbiamo fatto …….. Martelli era d’accordo su questo, era d’accordo”), sia per il trasferimento immediato dei detenuti ristretti nel carcere dell’Ucciardone nel corso della notte tra il 19 ed il 20 luglio 1992, smentendo, poi, quanto a quest’ultimo accadimento, che egli possa essere stato assente o non raggiungibile (“Poi il 19 luglio c’è stata la strage di via D’Amelio, mi pare il 19 luglio … . …. E io ricordo che la notte fra il 19 e il 20 luglio, cioè morto Borsellino e gli uomini della sua scorta, io passai, ricordo perfettamente, la notte in bianco, con i miei collaboratori al Ministero della Giustizia e ci siamo sentiti con il ministro Martelli. Il quale mi disse: “Mettimi in condizione di fare un atto politico significativo di risposta immediata alla strage di via D’Amelio”. E allora quello che facemmo fu che io telefonai, parlammo con il Direttore dell’Ucciardone, mi pare fosse Rizza, adesso però posso pure sbagliarmi, perché son passati più di vent’anni, e gli ho detto: “Senti, dammi, prepariamo insieme un elenco “, credo di cinquantacinque detenuti, che stavano all’Ucciardone, particolarmente pericolosi, e ho portato, ho predisposto il decreto e il Ministro lo ha firmato … … … Li abbiamo trasferiti a Pianosa e credo abbiamo subito contestualmente applicato il 41 bis. Io ricordo che la notte fra il 19 e il 20 mi sono occupato di questo. Infatti io ho qui… poi se la Corte vuole posso darle questa documentazione, questo è il provvedimento di trasferimento dei detenuti a Pianosa, che è stato predisposto, e difatti il Direttore del carcere, dopo il provvedimento di Martelli di trasferimento immediato a Pianosa di questi cinquantacinque detenuti … perché in questi cinquantasette giorni tra Falcone e Borsellino Pianosa era pronta ad accogliere i primi detenuti. Avevamo fatto con grande urgenza i lavori necessari, mentre credo che l’Asinara è stata pronta qualche giorno dopo di Pianosa”) e rivendicando l’indispensabile apporto proprio del D.A.P. da lui diretto per l’individuazione sia dei detenuti da trasferire dall’Ucciardone nella immediatezza, sia di quelli cui applicare il regime del 41 bis […].

D’altra parte, che il Ministro potesse effettivamente fare tutto da solo o solo con il proprio Ufficio di Gabinetto ed il proprio staff senza passare attraverso un intervento del D.A.P. quanto meno per individuare materialmente i nominativi dei detenuti da trasferire, oltre che inverosimile, appare smentito dallo stesso Capo di Gabinetto dell’epoca, la Dott.ssa Pomodoro, la quale, infatti, in proposito ha riferito che immediatamente dopo la strage di via D’Amelio, appunto, il Ministro Martelli si mise in contatto con l’Ufficio di Gabinetto e con il D.A.P. per preparare i decreti di trasferimento dei detenuti dall’Ucciardone poi firmati quella stessa notte (“… posso dirle che il Ministro Martelli, saputo della strage di Via D’Amelio, si mise in contatto con gli uffici oltre che del Gabinetto anche del Dipartimento e pretese che venisse messo in atto il provvedimento di cui lei sta parlando. Il provvedimento, come lei sa, fu firmato dal Ministro nella notte all’aeroporto, anzi all’alba all’aeroporto. Poi il provvedimento non poteva non essere predisposto dall’ufficio, dal dipartimento penitenziario, perché lì erano i dati relativi a questo personale. Venne predisposto e fu portato alla attenzione del Ministro quando il Ministro ritornò da Palermo;…P. M DI MATTEO: ”…. Venne predisposto quindi dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria materialmente; DICH. POMODORO: ”Certo, certo, non poteva dire diversamente”).

E non appare certo verosimile che, in un frangente così grave, gli Uffici del D.A.P. possano essersi attivati senza che il suo Direttore ne fosse quanto meno informato.

Claudio Martelli, d’altra parte, sentito nel corso del presente dibattimento, pur collocando Amato, così come, peraltro, anche il Capo della Polizia Parisi, tra coloro che avevano manifestato perplessità sulla riapertura delle carceri di Pianosa e Asinara […] e confermando, in generale, le perplessità dello stesso Amato sull’utilità del regime del 41 bis […], tuttavia, ha sostanzialmente ridimensionato il tenore delle dichiarazioni sulla “assenza” di Amato nella notte successiva alla strage di via D’Amelio.

Martelli, infatti, ha precisato che in quel momento gli fu detto dalle Dott.sse Pomodoro e Ferraro soltanto che Amato non era rintracciabile e che, pertanto, egli non ha ragione per dire che quest’ultimo non avesse voluto firmare i provvedimenti di trasferimento dei detenuti nelle isole […].

Ora, delle dichiarazioni della Dott.ssa Pomodoro si è già detto prima.

Quanto alle dichiarazioni della Dott.ssa Ferraro, sono state già sopra evidenziate, esaminando la vicenda dei suoi incontri con De Donno e Mori a proposito dei contatti con Vito Ciancimino, le gravi perplessità che le stesse hanno suscitato in questa sede nella Corte (v. sopra Capitolo 6, paragrafo 6.1.3).

E tali perplessità sussistono anche riguardo a quanto dichiarato dalla Ferraro sugli accadimenti della notte successiva alla strage di via D’Amelio.

La Ferraro, infatti, in sintesi, sul punto, ha dichiarato, da un lato, che ella stessa ebbe quella notte a parlare con Amato e che questi si era, appunto, rifiutato di predisporre i decreti di trasferimento dei detenuti, tanto che fu ella stessa, poi, materialmente a predisporli e farli firmare al Ministro (“La notte della strage del Dottor Borsellino il Dottor Amato, quando lo chiamai per incarico del Ministro Martelli dalla Prefettura di Palermo, mi disse che non condivideva quel trasferimento immediato, che comunque non spettava a lui di scrivere il decreto. Poi io lo passai al Ministro, alla fine il decreto l’ho scritto io … … …. Lo ha firmato i Ministro all’aeroporto di Palermo. […]”) e ciò su indicazione di quest’ultimo appena informato della contrarietà che Nicolò Amato, contattato telefonicamente, aveva manifestato (“…quando lo chiamai mi disse che non era d’accordo. E alla mia insistenza, e nella seconda telefonata, mi pare di ricordare che disse che comunque non era competenza sua di scrivere il decreto … per il trasferimento. Non parliamo di 41 bis, noi parliamo di trasferimento …. … … Per cui il Ministro Martelli mi chiese: «Sei in grado tu di scriverlo?» lo dissi: «Sì, basta che ho un posto dove consultare le norme e una macchina da scrivere, poi lo scriviamo. Se la decisione del Governo è questa, si fa». E quindi loro sono andati, come dicevo prima, a casa Borsellino e io ho scritto il decreto”), ma, poi, la Ferraro ha anche aggiunto che, in sua presenza, il

Ministro Martelli aveva parlato con Amato […].

Orbene, come si vede, v’è un insanabile contrasto tra la Ferraro, da un lato, secondo la quale Amato fu rintracciato e si rifiutò di collaborare per il trasferimento dei detenuti nelle isole e Martelli e Pomodoro dall’altro, secondo i quali, invece, non fu possibile rintracciare Amato.

In ogni caso, la Ferraro è stata inequivocabilmente smentita da Martelli, che pure non può sospettarsi di atteggiamento benevolo nei confronti di Amato come si evince dal complesso delle sue dichiarazioni, sul fatto che quest’ultimo fu rintracciato ed ebbe a rifiutarsi di collaborare, circostanze che Martelli altrimenti avrebbe ben ricordato e riferito, tanto più se, come raccontato dalla Ferraro, in quell’occasione egli avesse effettivamente parlato direttamente con Amato.

D’altra parte, appare inverosimile, come già sopra rilevato, che, secondo quanto testimoniato dalla Ferraro, addirittura, non soltanto Amato, ma tutti gli uffici del DAP possano essere stati esautorati nella predisposizione dei provvedimenti di trasferimento dei detenuti e che questi possano essere stati elaborati del tutto autonomamente in Prefettura a Palermo con l’ausilio del solo Capo di Gabinetto del Prefetto e senza neppure che fossero coinvolti il Direttore o il Vice Direttore (entrambi pure inverosimilmente non “rintracciabili” secondo la Ferraro) della Casa Circondariale di Palermo “Ucciardone” presso la quale era allocata la maggior parte dei detenuti da trasferire […].

La stessa Dott.ssa Pomodoro, infatti, ha rappresentato l’indispensabile apporto degli uffici del D.A.P. […]. Non resta, quindi, che prendere atto degli stessi dubbi infine manifestati dalla Ferraro sui suoi attuali ricordi (“Questo ricordo. Poi se il Ministro Martelli ricorda un’altra cosa io a questo punto non so più che cosa ricordo .. “).

Ma, a prescindere dallo specifico episodio della notte successiva alla strage di via D’Amelio, nonché da quanto riferito da Martelli sulle perplessità manifestate da Amato in generale sul regime del 41 bis e, per contro, dalle stesse dichiarazioni di quest’ultimo riguardo al suo intervento sollecitatorio nel confronti del primo per pervenire, dopo la strage di Capaci, alla modifica dell’art. 41 bis in senso più restrittivo e rigoroso […], emerge con chiarezza soprattutto dalla documentazione acquisita agli atti che il Direttore Amato non fosse contrario, nella immediatezza delle stragi, alla applicazione del più rigoroso regime carcerario nei confronti dei mafiosi.

Ci si intende riferire, in particolare, all’«Appunto per il Signor Capo di gabinetto dell’On. Ministro» trasmesso dal Direttore Generale del D.A.P. Nicolò Amato in data 30 luglio 1992 (doc. S.a della produzione del P.M. Del 26 settembre 2013).

[…] Come si vede, dunque, il 30 luglio 1992, undici giorni dopo la strage di via D’Amelio e quel trasferimento dei detenuti di cui si è detto, il Direttore Amato, non soltanto, ribadiva l’adesione alla pregressa determinazione di applicare in via d’urgenza il regime del 41 bis a circa 400 detenuti, riservandosi, anzi, di proporre ulteriori applicazioni del regime speciale ad personam di cui al secondo comma dell’art. 41 bis […], ma, addirittura, proponeva una più estesa applicazione del regime carcerario più rigoroso utilizzando lo strumento del primo comma dell’art. 41 bis in un

“Circuito Penitenziario Speciale” comprendente ben 121 istituti penitenziari, con il concreto effetto, a prescindere dai regimi restrittivi individuali da mantenere ed, anzi, come detto, incrementare, che circa cinquemila detenuti che sarebbero stati assegnati a quegli istituti (e, tra questi, tutti i detenuti per mafia) sarebbero stati, di fatto, soggetti ad un regime carcerario pressoché analogo a quello conseguente ai decreti individuali ex art. 41 bis comma secondo […].

Ulteriore conferma riguardo alla piena condivisione da parte del Direttore Amato del più rigoroso regime carcerario da applicarsi ai mafiosi, si trae, poi, dal successivo “Appunto per il Signor Capo di gabinetto dell’On. Ministro” trasmesso dal predetto il 24 agosto 1992 dopo avere appreso delle perplessità sollevate dal Direttore Generale Reggente degli Affari Penali del Ministero della

Giustizia Dott.ssa Liliana Ferraro con altro “Appunto per il Signor Capo di Gabinetto dell’On. Ministro” a sua volta inviato il 12 agosto 1992 […], avendo il Direttore Amato, tra l’altro, scritto: “Con l’appunto n. 289 del 30 luglio 1992 si è proposto di applicare il regime di cui al primo comma dell’articolo 41 bis della legge n. 354 del 1975 a sezioni e parti di istituti penitenziari ….. destinate alla custodia dei detenuti più pericolosi …. La proposta … .integra dunque con coerenza un progetto di gestione penitenziaria già disposto dall’Onorevole Ministro – e interamente condiviso da questo Dipartimento – avviato con la emanazione di alcuni decreti con cui un analogo regime – anzi un regime ancora più restrittivo – è stato applicato a diverse centinaia di detenuti lato sensu mafiosi …….. …. Ma in entrambe le ipotesi ……. Gli effetti consistono sempre nella sospensione di alcune delle normali regole di trattamento ….. Ed anche i presupposti sono equivalenti … ……. Un tale regime penitenziario più restrittivo appare giusto ed opportuno applicarlo a tutti i detenuti lato sensu mafiosi ….. Si è dunque pensato di distinguere, nell’ambito dei circa 5 mila detenuti lato sensu mafiosi, quelli di maggiore rilievo, i c.d. capi, applicando ad essi il regime restrittivo in forma personale e più rigorosa ai sensi del secondo comma dell ‘art. 41 bis, e gli altri, ai quali il regime restrittivo verrebbe applicato in forma lievemente meno rigorosa e con riferimento agli spazi nei quali saranno custoditi. Da qui la proposta del 30 luglio .. …. .. .In conclusione, la proposta del 30 luglio riguarda una questione di estrema delicatezza, che concerne la politica della gestione penitenziaria …. Appare, pertanto, necessario che la questione stessa venga portata direttamente all’alta valutazione politica dell’Onorevole Ministro. Tanto più che, come è noto alla S. v., le assicurazioni fornite all’Onorevole Minsitro in occasione di una riunione da lui presieduta l’11 agosto, potrebbero averlo convinto che il decreto stesso sia già in attuazione” .

Come si vede, dunque, anche in tal caso, Nicolò Amato, non soltanto ha ribadito di condividere la linea di rigore intrapresa d’intesa col Ministro Martelli […], ma ha insistito affinché il regime carcerario speciale analogo a quello di cui all’art. 41 bis comma secondo […] fosse, di fatto e in concreto, applicato a tutti i detenuti per mafia […].

Né appare possibile ricavare una ipotetica dissociazione del Direttore Amato dalla applicazione del regime del 41 bis dalla circostanza che i decreti emessi direttamente dal D.A.P. su delega del Ministro Martelli dal settembre 1992 furono firmati dal Vice Direttore Fazzioli.

Invero, in proposito, occorre rilevare non soltanto che lo stesso Fazzioli ha negato che in proposito vi sia stata alcuna divergenza con Amato e più in generale tra il D.A.P. e il Ministro sul trasferimento dei detenuti o sull’applicazione del 41 bis […], ma, soprattutto, che la predetta delega, in forza della quale vennero emessi, poi, oltre cinquecento decreti applicativi del regime del 41 bis, venne sollecitata dallo stesso Amato […] e sarebbe, pertanto, del tutto illogico, a prescindere da quanto dichiarato dal medesimo Amato, che quest’ultimo, eventualmente contrario ad applicare il regime del 41 bis, abbia, però, addirittura sollecitato la delega al suo ufficio e, poi, comunque, quanto meno consentito, pur potendo ovviamente opporsi o impartire una diversa direttiva, che un numero così rilevante di decreti applicativi di quel regime fossero effettivamente emessi in un breve lasso di tempo.

Ugualmente, l’evidente schieramento del Direttore Amato in favore di un regime di rigore carcerario idoneo ad interrompere qualsiasi contatto dei detenuti mafiosi tra di loro e con l’esterno, a parere di questa Corte, appare confermato anche da una attenta lettura del documento del 6 marzo 1993, pure, invece, citato dalle difese di alcuni degli imputati per sostenere la contrarietà di Amato al detto regime.

[…] Orbene, in sostanza, dal documento di Nicolò Amato si ricava che quest’ultimo si è posto, innanzitutto, il problema della provvisorietà proprio della disciplina del 41 bis e della conseguente necessità di pensare per tempo ad interventi legislativi che potessero soddisfare le medesime esigenze di sicurezza perseguite col D.L. del giugno 1992 con un carattere questa volta di definitività.

Così, mentre si proponeva l’abbandono dei decreti emessi nella situazione di emergenzialità del luglio-novembre 1992, però, nel contempo, si prevedeva, da un lato, il concentramento dei detenuti mafiosi o comunque criminalmente più pericolosi in alcuni istituti specificamente individuati ed attrezzati (quelli di Asinara, Pianosa, Cuneo, Ascoli Piceno e Spoleto), e, dall’altro, l’introduzione per legge di una serie di misure idonee a recidere del tutto ogni possibilità di collegamento degli stessi con i sodali e con le organizzazioni di provenienza, delineando, per l’effetto, in concreto, un regime di certo complessivamente più penalizzante per tali detenuti rispetto a quello loro applicato con i decreti emergenziali prima ricordati.

[…] Più in generale, poi, si coglie dalla lettura del documento in esame la costante attenzione del Direttore Amato nel distinguere sempre, nell’ineluttabile “revisione” dei decreti applicativi del regime del 41 bis, i detenuti più pericolosi (mafiosi, sequestratori di persona, narcotrafficanti), cui, comunque, assicurare – questa volta, come detto, con carattere di definitività – un regime carcerario di assoluto rigore, che, seppur depurato da inutili limitazioni, non avrebbe potuto di certo considerarsi meno afflittivo per i detti detenuti più pericolosi e, in particolare, per quel che qui rileva, per i detenuti di mafia, i quali, sarebbero stati stabilmente reclusi in carceri lontane dai luoghi di residenza, senza la benché minima possibilità di comunicare né tra loro, né con l’esterno a causa della sollecitata integrale registrazione dei loro colloqui.

[…] Ciò, peraltro, senza dimenticare neppure la soddisfazione per la sostituzione di Amato espressa nella telefonata del 14 giugno 1993 dalla sedicente “Falange Armata”, sigla nata nel mondo carcerario e di cui ebbe ad avvalersi anche “cosa nostra”, come si vedrà nel successivo Capitolo 34 […].

La ricerca delle ragioni che diedero luogo nel giugno 1993 alla sostituzione del Direttore del D.A.P. Amato è stata oggetto di un’ampia attività istruttoria, all’esito della quale può, innanzitutto, ritenersi accertato che tale sostituzione fu voluta – e, di fatto, imposta al Ministro Conso ed al Presidente del Consiglio Ciampi – dall’allora Presidente della Repubblica Scalfaro.

Tale risultanza emerge, innanzitutto, dal puntuale racconto del teste Fabbri, vice Cappellano generale delle carceri, il quale, infatti, ha riferito non soltanto che fu Scalfaro a comunicare a lui e a Mons. Curioni, in occasione di una visita al Quirinale, che Amato sarebbe stato sostituito […], ma che addirittura Scalfaro ebbe ancora in loro presenza a telefonare al Ministro Conso per preannunziargli la visita dei Cappellani proprio per individuare con questi il sostituto di Amato […].

Il teste, inoltre, ha riferito, da un lato, che tale colloquio col Presidente Scalfaro avvenne in prossimità dell’effettiva sostituzione di Amato […] e, dall’altro, che il Ministro Conso, quando i

Cappellani si recarono da lui, fu preso quasi dallo sconforto per quella decisione che avrebbe dovuto prendere e ciò a riprova che la stessa gli era stata sostanzialmente imposta da Scalfaro […].

D’altra parte, ancora secondo il teste Fabbri, lo stesso Ministro Conso in quella occasione disse espressamente che la sostituzione di Amato era voluta dal Presidente Scalfaro […].

Tale testimonianza conferma, quindi, quanto già dichiarato dallo stesso Nicolò Amato, il quale ha, a sua volta, riferito che il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica Gifuni ebbe a dirgli che, appunto, la sua sostituzione era stata decisa dal Presidente Scalfaro[…].

Il teste Gifuni, pur non ricordando tale specifica interlocuzione con Amato[…] ha, però, confermato che la sostituzione di quest’ultimo fu voluta dal Presidente Scalfaro […] il quale, quindi, propose che Nicolò Amato, appunto, venisse sostituito col Dott. Capriotti che lo stesso Scalfaro già conosceva […]. Il teste Gifuni, peraltro, ha confermato anche che la decisione di quella sostituzione non fu estemporanea […]

In tale contesto, quindi, certamente sorprende la dichiarazione sopra già riportata resa dal Presidente Scalfaro il 15 dicembre 2010 (verbale acquisito quale atto divenuto irripetibile a seguito del sopravvenuto decesso del teste), allorché il predetto ha riferito di non sapere nulla riguardo all’avvicendamento al vertice del D.A.P. tra il Dott. Nicolò Amato e il Dott. Adalberto Capriotti (”Nulla so in ordine ali ‘avvicendamento avvenuto a/ vertice del D.A.P. tra il dr. Nicolò Amato e il dr. Adalberto Capriotti nel giugno 1993. Nessuno mi mise al corrente delle motivazioni che portarono a tale avvicendamento”), che, ove si volesse escludere la consapevole reticenza del teste, può trovare una qualche giustificazione soltanto nella dimenticanza degli accadimenti a causa del lungo tempo trascorso o di patologie dovute all’età avanzata.

Questa Corte, non avendo potuto procedere all’esame diretto del teste, non ha elementi sufficienti per propendere per la prima piuttosto che per la seconda delle ipotesi, tanto più che, per la prima, quella della consapevole reticenza, depone sicuramente la cura – se non la preoccupazione – con la quale il detto teste, in assenza e prima di qualsiasi domanda o cenno, ha spontaneamente escluso la sussistenza, non soltanto di una qualsiasi possibile “trattativa tra Stato e mafia” (“Voglio subito precisare che, più in generale, sia quando ero ministro della Repubblica Italiana che successivamente ricoprendo la carica di Presidente della Repubblica, nessuno mi ha mai messo al corrente né io ebbi altrimenti notizie di alcun genere cu presunte trattative tra lo Stato e la criminalità organizzata”), ma anche il possibile legame tra il regime del 41 bis e le stragi del 1993 […]; per la seconda ipotesi, quella dell’effettivo offuscamento se non cancellazione del ricordo, depone, invece, il fatto che il teste non abbia neppure ricordato gli accadimenti della notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 (“Non ricordo se durante la notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 si tenne, presso la sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri, una riunione straordinaria del Consiglio Supremo di Difesa … … …. Nell’immediatezza di quegli attentati l ‘On. Ciampi, allora Presidente del Consiglio, non mi espresse il suo convincimento ci,.ca un concreto pericolo di colpo di stato”), che, per la loro tragicità, si prestavano ad imprimere un ricordo indelebile nelle menti dei protagonisti […].

Ma, in ogni caso, quali che siano le ragioni che hanno indotto Scalfaro a negare di avere conoscenze in ordine all’avvicendamento di Amato, non v’è dubbio che alla stregua delle chiare testimonianze sopra ricordate (Fabbri, Amato e Gifuni, riscontrate, peraltro, ampiamente, quanto meno sul contesto, da quelle dei numerosi magistrati e funzionari del D.A.P. pure esaminati come testi nel corso del dibattimento) deve, con certezza, ricondursi alla volontà del Presidente Scalfaro la sostituzione dell’allora Direttore del D.A.P. Amato.

Tale risultanza, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa degli imputati Subranni e Mori in sede di discussione alle udienze del 15 e 16 marzo 2018 (v. trascrizione in atti), non è in contrasto con l’annotazione del Presidente Ciampi, […], della richiesta di Amato di avere un nuovo incarico, poiché tale richiesta, alla stregua del complesso delle risultanze acquisite, va letta, non già quale causa dell’avvicendamento del medesimo Amato, ma quale effetto della già adottata decisione, evidentemente ben compresa da quest’ultimo, di un prossimo avvicendamento già deciso, che, in effetti, di lì a poco fu attuato.

L’annotazione in questione, infatti, coincide con la richiesta di conferma delle voci che già circolavano riguardo alla sua sostituzione che Nicolò Amato ha riferito di avere fatto al Presidente Ciampi[…]. Può ragionevolmente ritenersi che tutte tali voci siano nate proprio dalla totale assenza dell’esternazione delle reali ragioni di quella sostituzione che sfuggivano alla comprensione dei più.

Così iniziarono a formularsi le più svariate ipotesi, che, però, possono oggi con certezza qualificarsi come infondate.

[…] E’ evidente, quindi, che già allora, nel mese di febbraio 1993, si era già prospettata in termini di assoluta concretezza (come dimostrato, poi, dagli eventi successivi e, in particolare, dall’effettiva nomina del Di Maggio, quale vice direttore del DAP, non promanante dal nuovo Direttore Capriotti) la volontà di sostituire Amato, volontà che, anche in questo caso, stante le risultanze che si ricavano dalle dichiarazioni del teste Fabbri prima già richiamate, non può che farsi risalire al Presidente della Repubblica Scalfaro, il quale, proprio in quei giorni aveva ricevuto il minaccioso esposto a firma dei sedicenti familiari dei detenuti di Pianosa.

Certo, non vi sono elementi sufficienti per concludere che il nome di Di Maggio fosse stato già fatto in quel frangente dal Presidente Scalfaro, ma – alla luce della testimonianza Canali – vi sono fondate ragioni per ritenere che, quanto meno nell’orbita di quei soggetti istituzionali che potevano orientare le determinazioni del Presidente Scalfaro (in primis, il Capo della Polizia Parisi, che, infatti, come si vedrà nel Capitolo successivo, interverrà in tal senso e in modo determinante sicuramente nel successivo mese di giugno), si fosse già pensato di ricorrere al Dott. Di Maggio per sostituire (di fatto, al di là della nomina a Direttore del meno vigoroso Dott. Capriotti) il Dott. Amato.

E’ inevitabile chiedersi, dunque, perché in quel momento si voleva il Dott. Di Maggio anziché il Dott. Amato e perché, poi, in effetti, si giunse in qualche modo a affidare al Di Maggio un ruolo di assoluto rilievo nella politica carceraria del D.A.P.

Una prima risposta sulla ragione della sostituzione di Amato voluta dal Presidente Scalfaro, in realtà, si ricava già dalle dichiarazioni del teste Gifuni, il quale, nel confermare che il Presidente Scalfaro non aveva in simpatia Amato e che, dunque, con questi non aveva rapporti cordiali, tuttavia si è lasciato quasi sfuggire un cenno al fatto che Scalfaro fosse insofferente verso le posizioni di

Amato ritenute “dure” (” … aveva una certa, come dire, insofferenza alle posizioni molte volte dure, non voglio definire forse troppo arroganti, del Dottor Nicolò Amato, quindi certamente c’era questa non simpatia, via, diciamo così”).

Ed una conferma assolutamente illuminante della volontà di attenuare quelle posizioni “dure” sul regime carcerario che animava il Presidente Scalfaro si trae, in modo certamente definitivo, oltre che dalla individuazione del sostituto del Direttore del D.A.P. nella persona del Dott. Capriotti, le cui posizioni ben diverse da quelle di Amato erano note (ed, in proposito, più avanti si vedrà la nota da questi redatta il 26 giugno 1993), soprattutto da un’annotazione rinvenuta sull’agenda dell’anno 1993 dell’allora (dall’11 maggio 1993) Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi […].


La “distensione” e il ministro Conso  II “manifesto” del nuovo indirizzo che i rinnovati vertici del D.A.P. Intesero adottare all’indomani del loro insediamento si rinviene in un “appunto” per il Capo di Gabinetto del Ministro datato 26 giugno 1993 (Doc. 5c della produzione del P.M. del 26 settembre 2013 acquisito con ordinanza del 17 ottobre 2013).

[…] E’ stato acquisito al fascicolo del dibattimento un “Appunto per il Signor Capo di Gabinetto dell’On. Ministro” a firma del Direttore Generale del D.A.P. Capriotti datato 26 giugno 1993 avente ad oggetto “Regime detentivo speciale ex art. 41 bis, n. 2, vigente ordinamento penitenziario. Eventuale proroga. Proposte” nel quale si legge: “Dal prossimo mese di luglio inizieranno a scadere i decreti ministeriali a suo tempo emessi per la sottoposizione di alcuni detenuti al regime speciale in oggetto indicato. Appare quindi opportuno rappresentare alla S. v., un riepilogo relativo a tale situazione. I detenuti attualmente sottoposti a regime speciale sono n. 909. […]

Più delicata e più complessa invece è la situazione dei soggetti (alla data del 25.6.1993 n. 536) sottoposti a regime speciale con decreto ministeriale a firma dell’On.le Ministro.

Di regola sono detenuti di particolare pericolosità, con posizione di preminenza nell’ambito dell’organizzazione criminale di appartenenza, capaci, se ristretti negli istituti ubicati nelle sedi di origine o comunque in istituti non adeguati, di ripristinare in qualche modo il controllo del territorio e quindi i traffici illeciti e la preparazione ed esecuzione di cruenti atti criminali.

E, per altro verso, non si può ignorare che tale regime detentivo speciale ha contribuito in modo significativo allo sviluppo di numerose attività di indagine giacché proprio alcuni detenuti ad esso sottoposti hanno deciso di collaborare con le Autorità giudiziarie e di Polizia.

Nel periodo che va dal 20 luglio al 15 settembre 1993 scadranno i provvedimenti relativi a n. 400 di questi detenuti. E’ quindi necessario ed urgente individuare un indirizzo unitario, all’esito delle valutazioni tecniche e politiche, relativo alla opportunità di prorogare o meno tale regime detentivo ad alle eventuali modalità da seguire. […]”.

Orbene, appare del tutto evidente che già all’indomani del suo insediamento, il nuovo vertice del D.A.P., in linea con il “mandato” di attenuare in qualche modo il rigore carcerario sostanzialmente ricevuto dal Presidente della Repubblica Scalfaro su sollecitazione del Capo della Polizia Parisi (il quale, d’altra parte, come si ricava dal precedente “appunto” a firma di Nicolò Amato del 6 marzo 1993[…]”), delinea e sottopone al Ministro un nuovo indirizzo di politica carceraria certamente meno rigoroso se è vero che la finalità dichiarata era quella di “non inasprire inutilmente il “clima” ali ‘interno degli istituti di pena”.

Infatti, con quel documento si propone al Ministro di non rinnovare, senza alcuna preventiva verifica e, quindi, senza alcun aggiornamento delle relative posizioni, tutti i decreti (relativi a ben 373 detenuti) che erano stati firmati, a decorrere dal settembre dell’anno precedente, dal Direttore Generale o dal Vice Direttore Generale del Dipartimento su delega del Ministro, mentre per gli altri decreti, quelli che erano stati firmati dal Ministro, si propone, invece, a parte la riduzione della durata dell’applicazione del regime del 41 bis da un anno a sei mesi, la preventiva richiesta di collaborazione alla D.N.A., alla D.I.A., al Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale Polizia Criminale – ed all’Ufficio Coordinamento dei Servizi di Sicurezza degli II.PP. al fine della acquisizione di notizie utili per individuare eventuali soggetti per i quali non fosse stata più necessaria la sottoposizione al regime speciale, prefiggendosi, comunque, però, l’obiettivo di ridurre di circa il 10% il numero dei soggetti sottoposti al regime speciale aggravato, di modo da lanciare “un segnale positivo di distensione”.

Appare del tutto evidente, in sostanza, dalla lettura del predetto atto di indirizzo proposto al Ministro il mutamento dell’ottica che sino ad allora aveva condotto alla applicazione ed al mantenimento del regime carcerario di estremo rigore: non più quella della tutela delle esigenze primarie di sicurezza necessarie per interrompere i collegamenti tra i detenuti e l’organizzazione criminale di appartenenza responsabile di efferati delitti e, nel contempo, della necessità per Istituzioni di dare una forte risposta che potesse far comprendere alle organizzazioni mafiose l’improduttività dell’attacco sferrato contro lo Stato, facendone derivare soltanto conseguenze negative che potessero dissuaderle dalla prosecuzione dell’attacco medesimo; ma, adesso, al contrario, quella della sostanziale “mano tesa” delle Istituzioni, che, a fronte di quell’escalation di violenza senza precedenti culminata, neppure un anno prima, nella strage di via D’Amelio e, poi, ripresa ancora neanche un mese prima con la strage di via Georgofili a Firenze del 27 maggio 1993, che aveva visto perire persino una bambina (di 9 anni) e una neonata (di appena 50 giorni), e senza dimenticare tutti gli altri non meno gravi fatti delittuosi del periodo intermedio (dalla uccisione di agenti della polizia penitenziari a sino all’attentato – per fortuna non riuscito – ai danni del giornalista Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993 nella via Fauro a Roma), proponeva ora di ridurre, quanto meno nel numero dei soggetti destinatari, il regime di rigore carcerario con il solo fine di lanciare “segnali di distensione” e di “non inasprire il clima”.

Ed è bene precisare che tale mutamento, contrariamente a quanto sostenuto dalle difese degli imputati, non può attribuirsi al mutamento della giurisprudenza della magistratura di sorveglianza sull’applicazione del regime del 41 bis, che, infatti, non viene in alcun modo citato nel documento qui in esame quale ragione delle determinazioni proposte.

[…] Ciò detto, deve chiedersi se tale programma sia attribuibile al (solo) Dott. Capriotti che ebbe a firmare il documento, perché se così fosse troverebbe smentita la conclusione del Capitolo precedente.

Il Dott. Calabria, vice direttore dell’Ufficio detenuti del D.A.P., sentito il 20 febbraio 2015, il cui nome è annotato nel documento in alto a destra, ha spiegato che quel documento certamente venne redatto, come di consueto stante la materia, nell’ambito dell’Ufficio Detenuti, ma, altrettanto certamente, su indicazione dei vertici del D.A.P. (sia il Direttore Capriotti che il Vice Direttore

Di Maggio) e dopo averlo con questi concordato, tanto che il funzionario incaricato – in questo caso, appunto, lo stesso Dott. Calabria – vi apponeva la propria firma per conferma che il testo redatto corrispondesse alle indicazioni ricevute e per consentire, nel contempo, ai vertici del D.A.P. di individuare l’interlocutore per eventuali correzioni […].

Come si vede, dunque, il Dott. Calabria, che, stante la sigla apposta su quel documento deve individuarsi quale funzionario incaricato di sovraintendere alla sua redazione da parte dei dipendenti dell’Ufficio Detenuti, non ha manifestato alcun dubbio sul fatto che la paternità del documento medesimo debba farsi risalire non solo al Direttore Capriotti che, ovviamente, per il suo ruolo lo sottoscrisse, ma espressamente anche al Vice Direttore Di Maggio.

Ciò indipendentemente da quanto il medesimo Dott. Calabria, poi, a conferma, ha ricavato da un’annotazione nel documento (in alto a destra), nella quale ha egli ha ritenuto di riconoscere la grafia di Di Maggio e che, ancora secondo il teste, avrebbe, appunto, confermato che quest’ultimo ebbe a concordare con quanto scritto al Ministro[…].

E deve dirsi, in proposito, che, ancorché il Dott. Calabria abbia erroneamente individuato la grafia del Dott. Di Maggio, la conclusione da lui tratta è stata, comunque, confermata da Livia Pomodoro, Capo di Gabinetto del Ministro, allorché ha riconosciuto la propria grafia.

All’udienza del 27 febbraio 2015, infatti, anche alla predetta teste è stato mostrato l’appunto per il Ministro del 26 giugno 1993 con l’annotazione a margine di cui si è detto, in forza della quale la teste medesima ha dichiarato che doveva necessariamente da questa ricavarsi che ella aveva informato il Ministro e che questi, poi, le aveva restituito il documento, dicendole di restare in attesa di ulteriori informazioni già richieste al Dott. Di Maggio […].

Ed è opportuno, in ogni caso, evidenziare sin d’ora, per dirimere qualsiasi dubbio sulla annotazione a margine del documento in esame e sulla ventilata ipotesi che Di Maggio possa essere poi intervenuto sul Ministro quando questi decise nel luglio 1993 di disattendere i suggerimenti del D.A.P. e di prorogare i decreti in scadenza, che, se ciò fosse effettivamente accaduto, il Ministro Conso se ne sarebbe ricordato e lo avrebbe riferito, cosa che, invece, come si vedrà, non è accaduta, avendo quest’ultimo fatto riferimento esclusivamente alla sua preesistente convinzione sulla “necessità di mantenere fermo il 41 bis e di rinnovare i decreti…”.

[…] D’altra parte, la conoscenza e la condivisione del documento in esame da parte del Dott. Di Maggio si ricava anche da un altro appunto datato 14 luglio 1993 rinvenuto al D.A.P. di cui ha riferito il teste Sebastiano Ardita all’udienza dell’11 dicembre 2014.

In particolare, il detto teste ha riferito che, a seguito di una ricerca sollecitata dal Dott. Chelazzi, aveva, altresì, reperito un appunto del Dott. Di Maggio datato 14 luglio 1993, mostratogli e da lui riconosciuto […], nel quale si faceva riferimento all’opportunità di “sottoporre a controllo preventivo anche le posizioni attenuate” […].

Il teste, quindi, ha detto che la generica espressione prima ricordata non è del tutto chiara e richiede un’interpretazione […]. Ma la Corte non ha dubbi che si tratta di un’espressione che deve essere necessariamente collegata all’«appunto» per il Ministro del 26 giugno 1993 nel quale, come si è già visto sopra, proponendo di non prorogare il regime del 41 bis per i detenuti già sottoposti al detto regime con i decreti adottati dal Direttore o dal vice Direttore del D.A.P. su delega del Ministro, si escludeva persino qualsiasi preventiva verifica delle singole posizioni.

A ciò si riferisce l’appunto del 14 luglio 1993 nel quale, evidentemente, Di Maggio recependo l’indicazione del Ministro Conso, invita gli Uffici sottordinati (nella specie l’Ufficio Quarto) ad effettuare i “controlli preventivi” (quindi, la preventiva richiesta alle Forze dell’Ordine) anche per “le posizioni attenuate” (quindi, quelle di cui ai decreti adottati Direttore o dal vice Direttore del D.A.P. su delega del Ministro), spiegando la contraddittorietà di tale nuovo suggerimento (“bisognerebbe sottoporre a controllo preventivo anche le posizioni attenuate”) rispetto a quanto indicato nel documento del 26 giugno 1993, con il volere del Ministro (“l’Onorevole Ministro è d’accordo”).

Ma quel che, in ogni caso, qui rileva è che anche tale appunto autografo del Dott. Di Maggio datato 14 luglio 1993 conferma che quest’ultimo era stato pienamente coinvolto nell’iniziativa condensata nel documento del 26 giugno 1993, tanto da parlarne egli stesso con il Ministro (coerentemente, d’altra parte, al suo ruolo di effettivo “capo” operativo del D.A.P.), facendo derivare, poi, da tale colloquio, neppure una disposizione imperativa per gli Uffici a lui sottoposti, ma soltanto quel suggerimento (“bisognerebbe sottoporre a controllo preventivo anche le posizioni attenuate”) che denota già da solo la condivisione della diversa indicazione del documento del 26 giugno 1993, semmai soltanto da integrare – in modo meramente eventuale, come dimostrato dall’uso del condizionale da parte del Di Maggio – con il “controllo preventivo” delle singole posizioni.

Si ha la conferma, allora, che Francesco Di Maggio, se non ispirò il contenuto di quel documento, cosa che certamente appare più probabile per essersi egli insediato al D.A.P. di fatto ancor prima di Capriotti e per il suo carattere dominante di cui si è detto, certamente, comunque, quanto meno concordò sul suo contenuto.

D’altra parte, appare veramente inverosimile e improbabile che il Dott. Capriotti, appena immessosi in quella funzione e del tutto spaesato per il repentino e da lui non previsto catapultamento in quel ruolo di Direttore del D.A.P., nei pochissimi giorni intercorsi prima del 26 giugno, possa avere elaborato quel nuovo indirizzo da sottoporre al Ministro Conso.

Al contrario, ben più verosimile e probabile appare, invece, che possa essere stato il Dott. Francesco Di Maggio a dare quel nuovo indirizzo sia perché, come si è detto, già insediatosi al D.A.P. ancora prima del Dott. Capriotti e con più tempo a disposizione, quindi, per elaborarlo, sia, soprattutto, perché, a differenza del Dott. Capriotti, Francesco Di Maggio già preparava il suo arrivo al D.A.P. Da diversi mesi, almeno dal mese di febbraio precedente, e, dunque, sicuramente aveva avuto modo di acquisire adeguata cognizione della situazione a quel momento esistente riguardo alla gestione dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis.

Ma quel che rileva è che, chiunque ne sia stato l’autore e ispiratore, Di Maggio abbia condiviso il contenuto programmatico di quel documento, dal quale non risulta si sia mai dissociato.

D’altra parte il nuovo indirizzo era certamente in linea e coerente con le ragioni che avevano indotto il Presidente della Repubblica Scalfaro, su sollecitazione del Capo della Polizia Parisi, a fare proprio il nome di Di Maggio al Presidente del Consiglio Ciampi.

Si vuole dire, in altre parole, che, se ricondotto quel documento (quanto meno anche) al volere del Dott. Di Maggio come sembra non possa esservi dubbio alla stregua delle risultanze prima esposte, nello stesso non può che rinvenirsi l’immediata esecuzione ed attuazione del “mandato” che gli si era inteso attribuire da coloro che ne avevano propugnato la nomina.

[…] Si è già visto sopra che, come riferito dal teste Calabria, a quell’«Appunto» che delineava la nuova linea del D.A.P. di gestione dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis in vista dell’approssimarsi delle prime scadenze annuali di tali provvedimenti non seguì alcuna espressa risposta di condivisione, recepimento o respingimento da parte del suo destinatario, il Ministro della Giustizia Giovanni Conso […].

E ciò consente di escludere, quindi, anche che quel mutamento di indirizzo fosse stato concordato dai vertici del D.A.P. con il Ministro o che, addirittura, fosse stato sollecitato da quest’ultimo ai medesimi vertici del D.A.P.

Due diverse acquisizioni probatorie confermano inequivocabilmente ed incontestabilmente tale affermazione.

Innanzitutto, vi sono le stesse trancianti dichiarazioni rese dal Ministro Conso alla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze in data 24 settembre 2002 di cui si è già fatto cenno sopra.

[…] Il secondo elemento confermativo, invece, è di tipo fattuale: il Ministro Conso disattese del tutto quei suggerimenti condensati nel documento del 26 giugno 1993 procedendo a prorogare, già in data 16 luglio 1993, tutti i decreti che sarebbero scaduti tra il 20 e il 21 luglio successivi, con esclusione soltanto di quei detenuti (appena 19 su 244) per i quali la posizione giuridica era mutata e vi erano, pertanto, profili formali che ostavano alla proroga.

Ed è significativo anche che tale proroga della quasi totalità dei decreti in scadenza sia stata decisa, contrariamente a quanto suggerito dai vertici del D.A.P. col documento del 26 giugno 1993, senza neppure interpellare la Direzione Nazionale Antimafia ed i responsabili delle Forze dell’Ordine ai fini dell’aggiornamento delle posizioni di quei detenuti.

Insomma, non v’è dubbio che sino a quel momento, mentre il “nuovo” D.A.P. nelle persone di Capriotti e Di Maggio suggeriva di lanciare “segnali di distensione” e di “non inasprire il clima” intraprendendo il nuovo corso voluto dal Presidente Scalfaro, il Ministro della Giustizia Conso reiterava la linea “dura” confermando quella del suo predecessore Martelli […].

In sostanza, fino a quel momento, la minaccia mafiosa, al cui centro vi era la questione carceraria e che pure aveva iniziato a farsi strada raggiungendo, attraverso il Capo della Polizia Parisi, il Presidente della Repubblica Scalfaro, non aveva ancora raggiunto il Governo nella persona del Ministro Conso.

Ciò, d’altra parte, conformemente all’indirizzo del Presidente del Consiglio Ciampi, che, appena due giorni prima di quell’«appunto» del D.A.P. Del 26 giugno 1993 che, ovviamente a sua insaputa, inopinatamente intendeva lanciare “segnali di distensione”, annotava sulla sua agenda, a seguito di un colloquio con il Direttore della D.I.A. De Gennaro, la necessità, ancora dopo la strage di

Firenze, di proseguire nella “linea della fermezza” (v. annotazione alla pagina del 24 giugno 1993 dell’agenda del Presidente Ciampi: “sostanzialmente fiducioso. I vari attentati, da quelli in Sicilia dello scorso anno a Firenze sono della stessa matrice (confermo tecniche e informativa). Continuare nella linea di fermezza “).


Il 41 bis e quella brutta aria  La linea del D.A.P. dopo la nomina dei nuovi vertici esposta nel documento del 26 giugno 1993 era stata nell’immediato sostanzialmente disattesa dal Ministro della Giustizia Conso, il quale, non condividendola […], provvide, di fatto, a prorogare pressoché in blocco (salvo limitate eccezioni determinate da sopravvenuti ostacoli formali), tutti i decreti applicativi del regime del 41 bis in scadenza tra il 20 e il 21 luglio 1993 senza neppure quella preventiva interlocuzione con le Forze dell’Ordine suggerita dal D.A.P. nel citato documento.

Ciò nonostante, all’indomani delle bombe del 27 luglio 1993 – e, peraltro, dopo, che quello stesso giorno il Vice Direttore Di Maggio si era incontrato con il Col. Mori per parlare del problema dei detenuti mafiosi (v. annotazione alla pagina del giorno 27 luglio 1993 dell’agenda di Mori: “Dal dr. Di Maggio (problema detenuti mafiosi)” sulla quale si tornerà) – il D.A.P., nonostante non vi fosse stato alcun recepimento della direttiva del 26 giugno 1993 da parte del Ministro, in vista della scadenza di un altro gruppo di provvedimenti applicativi del regime del 41 bis prevista per la data del 24 agosto 1993, si attiva chiedendo questa volta, con una nota del 29 luglio 1993 dell’Ufficio Detenuti (si tratta di una nota non acquisita agli atti, ma il cui contenuto si ricava pressoché integralmente dal verbale delle sommane informazioni rese da Loris D’Ambrosio alla Procura di Firenze il 28 maggio 2002 prodotto dalla difesa degli imputati Subranni e Mori all’udienza del 10 ottobre 2013), il preventivo parere alla Direzione Nazionale Antimafia e alle varie Forze dell’Ordine, nell’ottica evidente di limitare la proroga ai casi assolutamente necessari, rappresentando che la “delicata situazione generale” imponeva, sì, da un lato, di soddisfare le esigenze di sicurezza, ordine pubblico e contrasto alla criminalità organizzata, ma, dall’altro, però, anche “di non inasprire inutilmente il < > all’interno degli istituti di pena”.

Come si vede, dunque, all’indomani delle stragi della fine di luglio 1993, il D.A.P., nonostante le precedenti contrarie determinazioni del Ministro e, probabilmente per la prima volta (secondo quanto si ricava dall’esame del Dott. D’Ambrosio di cui si è detto, nel quale lo stesso teste sottolinea, poi, anche la natura politica di quella iniziativa: “…è una scelta politica che fa il

Dipartimento .. “), riprende ancora l’indirizzo programmatico esposto nel documento del 26 giugno 1993 nell’intento ivi dichiarato di dare “un segnale positivo di distensione” e di “non inasprire il clima”.

Non solo, ma con la citata nota del 29 luglio 1993 il D.A.P., nella medesima ottica, trasmette persino l’elenco dei decreti scaduti il 20 e 21 luglio 1993 già prorogati dal Ministro e per i quali, dunque, non vi sarebbe stata alcuna necessità di aggiornare le posizioni dei singoli detenuti, così che appare chiaro l’intento sottostante di pervenire eventualmente alla revoca di taluna di quelle proroghe indiscriminate che evidentemente avevano contrariato il D.A.P. […].

E ciò nonostante, in quegli stessi giorni, il Vice Direttore del D.A.P. Di Maggio proclamasse in sede di Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica la necessità di mantenere fermo il regime del 41 bis.

Ciò conferma che alla linea “ufficiale” del D.A.P., che, in quel momento e nel contesto di quelle riunioni del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica ai cui partecipanti era ben chiara l’assoluta necessità, dopo le bombe del 27-28 luglio 1993, di non dare segnali di cedimento sul fronte dell’applicazione del regime carcerario più rigoroso, non poteva che essere nel senso della fermezza, si contrapponeva, nella pratica, una linea più accomodante che mirava, invece, proprio a lanciare quei segnali di ripensamento del regime carcerario più rigoroso col dichiarato fine di “non inasprire il clima” nelle carceri e, quindi, di ottenere, piegandosi, di fatto, al “ricatto” della mafia, che questa recedesse dalla strategia stragista.

[…] Si è fatto cenno sopra, peraltro, anche all’intervista rilasciata da Di Maggio il 22 agosto 1993 (v. sopra Capitolo 23, paragrafo 23.4), che, sia pure in modo non esplicito, lasciava, comunque, trasparire un approccio alla questione del 41 bis non proprio in linea con l’assoluta fermezza proclamata in sede di Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica dallo stesso Di Maggio.

E che tale linea “non ufficiale” cominciasse a prendere piede si può ricavare indirettamente anche dalla nota a firma del Dott. Di Maggio indirizzata alla Procura di Palermo il 28 agosto 1993 (v. produzione della difesa di Subranni e Mori in data 8 ottobre 2015) nella quale, tra l’altro, si legge: “…concordo sulla opportunità che del gruppo di lavoro faccia parte un magistrato della Procura

Distrettuale Antimafia. Resto in attesa della designazione e mi riservo di comunicare la data del programmato primo incontro”.

Da tale nota può ricavarsi, infatti, che, ad un certo momento, la Procura di Palermo, uno degli uffici più esposti sul fronte del contrasto al fenomeno mafioso, ebbe a indicare al D.A.P. l’opportunità di coinvolgere un magistrato di quella Procura in un apposito gruppo di lavoro presso il D.A.P. con l’evidente intento di interloquire in occasione delle scadenze annuali dei decreti di proroga.

[…] Ora, l’esame congiunto e complessivo dei documenti sopra indicati, dimostra che la Procura di Palermo, che non era stata direttamente coinvolta in occasione della scadenza dei decreti del 24 agosto (perché la nota del 29 luglio 1993 era stata inviata soltanto alla D.N.A. e alle Forze dell’Ordine), venuta a conoscenza di quella determinazione del D.A.P., si è immediatamente attivata, per rimediare a quel mancato coinvolgimento ed al rischio di una indiscriminata riduzione dei decreti applicativi del regime del 41 bis (sul punto e sulle “preoccupazioni” della Procura di Palermo si veda anche la testimonianza del Procuratore Aggiunto Vittorio Aliquò sulle notizie che cominciavano a giungere riguardo alle proroghe dei decreti: “Sì, agli inizi sicuramente era rigorosa, perché molte di quelle criticità sembravano più o meno bloccate e quindi era molto rigorosa.

Successivamente ci fu un momento di discussione sulle proroghe, se era lecito o non lecito prorogarle, se era opportuno o non era opportuno e mi arrivò anche qualche notizia che mi diceva che forse il Ministro era disponibile a ridurre fortemente o a eliminare questa … Per noi era una norma utile, utilissima anzi, per cui aspettavamo con preoccupazione una manifestazione … … … Non me lo ricordo precisamente come si è arrivato, non me lo ricordo, ricordo due cose, che c’era una discussione diciamo in vari. .. Su vari piani, per cui io lo seppi avendolo appreso nell’ambiente proprio … Mi pare che sia stato Di Maggio a suo tempo a dirmelo che era … A darmi un primo accenno, poi per cui questo discorso si era cominciato a diffondere, questa notizia. Ne parlammo … Ne parlai io con Caselli, che era lui contrario a una sospensione di questo sistema, perché il sistema dava dei buoni risultati, però come sia nato a distanza di tanti anni… … … .. Probabilmente non lo posso dire con certezza, ma molto probabilmente era lui, perché di solito parlavo con lui”), chiedendo la costituzione di un gruppo di lavoro apposito presso il D.A.P. stesso, tanto che, dopo la riunione tenutasi il 7 settembre 1993, l’Ufficio Detenuti, a differenza di quanto fatto il 29 luglio 1993, questa volta, appunto, con nota del 21 settembre 1993, chiede direttamente alla Procura di Palermo gli aggiornamenti sulla situazione di tredici detenuti per i quali il decreto applicativo del 41 bis sarebbe scaduto il successivo 21 ottobre 1993.

Tuttavia, la nuova prassi sarebbe stata a breve sostanzialmente privata di qualsiasi efficacia in relazione ad un ben più consistente numero di detenuti per i quali, già dal primo giorno del successivo mese di novembre 1993, sarebbero venuti a scadenza i decreti applicativi del regime del 41 bis.

[…] Si è appena evidenziato che la necessità di motivare singolarmente provvedimenti di proroga per ciascuno dei detenuti cui erano rivolti, sopravvenuta a seguito della pronunzia della Corte Costituzionale ricordata sopra nel Capitolo 22, paragrafo 22.1, avrebbe naturalmente richiesto che fossero acquisite informazioni tempestivamente, di modo da consentire l’elaborazione delle singole motivazioni prima della scadenza di ciascun decreto.

[…] Ciò, però, poi non è avvenuto per un rilevante e ben più consistente numero di decreti che sarebbero venuti a scadenza già nei primi giorni di novembre 1993. Si tratta complessivamente di n. 334 decreti in scadenza che il Ministro Conso, andando di contrario avviso all’orientamento sino a quel momento propugnato, non avrebbe più prorogato.

[…] Ebbene, prima di esaminare più dettagliatamente tale mancata proroga di decreti applicativi del regime del 41 bis, deve evidenziarsi che, come emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale, per tale consistente numero di decreti in scadenza la richiesta di parere venne inoltrata dal D.A.P. soltanto il 29 ottobre 1993 (pervenendo alla Procura di Palermo, peraltro, soltanto nella seconda mattinata del giorno successivo, sabato 30 ottobre) a fronte della scadenza in data l novembre 1993 (quindi, appena dopo due giorni costituiti, peraltro, dalle giornate di sabato 30 e domenica 31 ottobre) di ben novanta di tali decreti, seguita dalla scadenza in data 6 novembre 1993 (quindi, appena sette giorni dopo) di ulteriori settantasette decreti e, ancora, in data 10 novembre 1993 (dopo dodici giorni) di altri 59 decreti e, pertanto, della scadenza di un numero di decreti complessivamente pari a duecentoventi sei […].

In proposito, il teste Andrea Calabria all’udienza del 20 febbraio 2015, dopo avere confermato di avere scritto egli, dopo una decisione dell’Ufficio, quella richiesta di informazioni datata 29 ottobre 1993 in vista della decisione sulla proroga o meno dei decreti con scadenza dall’l novembre successivo[…], non ha saputo spiegare, però, perché tale richiesta fu fatta soltanto pochi giorni prima delle prime scadenze dei decreti, non escludendo neppure che ciò possa essere derivato da una decisione dei vertici del D.A.P. […], tanto più che egli in quel periodo stava già iniziando a trasferire ad altri le proprie competenze in vista del suo trasferimento […].

Incalzato, inoltre, il teste ha aggiunto di non sapere, in realtà, se antecedentemente alla richiesta del 29 ottobre 1993 fossero state già fatte altre richieste di informazioni agli uffici interessati […] ed ha escluso, però, con certezza che potessero esservi state richieste soltanto informali così come verbalizzato in occasione di un suo precedente esame […].

Su tale vicenda ha riferito in questa sede anche il teste Vittorio Aliquò, all’epoca procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Il detto teste, in particolare, ha riferito che, appunto, soltanto alla vigilia della scadenza dell’l novembre 1993 pervenne alla Procura di Palermo una lettera con la quale si chiedeva il parere riguardo alla proroga del regime del 41 bis per un rilevante numero di detenuti, i cui nomi, peraltro, erano contenuti in un elenco allegato senza alcuna specificazione neppure dell’ufficio di Procura di riferimento, così da rendere impossibile una risposta motivatamente dettagliata […].

Ed infatti, come ancora riferito dal teste Aliquò, fu necessariamente data un risposta di contrarietà alla non proroga in termini di assoluta generalità anche per la sensazione di cedimento che la diversa determinazione avrebbe inevitabilmente procurato […].

Ora, alla stregua della scelta temporale della richiesta di informazioni in vista di una scadenza che, essendo annuale, non maturava di certo all’improvviso, non può minimamente dubitarsi che la stessa sottintendeva già la chiara intenzione del Ministro di non prorogare in blocco quei decreti, così che quella tardiva richiesta serviva soltanto a “mettere a posto le carte” acquisendo il parere degli Uffici interessati, ma, nel contempo, impedendo di fatto a questi di potere fornire elementi che avrebbero ostacolato o, comunque, reso più difficoltosa l’attuazione di quell’intendimento del Ministro.

E che effettivamente tale intendimento fosse già maturato è stato confermato anche dallo stesso teste Vittorio Aliquò, il quale, infatti, ha riferito che, almeno quindici o venti giorni prima del 30 ottobre 1993, il Dott. Di Maggio, col quale aveva avuto modo di parlare personalmente, già gli aveva anticipato quell’intendimento del Ministro di non prorogare il regime del 41 bis […].

D’altra parte, anche l’annotazione del Di Maggio a margine della risposta della Procura di Palermo in data 30 ottobre 1993 depone nel senso di una già presa decisione di non prorogare i decreti in scadenza, laddove da essa sembra ricavarsi o che Di Maggio neppure fosse a conoscenza della pur tardiva richiesta del D.A.P. alla Procura della Repubblica […] e che, quindi, egli neppure si era posto il problema di richiedere le informazioni per l’eventuale proroga, essendo ciò del tutto inutile in conseguenza della decisione già assunta, ovvero, al più, ove la successiva annotazione sullo stesso documento debba riferirsi alla prima, che il Di Maggio sia stato ben consapevole di tale tardiva nota […]”.

Ciò rende vano il tentativo delle difese di “addebitare” alla Procura di Palermo la mancata proroga di quei decreti anche per non avere successivamente inviato le informazioni richieste, neppure per quei decreti che sarebbero scaduti dopo qualche tempo e per i quali sarebbe stato possibile, pertanto, inviare le informazioni.

[…] Lo “spessore criminale-mafioso” dei detenuti che beneficiarono della mancata proroga di cui al paragrafo precedente è stato oggetto di una lunga e ripetuta diatriba tra Accusa e Difesa durante tutto l’arco dell’istruttoria dibattimentale.

In proposito, ali ‘udienza del 12 gennaio 2017, è stato esaminato il teste Salvatore Bonferraro, sostituto commissario in servizio presso la D.I.A. sin dal 1992, il quale ha riferito:

– di avere individuato gli esponenti criminali di maggiore rilievo per i quali nel novembre 1993 non era stata prorogata l’applicazione del regime del 41 bis O.P. […], accertando, poi, se a taluni di questi fosse stato successivamente riapplicato il regime medesimo […];

– di avere, così, individuato numerosi soggetti appartenenti a “cosa nostra” in quell’elenco di 334 detenuti […];

[…] – che tutti i soggetti dell’elenco relativo alla mancata proroga del regime del 41 bis avevano già una significativa caratura criminale tanto che, appunto, erano stati già sottoposti a quel regime […].

Nella medesima udienza del 12 gennaio 2017, nel corso dell’esame del predetto teste Bonferraro, è stata, poi, acquisita, con l’accordo delle parti, un’informativa redatta dalla D.I.A. di Palermo il 16 marzo 2012 nella quale vengono indicati i principali e più importanti detenuti che beneficiarono della mancata proroga in questione.

Ebbene, tra detenuti appartenenti a “cosa nostra” In tale informativa sono elencati:

l) Accardo Giuseppe – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Partanna;

2) Bontempo Scavo Cesare, “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Tortorici;

3) Di Carlo Andrea – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Altofonte, fratello di Francesco Di Carlo;

4) Di Trapani Diego – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Cinisi;

5) Farinella Giuseppe – capo del “mandamento” mafioso di San Mauro Castelverde;

6) Ferrera Francesco – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Catania dei “Ferrera – Cavadduzzu'” ,

7) Fidanzati Giuseppe – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa dell’ Arenella;

8) Gaeta Giuseppe – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Termini Imerese;

9) Geraci Antonino – capo del “mandamento” mafioso di Partinico;

10) Greco Domenico – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Alcamo;

1l) Miano Luigi – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Catania;

12) Prestifilippo Giovanni – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Ciaculli e componente della “commissione”;

13) Scrima Francesco – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Porta Nuova nella quale ha ricoperto anche le cariche di “sottocapo” e di “consigliere”;

14) Spadaro Francesco – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Porta Nuova nella quale ha ricoperto anche la carica di “sottocapo”;

15) Spina Raffaele – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa della Noce;

16) Vitale Vito – “uomo d’onore” e successivamente capo della “famiglia” mafiosa di Partinico,

Orbene, come si vede, nel predetto elenco sono ricompresi esponenti mafiosi di primo piano e di grande e notorio rilievo nell’ambito dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, primi fra tutti, Antonino (detto “Nenè”) Geraci, storico capo mafia di Partinico e Giuseppe Farinell a, storico capo mafia di San Mauro Castelverde con competenza su un vasto territorio madonita, entrambi componenti, peraltro, della Commissione Provinciale di “cosa nostra” e ciò senza tralasciare, poi, la presenza di altri esponenti mafiosi appartenenti a storiche “famiglie” dell’organizzazione mafiosa, quali Francesco Spadaro (figlio del noto Tommaso detto “Masino” Spadaro), Vito Vitale, Spina Raffaele (cognato del noto Raffaele Ganci), Francesco Scrima, Luigi Miano, Giuseppe Gaeta, Giuseppe Fidanzati, Prestifilippo Giovanni (già pure componente della “Commissione”), Diego Di Trapani e Cesare Bontempo Scavo.

Ai predetti si devono aggiungere, inoltre, Grippi Leonardo, cognato di Tagliavia Francesco condannato per la strage di via D’Amelio e per le stragi del 1993, e Giuliano Giuseppe, esponente di spicco della “famiglia” mafiosa di Brancaccio, come si è visto ricordati dal teste Bonferraro nel corso della sua deposizione.

Nella stessa informativa si dà atto che ad alcuni dei predetti soggetti il regime del 41 bis è stato successivamente ripristinato (a Miano il 2811/94; a Di Carlo e Geraci il 3011/94; a Giuliano il 30/3/94; a Farinella il 2/8/94; a Grippi il 30/11/1994; a Vitale il 27/4/98; a Bontempo Scavo nel 2001).

E, per le valutazioni che successivamente saranno fatte, è opportuno sin d’ora evidenziare che molti dei predetti soggetti (quali Nené, Geraci, Giuseppe Farinella, Francesco Spadaro, Vito Vitale, Spina Raffaele, Giuseppe Gaeta, Giuseppe Fidanzati, Prestifilippo Giovanni, Diego Di Trapani, Grippi Leonardo e Giuliano Giuseppe) sono appartenenti a “famiglie” storicamente alleate ai “corIeonesi” .

Tra i detenuti appartenenti alla ‘ndrangheta in tale informativa, invece, sono elencati nove appartenenti alle principali cosche di tale organizzazione criminale (Chindamo Giosuè, Cianci Domenico, Facchineri Michele, Ficara Giovanni, Latella Antonino, Martino Domenico, Rao Luigi, Rositano Vincenzo e Zindaro Antonino).

Nell’informativa, ancora, sono elencati anche cinque appartenenti alla “sacra corona unita” (Capriati Antonio, De Vitis Nicola, Diomede Michele, Martorana Renato, Montani Andrea e Scarcia Antonio) e dieci appartenenti alla “camorra” (Letizia Antonio, Ascione Mario, Belforte Domencio, Di Martino Leonardo, Foria Salvatore, Maiale Cosimo, Pema Clemente, Samo Giuseppe, Tolomelli Rosario e Di Girolamo Carmine).

* * * […] Orbene, indipendentemente dal “nome” dei detenuti beneficiati, va, comunque, già respinto come illogico il tentativo di minimizzare il ruolo criminale di quei soggetti come se fino a quel momento (novembre 1993) fossero degli “sconosciuti” con un modesto ruolo criminale mafioso.

Ciò perché palesemente in contrasto sotto il profilo logico, col fatto che ai detti soggetti era stato, appunto, già applicato il regime del 41 bis, riservato, sin dalla sua introduzione, ai detenuti per gravi delitti di criminalità mafiosa con la finalità di impedire i collegamenti con sodali In stato di libertà e per fronteggiare “situazioni di emergenza”.

Si vuole dire, in altre parole, che se quei soggetti fossero stati effettivamente degli “sconosciuti” con un modesto ruolo criminale mafioso non sarebbero stati destinatari, nel 1992, all’indomani delle stragi, dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis.

[…] Per il resto, non può non rilevarsi, soprattutto riguardo ai detenuti mafiosi, che la decisione di non prorogare il regime del 41 bis costituiva in quel momento un fatto obiettivo idoneo a far percepire ai vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra” una inversione di tendenza nel senso dell’alleggerimento delle dure condizioni di detenzione cui i medesimi mafiosi erano stati sino a quel momento sottoposti.

Basti considerare, infatti, che, come già anticipato sopra, non soltanto tra i “beneficiati” vi erano anche tre “storici” capi-mafia (dunque, non certo “gregari di cosa nostra” secondo la definizione della difesa dell’imputato Dell’Utri in sede di discussione all’udienza del 23 marzo 2018) […]; ma, altresì, che la maggior parte dei predetti soggetti appartenevano a “famiglie” storicamente alleate dei “corleonesi”, così che ancor più quel segnale avrebbe potuto essere percepito da coloro, appunto i “corleonesi” che in quel momento storico erano i capi incontrastati dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, nulla rilevando, ovviamente, l’osservazione della difesa degli imputati Subranni e Mori (v. trascrizione discussione all’udienza del 16 marzo 2018) che altri “capi corleonesi” (tra cui, innanzitutto, Riina) continuassero ad essere detenuti al regime del 41 bis, dal momento che quel primo pur parziale segnale di cedimento consentiva di far sperare loro che la minaccia e ancor più l’attuazione di ulteriori stragi avrebbe potuto condurre alla già richiesta definitiva abolizione del medesimo regime del 41 bis per tutti i detenuti (ed in effetti, […], nei mesi immediatamente successivi, altri attentati furono programmati e in parte attuati con tale scopo).

 

Gli “appunti” e le analisi di Gianni De Gennaro  Negli stessi giorni, il 10 agosto 1993, anche il Direttore della D.I.A. De Gennaro scriveva una nota al Ministro dell’Interno cui allegava un documento elaborato dai funzionari della D.I.A. in ordine alle stragi dei precedenti 27 e 28 luglio 1993.

[…] Nel detto «appunto», quindi, tra l’altro, si legge:

“1. Le considerazioni e le riflessioni proposte nel presente studio muovono da precisi riferimenti e da dati di fatto che, in assenza di elementi probatori certi, possono, allo stato delle indagini, indicare un’attendibile chiave di lettura ed offrire un utile quadro di riferimento tanto agli investigatori impegnati nella identificazione degli autori dei delitti, quanto alle Autorità preposte alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

In tale ottica non si può prescindere da una sintetica rilettura delle vantazioni espresse dalla Direzione Investigativa Antimafia all’indomani delle stragi di Capaci, di Via D’Amelio e di Via Fauro.

Nel preciso convincimento che i fatti criminali di oggi trovino il loro logico presupposto nei luttuosi eventi verificatisi in Sicilia nella primavera del ’92, questa Direzione ritiene che la metodologia da seguire nel corso dell’analisi debba essere quella di un riesame, il più possibile completo, di tutti i gravi delitti che hanno insanguinato il nostro paese negli ultimi tredici mesi, alla ricerca non solo delle analogie che li colleghino tra loro, ma anche dì altri episodi e circostanze che non siano ancora apparsi direttamente interconnessi ovvero che siano sfuggiti fino ad oggi ad una organica e contestuale lettura.

2. La strage di Capaci e l’omicidio di Salvo Lima non possono non essere interpretati come due momenti significativi di una strategia di difesa di “cosa nostra”, elaborata in un momento in cui la stessa sopravvivenza dell’organizzazione era stata compromessa dalla definitività della sentenza di condanna del maxi-processo, dal crescente peso assunto dai collaboratori di giustizia, dalla sempre, più efficace risposta investigativa e dalla costante determinazione mostrata da Governo e Parlamento nel garantire l’esecuzione delle pene detentive con adeguato rigore.

Tale stato di cose ha obbligato l’organizzazione a riaffermare il proprio potere anche con reazioni violente, evitando, nel contempo, disgregazioni interne e fughe destabilizzanti.

In particolare, con l’omicidio Lima, prima tappa di un disegno criminoso di cui si conosce il momento iniziale ma non l’esito finale, “cosa nostra” ha abbandonato i vecchi legami con quei settori del mondo politico che avevano deluso le sue aspettative ed iniziato, forse, a ricercare nuovi interlocutori con i quali stabilire intese e stringere alleanze.

Con la strage di Capaci ha inoltre inteso colpire l’immagine del Giudice Falcone, ferma guida e stabile riferimento delle forze impegnate nella lotta alla mafia, nel momento in cui si prospettava, per il magistrato, la possibilità di essere nominato Procuratore Nazionale Antimafia e di costituire, quindi, un’ulteriore gravissima minaccia sia per la mafia, sia per quanti, a vario titolo, fossero ad essa collegati.

3. Già subito dopo la strage di Via D’Amelio la D.I.A. aveva prospettato l’ipotesi che “cosa nostra”fosse divenuta compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato. Progetto inteso non già come programma definito nei particolari, bensì come disegno di massima da sviluppare nel tempo, valutando attentamente l’impatto di ciascun passaggio all’interno dell’organizzazione e sull’opinione pubblica nonché la probabilità di effetti di ritorno dannosi. Proprio a ridosso dell’eccidio di via D’Amelio, infatti, si aveva modo di rilevare che l’assenza di un’effettiva necessità nell’esecuzione del delitto ed una cadenza temporale troppo ravvicinata alla precedente strage, non giustificata da particolare urgenza, costituivano elementi sicuramente estranei al comportamento mafioso tradizionale, abituato a calibrare con attenzione le proprie azioni delittuose.

L’omicidio del Giudice Borsellino e della sua scorta, pur essendo stato consumato in un contesto operativo riconducibile all’azione della mafia, tradiva ad una attenta lettura l’intenzione dei mandanti di perseguire obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di “cosa nostra“.

Non essendo ipotizzabile che gli ideatori della strage non avessero previsto una forte reazione dello Stato da cui sarebbero derivati pesanti effetti per tutti gli affiliati, era da ritenere che il sacrificio fosse stato accettato in vista del conseguimento di obiettivi più remunerativi seppure distanziati nel tempo. Fu proprio a margine dell’attentato di Via D’Amelio che la D.I.A. prospettò, per la prima volta, in modo esplicito l’ipotesi che stesse maturando all’interno di “cosa nostra” e degli altri poteri ad essa collegati una vera e propria scelta stragista dai contorni indefiniti, ma chiaramente proiettata verso uno scontro frontale e violento con le Istituzioni.

4. Tra la strage di Via D’Amelio e quella di Via Fauro, che segna l’inizio di una nuova fase della strategia terroristica della mafia, intercorrono circa dieci mesi costellati da avvenimenti importanti e da numerosi segnali premonitori. Il primo episodio degno di nota si verifica a Palermo nel mese di settembre dello scorso anno, allorché viene ucciso con modalità operative analoghe a quelle del delitto Lima, il mafioso Ignazio Salvo. Non sono del tutto note ancora le motivazioni dell’omicidio. E’ possibile che esse fossero riconducibili a comuni regolamenti di conti tra mafiosi, ma è forse più probabile che, stante lo stretto collegamento tra Ignazio Salvo e l’onorevole Lima lo sua eliminazione possa avere avuto una correlazione con il delitto in danno del parlamentare europeo.

Nel successivo mese di novembre lo D.I.A. ha presentato al Procuratore Nazionale Antimafia una proposta per l’applicazione della misura del soggiorno cautelare nei confronti di 26 sospetti mafiosi. In quella sede, sulla scorta di dati acquisiti dal magistrato nella fase delle indagini preliminari dai quali si presagiva la realizzazione di attentati effettuati con modalità tali che inducessero ad attribuirli ad organizzazioni eversive e sulla scorta dì altre numerose e concordanti notizie fiduciarie, che segnalavano un pericoloso riarmo di “cosa nostra” e l’inizio di una serie di attentati contro aeromobili e strutture aeroportuali, veniva espressa la convinzione che la mafia si stesse preparando a porre in essere azioni criminali di devastante portata. All’inizio di quest’anno, in data successiva all’arresto di Riina, questa Direzione accertava l’esistenza di un programma di attentati contro rappresentanti delle istituzioni.

L’immediato intervento, con l’arresto di Nino Gioé e dei suoi complici, sortiva probabilmente l’effetto di impedirne la realizzazione e contribuiva verosimilmente a prolungare il periodo di silenzio, che aveva termine con l’attentato di Via Fauro in Roma. Ultimo dato di rilievo: i continui sequestri di armi operati dalle Forze dell’Ordine e le risultanze di concomitanti investigazioni, alcune delle quali ancora in corso, evidenziavano la crescente disponibilità da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso di armamento pesante e di ingenti quantitativi di esplosivo provenienti in parte dai paesi dell’est Europa. In particolare si raccoglievano notizie, in corso di verifica, relative ad accumuli di ordigni da guerra in Calabria, in quantità certamente eccessive per la conduzione di una guerra di mafia. In proposito è appena il caso di ricordare che “cosa nostra” ha da tempo stretto legami con la ‘ndrangheta attraverso una formale affiliazione di alcuni suoi componenti. Detti legami di cui hanno ampiamente parlato diversi collaboratori di giustizia, sono stati ben evidenziati nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Reggio Calabria contro mandanti ed esecutori dell’omicidio del Giudice Scopelliti, identificati nei vertici della commissione provinciale di “cosa nostra” palermitana.

5. Ancora prima della cattura di Salvatore Riina ed esattamente nel mese di dicembre ’92, altre indicazioni utili erano venute da Tommaso Buscetta, nel corso di un’intervista rilasciata al direttore del quotidiano “La Repubblica”. Il noto collaboratore aveva, in tempi non sospetti, previsto un’orchestrata campagna di disinformazione, gestita da “cosa nostra” e da settori del mondo politico e della stampa, finalizzata a screditare il ruolo dei pentiti. Egli fondava le sue asserzioni su una diretta conoscenza dei meccanismi di “cosa nostra” e della mentalità dei corleonesi in particolare. Buscetta aveva avvertito che fino a quando detta campagna fosse stata in corso, gli attentati sarebbero stati sospesi per ricominciare poi successivamente. La ripresa della strategia stragista, secondo il pentito, sarebbe stata improntata alle metodologie proprie dei narcotrafficanti colombiani, con l’utilizzo di bombe contro innocenti e con l’attuazione di attentati contro alte cariche dello Stato.

Le previsioni del collaboratore trovano un primo ed immediato riscontro nelle dichiarazioni rese, anche in ambito processuale, da Salvatore Riina, il quale dal momento del suo arresto, inizia a lanciare messaggi delegittimanti e carichi di disprezzo nei confronti dei collaboratori di giustizia, il cui numero, intanto, andava moltiplicandosi con effetti estremamente dannosi per la struttura stessa delle cosche.

L’azione di Riina non è soltanto l’iniziativa isolata di un uomo sconfitto, bensì un preciso momento di una campagna di disinformazione più generalizzata e tendente a colpire a fondo la credibilità delle testimonianze dei pentiti ed a insinuare dubbi sulla correttezza di inquirenti e investigatori che li “gestiscono “.

Da questo clima torbido traggono origine alcune notizie assolutamente prive di fondamento pubblicate da determinati organi di stampa. Un concreto esempio è dato dall’apodittica, quanto falsa notizia secondo la quale il noto finanziere svizzero Jurgen Heer, già responsabile del settore crediti della Rothschild Bank di Zurigo e apparentemente al corrente di numerosi segreti del mondo finanziario e politico italiano (dal caso Calvi alla P2) fosse custodito dalla D.I.A., provocatoriamente definita “servizio segreto antimafia”, in una località segreta e all’insaputa dell’Autorità Giudiziaria.

Chi di tale campagna di delegittimazione si è fatta scientemente artefice e portavoce è stata in particolare l’agenzia giornalistica “Repubblica”. Detto semisconosciuto organo di stampa è giunto addirittura ad ipotizzare resistenza di una congiura internazionale ordita dalla D.I.A. e dall’U.S. Marshall Service, organismo deputato alla protezione dei testimoni negli Stati Uniti, avente lo scopo di manovrare i pentiti di mafia per fini destabilizzanti.

Secondo la prefata agenzia, la D.l.A. avrebbe esercitato la sua attività istituzionale violando apertamente con continui abusi giudiziari i diritti civili degli indagati in spregio delle norme garantiste del codice di procedura penale ed in ciò spalleggiata dai “tribunali speciali”, individuati nel sistema delle Procure Distrettuali e della Procura Nazionale antimafia. Il ricorrente richiamo strumentale al garantismo, la continua aggressione ai pentiti, il sistematico attacco contro gli organismi investigativi ed in particolare nei confronti della DIA, costituiscono il filo conduttore delle notizie pubblicate per alcuni mesi dall’agenzia “Repubblica”. Il ragionamento da quest’ultima seguito culmina con l’affermazione che la tesi sostenuta in sedi istituzionali dal direttore della D.I.A., circa la matrice mafiosa degli attentati stragisti, sarebbe stata formulata allo scopo di occultare i veri mandanti da identificare invece nei fondamentalisti islamici. Per meglio delineare il contesto cui si fa riferimento pare doveroso fare cenno ad alcune notizie apprese in via riservata, secondo le quali l’agenzia giornalistica in questione, intorno a cui gravitano personaggi già legati a Mino Pecorelli, ha come referente privilegiato il gruppo politico dell’On.le Vittorio Sbardella e come direttore Landò Dell’Amico, già legionario della Decima M.A.S. di Junio Valerio Borghese e successivamente iscritto al MS.I, al P.C.I. e al P. S. D.I. , ove ha messo a disposizione di tutti la sua professionalità di giornalista, non trascurando di esercitare, come sommessamente si mormora fra gli addetti ai lavori, anche l’attività di collaboratore del S.I.D. Gestore di case da gioco clandestine, ha collezionato anche un arresto per truffa ed uno per reati contro la persona.

E’ da rimarcare che la sequenza di azioni delegittimanti, che non trascurano di colpire direttamente anche il suo Direttore, venga attuata nello stesso periodo di tempo in cui alla D.I.A. è affidata dalle competenti Autorità Giudiziarie la conduzione di una serie di indagini estremamente delicate. La campagna di disinformazione non si limita a questa sorta di “comunicazioni interne” note

per lo più soltanto a pochi addetti ai lavori, ma prosegue oltre con la manipolazione delle notizie riguardanti il processo contro i fratelli Gambino, che si è celebrato a New York nella scorsa primavera.

Detto processo si è concluso senza alcun verdetto poiché la giuria non è stata in grado di raggiungere l’unanimità prescritta dalla legge americana, in quanto uno dei dodici giurati non aveva condiviso il giudizio di colpevolezza maturato dagli altri undici membri del collegio.

Ebbene, questa circostanza, peraltro ora soggetta a verifiche da parte dell’F.B.I. che sospetta un caso di corruzione, così come verificatosi in passato per analoghi processi di mafia, è stata falsamente presentata da una parte dei mass media italiani come un conclusivo giudizio di inattendibilità formulato dalla giustizia statunitense sui pentiti Buscetta, Mutolo e Marino Mannoia. Per tutta risposta sia i giudici americani, sia la rappresentanza diplomatica statunitense in Italia sono intervenuti con dichiarazioni dirette a ristabilire la verità.

Ciò nonostante l’azione delegittimante nel confronti dei collaboratori della giustizia, ripresa ed amplificata da organi di stampa e reti televisive, ha inizialmente raggiunto il suo scopo, creando disorientamento e confusione non solo nella pubblica opinione, ma addirittura anche all’interno della vita politico-parlamentare.

A conferma di ciò si potrebbero citare numerosi episodi, basti per tutti il caso dell’esposto presentato alla Procura della Repubblica di Roma, nello scorso aprile, dai capigruppo parlamentari democristiani per denunciare una presunta cospirazione che sarebbe stata posta in essere attraverso un uso illegittimo e strumentale delle dichiarazioni testimonia/i dei collaboratori di giustizia.

6. Alle previsioni dell’epoca, fatte da Buscetta, seguono più di recente le dichiarazioni del collaboratore Annacondia, il quale, a suo dire, sin dalla fine del ’92 avrebbe avuto modo di ascoltare, in ambito carcerario, progetti stragisti ventilati da appartenenti a “cosa nostra” e ad altre organizzazioni criminali.

E’ a tale proposito che deve essere sottolineata l’importanza assunta dal trasferimento dei boss in particolari istituti di pena, in attuazione dell’art 41 bis in virtù del quale è stato attribuito al Ministro di Grazia e Giustizia il potere di sospendere l’applicazione, per gli autori dei delitti più gravi, di alcuni benefici inerenti al trattamento penitenziario,[…]. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa. Precisi segnali provengono dall’ambiente carcerario dove è stato registrato, nel corso di recenti colloqui investigativi, un clima di crescente insofferenza verso misure restrittive sopportate con estrema difficoltà dai detenuti che ne evidenziano in ogni occasione i riflessi negativi soprattutto sui rapporti con i familiari. Anche da informazioni fiduciarie raccolte nelle carceri siciliane nelle scorse settimane si è appreso che tra i detenuti appartenenti a “cosa nostra”, specialmente di livello medio, serpeggia un diffuso malumore per il fatto di non essere più adeguatamente protetti dai vertici dell’organizzazione.

[…] La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ed il sostanziale fallimento della campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia, hanno sicuramente concorso, insieme ad altri fattori, alla ripresa della stagione degli attentati. Non può non evidenziarsi che l’applicazione di una normativa estremamente rigorosa, si ricordi in proposito anche la funzione svolta dall’Art.4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario che ha denegato ai mafiosi non pentiti la possibilità di fruire dei permessi premio, delle misure alternative alla detenzione e dell’assegnazione al lavoro esterno, ha sortito nei primi dodici mesi ulteriori effetti dannosi per l’organizzazione, avendo contribuito in modo efficace a far maturare in ben tredici detenuti, sottoposti a trattamento speciale, la scelta di collaborare con la giustizia.

Partendo da tali premesse è chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”.

7. Dopo Via Fauro gli attentati hanno assunto le caratteristiche di avvertimenti e di intimidazioni. Le bombe, seminando vittime spesso impreviste, lanciano un segnale di grande capacità distruttiva e di efficienza organizzativa, i cui effetti appaiono volutamente circoscritti. E’ come se gli ispiratori di tale strategia avessero ritenuto di poter raggiungere i propri scopi limitandosi, in un primo momento, a fare sfoggio della propria forza e sottintendendo, al contempo, la minaccia di azioni più devastanti e sanguinose. Da Via Fauro in poi tutti gli attentati vengono eseguiti al di fuori della Sicilia e sono caratterizzati soprattutto dall’intento di suscitare il massimo clamore possibile e di creare sconcerto e disorientamento tra la gente. Scopo evidente è quello di far cadere il consenso sociale verso l’azione repressiva dello Stato contro la mafia e indurre l’opinione pubblica a ritenere troppo elevato, in termini di rischio di vite umane, il contrasto alla criminalità organizzata. Siffatta strategia è senz’altro idonea ad insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che, in fondo, potrebbe essere più conveniente abbandonare una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di “cosa nostra” a condizioni in qualche modo più accettabili da parte dei mafiosi. Un significativo precedente lo troviamo in un recente passato in Colombia, dove le continue stragi poste in essere dai trafficanti di droga costrinsero lo Stato a trattare e il Governo a modificare la legge che consentiva l’estradizione dei trafficanti negli US.A.

[…]

8. Successivamente agli attentati di Via Fauro e Via dei Georgofili sono giunti dall’interno di “cosa nostra” alcuni segnali, apparentemente slegati tra loro, che è importante riuscire a decifrare poiché si tratta di avvenimenti in qualche misura verosimilmente riconducibili al tema degli attentati e riferibili a personaggi che si ritiene possano essere inseriti nel ristretto gruppo che ha ideato e realizzato il piano stragista.

Ci si riferisce alla richiesta di Giuseppe Calò di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare sulle stragi, alla costituzione di Salvatore Cancemi ed al suicidio di Antonino Gioè.

Tre fatti atipici che hanno avuto tra i protagonisti i massimi esponenti della famiglia di Porta Nuova, in particolare Pippo Calò, uomo della cupola di “cosa nostra”, al centro di alcune delle vicende giudiziarie di maggior rilievo della storta recente del nostro paese: dall’affare Calvi al rapido 904. Le risultanze processuali hanno portato alla luce i suoi molteplici collegamenti con realtà criminali diverse, da quella eversiva a quella collegata al mondo affaristico internazionale. Nomi come quello di Danilo Abbruciati, dell’intera banda della Magliana, di Flavio Carboni e Francesco Pazienza si affiancano al suo in intrecci non ancora completamente chiariti in cui compaiono anche la massoneria e la criminalità organizzata napoletana.

Il primo a muoversi è proprio Pippo Calò, colui che si è sempre rifiutato di parlare con poliziotti e magistrati, che chiede di essere ascoltato dalla Commissione stragi e non, come sarebbe stato forse più logico attendersi, dalla Commissione antimafia. E’ assai probabile che il boss abbia bisogno di una cassa di risonanza attraverso la quale lanciare messaggi e avvertimenti, in linea con lo stile mafioso, senza essere costretto ad accettare un vero e proprio contraddittorio. La richiesta di audizione potrebbe sottintendere resistenza di un fermento o di contrasti all’interno del vertice della mafia, ma non si può parimenti escludere che qualcuno abbia suggerito tale iniziativa al Calò, dandogli altresì indicazioni sulle cose da dire nella sede prescelta per il suo show.

Pochi giorni prima degli attentati di Roma e Milano Salvatore Cancemi, esponente di spicco della stessa famiglia di Porta Nuova, prende a sua volta una iniziativa senza precedenti: pur essendo libero ed in grado di fronteggiare eventuali pericoli, decide di costituirsi alla polizia denunciando timori per la propria incolumità.

Cancemi non solo sceglie di non difendersi sul campo, ma addirittura, dopo essersi fatto arrestare, offre la propria disponibilità a collaborare e sin dalle prime dichiarazioni fa riferimento all’esistenza dì un profondo contrasto tra una mafia stragista ed un’altra, invece, pacifista e quasi rassegnata. Ultimo segnale, ma non meno importante, è il suicidio di Gioè pochi giorni dopo gli attentati. Il suo gesto non certamente abituale nella cultura degli uomini d’onore è chiaramente da ricollegare alle conversazioni carpitegli dagli investigatori attraverso intercettazioni ambientali, in cui egli ed i suoi complici facevano riferimento ad attentati eseguiti o in progettazione. Sul punto sono in corso approfonditi accertamenti che potranno fornire una valida e completa interpretazione del fatto. Premeva ora sottolineare soltanto l’anomalia dell’episodio, sintomo evidente di una situazione di malessere all’interno dell’organizzazione criminale.

9. Passando ora ad un esame dei delitti nella loro dinamica esecutiva, si evidenzia l’esistenza di un legame progettuale tra tutti gli attentati anche e soprattutto dalle analogie riscontrabili nel modus operandi. Il costante utilizzo di autobombe, l’impiego di rilevanti quantità di esplosivi dello stesso tipo, l’individuazione di luoghi ed orari tali da procurare il massimo della risonanza senza provocare necessariamente vittime, sono tutti elementi certi di analogia tra i fatti in esame.

Da non sottovalutare, tra l’altro, la scelta dei tempi di esecuzione che appare legata ad una concreta possibilità per i mass inedia, e in particolare per le reti televisive, di intervenire con assoluta tempestività, amplificando e drammatizzando gli effetti delle esplosioni con le riprese in diretta. Ancora un elemento comune è dato dall’assenza di rivendicazioni credibili. Una metodologia omogenea si riscontra anche nei furti delle autovetture impiegate, commessi tutti da un massimo di tre giorni ad un minimo di un giorno prima delle esplosioni. Da ciò una netta sensazione che la decisione di agire sia stata presa di volta in volta in concomitanza, forse, con fatti e circostanze esterne, che allo stato non è dato conoscere.

Ulteriore comune caratteristica si ritrova dalla strage di Via dei Georgofili in poi, laddove ci sitrova di fronte ad episodi in cui manca un obiettivo predeterminato, ma emerge con assoluta chiarezza la volontà di infondere un terrore generalizzato senza tuttavia causare preventivati danni alle persone. La collocazione degli ordigni è in tal senso sintomatica: punti situati in zone centrali di importanti città, nei pressi di luoghi molto frequentati nelle ore delle esplosioni, ma tali da non coinvolgere, se non casualmente, vittime innocenti.

Deflagrazioni, pertanto, di particolare violenza e obiettivi prescelti solo sulla base dei parametri anzidetti e non per il significato intrinseco degli stessi. Se così non fosse non si spiegherebbe la casualità delle vittime di Firenze, la cui presenza sul luogo era pressoché sconosciuta a tutti, né la collocazione dell’ordigno in Via Palestro a Milano, località con le caratteristiche volute dagli attentatori, ma profondamente differente da quelle colpite a Roma nella stessa notte e nel contesto di un unico disegno criminoso.

10. Sul piano militare il numero degli attentati, la loro distribuzione sul territorio e le modalità operative ci forniscono il quadro della forza di chi ha agito. Si tratta di elementi che conoscono le città in cui hanno operato e dove possono contare anche su di un supporto logistico, sufficientemente numerosi per attuare rapidamente una serie di attività preparatorie ed esecutive di complessa realizzazione. Emblematico il caso di Firenze in cui, dai momento del furto dell’autovettura utilizzata come autobomba a quello della deflagrazione, sono trascorse poco più di quattro ore.

In questo caso in un lasso di tempo cosi breve è stato possibile: trafugare almeno due autovetture, una da trasformare in autobomba ed una da utilizzare per allontanarsi dal luogo dell’attentato; disporre di un luogo sicuro ove nascondere le auto rubate e caricare l’ingente quantitativo di esplosivo già trasportato sul posto ed occultato; attraversare la città, per recarsi sul luogo dell’attentato con l’autovettura preparata per l’esplosione; attivare il congegno di innesco e fuggire indisturbati.

Anche negli altri casi ci si trova di fronte a gruppi operativi affiatati e, nel caso degli ultimi episodi, anche ben collegati tra loro ed in grado di agire con sostanziale simultaneità in città diverse.

Appare evidente, anche nella fase esecutiva, l’omogeneità degli attentatori e il contesto unitario delle loro azioni.

In assenza di notizie o segnali sull’esistenza di organizzazioni eversive allo stato capaci di agire a tali livelli di operatività è d’obbligo l’immediato riferimento a “cosa nostra”, unica organizzazione criminale che risulta poter disporre di una struttura dislocata in numerose regioni italiane, di un adeguato controllo del territorio, di collegamenti con la criminalità comune e con frange di quella eversiva, nonché di strumenti idonei per la realizzazione del progetto stragista.

Tralasciando, per ora, le connessioni e le saldature con camorra napoletana e ‘ndrangheta calabrese e riferendoci al centro-nord d’Italia esaminiamo alcuni fatti a sostegno di quanto affermato.

Le conclusioni del processo relativo alla strage del rapido 904, la sentenza di rinvio a giudizio pronunciata dal Giudice Istruttore di Venezia sulla “mafia del Brenta “, gli esiti delle numerose indagini condotte a Milano hanno permesso di stabilire che “cosa nostra”: per mezzo di suoi rappresentanti di rilievo, ha assunto un ruolo di preminenza nell’ambito della criminalità locale a Roma, Firenze, Milano e sull’asse Padova-Venezia; a Roma dispone di una parte della malavita locale che si identifica nella banda della Magliana e di contatti con appartenenti all’eversione di estrema destra; a Firenze e in Toscana di gruppi di estrazione siciliana e napoletana insediatisi da tempo e confluiti poi sotto la sua direzione; a

Milano, che ha ospitato personaggi del calibro di Luciano Liggìo, dei fratelli Fidanzati, dei Bono, dei Ciulla, dei Cardio, ancora oggi dispone di una parte della malavita organizzata catanese e calabrese, con un preciso riferimento ai vertici corleonesi.

E’ un quadro di riferimento chiaro di come “cosa nostra” abbia ampie possibilità di operare nelle città colpite dagli attentati, anche utilizzando risorse criminali del posto.

11. Lo scenario criminale delineato sullo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia e dall’altro la certezza della presenza operativa di “cosa nostra”.

Ha altresì lasciato intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa.

Le sottili valutazioni sugli effetti di una campagna terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non appaiono essere semplice frutto della mente di un criminale comune: si riconosce in queste operazioni dì analisi e valutazione una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali.

Si potrebbe a tal punto pensare ad una aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergano finalità diverse.

Un gruppo che, in mancanza di una base costituita da autentici rivoluzionari (come, ad esempio, hanno avuto le Brigate Rosse), si affida all’apporto operativo della criminalità organizzata.

Non si tratterebbe, quindi, di una organizzazione di tipo verticistico in cui i componenti sono legati da una ideologia, da un unico progetto politico o da una disciplina dì gruppo.

Gli esempi di organismi nati da commistioni tra mafia, eversione di destra, finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti non mancano.

Non è da oggi che “cosa nostra”, sodalizio dalle connotazioni anche eversive, mantiene collegamenti con altre organizzazioni al fine di supportare ipotesi golpiste o azioni stragiste.

In passato sono stati accertati suoi rapporti con ambienti dell’eversione di destra: valga per tutti l’esempio, ormai giudiziariamente provato, del golpe Borghese.

Recenti indagini condotte in Calabria pongono in evidenza l’esistenza di collegamenti fra Franco Freda, all’epoca latitante, ed elementi di spicco della ‘ndragheta reggina, strettamente legati a “cosa nostra, come si evince dalla richiesta di autorizzazione a procedere contro l’On.le Romeo.

Da ultimo vi è il riscontro offerto dall’esito del procedimento penale sull’attentato al treno rapido 904 del 23.12.1984, che ha consentito di condannare affiliati a “cosa nostra” che operarono in collusione con elementi della malavita napoletana e personaggi legati a gruppi estremisti di destra. Per quanto riguarda il coinvolgimento di ambienti diversi dalla criminalità organizzata, comune ed eversiva, ci sono prove di collusioni con ambienti massonici a rischio.

Recenti indagini hanno evidenziato la presenza di uomini di “cosa nostra” nelle logge palermitane e trapanesi, senza dimenticare il ruolo chiave svolto alla fine degli anni ’70 da Michele Sindona nei contatti tra gli ispira tori di progetti golpisti ed elementi di spicco della mafia siciliana. Emerge tra tutti il caso di Stefano Bontate, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù e teorico, in seno a “cosa nostra “, dell’importanza dell’adesione di uomini d’onore alla massoneria. L’ottica del Bontate, così come testimoniato da Marino Mannoia nelle aule dei tribunali statunitensi, era quella dell’allargamento delle strategie criminali della mafia e del suo inserimento in dinamiche operative di più ampio respiro. Sulla base di tali conoscenze, tenuto conto delle severe misure normative introdotte nel nostro ordinamento e della ferma azione condotta dalla Magistratura e dalle Forze dell’Ordine contro il crimine, non si possono non rilevare le gravi ed oggettive difficoltà in cui, a vario titolo, sono venute a trovarsi diverse lobbies criminali che cominciano a temere per la loro stessa sopravvivenza.

Verosimilmente la situazione di sofferenza in cui versa “cosa nostra” e la sua disperata ricerca di una sorta di “soluzione politica”, potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un “pactum ” attraverso l’elaborazione di un progetto che tende ad intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità ovvero, fatto ancor più grave, ad innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo o comunque per garantirsi uno spazio di sopravvivenza.

Sia pure nella sua gravita e pericolosità il fenomeno è ancora oggi circoscrivibile e attaccabile, a condizione che l’attività investigativa prosegua con altrettanta efficacia e che continui con estrema determinazione l’azione di contrasto sin qui intrapresa”.

Come si vede, si tratta di un documento che si distingue per profondità, accuratezza e capacità di intuizione dell’analisi e nel quale, per la seconda volta (dopo la conferenza stampa del Gen. Cancellieri: v. sopra Capitolo 7), si torna a parlare apertamente di “trattativa” tra “cosa nostra” e lo Stato.

[…]  L’analisi della D.I.A., quindi, ancora individua nel regime di rigore carcerario e nella necessità dell’organizzazione “cosa nostra” di intervenire sullo stesso per garantire la sua stessa sopravvivenza, l’origine della nuova ondata di attentati diretti a “indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa” […].

Ed è bene qui ricordare come nel momento in cui la D.I.A. effettuava quell’analisi (1993), ben lontane erano ancora le conoscenze sulla “trattativa” che soltanto dopo anni (nel 1997-98) sarebbero emerse prima con i memoriali Mori e poi con le testimonianze pubbliche dello stesso Mori e di De Donno […].

All’oscuro di ciò, ma anche dell’apertura del D.A.P. col documento programmatico del 26 giugno 1993 che ancora non aveva prodotto effetti avendo il Ministro prorogato i primi decreti del 41 bis […], la D.I.A. non può, comunque – ed ovviamente -, che ribadire la necessità di non cedere al

ricatto mafioso […], ricordando, peraltro, un grave e non certo edificante precedente di “trattativa”, quello che aveva indotto il Governo colombiano a modificare una legge su pressione dei trafficanti di droga […].

Ancora con grande intuito investigativo, la D.I.A. segnala due elementi […] di estrema rilevanza ai fini della comprensione dei fatti e delle conseguenze che ne deriveranno, la presentazione spontanea alle Forze dell’Ordine di un soggetto di spicco dell’organizzazione mafiosa, Salvatore Cancemi, e la riferita (da quest’ultimo) spaccatura all’interno di “cosa nostra” tra una componente “stragista” ed una “pacifista” in quel momento soccombente […].

La D.I.A., quindi, non ha dubbi sulla riconducibilità a “cosa nostra” degli attentati di Firenze, Milano e Roma […]. Come si vede, nell’analisi della D.I.A. v’è già l’intelligente lettura degli accadimenti di quel biennio e l’aderente individuazione dell’origine di essi (il “maxi processo”, l’omicidio Lima, la strage di Capaci), della svolta apparentemente anomala in qualche modo impressa dalla strage di via D’Amelio, della causa di quelli più recenti (la sollecitazione della “trattativa”) e della finalità perseguita (l’attenuazione del rigore carcerario che minava il potere dell’organizzazione mafiosa).

E, poi, v’è anche, per la prima volta, l’evidenziazione di una possibile spaccatura interna a “cosa nostra”, […] che si rivelerà decisiva per lo sviluppo degli eventi nonostante anche la D.I.A., così come già aveva fatto il Segretario Generale del CESIS […], avesse messo in guardia il Governo sulla assoluta necessità di mantenere la linea della fermezza senza alcun cedimento nel settore carcerario.

Ma, la consapevolezza negli ambienti investigativi della “trattativa”, intesa, ovviamente, per le conoscenze che si avevano in quel momento, come finalità autonomamente individuata da “cosa nostra”, risaliva almeno ai primi giorni del giugno precedente, così come è emerso anche nel corso dell’esame dibattimentale dello stesso De Gennaro che aveva sottoscritto l'<> riservato esaminato in questo paragrafo, grazie all’intuizione di un altro grande investigatore della “scuola Falcone”, il Dott. Manganelli.

[…] Secondo il Dott. Manganelli, poi, “La valenza intimidatoria degli attentati nei confronti di tanto autorevoli rappresentanti delle istituzioni [i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ndr.] ha certamente inteso estendere i propri effetti verso gli stessi appartenenti a “Cosa Nostra”, delusi dagli esiti processuali sorprendentemente ad essi sfavorevoli …. …. La prova di forza della fazione sanguinaria al vertice di “Cosa Nostra” ha rappresentato, quindi, anche un tentativo di incrementare la propria credibilità verso gli incerti accoliti”.

[…] In sostanza, ancora secondo il Dott. Manganelli, “Obiettivo della strategia “delle bombe” sarebbe quello di giungere ad una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il “carcerario” ed il “pentitismo” da qualche tempo “fuori dalle regole”, con trattamenti disumani in ambito penitenziario, vessazioni nei confronti dei familiari dei detenuti (interminabili viaggi per poter effettuare i colloqui, riduzione del numero degli stessi, umilianti ispezioni corporali ed altro), eliminazione normativa delle misure di cui possono invece beneficiare gli altri detenuti (arresti domiciliari, semilibertà, eccetera), uso non sempre corretto del “pentitismo “.

Dunque, gli “attentati non avrebbero dovuto necessariamente realizzare stragi, ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una “trattativa” che “Cosa Nostra” potrebbe condurre – secondo la fonte – anche utilizzando “canali istituzionali” …. … …. Per raggiungere il traguardo della “trattativa” – secondo le informazioni acquisite – la strategia del terrore potrebbe continuare con analoghe iniziative criminali e proseguire, poi, con una seconda fase in cui verrebbero eseguiti attentati a personaggi impegnati nella lotta alla mafia”.

Orbene, l’ultimo documento che analizza gli accadimenti stragisti del 1993, appunto quello dello S.C.O. della Polizia di Stato dopo quelli del CESIS e della D.I.A. prima esaminati, giunge a conclusioni ancora più precise, non soltanto ponendo al centro dell’analisi medesima proprio – e senza incertezze di sorta – la “trattativa” con lo Stato perseguita da “cosa nostra” sulle questioni del carcerario e del pentitismo […], ma, compiendo un balzo in avanti rispetto alle altre analisi, basandosi su una fonte evidentemente ritenuta attendibile, parla espressamente dell’utilizzo di “canali istituzionali” e, quindi, implicitamente ma ineludibilmente, di soggetti delle Istituzioni già ben individuati a quel fine da “cosa nostra” […]

Ora, non v’è – e non avrebbe potuto, ovviamente, esservi – alcun riferimento espresso all’iniziativa del Col. Mori, ma, se si considera quel riferimento ai “canali istituzionali” insieme alle risultanze delle deposizioni di De Gennaro e Arlacchi [Pino, ndr.], non è difficile leggere tra le righe un riferimento all’unico tentativo di contatto tra “cosa nostra” ed esponenti delle Istituzioni di cui circolava notizia negli ambienti investigativi specializzati (v. testimonianza Arlacchi nel paragrafo precedente), quello operato dal Col. Mori, il quale aveva, se non espressamente millantato, quanto meno, in ogni caso, lasciato credere di avere coperture politiche (v. ancora testimonianza Arlacchi riportata nel paragrafo che precede: “…probabilmente, come ho già detto, il millantare coperture politiche che secondo noi non aveva assolutamente”), così come, d’altra parte, soltanto dopo molti anni (nel 1997), lo stesso Mori avrebbe ammesso dinanzi alla Corte di Assise di Firenze (v. dichiarazioni Mori citate, sopra già più ampiamente riportate: “… certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso, oppure gli potevo dire: ”beh, signor Ciancimino, lei si penta, collabori, che vedrà che l’aiutiamo”. Allora gli dissi: ”lei non si preoccupi, lei vada avanti” …”).

[…]  Dunque, alla stregua della valutazione complessiva delle risultanze probatorie già singolarmente esaminate in questo Capitolo, deve pervenirsi alla conclusione che nelle Istituzioni fossero ormai ben chiari, dopo le ulteriori bombe del 27-28 luglio 1993, sia la finalità di “cosa nostra” di (ri)attivare una “trattativa” per attenuare il rigore carcerario e, più in generale, ottenere benefici per i propri associati detenuti, sia, nel contempo, la corrispondente necessità di mantenere la linea della fermezza, intrapresa dopo la strage di Capaci e sino ad allora non più abbandonata, e ciò ad iniziare dal regime del 41 bis perché qualsiasi passo indietro nella sua applicazione sarebbe stato letto come un segnale di cedimento dello Stato al ricatto di “cosa nostra”.

E deve dirsi, però, che in quel momento, per le chiare indicazioni di tutti gli organi investigativi, nulla lasciava presagire che un tale cedimento potesse esservi, poiché, nel Governo, da un lato, il Presidente del Consiglio Ciampi non tralasciava occasione per raccomandare il mantenimento della linea dell’assoluta fermezza nel contrasto al fenomeno mafioso, e, dall’altro, il Ministro della Giustizia Conso aveva, sino ad allora, mostrato altrettanta fermezza, prorogando pressoché in blocco, in data 16 luglio 1993, nonostante le contrarie pressioni interne ed esterne al suo dicastero, i decreti applicativi del regime del 41 bis adottati all’indomani della strage di via D’Amelio e, quindi, in scadenza tra il 20 e il 21 luglio 1993.

In senso contrario, ma ancora sottotraccia, si muoveva soltanto il D.A.P. di fatto guidato da Francesco Di Maggio


La consumazione del reato di minaccia  Si è osservato che sono ravvisabili nella condotta del Riina (e, quindi, di coloro che hanno moralmente o materialmente concorso in essa sotto il profilo della istigazione, codecisione, condivisione, agevolazione od attuazione esecutiva), consistita nella prospettazione di condizioni per la cessazione della contrapposizione frontale con lo Stato e delle stragi ed uccisioni già decise in conseguenza di questa, gli estremi della minaccia, tuttavia, fatta salva l’ipotesi del tentativo pure in astratto configurabile […] che qui non rileva, punibile penalmente soltanto se portata (o, comunque, pervenuta) a conoscenza del soggetto passivo, essendo questo un elemento costitutivo necessario per la configurabilità del reato consumato.

Ebbene, si rinviene nelle stesse dichiarazioni del Ministro Conso e nelle ragioni dallo stesso addotte a giustificazione della sua decisione di non prorogare nel novembre 1993 i decreti del 41 bis esaminate nel paragrafo che precede la consumazione del reato di minaccia contestato dal P.M. al capo a) della rubrica, per essere stato raggiunto il medesimo Conso, nella sua qualità di Ministro del

Governo della Repubblica allora in carica, dalla prospettazione del “male ingiusto” (la prosecuzione della contrapposizione frontale con lo Stato e, conseguentemente, delle stragi) nel caso in cui il Governo della Repubblica non avesse accolto la richiesta di “cosa nostra” di attenuazione del rigore carcerario per i detenuti di mafia.

Qui rileva la distinzione che si è fatta sin dal Capitolo l di questa Parte Terza della presente sentenza, tra “trattativa”, che non costituisce in sé oggetto di una contestazione di reato, e minaccia a Corpo politico (nella specie il Governo della Repubblica) invece oggetto dell’imputazione di cui al capo a) della rubrica riportata in intestazione.

Ciò perché è del tutto irrilevante che al Ministro Con so non sia stata rappresentata l’origine delle pretese di Salvatore Riina e, anzi, che vi fosse stata una espressa manifestazione di quest’ultimo nel senso della esternazione di condizioni per porre termine a quella contrapposizione frontale con lo Stato che aveva dato luogo alle stragi.

Il Prof. Conso ha dichiarato, in proposito, di non avere saputo mai nulla di “trattative” con la mafia e di contatti tra i Carabinieri e questa per il tramite di Vito Ciancimino […].

E si è già detto che non v’è alcuna ragione di dubitare della veridicità di tale affermazione.

Rilevano, però, le reali ragioni della decisione del Ministro Conso di non prorogare i decreti del 41 bis quali sono state individuate all’esito della disamina effettuata nel paragrafo precedente, perché queste dimostrano – ed è ciò che è sufficiente ai fini della consumazione del reato di minaccia oggetto di verifica in questa sede – che al medesimo Ministro fu rappresentato lo stretto collegamento tra la questione carceraria e la contrapposizione frontale di “cosa nostra” e, quindi, le stragi e, per converso, l’opposto effetto, nel senso della cessazione della detta contrapposizione, che sarebbe potuto derivare dalla attenuazione del rigore carcerario.

Tale rappresentazione – ed il conseguente timore di ulteriori gravi attentati da parte di “cosa nostra” – condizionò la successiva decisione del Ministro, che si determinò, dunque, in quel momento, a lanciare un segnale, nel senso dell’attenuazione del rigore carcerario, che fosse percepibile da “cosa nostra” (da ciò la consapevole “non proroga” in blocco di quel rilevante numero di decreti applicativi del 41 bis) nella dichiarata “speranziella” […] che ciò servisse a mutare l’atteggiamento di frontale contrapposizione dell’organizzazione mafiosa e che potessero così prevalere gli

interessi agli “affari” pure da questa perseguiti (v. ancora audizione Conso citata: ” … .pensiamo agli affari. Perché poi la mafia, gira e rigira, avrà la componente crudele anche molto efficace, però …. …. …. .poi è venuto fuori via via anche questo concetto. Non bello, certo, ma di fronte alle stragi … “).

Il condizionamento della libertà, psichica e morale, di autodeterminazione del Ministro Conso per il timore che un “male ingiusto” potesse derivare dalla sua eventualmente diversa decisione di prorogare i decreti del 41 bis in scadenza a novembre così come già aveva fatto il 16 luglio 1993 (cui erano seguite le stragi del 27-28 luglio 1993 a Milano e Roma) e, comunque, che il rischio del verificarsi di tale “male ingiusto” sia stato quanto meno percepito dal medesimo Ministro Conso (perché si è già evidenziato sopra – Capitolo 12, paragrafo 12.3 – che, ai fini della consumazione del reato di minaccia non è neppure necessario che questa abbia in concreto diminuito la detta libertà psichica e morale di autodeterminazione dei soggetto passivo), balza del tutto evidente dalle dichiarazioni rese dal Prof. Conso il 24 novembre 2010 sopra già riportate, soprattutto nella parte in cui il detto teste, dopo avere infine esternato quelle che, più che le sopravvenienze giurisprudenziali di quei mesi dei 1993, erano le vere ragioni della sua decisione di non prorogare nel novembre 1993 i decreti del 41 bis, ha espressamente richiamato la speranza che una “persona più equilibrata” e “meno esageratamente ostile”, dal teste individuata ed indicata in Bernardo Provenzano, potesse prendere il posto di Riina (v. dich. Conso citate: “… Totò RIINA, è stato un successo enorme… … …secondo me è stata una svolta fondamentale … … … e allora ecco che anche Totò RIINA doveva essere sostituito, che fosse PROVENZANO o no, al momento forse non era facile prevederlo ma sarà o lui o un altro che può darsi che abbandonino le linee dure … … … Lo speriamo perché se non abbiamo un briciolo di speranza! … … … Ero un sostenitore di quella tesi io …. … … […] verrà qualcun altro… … …speriamo che questa persona più equilibrata meno esageratamente ostile … … … Eh vabbè ma sempre … peggio di così come si fa? .. .. …… Era una speranza […]”) .

Orbene, si è già evidenziato come quell’accontentarsi da parte di un Ministro della Repubblica persino di avere contrapposto un mafioso, sì, ancora ostile allo Stato, purché, però, “meno esageratamente” di Salvatore Riina, manifesta plasticamente ed incontestabilmente il diffuso timore del medesimo Ministro di portare avanti quella linea della fermezza fortemente voluta dal Presidente del Consiglio Ciampi e dall’intero suo Governo (di cui il Prof. Conso era ben consapevole, tanto da non avere voluto coinvolgere i colleghi del Governo: “… io non voglio mica inguaiare o complicare la vita ai miei colleghi, agli altri Ministri…. … .. .. se ne parlavo in Consiglio dei Ministri, il giorno dopo la stampa e i giornali avrebbero rivelato tutto. Allora tanto valeva rinnovare e non stare a questa impostazione nuova di Provenzano”), nonché, sino ad allora, dallo stesso Ministro della Giustizia Conso e, poi, peraltro, ancora ripresa in tal uni successivi provvedimenti […].

Non può essere dubbio, allora, che la determinazione di quest’ultimo, maturata, sì, certamente in modo autonomo e convinto, ma condizionata da quelle conoscenze fattuali pervenutegli attraverso il canale Mori-Di Maggio (la “novità” di una possibile diversificazione di posizioni persino tra i due “corleonesi” al vertice di “cosa nostra” e gli effetti “positivi” dell’attenuazione del rigore carcerario) comprova inequivocabilmente che la minaccia del “male ingiusto” di Riina fu certamente percepita dal Ministro Conso e, anzi, ancorché ciò non sia necessario ai fini della consumazione del reato, che in concreto fu il conseguente timore suscitato nel medesimo Ministro e la collegata “speranziella” di mutare il corso delle cose attenuando la contrapposizione frontale con la mafia che lasciava presagire ulteriori stragi, a indurre il medesimo Ministro a lanciare quel segnale di distensione attraverso la “non proroga” di quel rilevante numero di decreti del 41 bis in scadenza a novembre del 1993 ed interessante anche alcuni esponenti di rilievo della stessa “cosa nostra”.

[…] Già nelle parole del Ministro Conso riportate nel Capitolo precedente v’è con assoluta chiarezza la ragione della volontà del predetto di non fare trapelare all’esterno (ma anche all’interno del proprio dicastero) la conoscenza della sua decisione, questa volta diametralmente opposta a quella del precedente 16 luglio 1993, di non prorogare i decreti applicativi del regime del 41 bis in scadenza nel mese di novembre 1993.

La sintesi – chiara, significativa ed incontestabile – della detta ragione di riservatezza si rinviene nella frase pronunziata dal Prof. Conso dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia: “Allora tanto valeva rinnovare e non stare a questa impostazione nuova di Provenzano”.

Il Prof. Conso così ha espressamente collegato il motivo della sua decisione sulla “non proroga” alla volontà di assecondare la “nuova impostazione di Provenzano” e cioè alla speranza che sul “sanguinario” Riina potesse prevalere la linea di Provenzano interessata più all’aspetto economico degli affari di “cosa nostra”.

Se non vi fosse stata questa – e questa soltanto – ragione della decisione “allora tanto valeva rinnovare” i decreti, che, dunque, per bocca dello stesso Ministro, non sono stati prorogati esclusivamente per quella finalità che, comunque, sarebbe stata vanificata ove fosse divenuta di pubblico dominio.

Ciò spazza via d’un colpo tutti i tentativi delle difese degli imputati di attribuire, invece, alla sentenza della Corte Costituzionale sul 41 bis ed alle pronunzie della Magistratura di Sorveglianza dei mesi precedenti il ribaltamento della linea ministeriale sulle proroghe dei decreti del 41 bis tra il mese di luglio 1993 e il successivo mese di novembre dello stesso anno (tesi, peraltro, smentita dallo stesso decreto ministeriale del 30 gennaio 1994, prodotto dalle difese degli imputati

Subranni, Mori e De Donno, che, infatti, ancora successivamente riprese le ragioni, già precedentemente esposte, dell’applicazione del regime del 41 bis per detenuti non certo più pericolosi o con ruoli associativi di maggiore rilievo rispetto a quelli dei provvedimenti non prorogati a novembre 1993 di cui si è detto sopra nel Capitolo 27, paragrafo 27.2).

[…] Ma che la ragione della decisione del Ministro Conso di non prorogare in blocco quei decreti non possa ravvisarsi nella sentenza della Corte Costituzionale si ricava logicamente anche dal fatto che il medesimo Ministro ebbe volutamente a circondare la sua decisione da un estremo riserbo, tanto da essere ignorata da molti che avrebbero dovuto averne doverosa informazione e, comunque, da essere, infine, trapelata in un ristretto ambito per lo più parlamentare di addetti ai lavori.

Tale riserbo, infatti, non avrebbe avuto alcuna ragione d’essere se la causa di quella decisione fosse stata riconducibile alla sentenza della Corte Costituzionale (o alle pronunce della Magistratura di Sorveglianza).

Sarebbe stato facile, infatti, in tal caso, per il Ministro giustificare di fronte ai colleghi del Governo, al Parlamento ed all’opinione pubblica quell’attenuazione oggettiva della linea di rigore carcerario inaugurata ali’ indomani della strage di via D’Amelio con l’inevitabile e per lui doveroso adeguamento ai principi costituzionali e generali dell’Ordinamento.

Ma così non era […] Piuttosto, il Ministro Conso ha consapevolmente (come egli stesso ha dichiarato) tenuto il più possibile riservata la decisione di non prorogare i decreti del 41 bis sia perché, evidentemente, non sarebbe stato minimamente possibile esplicitare pubblicamente (ma anche ai colleghi del Governo ed al Parlamento nel suo insieme) le vere ragioni di quella decisione che contrastava palesemente con la linea della fermezza da tutti, se non voluta, quanto meno sempre proclamata, sia perché la conoscenza pubblica di quelle ragioni avrebbe, come dallo stesso Conso dichiarato, vanificato l’obiettivo che egli si era prefigurato, quello di ottenere che in “cosa nostra” potesse prevalere la linea più “pacifista” di Provenzano rispetto a quella decisamente “sanguinaria” di Riina.

[…] In proposito, infatti, Carlo Azeglio Ciampi ha dichiarato che non fu avvertito di quella decisione del Ministro Conso né prima né dopo e che, comunque, tale decisione del Ministro Conso era certamente in contrasto con la linea del suo Governo […]

Che mai si sia parlato della detta decisione del Ministro Conso in sede di Consiglio dei Ministri è stato confermato all’udienza del 15 settembre 2016 anche dall’Avv. Fernanda Contri, che, in qualità di Ministro del medesimo Governo Ciampi, ebbe a partecipare a tutti i Consigli dei Ministri di quel periodo […] e ciò riscontra la dichiarazione spontanea resa dall’imputato Mancino all’udienza del l0 febbraio 2017 secondo cui, appunto, mai quell’argomento fu affrontato in sede di Consiglio dei Ministri […] tanto che egli, che pure rivestiva la carica di Ministro dell’Interno, ebbe ad apprendere casualmente della mancata proroga dei decreti del 41 bis soltanto il 7 novembre 1993 quando la relativa notizia, nonostante il riserbo del Ministro, iniziò a trapelare sulla stampa locale siciliana […].

Si è già visto, poi, nel Capitolo precedente che neppure Giuseppe La Greca, all’epoca Capo di Gabinetto del Ministro Conso, quindi, il soggetto di più diretta collaborazione del Ministro medesimo, ebbe mai a sapere di quella decisione di quest’ultimo di non prorogare i provvedimenti applicativi del 41 bis […].

Appare, poi, ancora significativo che, così come non fu preventivamente informato il Ministro dell’Interno, così ugualmente non venne in alcun modo informato di quella decisione del Ministro Conso, se non altro per gli effetti che questa avrebbe potuto avere sotto il profilo dei collegamenti tra i detenuti mafiosi per i quali sarebbe cessato il regime maggiormente rigoroso e i sodali mafiosi esterni, neppure il Direttore della Direzione Investigativa Antimafia Gianni De Gennaro, il quale, infatti, ha dichiarato di non avere saputo all’epoca della mancata conferma dei provvedimenti sul 41 bis del novembre 1993 dopo che anche alla stessa D.I.A., soltanto in data 29 ottobre 1993, erano state chieste le informazioni sui detenuti per i quali i decreti erano in scadenza già l’1 novembre successivo[…].

Ancora, nulla seppe, all’epoca, di tale decisione del Ministro, il Presidente della Repubblica Scalfaro […]. Così, ugualmente, nulla ebbero a sapere i magistrati della Procura di Palermo e, quindi, di uno degli Uffici Giudiziari più direttamente interessati alla questione del 41 bis tanto da essere stato invitato nel settembre 1993 ad un apposito incontro sulla questione medesima […].

In ambito parlamentare, Invece, la notizia della decisione del Ministro ebbe qualche diffusione, avendone in tal senso testimoniato sia l’On. Virginio Rognoni […], sia l’Ono Gargani, il quale,

però, pur essendo allora Presidente della Commissione Giustizia della Camera, ha riferito che ebbe ad apprendere della decisione del Ministro comunque tardivamente da fonte non precisata […]. 2654

Ma che anche in ambito parlamentare la diffusione di quella decisione fu alquanto limitata è comprovato dal fatto che neppure l’On. Brutti, all’epoca vice presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, ne ebbe conoscenza[…]. E lo stesso On. Brutti ha, peraltro, dichiarato di non avere avuto notizia allora neppure del carteggio tra l’On. Violante, Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, e il Ministro Conso riguardo alla questione del 41 bis di cui si dirà di seguito […].

Di tale carteggio appena citato tra l’On. Violante, Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, e il Ministro Conso, ha riferito in questa sede il primo.

In particolare, esaminato all’udienza del 18 dicembre 2015, l’On. Violante ha, innanzitutto, riferito che già dopo gli attentati del 1993 egli aveva pubblicamente definito quelle bombe come “bombe del dialogo” […] finalizzato ad ottenere l’alleggerimento del 41 bis […] e cose di questo genere […] e di avere, quindi, ancora pubblicamente, denunciato pericoli di cedimento da parte dello Stato […].

Indi, l’On. Violante ha ricordato che, nel novembre 1993, egli, nella qualità di Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, aveva scritto al Ministro Conso per avere notizie sulla attuazione del 41 bis, ricevendo, però, una risposta, alquanto generica, il 15 dicembre 1993 […].

L’On. Violante, in conseguenza, ha ipotizzato che verosimilmente quella sua richiesta inviata il 10 novembre 1993 potesse essere stata determinata dalla notizia della non conferma dei provvedimenti sul 41 bis dei giorni precedenti […].

[…] Orbene, come si vede, dalla testimonianza dell’On. Violante si ricava, innanzi tutto, che ancora alla data del 10 novembre 1993 la decisione del Ministro Conso aveva avuto, al più, una diffusione esclusivamente “ufficiosa”, perché altrimenti sarebbe stata espressamente citata dal Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia.

[…] Dal carteggio sopra riportato, e, più specificamente, dalla risposta del Ministro del 15 dicembre 1993, si ricava, invece, incontestabilmente come quest’ultimo e il D.A.P. abbiano consapevolmente eluso l’informazione sulla decisione maturata riguardo alla “non proroga” dei decreti del 41 bis in scadenza a novembre 1993.

In particolare, il Ministro, rimandando ad un “attento ed approfondito esame” ancora in corso “da parte del competente Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria”, si limitava a citare l’analisi delle ”pronunce di inefficacia dei provvedimenti di applicazione del regime di cui all’art. 41bis o.p. emesse, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale del 281uglio 1993 n. 349, dai vari Tribunali di Sorveglianza, per l’ulteriore definizione del regime penitenziario da applicare nei confronti dei detenuti per delitti di criminalità organizzata”, senza minimamente citare, Invece, non soltanto (comprensibilmente per l’impossibilità della loro pubblica esternazione) le ragioni della sua decisione, già attuata, di non prorogare un gran numero di decreti applicativi già scaduti nel novembre 1993, ma, neppure (e ciò non sarebbe comprensibile se non vi fossero state le esigenze di riservatezza di cui si è detto connaturate alla finalità non dichiarabile dal Ministro) che, appunto, in quel mese di novembre, di fatto, era stato lasciato già decadere un siffatto rilevante numero di decreti.

Il D.A.P., a sua volta, e ciò dimostra anche il pieno coinvolgimento di tale Dipartimento nella decisione del Ministro, fornisce una relazione che, di fatto, riesce mascherare ciò che era effettivamente accaduto in quel mese di novembre.

Il D.A.P., infatti, parla del tutto genericamente di decreti “scaduti nel mese di novembre” e di interessamento degli Organi di Polizia ed Investigativi per “per acquisire notizie aggiornate sui singoli nominativi sia sotto il profilo processuale sia sotto quello investigativo allo scopo di proporre all’On.Ministro l’emissione di provvedimenti di rinnovo del regime speciale nei confronti solo di quei soggetti che nell’ambito della criminalità organizzata risultino rivestire ruoli di particolare rilievo e per i quali tale regime appare necessario”, senza esplicitare chiaramente che, a prescindere dalle dette informazioni (che, come si è visto prima, furono chieste volutamente in ritardo), già tutti i decreti in scadenza in quel mese non erano stati più “rinnovati” (termine chiaramente equivoco utilizzato dal D.A.P. potendo riferirsi, sì, alla proroga prima della scadenza, ma anche da una eventuale futura emissione di un nuovo decreto).

Non solo, la nota del D.A.P., nel prosieguo, anzi lascia intendere che tutti i decreti “sono stati alla scadenza rinnovati per un periodo di ulteriori mesi sei” fatta eccezione per i “detenuti scarcerati, detenuti che hanno collaborato con la Giustizia nei confronti dei quali il regime di cui all’art. 41 bis D.P. è stato revocato, detenuti per i quali non ricorrevano più i presupposti di cui all’art. 41 bis D.P. essendo mutata la posizione giuridica”, aggiungendo, per di più, che, per il resto, “i provvedimenti di proroga, in ossequio al rilievo mosso dalla Corte Costituzionale nella sentenza 24 giugno – 28 luglio 1993 n. 349 e in osservanza ai principi generali del! ‘ordinamento, sono stati formulati con puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono rivolti, in modo da consentire ali ‘interessato una effettiva tutela giurisdizionale”.

Come si vede, dunque, v’è stata, da parte del D.A.P., una rappresentazione totalmente fuorviante della realtà di quanto era avvenuto nel precedente mese di novembre e tale non aderente rappresentazione è così eclatante ed evidente da non potere fare dubitare che essa sia stata indotta dallo stesso Ministro Conso (che, d’altra parte, ha personalmente inoltrato quella relazione al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e, dunque, ne conosceva il contenuto) per quelle esigenze di estremo riserbo che egli ha dichiarato di avere ritenuto indispensabili per non vanificare la finalità prefissatasi di tentare, attraverso quella sua determinazione, di dare un segnale di distensione alla mafia al fine di indurla a recedere dalla strategia stragi sta propugnata da Salvatore Riina.

 

Il messaggio mortale ai due carabinieri   Come si è visto prima, il Ministro Conso ebbe a mutare il suo indirizzo sulla proroga del regime del 41 bis nella dichiarata “speranziella” che ciò potesse fermare il furore stragi sta di Riina e nel timore, dunque, di ulteriori nefaste conseguenze che dalla linea della fermezza, sino ad allora mantenuta, sarebbero potuto ulteriormente derivare.

Egli, in sostanza, coltivava la speranza che il segnale di distensione nei rapporti con la mafia che si accingeva a dare non prorogando quel rilevante numero di decreti del 41 bis in scadenza a novembre del 1993 avrebbe potuto far prevalere in “cosa nostra” la linea “meno ostile” e più interessata agli affari di Bernardo Provenzano e ciò in forza delle conoscenze che gli erano state inculcate dal Dott. Di Maggio sulla base delle informazioni a sua volta ricevute dal Col. Mori.

Nel Capitolo precedente si è visto anche come la provenienza di tali informazioni dalla detta indicata originaria fonte appare confermata dalla coincidenza con le confidenze da Mori volutamente fatte ad un giornalista.

Sennonché, la speranza del Ministro Conso fu presto tradita, perché “cosa nostra”, in realtà, ancorché avesse accettato il dialogo sin dal giugno 1992 propostogli dai Carabinieri ed avesse in tale contesto, a sua volta, lanciato i suoi segnali di disponibilità alla prosecuzione della “trattativa” con le bombe del 1993, che, infatti, un acuto osservatore di grande esperienza come l ‘On. Violante non ebbe ad esitare nel definirle “bombe del dialogo” (v. sopra anche Capitoli 29 e 31), non avrebbe di certo potuto accontentarsi dell’accoglimento di una sola delle sue condizioni (l’attenuazione del rigore carcerario), peraltro, in forma ancora assolutamente limitata, e, soprattutto, perché era ancora sostanzialmente nelle mani di Salvatore Riina, che, nonostante fosse detenuto, continuava a gestire l’organizzazione mafiosa tramite i suoi luogotenenti più fidati e fedeli, primo tra tutti il cognato Leoluca Bagarella.

D’altra parte, la storia dimostra come fosse assolutamente illusorio sperare che qualche concessione alla mafia avrebbe potuto mutarne il carattere sanguinario impresso con pugno di ferro da Salvatore Riina sin dalla sua ascesa al comando dopo la C.d. seconda guerra di mafia dei primi anni ottanta.

Si è visto già sopra, invero, che già ai primi segni di cedimento dello Stato percepiti da Riina sin dagli iniziali contatti dei Carabinieri con Vito Ciancimino appena pochi giorni dopo la strage di Capaci, lo stesso Riina si era indotto ad assestare un secondo micidiale colpo, l’uccisione del Dott. Borsellino, sicuramente controproducente nell’immediato per “cosa nostra”, ma che avrebbe potuto portare, alla lunga, al cedimento definitivo dello Stato alle sue pretese e, quindi, all’ottenimento di rilevanti benefici per i mafiosi tali da superare e fare dimenticare la disfatta del “maxi processo”.

E ciò appare puntualmente dimostrato da alcuni accadi menti che, subito dopo quella pur limitata apertura dimostrata dal Ministro Conso non prorogando a novembre del 1993 i decreti del 41 bis anche per alcuni mafiosi non certo di secondo piano, si verificarono nei mesi immediatamente successivi.

Ci si intende riferire ad alcuni attentati – in alcuni casi riusciti ed in un caso, quello più grave, invece, per fortuna fallito – che furono progettati in danno di Carabinieri e che dimostrano ulteriormente che gli approcci del Col. Mori a mezzo di Vito Ciancimino furono percepiti dai vertici mafiosi come richiesta di apertura di dialogo e, quindi, di “trattativa” mediata dai Carabinieri, così che, nel momento in cui tale “trattativa” appariva essersi arenata per l’assenza di ulteriori contatti ormai resi impossibili attraverso il precedente canale a causa del sopravvenuto arresto dello stesso Vito Ciancimino, i mafiosi, pur tentando nel contempo di attivare altri canali (di ciò si dirà più avanti), intesero in qualche modo “richiamare” l’interesse dei Carabinieri affinché questi si facessero nuovamente “sotto” (v. dichiarazioni Brusca a proposito di ciò che ebbe a dire Salvatore Riina quando, dopo la strage di Capaci, percepì la richiesta di dialogo che gli proveniva dalle Istituzioni).

[…] All’udienza del 27 maggio 2016 è stato esaminato, in qualità di imputato in procedimento connesso, il collaboratore di Giustizia Consolato Villani, il quale, in sintesi, ha riferito:

[…] – di appartenere ad una famiglia di sangue storicamente affiliata alla ‘ndrangheta

[…]– che quando aveva commesso i reati contro i Carabinieri era ancora minorenne,

ma aveva già commesso altri reati[…];

[…]– di avere effettivamente commesso i delitti contro i Carabinieri per i quali è

stato condannato definitivamente

[…]– che il primo dei tre attentati era avvenuto il 2 dicembre 1993 (“DICH. CONSOLATO VILLANI : – Tra dicembre … La sera del 2 dicembre, se non ricordo male, o del 3, ma del 2, se non ricordo male, diciamo quando è successo il primo agguato ai Carabinieri, perché fortunatamente i primi due Carabinieri si sono salvati”);

– che alcuni giorni prima, infatti, Giuseppe Calabrò gli aveva detto che avrebbero dovuto compiere un’azione di fuoco contro lo Stato e i Carabinieri che intendevano uccidere […];

– che Calabrò non gli disse da chi proveniva quell’ordine, raccomandandogIi, anzi, di non fare domande […];

– che Calabrò parlò in generale di carabinieri […];

– che lo stesso Calabrò mise a disposizione le armi […] e scelse il luogo dell’agguato […];

[…] – che il giorno dell’agguato avevano raggiunto la strada con l’intendimento di sparare alla prima “gazzella” dei Carabinieri che avessero incontrato […];

– che egli guidava l’autovettura con a fianco Calabrò armato […], finché non avevano avvistato una “gazzella” dei Carabinieri che avevano, quindi, prima seguito e, poi, affiancato nel momento in

cui, però, Calabrò aveva avuto un attimo di esitazione e non era riuscito a sparare, cosa che, quindi, aveva fatto successivamente quando i Carabinieri si erano posti al loro inseguimento[…];

– che successivamente erano scappati, avevano nascosto le armi e bruciato l’autovettura […];

– che dopo qualche tempo il Calabrò, che era rimasto malissimo per la mancata riuscita di quell’azione, gli disse che avrebbero dovuto preparare, questa volta nei minimi dettagli, un nuovo agguato ai Carabinieri, da eseguire, però, fuori da Reggio Calabria per sviare le indagini e non far risalire l’attentato alle cosche reggine […];

– che Calabrò gli disse di avere trovato un posto adatto per quel nuovo agguato in una piazzola di sosta dell’autostrada […];

– che questa volta avevano rubato una autovettura a Melito Porto Salvo e l’avevano custodita in un garage fino al giorno dell’agguato[…];

– che Calabrò aveva preparato le stesse anni del precedente agguato nonostante la cosca disponesse una grande quantità di anni […];

– che il 18 gennaio 1993 erano partiti da Reggio Calabria ed erano usciti a Bagnara Calabra, facendo così inversione di marcia e raggiungendo la piazzola di sosta […] ove si erano fermati finché non avevano visto transitare una “gazzella” dei Carabinieri ed avevano iniziato a seguirla […];

– che dopo alcuni chilometri avevano affiancato la “gazzella” e Calabrò aveva sparato ai Carabinieri (“Ci siamo andati dietro e praticamente abbiamo fatto un po’ di chilometri prima di affiancare, io guidavo e il Calabrò era sul lato passeggero, prima di affiancare la macchina dei Carabinieri abbiamo fatto, non ricordo esattamente, ma un po’ di chilometri, prima dello svincolo di Scilla, alcuni chilometri prima, siamo usciti dall’ultima galleria. Il Calabrò mi disse accelera, affiancati, mettiti stretto, come mi aveva detto la prima volta, fai toccare lo specchietto con il suo specchietto. Arrivato a un certo punto, mi metto a fianco, Calabrò si siede in una certa maniera sul lato passeggeri di questa macchina e inizia a sparare contro i due Carabinieri. Inizia a sparare contro i due Carabinieri, me ne accorgo che la situazione questa volta è diversa perché purtroppo… … . … perché ci sono state delle grida, addirittura Calabrò mi disse che il Carabiniere quello che era al lato guida della macchina è morto subito e l’altro Carabiniere, l’altro Carabiniere che era sul lato passeggeri mi ricordo che mi disse che cercava di usarlo come scudo, che ancora era vivo. Perché

Calabro, se non ricordo male, sparava non a raffica continua, ma ad intermittenza, se non ricordo male. Finito l’agguato, la macchina inizia a rallentare e si ferma e mi ricordo che noi andavamo piano, piano, piano quando io ho rallentato, cioè, l’ho superato perché la macchina ha iniziato a perdere velocità e abbiamo visto che la macchina ha sbattuto sul lato destro contro il guardrail. Da lì abbiamo capito che sicuramente uno era morto e sicuramente pure l’altro, perché poi non si sentiva più niente, non si vedeva più niente e siamo … “), facendo, quindi, subito rientro, a tutta velocità, a Reggio Calabria ove avevano dato fuoco alla propria autovettura […];

– che il terzo agguato era stato compiuto in una zona non lontana da quella del primo agguato […] ed era stato, anche in questo caso, preparato dal Calabrò […] che gliene aveva parlato già poco dopo i funerali dei due Carabinieri uccisi precedentemente (“Se non ricordo male, subito dopo i funerali dei due Carabinieri iniziò a parlarmi, perché prima, voglio dire, lei ce l’ha scritto sulle mie dichiarazioni, là davanti sicuramente, ci sono stati dei festeggiamenti, io le ho spiegate tutte queste cose qua. Poi inizia Calabrò di nuovo a dirmi che dovevamo uccidere ancora dei Carabinieri dopo quelli morti già il 18 gennaio”);

– che certamente Calabrò non avrebbe potuto prendere quelle gravi decisioni da solo […];

– che il 2 febbraio 1994 si erano recati sul luogo programmato con le stesse armi, ma, poi, poiché i Carabinieri non c’erano, si stavano spostando ed in questo frangente erano sopraggiunti i Carabinieri contro i quali, quindi, avevano subito sparato […];

– che anche in questo caso Calabrò aveva preteso che venissero usate ancora le stesse armi[…];

– che in occasione del terzo attentato Calabrò gli disse che quei Carabinieri stavano trasportando importanti documenti (“Sì, però vi voglio precisare una cosa sul terzo attentato, dottore, una cosa importante, che Calabrò dopo il terzo attentato, parlando mi disse che la pattuglia dei Carabinieri, la gazzella dei Carabinieri che è stata colpita, portava un plico di documenti importanti, […] però io non ho capito questa situazione, questa storia non l’ho capita anche perché non l’abbiamo mai approfondita. Anche perché ci sono state anche delle altre cose che lui ha detto in questo frangente di tempo. Ha nominato per esempio il Notaio Marrapodi, ha nominato la Uno Bianca, insomma, ci sono state una serie… Ha nominato quello che succedeva per esempio in Sicilia, che stava accadendo, ha nominato tante cose”);

– di avere egli personalmente fatto una telefonata di rivendicazione su indicazione del Calabrò […];

– di non conoscere assolutamente i Carabinieri che erano state vittime dei tre agguati […];

– che forse, in occasione del terzo agguato, Calabrò era già informato prima del trasporto dei documenti, ma non gli aveva detto che aspettava proprio quei Carabinieri […];

– che quegli attentati non avevano avuto altro seguito poiché il 24 febbraio 1994 era stato trovato un arsenale ed era stato arrestato anche il padre del dichiarante […], anche se Calabrò aveva intenzione di riprendere con quegli attentati […];

– che Calabrò, sia pure in modo generico, collegava le azioni compiute contro i Carabinieri all’azione delle cosche siciliane […], collegamento che, però, gli era stato personalmente confermato da Nino Lo Giudice molti anni dopo quando egli, raggiunto il grado di “santista”, aveva avuto accesso alla conoscenza di fatti segreti per i semplici appartenenti alla ‘ndrangheta […];

[…] – di avere saputo di collegamenti tra le cosche calabresi e quelle siciliane anche riguardo all’approvvigionamento di armi ed esplosivi ed in particolare di forniture di esplosivo prelevato da una nave affondata al largo delle coste calabresi e che sarebbe stato utilizzato per le stragi siciliane […] secondo quanto appreso da Nino Lo Giudice e da altri (“Tra questi Nino Lo Giudice, Giovanni Ghilà, Giuseppe (PAROLA INCOMPRENSIBILE), suo cognato, diciamo anche i miei

familiari”); […].

Nel corso dell’esame del dichiarante Villani è emerso che le dichiarazioni che più attengono al presente processo, quelle relative agli attentati commessi in danno di Carabinieri il 2 dicembre 1993, il 18 gennaio 1994 ed 1’1 febbraio 1994, sono state rese dal predetto per la prima volta alla fine del 2012 e, quindi, oltre il termine di centottanta giorni previsto per la redazione del verbale

informativo dei contenuti della collaborazione, nel quale, infatti, il dichiarante aveva, si, ammesso la propria responsabilità nei fatti di omicidio e di tentato omicidio in questione, ma nulla aveva aggiunto rispetto alla ricostruzione operata dal correo già precedentemente “pentito” Giuseppe Calabrò, il quale aveva riferito, in sostanza, seppur fornendo nel tempo diverse e contrastanti versioni (v. sentenze della Corte di Assise di Reggio Calabria del 3 febbraio 1997 e della Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria del 28 luglio 1998 acquisite all’udienza del 14 dicembre 2017) che si era trattato di occasionali e non programmati scontri a fuoco con Militari dell’Arma.

E’ necessario, pertanto, innanzitutto, premettere che il superamento del detto termine dei centottanta giorni non è d’ostacolo all’utilizzabilità delle dichiarazioni oggi rese davanti al giudice del dibattimento del presente diverso processo […].

Il ritardo delle dichiarazioni, tuttavia, rileva sotto il profilo della progressione di queste, elemento che deve essere valutato in relazione a quel giudizio di intrinseca attendibilità che deve essere preliminarmente formulato dal giudice che si accinge ad esaminare le dichiarazioni di un collaboratore di Giustizia.

Orbene, in relazione a quest’ultimo profilo, occorre osservare preliminarmente che, sin dall’inizio della sua collaborazione, il Villani non ha omesso di ammettere le sue responsabilità nei tre gravi fatti delittuosi commessi in danno dei Carabinieri e ciò prima che fosse definitivamente accertata la sua responsabilità penale con sentenza passata in cosa giudicata.

Le successive dichiarazioni del 2012, dunque, si pongono soprattutto come completamento ed integrazione delle precedenti che non determinano, di per sé, l’inattendibilità delle stesse, ma richiedono soltanto un particolare rigore nell’esaminare le ragioni della tardiva integrazione […].

[…] Appare del tutto evidente, invero, sotto il profilo delle responsabilità individuali, sia morali che penali, l’enorme divario che v’è tra la ricostruzione dei fatti come accadimenti meramente casuali e quella come fatti programmati, cercati e intensamente voluti.

Tanto più che, come si è detto, quando il Calabrò iniziò a collaborare il processo non era neppure iniziato e quando, poi, dopo molti anni, anche il Villani si era deciso a collaborare non era ancora intervenuta la sentenza definitiva sui fatti in questione (v. quanto espressamente sottolineato in proposito dal Villani: ” .. perché il mio processo era in dirittura d’arrivo, ma perché dietro c’erano altre cose che io effettivamente avevo il timore e la paura e il dubbio che potesse succedermi qualcosa … … … il 29 settembre 2010 già ero quasi arrivato alla Cassazione per il definitivo della condanna e io lì, diciamo, confermai la tesi che Calabrò aveva dichiarato in tutti questi anni questa tesi … “), così che può trovare giustificazione il timore di aggravare eccessivamente la propria posizione personale, poi, invece, venuto meno dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna per quei fatti (v. ancora le dichiarazioni del Villani già sopra riportate: “Dopo che è successo? Che io ho avuto confermati, diciamo … Il processo è andato definitivo, la condanna di trenta anni è stata confermata e arrivato ad un certo punto, facendo degli interrogatori, ho deciso di dire il motivo vero di questi, diciamo, agguati dei Carabinieri”).

Sotto tale profilo, dunque, per quel che è emerso in questa sede nel dibattimento, non v’è ragione di formulare una pregiudiziale valutazione di totale inattendibilità delle dichiarazioni del Villani, al quale, peraltro, in altri successivi processi, così come riferito dallo stesso, è stata già riconosciuta la speciale attenuante della collaborazione dopo avere positivamente vagliato le sue dichiarazioni.

E neppure gli altri elementi addotti dalle difese appaiono idonei a condurre ad una valutazione di pregiudiziale inattendibilità.

[…] In proposito occorre, peraltro, subito osservare che il Villani non ha di certo reso le sue dichiarazioni sulla deliberata volontà di uccidere alcuni Carabinieri con la volontà di “agganciare” un processo particolarmente importante quale quello sulla c.d. “trattativa Stato-mafia” e così beneficiare di utilità personali o anche di notorietà: il Villani, invero, ha reso le sue dichiarazioni ad AA.GG. diverse da quella di Palermo e dal momento in cui ha reso quelle dichiarazioni, alla fine del 2012, nulla ha fatto per sollecitare un incontro con i P.M. di Palermo, i quali, infatti, soltanto nel 2016 (dunque, dopo quattro anni) ed occasionalmente, sono venuti a conoscenza di quelle dichiarazioni, tanto che precedentemente, non avevano neppure indicato il Villani tra i soggetti da esaminare in questo dibattimento.

Valutando, quindi, in concreto, le dichiarazioni del Villani, va osservato che appare veramente scarsamente credibile che, come sostenuto originariamente dal Calabrò […], in un breve lasso di tempo (due mesi) gli stessi uomini (Calabrò e Villani) e con la stessa arma (un mitra Ml2 affine a quello utilizzato dalle Forze dell’Ordine: […]) particolarmente micidiale e che, anche per il suo ingombro, non viene abitualmente portata da criminali per semplici ragioni di difesa (o per quelle ugualmente non verosimili riferite dal Calabrò ed, infatti, disattese dalla Corte di Assise di Reggio Calabria che ne ha rilevato tutte le incongruenze), ma solo per l’esecuzione di gravi fatti omicidiari, si siano imbattuti sempre e soltanto casualmente con tre “gazzelle” dei Carabinieri ed abbiano avuto con questi ben tre altrettanto casuali scontri a fuoco.

Si tratta di una versione dei fatti assolutamente non credibile e ciò a prescindere dalla telefonata di rivendicazione che il Villani ha riferito di avere fatto col rischio di essere smentito ove avesse fatto una dichiarazione non vera.

L’effettiva casualità dei tre accadimenti avrebbe richiesto, sotto il profilo della giustificabilità razionale, di evitare che, con quella telefonata di rivendicazione, gli investigatori potessero ricollegare tra loro quegli episodi e, soprattutto, che già dopo il primo episodio o, ancor più, dopo il duplice omicidio del 18 gennaio 1994, gli autori si disfacessero immediatamente dell’arma utilizzata, appunto, per evitare che i fatti potessero essere collegati tra loro e che ne derivasse un inevitabile aggravamento delle proprie responsabilità nel caso in cui fossero stati sorpresi in possesso di quell’arma.

E, invece, ancora il 2 febbraio 1994 Calabrò e Villani portano con sé le medesime armi (pur avendo disponibilità di interi arsenali soltanto successivamente rinvenuti e sequestrati) e ciò soltanto, se fosse vero quanto dichiarato da Calabrò, per incontrare soggetti che avrebbero dovuto vendere loro altre armi, ovvero, addirittura, soltanto per compiere un danneggiamento ad una concessionaria di autovetture (tesi accreditata dalla difesa degli imputati Subranni e Mori in sede di discussione all’udienza del 16 marzo 2018).

Non v’è chi non veda l’assoluta inverosimiglianza di tali spiegazioni (al di là delle conclusioni raggiunte con le sentenze definitive acquisite che ovviamente non si sono potute giovare anche dell’apporto collaborativo del Villani) che non possono giustificare in alcun modo, ad esempio, il possesso e il porto di mitra mentre ci si reca a compiere un semplice danneggiamento ovvero l’utilizzo di una autovettura rubata per il trasferimento di armi (per il rischio di essere più facilmente individuati proprio per l’uso del mezzo rubato, mentre nessun “vantaggio”, nel senso dell’elusione di indagini, ne sarebbe derivato nel caso di occasionale controllo), mentre l’utilizzo delle medesime armi nei tre episodi trova chiaro ed agevole chiarimento nella volontà di esplicitare agli investigatori il collegamento tra gli stessi, così da inquadrarli in un ‘unica strategia e mandare a chi poteva comprendere quel messaggio che la strategia ideata in Sicilia dai “corleonesi” intendeva, appunto, inviare, per riallacciare la “trattativa” di fatto interrotta dopo l’arresto di Vito Ciancimino e di Salvatore Riina e, quindi, sfruttando il segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis, per piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi.

Ed è assolutamente significativo che per ben tre volte non sia stato individuato un qualsiasi appartenente alle Forze dell’Ordine, ma sempre e soltanto alcuni Carabinieri, poiché erano stati questi a farsi avanti dopo la strage di Capaci ed a lanciare quell’offerta di dialogo subito raccolta e sfruttata da Salvatore Riina e si voleva, pertanto, che questi, essendo gli unici che potevano raccogliere il messaggio per la conoscenza dei pregressi contatti conseguenti ali ‘iniziativa del

Col. Mori, si facessero nuovamente avanti per riprendere il dialogo interrotto.

Tale conclusione è confortata, d’altra parte, in modo inequivocabile dalla percezione che del delitto del 1 febbraio 1994 ebbe il Comandante Generale dei Carabinieri Gen. Federici secondo quanto ebbe a riferire nell’immediatezza al Presidente del Consiglio Ciampi che ne fece conseguente annotazione nella sua agenda (alcune parti della quale, rilevanti per i fatti oggetto del presente processo, sono state acquisite agli atti come si è già detto sopra a proposito di altre annotazioni già esaminate).

Alla pagina del 2 febbraio 1994 di detta agenda v’è, infatti, la seguente annotazione del Presidente Ciampi relativa ad un colloquio avuto quello stesso giorno con il Generale Federici: “riferisce su ferimento avvenuto ieri notte di due carabinieri a Reggio C. e a decisione presa da comitato sicurezza di rafforzamento presenza militare in loco. F. ritiene che si tratti di tentativi della ‘ndrangheta di recente colpita da forze ordine, di dimostrare sua forza colpendo i carabinieri”.

Dunque, come si vede, già a poche ore dal fatto, il Comandante Generale dell’ Arma aveva ben percepito che non si era trattato di un episodio occasionai e, ma di un “messaggio” – sotto forma, quanto meno della dimostrazione di forza – della criminalità organizzata mafiosa del luogo indirizzato proprio ai Carabinieri.

D’altra parte, vi sono anche altri elementi a conforto delle dichiarazioni sul punto rese dal Villani.

In particolare, devono richiamarsi, da un lato, gli acclarati collegamenti tra le cosche mafiose siciliane e quelle della ‘ndrangheta calabrese (basti, qui, ricordare, per tutti, quelli emersi a proposito dell’omicidio del Sostituto Procuratore Generale della Cassazione Antonino Scopelliti ucciso il 9 agosto 1991 in Calabria a Villa San Giovanni perché destinato a sostenere la Pubblica

Accusa nel “maxi processo” contro la mafia siciliana); e, dall’altro, soprattutto, le molteplici e concordanti dichiarazioni rese da più collaboranti di provata attendibilità riguardo alla sopra ricordata strategia mafiosa che intendeva colpire con attentati indiscriminati proprio i Carabinieri e proprio nel periodo tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 nel quale sono stati commessi i tre attentati di cui ha specificamente riferito il Villani (e, per i quali, si ricorda, lo stesso è stato definitivamente condannato).

Tra tali dichiarazioni basti qui ricordare, ad esempio, perché nelle stesse, come si dirà più avanti, possono ravvisarsi i necessari riscontri richiesti dall’art. 192 comma 3 c.p.p., le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza (che di seguito saranno esaminate più compiutamente ed estesamente in questo stesso Capitolo), il quale, infatti, ha raccontato che Giuseppe Graviano, nel momento in cui era in corso la preparazione dell’attentato allo stadio Olimpico di Roma, che, se fosse riuscito, avrebbe provocato la morte di un rilevantissimo numero di Carabinieri (e di cui pure si dirà più diffusamente nel successivo paragrafo), fece espresso riferimento alla uccisione di due Carabinieri avvenuta in quegli stessi giorni in Calabria (si tratta proprio del duplice omicidio commesso da Villani e Calabrò il 18 gennaio 1994 in pregiudizio degli Appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo) nell’ambito delle iniziative intraprese dalle cosche calabresi in accordo con quelle siciliane (v. dich. Spatuzza: “…lui mi comunica che erano stati uccisi due Carabinieri, si erano mossi i calabresi che avevano ucciso due Carabinieri… “).

Dunque, alla stregua delle predette considerazioni e di quanto emerso rispetto al temporalmente contestuale progetto di attentato in danno di un rilevante numero di Carabinieri in servizio presso lo Stadio Olimpico di Roma di cui si dirà nel paragrafo che segue, non resta che concludere che, sul punto, la dichiarazione del Villani appare assolutamente attendibile e riscontrata dall’accertato contesto dei rapporti tra “cosa nostra” e la ‘ndrangheta e delle comune strategie attuate per contrastare la repressione dello Stato ed ottenere benefici per i detenuti e che, pertanto, la stessa costituisce un non secondario tassello della ricostruzione probatoria degli accadimenti verificati si dopo che il Governo aveva mostrato di recepire la minaccia delle cosche mafiose siciliane, lasciando decadere, nel novembre 1993, moltissimi provvedimenti applicativi del regime del 41 bis.

“Cosa nostra” aveva immediatamente percepito e raccolto quel segnale di cedimento dello Stato rispetto alla linea della fermezza propugnata e ritenuto, conseguentemente, che l’accettazione del dialogo sollecitato dai Carabinieri stesse producendo i suoi frutti e che sarebbe stato utile, per la stessa “cosa nostra”, costringere i Carabinieri a riallacciare le fila di quel dialogo interrottosi con l’arresto di Vito Ciancimino.

Da qui la necessità di lanciare un messaggio che coloro che tra i Carabinieri erano a conoscenza dei pregressi fatti ed approcci avrebbero potuto ben percepire.


 

L’attentato mancato allo stadio Sulla mancata strage dello stadio Olimpico di Roma vi sono, innanzitutto, le risultanze consacrate nelle sentenze della Corte di Assise e della Corte di Assise di Appello di Firenze pronunziate rispettivamente il 6 giugno 1998 e il 13 febbraio 200 l, divenute irrevocabili e, quindi, acquisite al fascicolo del dibattimento.

Dalla prima di tali sentenze si ricava, in estrema sintesi, che la primi genia idea di attentato da effettuare alla stadio Olimpico risaliva già al mese di giugno 1993 (quando Scarano e Spatuzza, in occasione dell’ultima partita di campionato, avevano effettuato un sopralluogo) e, poi, via via si era sviluppata nel successivo mese di ottobre 1993 “allorché fu, verosimilmente, portato a Roma l’esplosivo e il mezzo da utilizzare come autobomba” ed era culminata, infine, nell’azione “in grande stile” che nel periodo compreso “tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994” fu tentata “contro uomini delle istituzioni” e che “solo per miracolo non provocò le conseguenze orrende cui era preordinata: l’uccisione di molte decine di persone” (v. sentenza citata).

Gli “uomini delle istituzioni” contro i quali l’azione era programmata in tale sentenza vengono indicati come “Carabinieri o Poliziotti” sulla base, per lo più, della generica indicazione del collaboratore Grigoli Salvatore, anche se dalla stessa sentenza risulta che Giovanni Brusca aveva già indicato l’obiettivo della strage nei Carabinieri, dal momento che Spatuzza, quando ebbe a parlargli di tale attentato, gli disse che “temeva che venisse fuori questo fallito attentato contro i Carabinieri e che costoro si accanissero contro di lui” (così si legge nella sentenza citata).

Del tutto analoghe, ancora in estrema sintesi, sono le conclusioni della Corte di Assise di Appello, ove ugualmente, in conclusione si legge che “sulla scorta pertanto delle emergenze istruttorie che sono state richiamate, e sempre con riferimento alla strage c.d. dell’Olimpico di Roma, può serenamente concludersi esservi ampia e sicura prova in atti che allo Stadio Olimpico di Roma, tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994, venne posta in essere una azione criminale di notevoli proporzioni contro Carabinieri e/o Poliziotti e privati cittadini che si fossero trovati a passare, alla uscita dallo stadio, nella medesima strada percorsa dai bus che conducevano nei rispettivi alloggiamenti gli uomini della forza pubblica che erano stati di servizio allo stadio Olimpico: azione criminale che fortunatamente non provocò le terribili conseguenze cui era stata preordinata e cioè, come detto, la uccisione di molte decine di persone”.

Unitamente alle predette sentenze, sono state, altresì, acquisite nel fascicolo del dibattimento le dichiarazioni rese da Scarano Antonio nelle udienze dell’1l, 12, 17, 18 e 21 marzo 1997 e del 30 ottobre 1997 in quel processo svoltosi innanzi alla Corte di Assise di Firenze, dichiarazioni divenute atto irripetibile per il sopravvenuto decesso del detto Scarano.

Con tali dichiarazioni quest’ultimo, imputato nel medesimo processo, ha dettagliatamente raccontato come avesse occasionalmente conosciuto Matteo Messina Denaro in occasione di un soggiorno in una località balneare nei pressi di Castelvetrano e come, quindi, fosse stato coinvolto da questi negli attentati compiuti nel continente nel 1993 e nel tentativo di attentato contro un pullman dei Carabinieri posto nel gennaio 1994 nei pressi dello Stadio Olimpico di Roma, non riuscito soltanto per problemi tecnici.

Orbene, come si vede, dalle predette risultanze emerge una ricostruzione della mancata strage ancora alquanto generica ed approssimativa perché fondata (a parte le dichiarazioni di Giovanni Brusca che aveva avuto, però, altrettanto generiche informazioni da Gaspare Spatuzza) su dichiarazioni di alcuni collaboratori che avevano avuto ruoli secondari e parcellizzati (Grigoli

Salvatore, Scarano Antonio e Carra Pietro), tanto che non viene neppure individuata con certezza la data e l’occasione in cui il fallito attentato ebbe luogo.

Ma tra i soggetti condannati con le predette sentenze vi era anche Gaspare Spatuzza, soggetto di ben altra levatura nell’ambito dell’associazione mafiosa grazie ai suoi rapporti diretti con Giuseppe Graviano, che avrebbe iniziato la sua collaborazione con la Giustizia soltanto successivamente e le cui dichiarazioni, pure concernenti il fallito attentato alla stadio Olimpico, sono state raccolte, così come anche quelle di Giovanni Brusca, in questo processo.

[…] La sopravvenuta collaborazione con la Giustizia di Gaspare Spatuzza ha consentito di ricostruire ben più compiutamente quel tentativo di strage allo stadio Olimpico di Roma rispetto alla necessariamente approssimativa ricostruzione fatta nelle sentenze di Firenze, ove, peraltro, va evidenziato, quell’episodio rivestiva un rilievo del tutto secondario rispetto ai ben più gravi fatti stragisti consumati e, quindi, ivi pure giudicati con maggiore approfondimento.

Oltre a fornire alcuni dettagli tutti precisamente riscontrati (soprattutto quelli relativi all’approntamento dell’autovettura da utilizzare come “autobomba” rubata a Palermo e, poi, trasferita a Roma ed alterata con targhe ivi sottratte da un’altra autovettura di analogo modello, nonché agli spostamenti dei soggetti incaricati di eseguire la strage), Spatuzza ha consentito di collocare meglio il tentativo di strage sia sotto il profilo temporale sia sotto il profilo causale.

Quanto al profilo temporale, in particolare, le dichiarazioni di Spatuzza hanno consentito di spazzare via tutte le incertezze che avevano condotto prima ad ipotizzare un’origine più remota della decisione di compiere quella strage risalente addirittura sino al giugno del 1993 e, poi, a collocare il tentativo fallito alla fine del mese di ottobre di quello stesso anno.

Gli inequivocabili riscontri riferiti dai testi Cappottella e Micheli, invece, consentono ora di ritenere certa la collocazione temporale del tentativo di strage nella domenica 23 gennaio 1994 (partita di calcio Roma-Udinese: v. testimonianza Cappottella).

Ed allora, se così è, non v’è ragione neppure di dubitare della dichiarazione di Spatuzza nella parte in cui ha collocato l’incarico stragi sta, datogli personalmente da Giuseppe Graviano a Campofelice di Roccella, tra la fine del 1993 e, più probabilmente, l’inizio del 1994 (v. dich. Spatuzza sopra riportate: “…l’incontro si è verificato fine ’93, però ho il sospetto, una questione mia personale che lo stesso si possa essere verificato ali ‘inizio del ’94 … “).

Tale indicazione temporale, d’altra parte, è certamente più coerente con la verificata collocazione del tentativo stragista nella data del 23 gennaio 1994 e supera la diversa conclusione ipotizzata nelle sentenze di Firenze sulla base delle più ridotte, se non scarne, risultanze di cui disponevano quei Giudici.

Nelle dette sentenze, invero, si fa cenno ad un primo sopralluogo allo stadio Olimpico di Roma che sarebbe stato effettuato, addirittura nel mese di giugno 1993, da Spatuzza e Lo Nigro.

Sennonché, Spatuzza nulla ha riferito di tale remoto sopralluogo e non avrebbe, ovviamente, avuto alcuna ragione di non riferirne se, invece, l’avesse effettivamente effettuato.

A ciò si aggiunge l’evidente incoerenza della collocazione di un attentato che avrebbe dovuto deliberatamente provocare un elevatissimo numero di morti tra i Carabinieri o, comunque, tra le Forze dell’Ordine, in una fase (compresa tra la strage di Firenze del 27 maggio 1993 e le stragi di Milano e Roma del 27-28 luglio 1993) in cui, invece, la strategia di “cosa nostra” si era attestata verso quelle che, come si è visto prima, furono ritenute e definite “bombe del dialogo” in considerazione della individuazione di obiettivi monumentali e, quindi, della loro collocazione in contesti nei quali le vittime sarebbero state meramente eventuali oltre che indefinite nella loro qualità ed identità.

Dunque, soltanto nei primi giorni del 1994 (o, al più, negli ultimi giorni del 1993), nel corso di un’apposita riunione a Campofelice di Roccella Giuseppe Graviano comunica a Gaspare Spatuzza e a Cosimo Lo Nigro che sono stati lì convocati per organizzare un attentato contro i Carabinieri (v. dich. Spatuzza: “…Facendo un po’ il punto di varie situazioni il Graviano ci comunica che siamo lì per pianificare un attentato contro i Carabinieri”).

Ed è in quella stessa occasione, quindi, che viene ideato e progettato l’attentato allo stadio Olimpico di Roma e ne viene affidata l’esecuzione agli stessi Spatuzza e Lo Nigro (v. ancora dich. Spatuzza citate: “Da questo incontro ne scaturisce il progetto esecutivo, organizzativo ed esecutivo, cioè nel progetto che mi viene affidato già mi vengono date le modalità già esecutive … …. . … Di recarci noi su Roma, cioè a Roma, sul territorio di Roma e trovare un bel po’ di Carabinieri e organizzare …cioè dare anche l’impulso per la fase esecutiva di uccidere un bel po’ di Carabinieri… “).

Qui, dunque, si innesta la causale del nuovo progetto stragi sta che Spatuzza ha indicato in modo inequivoco: si voleva colpire i Carabinieri con un attentato eclatante che avrebbe causato decine di morti tra quei Militari (“… uccidere un bel po’ di Carabinieri …”) per dare il “colpo di grazia” allo Stato (“… mi disse che l’attentato contro i Carabinieri lo dobbiamo fare perché con questo gli dobbiamo dare il colpo di grazia … …….. Giuseppe Graviano mi dice che l’attentato ali ‘Olimpico … lui non sa che l’Olimpico … ai Carabinieri si deve fare perché con questo gli dobbiamo dare il colpo di grazia … “) e costringere “chi di dovere” a riprendere la “trattativa” (” .. . mi dice che è bene che ci portiamo dietro un bel po’ di morti così chi si deve muovere si dà una smossa….. che io ricordo Graviano non ha mai detto trattativa, ma nel linguaggio nostro, che ci appartiene, c’è una cosa in piedi oggi posso dire che quella cosa in piedi è la trattativa … “) per ottenere benefici soprattutto per i mafiosi detenuti (“…c ‘è in piedi una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a partire dei carcerati…”).

Inoltre, è importante rilevare che Spatuzza, incalzato dalle domande delle difese, ha escluso che, per quel che gli disse Graviano, l’uccisione dei Carabinieri rispondesse ad un desiderio di vendetta (“Una vendetta no, non. .. … … Per me sono obiettivo …. … …. Quando io dico … io penso … io penso, ma io non posso pensare, io sto dando un giudizio mio personale ma io sono lì per … obiettivo Carabinieri, quindi, sto dando una deduzione per … Quindi, a questo punto, io non so se, effettivamente, era il vero obiettivo i Carabinieri o lo Stato …. …. … Quindi, posso dire che se l’obiettivo non erano i Carabinieri ma lo Stato, quindi, è un pensiero mio ma io come arrivo a Roma obiettivo è Carabinieri”), perché ciò consente di escludere che l’individuazione di quell’obiettivo fosse ricollegabile, come pure, in astratto, sarebbe ipotizzabile, ali ‘arresto di Salvatore Riina operato, appunto, dai Carabinieri.

Va evidenziato, d’altra parte, che anche quando Brusca, de relato da Spatuzza, ha parlato di “vendetta” non si è mai riferito all’arresto di Riina, ma, come dallo stesso puntualizzato, semmai alla volontà di chiudere i conti con chi non aveva rispettato i patti.

In ogni caso, l’esclusione del possibile collegamento dell’attentato ai danni dei Carabinieri con l’arresto di Riina avvenuto l’anno precedente è avallata dal collegamento fatto dallo stesso Graviano con l’uccisione di Carabinieri nel contempo portata a termine dai “calabresi”, cui non potrebbe logicamente ricondursi un desiderio di vendetta per l’arresto di un esponente, ancorché importante, di altra associazione mafiosa.

Si vuole dire, in altre parole, che se fosse stata una questione soltanto interna a “cosa nostra” (la vendetta, appunto, per l’arresto di Salvatore Riina), non vi sarebbe stato il coinvolgimento della ‘ndrangheta, ma la questione avrebbe potuto (e dovuto) essere risolta dalla stessa “cosa nostra”, dal momento che nessuno avrebbe potuto collegare l’azione dei “calabresi” alla eventuale finalità di vendetta per l’arresto di Riina e, dunque, tale finalità dell’azione medesima, sotto tale profilo, sarebbe stata vanificata.

Non può dubitarsi, invece, dell’interesse comune degli ‘ndranghetisti calabresi nell’ottenimento di benefici carcerari di cui si sarebbero avvantaggiati anche i detenuti di quell’organizzazione criminale.

Occorre, allora, a questo punto, esaminare se la propalazione di Spatuzza sia sufficientemente riscontrata e possa assurgere conseguentemente al rango di prova. Deve, in proposito, premettersi che il riscontro alle dette propalazioni dello Spatuzza non può ravvisarsi nelle dichiarazioni di Brusca, poiché i riscontri probatori esterni necessari per la conferma devono essere indipendenti […]. […] Ora, ricordato che non è necessario, tuttavia, che i riscontri probatori esterni abbiano lo spessore di prove autosufficienti (perché altrimenti costituirebbero essi stessi prova della responsabilità dell’imputato) e che gli stessi possono consistere in elementi di qualsiasi natura di carattere sia rappresentativo che logico, nella fattispecie un importante riscontro di tipo logico che conferma la causale dell’attentato allo stadio Olimpico indicata da Spatuzza si rinviene in quel collegamento fatto da Graviano, secondo quanto raccontato da Spatuzza, con l’uccisione di due Carabinieri avvenuta in Calabria (v. dich. Spatuzza citate: “….Lui mi comunica che erano stati uccisi due Carabinieri, si erano mossi i calabresi che avevano ucciso due Carabinieri … … … Certo, perché il Graviano  come ho spiegato ieri… Se mi dici: “I calabresi si sono mossi ….. Perché altrimenti: “Sono stati uccisi due Carabinieri in Calabria”, a noi, con tutto il rispetto, ma che ce ne frega! Perdonatemi il termine, quindi, se non sono morti i Calabresi e, tra l’altro, erano stati uccisi due Carabinieri, quindi, certamente, per me entrano tutti nello stesso contesto”).

Spatuzza ha collocato temporalmente il colloquio con Graviano presso il Bar Doney di Roma nei giorni di mercoledì o giovedì precedenti il fallito attentato allo stadio Olimpico e, quindi, se questo è avvenuto, come incontestabilmente accertato (v. deposizioni Cappottella e Micheli), la domenica 23 gennaio 1994, allora, il predetto incontro tra Graviano e Spatuzza è avvenuto la mattina di mercoledì 19 gennaio o giovedì 20 gennaio 1994.

Ed è bene sottolineare che Spatuzza non ha mai indicato con esattezza né la data del fallito attentato (appunto il 23 gennaio 1994), né la data dell’incontro precedente con Spatuzza (appunto il 19 o 20 gennaio 1994), date che sono state, successivamente, ricostruite ed individuate soltanto all’esito delle indagini soprattutto relative prima ai viaggi con la nave da Palermo e, poi, al furto della targa dell’autovettura, utilizzata per nascondervi l’esplosivo, avvenuto il sabato 22 gennaio 1994.

Si rivela di grande importanza, dunque, il riscontro che effettivamente in data 18 gennaio 1994, e, quindi, appena il giorno prima (o, al più, due giorni prima) di quel colloquio di Spatuzza con Graviano vi fu l’uccisione di due Carabinieri in Calabria ad opera delle cosche ‘ndranghetiste (v. sopra paragrafo 32.1 e, quanto al riscontro specifico, anche testimonianza Cappottella sopra riportata).

Ma, ai fini del riscontro sulla causale, non è tanto rilevante l’accertamento in sé del detto episodio (anche perché Spatuzza, lealmente, pur confermando il riferimento di Graviano ai “calabresi”, non ha escluso che della specifica uccisione dei due Carabinieri possa averne appreso successivamente: “…Adesso non ricordo se lui mi ha detto che erano stati uccisi due Carabinieri o questo l’ho appreso successivamente, ma credo che lui mi abbia detto che erano stati uccisi due Carabinieri o dei Carabinieri…”), quanto il fatto che il detto episodio si inserisca in un contesto più ampio che Spatuzza ignorava ed ignora tuttora perché emerso soltanto a seguito delle dichiarazioni di Consolato Villani e delle indagini conseguenti.

Ci si intende riferire a quelle risultanze, prima già evidenziate nel paragrafo 32.1, che consentono di collegare l’uccisione dei due Carabinieri in data 18 gennaio 1994 con i tentativi di analoghe uccisioni posti in essere, sempre in danno di Carabinieri, sia prima, i12 dicembre 1993, sia dopo, il l febbraio 1994.

Gli inequivoci elementi che collegano i tre episodi (oltre, ovviamente, alle dichiarazioni di Villani) sono stati già sopra evidenziati: l’uso delle medesime armi, la partecipazione dei medesimi soggetti, l’incompatibilità di quelle armi così micidiali e ingombranti con finalità diverse dagli attuati attentati ai danni dei Carabinieri, la telefonata di rivendicazione e, soprattutto, il mancato abbandono delle armi persino dopo l’uccisione dei due Carabinieri ed il loro ulteriore riutilizzo in occasione del successivo attentato del!’ l febbraio 1994 nonostante, da un lato, il rischio che così, in caso di arresto anche soltanto durante i trasferimenti con tali armi, gli autori avrebbero potuto essere immediatamente collegati al precedente duplice omicidio e, dall’altro, l’accertata disponibilità di un arsenale (che infatti venne successivamente rinvenuto e sequestrato) con altre diverse armi che ben avrebbero potuto essere utilizzate ove i sicari si fossero disfatte di quelle utilizzate il 18 gennaio (ed è, infatti, notorio che ordinariamente, per evidenti ragioni di prudenza, i sicari delle cosche mafiose, che dispongono di innumerevoli fonti di approvvigionamento di armi, si disfano di quelle utilizzate per commettere un omicidio subito dopo averlo compiuto proprio per evitare che gli investigatori possano ricollegare tra loro più fatti delittuosi e, in caso di successivo arresto di soggetti in possesso delle medesime armi già usate, possano giungere agevolmente alla identificazione degli autori dei pregressi fatti delittuosi).

E ciò senza dimenticare la percezione che di tali episodi ebbe il Comandante Generale dell’Arma Gen. Federici, che, appunto, all’indomani dell’ultimo episodio del l febbraio 1994, ebbe ad esternare al Presidente del Consiglio Ciampi la convinzione che non si era trattato di un fatto occasionai e e contingente, ma di una dimostrazione di forza della ‘ndrangheta che aveva voluto colpire i Carabinieri […].

E allora, non v’è chi non veda come le propalazioni di Spatuzza da un lato e quelle di Villani dall’altro, rese nell’ignoranza le une delle altre, valutate unitamente ai conseguenti accertamenti effettuati, si riscontrino reciprocamente.

Senza nulla sapere ciascuno dell’altro, infatti, entrambi i dichiaranti delineano un quadro di una strategia congiunta tra “cosa nostra” siciliana e ‘ndrangheta calabrese finalizzata a colpire, questa volta non più monumenti e vittime indefinite nella loro qualità e più o meno casuali, bensì direttamente l’Arma dei Carabinieri, come dimostrato non soltanto dal fatto che l’obiettivo dello stadio Olimpico di Roma fu individuato proprio per la presenza di un numero rilevante di Carabinieri in servizio ivi in occasione della partita di calcio domenicale, ma anche dal fatto che nei tre diversi agguati organizzati in Calabria vennero ugualmente individuati come obiettivi sempre e soltanto Carabinieri e non altre Forze di Polizia che pure di certo non mancano in quei territori.

Se così è deve dedursi che con quella concentrazione di obiettivi in un lasso temporale limitato (meno di due mesi) si sia voluto mandare un messaggio proprio ai Carabinieri, messaggio che, evidentemente, però, non era quello soltanto della dimostrazione di forza inteso dal Gen. Federici d’altra parte all’oscuro dei contatti con i mafiosi intrapresi dal R.O.S., ma anche quello di far sì che “chi si deve muovere si dà una smossa” (v. parole Graviano riferite da Spatuzza) e, quindi, in sostanza, dal punto di vista dei mafiosi, per i quali, per quanto gli era stato fatto credere, quei Carabinieri del R.O.S. che si erano fatti avanti rappresentavano Istituzioni superiori consapevoli dell’iniziativa, quello di riallacciare il dialogo interrotto ed ottenere “tutti dei benefici. a partire dei carcerati…” (v. ancora parole Graviano riferite da Spatuzza).

Si tratta dell’inevitabile effetto del segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis subito raccolto da “cosa nostra” per dare il “colpo di grazia” e piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi.

Costituisce forte convinzione della Corte, alla stregua del complesso di tutte le acquisizioni probatorie raccolte, che quell’episodio dell’attentato allo stadio Olimpico di Roma, passato quasi in secondo piano perché per fortuna fallito, se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di Carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente (il “colpo di grazia”, per fortuna, soltanto vaneggiato da Giuseppe Graviano) dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni a fronte di un Governo di fatto già dimissionario e di un Parlamento già proiettato verso le imminenti elezioni politiche nel contesto di una campagna elettorale particolarmente aspra per le scorie della c.d. “tangentopoli” che aveva travolto tutti i partiti politici tradizionali.

Allora, pur volendo evitare qualsiasi enfasi, non può non ritenersi che quella strage avrebbe sicuramente cambiato (ovviamente in maniera tragica) la storia di questo Paese, aprendo la porta ad una fase di instabilità e di incontrollabilità del fenomeno mafioso foriera di esiti, sì, imprevedibili, ma certamente tutti gravemente negativi per la sopravvivenza stessa delle Istituzioni democratiche.

Il “caso”, qui rappresentato dall’occasionale fallimento dell’attentato unitamente all’arresto dei fratelli Graviano che di lì a pochi giorni sarebbe avvenuto a Milano, ha mutato il corso delle cose e forse “salvato” il Paese da anni sicuramente bui e tristi.

Tali considerazioni, ancorché apparentemente estranee alle competenze della Corte, appaiono necessarie per sottolineare come ancora una volta in quelle vicende si sia dimostrata fallace e illusoria la speranza di coloro che ritennero di potere attenuare la pressione del fenomeno mafioso mediante politiche “al ribasso” nell’azione di contrasto al fenomeno medesimo e forme di convivenza con questo purché venissero abbandonati i picchi più eclatanti ed evidenti dell’azione criminale che maggiormente allarmavano (e allarmano) l’opinione pubblica.

Ciò seppure occorra distinguere, poi, tra coloro che, più o meno implicitamente, ma, comunque, consapevolmente, sollecitarono tali forme di convivenza mediante intese più o meno sotterranee e coloro che, come il Ministro Conso, con una diversa consapevolezza che atteneva non già alla suddetta scelta sollecitatoria, ma solo alla ritenuta obbligatorietà morale di una decisionefinalizzata ad evitare nefaste conseguenze, furono, di fatto, soltanto vittime della violenza della minaccia mafiosa.


 

L’“informativa” della Dia che racconta tutto  Le valutazioni conclusive appena esposte nel Capitolo che precede si fondano in misura non secondaria su risultanze investigative in ordine alla convergenza di interessi ed azioni tra “cosa nostra” e ‘ndrangheta ad iniziare dall’omicidio Scopelliti già sopra pure citato.

Ebbene, un importantissima conferma della comune strategia delle predette due organizzazioni mafiose e anche con altre organizzazioni altrettanto pericolose (la “camorra” napoletana) si trae da un documento prodotto dal P.M. All’udienza del 26 settembre 2013.

Si tratta dell’informativa della Direzione Investigativa Antimafia sottoscritta in data 4 marzo 1994 dal Capo Reparto Investigazioni Giudiziarie Dott. Pippo Micalizio.

Quest’ultimo è successivamente deceduto e, dunque, la nota è stata acquisita per la sua utilizzazione nel presente processo con ordinanza del 17 ottobre 2017.

Ebbene, in tale informativa v’è un’ampia ricostruzione delle indagini svolte sulle stragi degli anni 1992-1993 e sui collegamenti dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” con altre organizzazioni criminali, sia di stampo mafioso, sia di stampo terroristico.

Per la più completa cognizione di tale ricostruzione si rinvia alla informativa medesima, evidenziandosi qui di seguito soltanto alcuni passi che appaiono più rilevanti in relazione ai fatti oggetto del presente processo ed alle valutazioni conclusive del Capitolo che precede:

“L’ipotesi di lavoro formulata nel presente documento è intesa a promuovere e quindi sviluppare un’azione investigativa che possa consentire l’acquisizione di prove in ordine ad una connessione tra le stragi consumate a Palermo (Capaci e Via d’Amelio) nell’estate del 1992 e quelle commesse a Roma, Firenze e Milano nell’arco dell’anno successivo (Via Fauro – Via dei Georgofili – Via Palestro – Via del Velabro – Piazza San Giovanni), preordinate alla realizzazione di un unico disegno criminoso, che ha visto interagire criminalità organizzata di tipo mafioso, in primis la “cosa nostra” siciliana, con altri gruppi criminali che, sebbene allo stato non siano stati compiutamente individuati, possono però essere identificati pianificando un’ adeguata strategia di indagine”.

“Particolare interesse hanno destato i segnali provenienti dal mondo carcerano riguardo ad una crescente insofferenza da parte di mafiosi sottoposti allo speciale regime detentivo introdotto dall’art.41-bis L.354/ 75, regime reso ancor più insopportabile dalla consapevolezza dei mafiosi di non poter più confidare nella ormai consolidata prassi dell’ “aggiustamento” dei processi”.

“La determinazione di “cosa nostra” ad effettuare attentati come reazione al 41bis e, più in generale, come mezzo per “dare una lezione ai politici” è emersa anche dalle dichiarazioni del collaboratore La Barbera Gioacchino … … … in quanto avevano il solo scopo di dimostrare lo capacità della mafia di colpire dovunque e – si ritiene – di costringere lo Stato a patteggiare con “cosa nostra”, inducendolo a rivedere la recente normativa carceraria, così da rendere lo stato di detenzione di cui all’art. 41bis meno gravoso”.

“Parallelamente al consolidarsi del quadro indiziario circa una matrice mafiosa negli attentati di Roma, Firenze e Milano, è andato rafforzandosi negli investigatori la sensazione che il nuovo indirizzo stragistico inaugurato dalla mafia perseguisse in realtà obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di “cosa nostra” o, per lo meno, tendesse al conseguimento di obiettivi comuni o convergenti con gruppi criminali di diversa estrazione con cui esistono rapporti stabili o che in passato avevano convissuto con la mafia. Si è osservato così come l’atipicità, sotto taluni aspetti, degli attentati in questione rispetto a quelli tradizionali di “cosa nostra” (primo fra tutti la scelta degli obiettivi), potesse risultare funzionale non solo alle finalità “terroristiche” della mafia, ma anche agli scopi di entità criminali diverse che avessero operato in sintonia con quest’ultima nel perseguimento di obiettivi comuni o convergenti, gruppi criminali che fossero in grado di elaborare i sofisticati progetti necessari al conseguimento di finalità di più ampia portata. Tali eventi non sono apparsi, quindi, come consueti attentati di mafia, seppure gravissimi, bensì come atti di vera e propria politica mafiosa, la cui riconducibilità alla mafia, intesa come organizzazione criminale chiamata “cosa nostra”, doveva procedere in modo graduale, attraverso una serie di stadi intermedi che rappresentavano altrettanti momenti di convergenza operativa o ideativa.

In chiave interpretativa sono state così considerate, a tale riguardo, le analogie col “modus operandi” difatti eversivi degli anni 70″ e sono state richiamate alla memoria le risultanze processuali relative alla strage sul treno 904 che hanno messo in luce connivenze tra ambienti mafiosi, ambienti della destra eversiva e dell’alta finanza collegata alla massoneria. Sono state attentamente rilette le dichiarazioni rese da diversi collaboratori di giustizia sui rapporti instauratisi sin dagli anni 70 tra i vertici di “cosa nostra” e logge massoniche siciliane, quelle sull’appoggio richiesto in quegli anni alle organizzazioni maliose da Junio Valerio Borghese e quelle relative ai progetti di tipo eversivo-separatista delineatisi nello sfondo dell’intesa intercorsa tra la ‘Ndrangheta calabrese e “cosa nostra” siciliana, a seguito della quale la mafia calabrese ha assunto una nuova struttura verticistica propria del modello siciliano.

A rievocare e vivificare un siffatto scenario hanno contribuito, peraltro, alcune recenti circostanze e talune vicende, tuttora al vaglio delle competenti AA.GG., apparentemente scollegate, ma che, sottoposte ad attenta analisi, lasciano intravedere aspetti comuni di estremo interesse ai fini investigativi. In particolare, ha destato l’attenzione degli investigatori la circostanza che Rampulla Pietro, esponente della “famiglia” catanese Santapaola, indicato dall’A.G. di Caltanissetta come l’artificiere della strage di Capaci, sia appartenuto ad ORDINE NUOVO, in contatto con l’ordinovista Cattafi Rosario, indagato dall’A.G. di Messina per traffico internazionale di armi e tratto in arresto in quanto inquisito dalla DDA di Firenze per rapporti con “cosa nostra” nell’ambito della nota indagine sull’autoparco di Milano.

Del tutto enigmatica è apparsa poi la figura di Papalia Domenico, per le inquietanti circostanze che lo legano al mafioso Gioè Antonino, morto suicida in carcere, e a quanto pare all’omicidio del giudice Occorsio ad opera della destra eversiva. Infatti il Gioé, senza apparente motivo, ha citato il Papalia nella lettera scritta prima di suicidarsi. Peraltro, nella medesima lettera il Gioè, per motivi altrettanto poco chiari, ha inteso menzionare tale Bellini, che dovrebbe identificarsi in Bellini Paolo, ambiguo personaggio legato ad ambienti dell’estrema destra eversiva, sul conto del quale sono in corso accertamenti.

IL QUADRO GENERALE

Nel periodo compreso tra i mesi di maggio e luglio ’93 si è verificata una serie di attentati stragisti in Roma, Firenze e Milano. Si è trattato di eventi non nuovi per l’ltalia ove più volte la criminalità organizzata di stampo mafioso e quella eversiva hanno realizzato attentati mediante l’impiego di esplosivi, causando spesso un elevato numero di vittime. Tali attentati si sono sempre verificati in concomitanza di particolari momenti della vita nazionale, coincidenti con una maggiore pressione dello Stato contro la criminalità organizzata a seguito di episodi e situazioni di particolare gravita. La matrice delle stragi non è stata a tutt’oggi ancora esattamente individuata, mentre le molteplici inchieste giudiziarie in corso hanno lasciato intravedere la presenza di interessi ascrivibili a settori differenziati, non esclusi quelli di categorie interessate, attraverso la realizzazione di una “strategia del terrore”, a sollecitare una solidarietà nazionale diretta a mantenere un determinato status quo, oppure, coscienti della inarrestabilità del processo di trasformazione, ad accelerarlo guidandolo verso precisi orientamenti politici, sociali ed economici. Gli ultimi episodi in ordine di tempo erano avvenuti a Palermo con le stragi di Capaci e di via d’Amelio, in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino. Da allora anche in Sicilia vi è stato un periodo di relativa tranquillità – interrotto dall’omicidio di Salvo Ignazio (sett. 1992) – coincidente con il massiccio impiego di Forze dell’Ordine e dell’Esercito nelle regioni ad alta densità mafiosa, con la cattura di Salvatore Riina ed altri rilevanti successi di polizia giudiziaria. Sin dall’omicidio del giudice Falcone la D.I.A. aveva individuato l’inizio di una strategia di attacco frontale allo Stato che, già con la successiva strage di via d’Amelio, aveva tradito connotazioni che lasciavano intravedere la volontà di perseguire anche scopi diversi da quelli propri dell’organizzazione siciliana. A seguito degli attentati di via Fauro in Roma, di via dei Georgofili a Firenze e del fallito attentato in via dei Sabini a Roma l’11 giugno 1993, il Direttore della D.I.A. ebbe ad rappresentare innanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia il convincimento che i primi due episodi fossero lo sviluppo della strategia intrapresa da “cosa nostra”, mentre, per il terzo, valutazioni tecniche consigliavano di rinviare prudentemente ogni giudizio. In seguito ai successivi attentati del 27 e 28 luglio verificatisi in via Palestro a Milano, a San Giovanni in Laterano ed in via del Velabro a Roma, la D.f.A., in una analisi inoltrata ad altre Autorità istituzionali, giungeva alla conclusione che fosse in pieno sviluppo un progetto ordito da “cosa nostra” e da altre forze criminali, ancora non chiaramente individuate, tendente a soddisfare interessi convergenti.

ANALISI DELLE MODALITÀ’ DI ESECUZIONE DEGLI ATTENTATI

L’esame dei delitti nella loro dinamica esecutiva evidenzia l’esistenza di un legame progettuale e analogie nel modus operandi. Il costante utilizzo di autobombe, l’impiego di rilevanti quantità di esplosivi dello stesso tipo, l’individuazione di luoghi ed orari tali da procurare il massimo della risonanza senza provocare, almeno nelle intenzioni, necessariamente vittime, così da diffondere terrore generalizzato, l’assenza di rivendicazioni credibili, sono tutti elementi certi di analogia tra i fatti in esame, mentre le modalità di esecuzione ed il numero degli stessi, la loro distribuzione sul territorio forniscono il quadro della forza di chi ha agito, soprattutto se si considera che altri attentati erano stati progettati e, per varie cause, non sono stati portati a termine… ci si trova difronte a gruppi operativi affiatati e, nel caso degli ultimi episodi, anche ben collegati tra loro ed in grado di agire con sostanziale simultaneità in città diverse. In assenza di rivendicazioni specifiche, è d’obbligo il riferimento ad un’organizzazione criminale che sia in grado di impiegare basi logistiche dislocate nei luoghi interessati, capace di un adeguato controllo del territorio e con disponibilità di mezzi e strumenti idonei per la realizzazione di un progetto stragista. L’organizzazione criminale che più di tutte racchiude in sé tali caratteri, almeno su basi militari e di caratura criminale, è sicuramente “cosa nostra” siciliana.

LE CAPACITA’ OPERATIVE DI “COSA NOSTRA” E DELLE ORGANIZZAZIONI DI TIPO MAFIOSO AD ESSA COLLEGATE AI FINI DELLA ESECUZIONE DEGLI ATTENTATI

Nelle attività dirette all’esterno, “cosa nostra” ha come referenti, come si vedrà, più categorie di interlocutori, una delle quali è costituita dalle altre forme di criminalità organizzata presenti sul territorio. L’organizzazione siciliana è ormai considerata l’asse portante di un autentico “sistema criminale” in cui convergono le altre più pericolose consorterie di stampo mafioso e non.

Rapporti con la ‘ndrangheta.

Per quanto attiene ai rapporti con la ‘ndrangheta, le indagini svolte hanno condotto alla constatazione che la criminalità organizzata calabrese non solo può essere ormai considerata per alcuni aspetti parte integrante di “cosa nostra”, ma che la stessa ha raggiunto livelli di pericolosità perlomeno pari a quelli della struttura siciliana.

Nel 1991, ai termine di una lunga trattativa, è stato costituito un organismo provinciale unico, un’autentica “commissione” calabrese, sotto la quale sono stati raccolti tutti i gruppi. Nella circostanza è stata determinante l’opera di mediazione di “cosa nostra”, già da tempo in stretto contatto con alcuni gruppi della ‘ndrangheta

Con la costituzione della “commissione” calabrese i legami tra la ‘ndrangheta e “cosa nostra” siciliana sono diventati talmente forti che, pur non potendosi parlare di una organizzazione unica, certamente è possibile pensare ad una strettissima alleanza. A riprova di quanto affermato, vi sono le risultanze delle indagini condotte dalla D.I.A. in ordine all’omicidio del giudice Antonio Scopelliti. E’ infatti accertato che l’omicidio è stato commesso dai calabresi su richiesta di “cosa nostra” siciliana che intendeva cosi provocare un rinvio dell’imminente processo pendente innanzi alla Corte di Cassazione contro i suoi più autorevoli esponenti.

Sulla consistente presenza nel nord Italia dei sodalizi criminali calabresi, sono oramai acquisiti molteplici riscontri. Vale la pena di soffermare l’attenzione sulle famiglie dei Barbaro – Papalia di Plati, individuate a Milano, ove operavano nel campo dei sequestri di persona e del traffico di  stupefacenti,autonomamente e in raccordo con famiglie di “cosa nostra” siciliana.

Nell’ambito del gruppo Papalia, la figura del suo capo, Papalia Domenico, nato a Piati (Re) il 18.04.45, appare di notevole interesse per una circostanza che ancora deve essere chiarita, ma che si ritiene certamente rilevante. Infatti di costui, come si è già accennato, ha parlato Gioè Antonino, noto esponente della famiglia di Altofonte (PA), arrestato a seguito di una intercettazione ambientale dalla quale sono stati raccolti elementi che lo collegavano ad azioni stragiste compiute e in progettazione da parte di “cosa nostra”, morto suicida per impiccamento il 28 luglio 1993 nel carcere di Rebibbia. Il Gioé ha lasciato una lettera in cui smentiva il contenuto delle conversazioni intercettate e, tra l’altro, si prodigava senza apparente motivo per dichiarare l’innocenza di Papalia Domenico, condannato per omicidio. Il Gioè, infatti, affermava, con una giustificazione peraltro banale, che quando aveva detto di aver appreso in carcere dal Papalia stesso che in effetti era lui l’autore dell’omicidio per cui era stato condannato, aveva detto una cosa non vera e lo aveva detto al solo scopo di accreditarsi come un criminale al corrente di molte cose. Il Papalia Domenico è stato arrestato 1’8 marzo 1977 in un appartamento del quartiere Montesacro a Roma, in esecuzione di un ordine di cattura perché ritenuto responsabile di sequestro di persona ai danni di Ferrarmi Giuseppe avvenuto il 9.7.75 a Corsico (MI) e, da allora, è sempre stato detenuto. In data 3.12.80 il Papalia è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Antonio D’Agostino, avvenuto il 2.11.76 in Roma. Secondo quanto accertato in sede processuale, mentre il D’Agostino, esponente di spicco della criminalità organizzata calabrese, si intratteneva a parlare col Papalia dinanzi ad un ristorante romano, era transitato un giovane che, giratosi di scatto, aveva esploso colpi di pistola all’indirizzo del D’Agostino, uccidendolo. La Corte d’Assise di Roma ha condannato il Papalia quale esecutore materiale dell’omicidio, accogliendo la tesi secondo cui il giovane di passaggio avrebbe sparato con una scacciacani, al solo scopo di distrarre il D’Agostino che era stato in realtà ucciso dal Papalia. Tale giudizio è stato confermato sia in sede di Appello, che di ricorso in Cassazione. Nel 1992 prendeva l’avvio una singolare campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica tendente alla revisione del processo ed alla scarcerazione del Papalia. L’opera dì sensibilizzazione proseguiva nel 1993 anche per opera del giornalista di Platì Antonio Delfino e dei parenti del D’Agostino e dello stesso magistrato che acquisì le prove della colpevolezza del Papalia, mentre veniva inoltrata la richiesta di grazia al Presidente della Repubblica. In contrapposizione a tale iniziativa si registravano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Morabito Saverio, affiliato all’organizzazione criminale Papalia – Sergi dal 1977 al 1992, dalle quali si evince che l’omicidio del D’Agostino fu effettivamente ideato ed organizzato da Papalia Domenico. Il procedimento di revisione è in corso.

Rapporti con la camorra.

In Campania è noto da tempo che, alcune delle più agguerrite organizzazioni criminali locali, hanno instaurato stretti rapporti con “cosa nostra” siciliana che è riuscita, malgrado i violenti fermenti che in più riprese hanno sconvolto gli equilibri locali, ad assicurare la propria presenza stabile nel tempo, con un ruolo criminale di primo piano. L’annessione era avvenuta prima, attraverso la formale affiliazione degli elementi più rappresentativi, tra i quali basta ricordare Nuvoletta, Zaza, Bardellino, D’Alessandro. A riprova di tali legami è la circostanza riferita dal collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo secondo la quale egli stesso sarebbe stato affiliato a “cosa nostra” in Murano (NA), presso la tenuta di Lorenzo Nuvoletta. In un secondo tempo, allo scopo di radicare ancor meglio il legame, già efficace, con quei napoletani che erano validamente inseriti nelle attività criminali, venne autorizzata la costituzione in Campania di famiglie di “cosa nostra” e la creazione di un vero e proprio “mandamento” che, pur privo di un proprio referente in seno alla “commissione” di Palermo, era rappresentato direttamente dal “segretario della commissione”.

Rapporti con la sacra corona unita.

Anche dalle indagini sviluppate sulla struttura e sulle attività di alcune organizzazioni pugliesi sono emerse iniziative che discendono da “cosa nostra”, intese ad annettere le organizzazioni locali di maggior spessore.

Conclusioni

Sembra possibile affermare che, specie in questi ultimi dieci anni, si è verificato un fenomeno di progressiva aggregazione tra forme di criminalità organizzata di diversa estrazione e, in alcuni casi, anche una contestuale compattazione all’interno di esse. Favorevole ad una tendenza di questo tipo è stata “cosa nostra” siciliana che ad ogni circostanza propizia si è adoperata per rimuovere le condizioni che ne ostacolavano la realizzazione.

Il rischio che attualmente si profila è che la decisa e continua azione repressiva dello Stato induca all’attivazione della forma di aggregazione criminale di cui si è detto anche nel perseguimento di obiettivi strategici per la salvaguardia dell’interesse comune alla sopravvivenza, ricorrendo a tecniche di puro stragismo, un tempo non adottate dalla mafia. Alcune testimonianze, recepite dopo gli attentati della scorsa estate, hanno posto in evidenza, come si vedrà in seguito, l’esistenza di consultazioni in ambito carcerario, tra elementi appartenenti a differenti forme di criminalità organizzata, finalizzate all’esecuzione di attentati dimostrativi proprio per dare una risposta forte all’azione repressiva dello Stato.

PER UNA SCELTA DI TIPO TERRORISTICO PURO

Alla luce del quadro d’insieme che si viene a prospettare circa il complesso di cointeressenze, alleanze e interconnessioni tra “cosa nostra”, ‘ndrangheta, camorra, criminalità organizzata pugliese e romana, complesso di forze criminali che per comodità di trattazione verrà definito d’ora in avanti come un “sistema criminale” senza per questo voler intendere una struttura monolitica, appare evidente quale possa essere la capacità operativa dispiegabile da detto sistema in qualunque regione del territorio nazionale. Quanto ai motivi che avrebbero indotto “cosa nostra” e con essa l’intero “sistema criminale”, a ricorrere al terrorismo essi vanno certamente ricercati nella rinnovata efficacia dell’azione dello Stato, condotta con determinazione e senza cali di tensione. In particolare è stata già in più occasioni sottolineata l’importanza assunta dal trasferimento dei boss in particolari istituti di pena in attuazione dell’Art. 41 bis in virtù del quale è stato attribuito al Ministro di Grazia e Giustizia il potere di sospendere l’applicazione, per gli autori dei delitti più gravi, di alcuni benefici inerenti al trattamento penitenziario. Grazie alle pesanti restrizioni imposte alla vita carceraria ed in particolare all’isolamento, che ha notevolmente limitato ogni forma di contatto con l’esterno, i detenuti non sono più riusciti ad esercitare efficacemente la loro azione di comando dall’interno delle carceri, venendo in tal modo delegittimati e perdendo gradualmente potere all’interno dell’organizzazione. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa.

[…] Al riguardo va considerato che, solo alcuni giorni prima degli attentati di Milano e Roma (21 e 22 luglio 1993), il Ministro di Grazia e Giustizia aveva disposto il rinnovo dei provvedimenti di sottoposizione al regime speciale per circa 284 detenuti appartenenti ad organizzazioni mafiose. La logica che ha fatto considerare vincente l’attuazione di una campagna del terrore deve aver avuto alla base il convincimento che, dovendo scegliere se affrontare una situazione di caos generale o revocare i provvedimenti di rigore nei confronti dei mafiosi, le Autorità dello Stato avrebbero probabilmente optato per la seconda soluzione, facilmente giustificabile con motivazioni garantiste oppure, come avvenuto in passato, affidando all’oblio, agevolato dall’assenza di nuovi fatti delittuosi eclatanti, una “normalizzazione” di fatto. In sintonia con tale interpretazione appare il contenuto di uno scritto anonimo, pervenuto nello scorso agosto presso l’ufficio DIA di Milano. Trattasi di un documento, già portato a conoscenza dell’A.G. che, benché anonimo, si ritiene degno di attenzione. Lo scritto avvertiva che, sin dal febbraio ’93, i boss di “cosa nostra” avevano programmato la perpetrazione di attentati dimostrativi, da eseguire di notte e senza causare vittime, allo scopo di stimolare opportuni contatti con rappresentanti di Servizi di Sicurezza, nel corso dei quali poter avanzare la richiesta di allentare la pressione investigativa e di “aggiustare” i processi ancora in corso di svolgimento. Qualora tale fase non avesse sortito l’esito sperato, prosegue l’anonimo, i mafiosi, d’intesa con elementi croati collegati al traffico di armi e droga, avrebbero provocato attentati alla frontiera italo slovena sino a giungere ad un’offensiva finale che avrebbe visto l’impiego di armi pesanti con numerose vittime innocenti, nonché sabotaggi a vie di comunicazioni ed attentati a tribunali od altre sedi. Prescindendo comunque dall’esprimere giudizi di merito sul contenuto della missiva, va rilevato che per il tipo e la quantità di esplosivo impiegato, i luoghi prescelti per i recenti attentati appaiono idonei a provocare stragi di grosse dimensioni, non avvenute verosimilmente per una precisa scelta degli attentatori che, pur avendo posizionato le macchine con l’esplosivo in luoghi di notevole afflusso (in via Pauro c’è una scuola, in via dei Georgofili c’è il museo, via Palestro S.Giovanni/via del Velabro di giorno sono molto affollati), hanno programmato l’esplosione in un orario in cui la possibilità di arrecare danni alle persone fosse ipoteticamente ridotta. E tale insolita circostanza, che non sembra occasionale, a far sospettare che scopo primario di questi ultimi episodi criminali potesse essere non tanto l’esecuzione di una strage indiscriminata, quanto piuttosto quello di lanciare un messaggio che, per i suoi contenuti di morte, venisse subito chiaramente interpretato dai destinatari istituzionali.

Sembra ipotizzarle, con sufficiente grado di certezza, che l’analisi fatta dai criminali in via preventiva circa i possibili risultati delle loro azioni dinamitarde, di matrice oscura perlomeno per l’opinione pubblica, avrebbe potuto portare le Istituzioni, preposte alla sicurezza pubblica ed all’amministrazione della giustizia, alla incapacità di gestire una “emergenza bomba”. Di fronte a tale difficoltà, sarebbe stato possibile prima orientare l’opinione pubblica verso il convincimento che le stragi fossero di matrice politico-terroristica, casomai di origine internazionale, e, in un secondo e ravvicinato momento, allentare la pressione sul carcerario, i cui destinatari, cioè la criminalità organizzata, aveva poco a che fare con le “bombe”.

LE INDAGINI VOLTE ALLA IDENTIFICAZIONE DEGLI ESECUTORI DELLE STRAGI

[…] Indicazioni acquisite nella fasi di avvio delle investigazioni riconducono all’ipotesi che vede “cosa nostra” ed il “sistema criminale” ad essa connesso in veste di struttura esecutiva.

Si ritiene, inoltre, che il “sistema criminale” sopra delineato possa avere connessioni con altre “presenze” legate al mondo affaristico-economico, nonché ad altri gruppi criminali perseguenti obiettivi politici. In questo contesto è stata posta l’attenzione su alcuni ambienti che in passato hanno dimostrato disponibilità a forme di collaborazione con la criminalità organizzata di tipo mafioso, in alcuni casi anche per la perpetrazione di attentati, così come è avvenuto per l’area ideologica dell’estrema destra.

L’AMBIENTE POLITICO – AFFARISTICO

La c.d. copertura a livello politico di “cosa nostra”, comune anche ad altri gruppi della criminalità organizzata, trova dunque il suo logico presupposto nel primario bisogno della mafia di imporsi con strumenti diversi, ma non meno condizionanti, da quello della violenza fisica. E’ anche in virtù di tali presupposti che la lotta alla mafia ha avuto vittime soprattutto tra coloro che hanno intuito e combattuto questo sistema di potere, anche se negli ultimi tempi, venute meno le protezioni per una crisi profonda dell’attuale sistema sociale e politico e per la conseguente incapacità di garantire “protezioni”, la reazione delle organizzazioni criminali mafiose ha conosciuto punte di aggressività più accentuate ed efferate. Gli omicidi di Rocco Chinnici, di Pier Santi Mattarella, di Pio La Torre, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Boris Giuliano, di Ninni Cassarà, di Libero Grassi, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, solo per citarne alcuni, sono in fondo delitti compiuti non solo contro il singolo, ma anche contro il potere statale e la componente sana della società che essi rappresentavano. Motivazioni diverse, come appresso meglio vedremo, sarebbero invece alla base degli omicidi di Salvo Lima ed Ignazio Salvo, che hanno segnato un vero e proprio cambio di strategia della “cosa nostra” palermitana. E’ risultato, infatti, in più inchieste giudiziarie, alcune tuttora in corso, che costoro hanno per anni rappresentato, con diversi ruoli ma complementari tra loro, l’elemento di congiunzione tra l’organizzazione mafiosa e taluni settori politici ed imprenditoriali, anche al di là di singole vicende siciliane. La loro eliminazione ha consentito a “cosa nostra” di dare un preciso segnale con cui rivendicare il proprio potere sul territorio e lanciare un chiaro monito a chi viola i patti o non ne realizza le aspettative. La logica di quest’ultima considerazione si ritrova nel modo di agire stesso della mafia, che si muove all’interno del tessuto sociale creando una inestricabile ragnatela di interessi, frutto di un sistema che prevede, tra l’altro, lo scambio di favori con settori corrotti dell’apparato istituzionale in una sorta di flusso costante che non può e non deve interrompersi, non solo per motivi di mero interesse economico, ma anche perché verrebbe meno la forza intimidatrice dell’organizzazione.

[…]Proprio con riferimento all’omicidio di Salvo Lima, che sarebbe stato ucciso perché non era più in grado di garantire la necessaria copertura giudiziaria dopo il disastroso esito – per i mafiosi – della sentenza della Cassazione sul maxiprocesso. Il processo, infatti, anziché essere “aggiustato” secondo le aspettative, non solo confermò le pene ma certificò anche l’esistenza della “commissione” e la sua responsabilità nei delitti di interesse comune e strategico per

l’organizzazione.

GLI OMICIDI FALCONE E BORSELLINO COME INIZIO DELLA STRATEGIA DI ATTACCO ALLO STATO CONDOTTA DA “COSA NOSTRA” IN CONCORSO CON ALTRE FORZE CRIMINALI

La “cosa nostra” ha avviato la strategia di attacco frontale alle Istituzioni con la strage di Capaci. Obiettivo il Giudice Falcone il quale, pur non essendo più direttamente impegnato in indagini contro la criminalità mafiosa, nel suo nuovo incarico stava conducendo un’azione d’indirizzo della politica giudiziaria con prevedibili gravissime conseguenze, non solo per la mafia, ma per l’intero “sistema criminale”. Con la strage di via d’Amelio e l’omicidio del giudice Borsellino, erede morale di quanto aveva rappresentato Giovanni Falcone, si consolidava negli investigatori il convincimento che era stata intrapresa una strategia di scontro frontale contro lo Stato. Nella circostanza non si potevano infatti non riscontrare talune anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di “cosa nostra”, tanto da far ritenere che si fossero inserite nell’azione mafiosa patologie estranee, di origine non ben definita, ma tali da essere risultate determinanti per il verificarsi dell’evento. Alla data del delitto, infatti, il decreto legge emanato in risposta alla strage di Capaci, che esaltava alcuni poteri repressivi degli organi inquirenti e investigativi, era oggetto di serie perplessità, da parte della classe forense e della magistratura, che potevano preludere ad un drastico ridimensionamento del provvedimento in sede di conversione in legge. In un momento così delicato, a soli due mesi di distanza dalla strage di Capaci, l’esecuzione di un secondo gravissimo omicidio, per cui non esisteva alcuna apparente motivazione di urgenza, non sembra sia da ricondurre esclusivamente agli interessi immediati di “cosa nostra”.

L’organizzazione mafiosa, adusa a ponderare con cura le proprie mosse, non poteva non considerare che l’impatto sull’opinione pubblica sarebbe stato fortissimo e che altrettanto forte sarebbe stata la richiesta di adozione di severe misure di contrasto alla criminalità. Difatti con l’omicidio Borsellino cadde ogni perplessità nei confronti del provvedimento governativo che venne addirittura inasprito. L’apparente incongruenza della decisione presa da “cosa nostra” non può quindi trovare giustificazione se non interpretando la sua condotta come espressione della volontà di perseguire fini diversi da quelli logicamente ad essa attribuibili, quali quello di provocare il rinvio di un processo o impedire ad un magistrato di proseguire in una inchiesta capace di arrecare gravi danni all’organizzazione o semplicemente eseguire una vendetta.

Le considerazioni esposte inducono a ritenere che ci si trovi di fronte ad una logica diversa, meno cauta, servente interessi e finalità diverse, ma non necessariamente disgiunte da un vantaggio per “cosa nostra”.[…] Può quindi affermarsi che “cosa nostra”, con le stragi di Capaci e via d’Amelio, ha agito nonostante avesse previsto la dura reazione istituzionale. Il vertice dell’organizzazione ha agito nella piena consapevolezza dell’alto costo che avrebbe dovuto sopportare, in ossequio ad un interesse di gran lunga superiore che travalicava l’ambito prettamente mafioso.

I MOTIVI DEL TRASFERIMENTO DELLA STRA TEGIA TERRORISTICO – MAFIOSA AL DI FUORI DELLA SICILIA

E’ un dato di fatto che la stagione delle stragi, iniziata con Falcone e Borsellino, è proseguita con gli attentati di Roma, Firenze e Milano in un contesto storico politico del tutto particolare e diverso rispetto a quello di pochi mesi prima, con una situazione parlamentare di grave crisi, uomini politici e imprenditori ai massimi livelli travolti da “tangentopoli” ed una tempesta giudiziaria che si è abbattuta su uno dei servizi di sicurezza.

La medesima ineludibile ed improcrastinabile necessità di fermare l’azione dello Stato potrebbe essere stata avvertita sia dalla criminalità organizzata che da altri gruppi di potere criminale con una convergenza di interessi diversi in una strategia delinquenziale comune.

A questo punto la strage di Capaci e l’omicidio del giudice Falcone assumerebbe la fisionomia di qualcosa di più di una semplice vendetta della mafia per diventare un omicidio strategico, deciso da menti criminali diverse nel quadro di un progetto più ampio che non si riesce a definire.

Le stesse considerazioni sono maggiormente valide per la strage di via d’Amelio. A differenza di questi due delitti, gli attentati successivi vengono però eseguiti fuori dalla Sicilia e con connotazioni molto diverse: non si tratta più, quindi, di colpire uomini rappresentativi dello Stato, ma anche di seminare terrore e caos in forma generalizzata. La prima motivazione del cambio di strategia può essere ricercata nelle sollecitazioni che provenivano dagli affiliati detenuti tra i quali, a causa delle restrizioni in carcere, si era creato un diffuso malessere che aveva come destinatari i capi, sia perché alle loro decisioni si faceva risalire la causa delle nuove difficili condizioni detentive, sia perché sembrava che non si stessero adoperando per porvi rimedio. Inoltre è da tenere presente che nel periodo che intercorre tra le prime due stragi siciliane e gli attentati di Milano, Firenze e Roma, sono stati arrestati alcuni dei più importanti esponenti di “cosa nostra” tra cui lo stesso Riina.

Mantenere alto il livello di scontro in Sicilia, visti i precedenti, equivaleva a sottoporsi deliberatamente ai rigori dell’art. 41 bis a tempo indeterminato, proprio quando quasi tutti i massimi esponenti dell’organizzazione si trovavano detenuti. Bisogna rammentare che quando, all’epoca dell’omicidio Borsellino, “cosa nostra” accettò di sopportare dei sacrifici, nessuno poteva immaginare cosa sarebbe stato 11 art. 4i bis e anche che Salvatore Riina non era detenuto né prevedeva di diventarlo.

Una seconda motivazione derivava probabilmente dall’esigenza, questa volta condivisa anche dalle forze criminali che hanno affiancato la criminalità organizzata, di creare una situazione di allarme che fosse di carattere nazionale. […] Invece, con attentati anonimi, di oscura matrice, lontano da Palermo, nel cuore della Capitale, di Firenze, di Milano il pensiero della gente corre ad immagini di una mafia onnipresente, inafferrabile, minacciosa senza però averne alcuna prova, va alle onnipresenti ed evanescenti organizzazioni responsabili della strage di piazza Fontana, della stazione di Bologna e di tanti altri gravissimi attentati, immagina misteriose organizzazioni di ogni genere, italiane e straniere, e nell’impossibilità di dare una identificazione certa agli attentatori diventa più facile preda del terrore perché si trova ad essere minacciata da un pericolo senza volto.

I RAPPORTI NOTI TRA “SISTEMA CRIMINALE” E FORZE ILLEGALI DI DIVERSA ESTRAZIONE

Per cercare di individuare quali possano essere i compartecipi del “sistema criminale” nel disegno terroristico, in cui sono inquadrati gli attentati e le stragi oggetto della presente informativa, è necessario ricorrere alla ricerca di tutti i contatti che quella parte della criminalità organizzata di stampo mafioso appartenente al “sistema criminale” risulta aver avuto, in passato e recentemente, con altre entità criminali.

a. Ambienti massonici deviati.

La prima forma di associazionismo criminale di cui ci si deve occupare è costituita dalla cosiddetta “massoneria deviata”, intendendo con ciò quell’insieme di personaggi che sfruttando la propria qualità di affiliati alla massoneria si adopera come tramite tra elementi dediti ad affari illeciti, appartenenti ad ambienti che altrimenti difficilmente potrebbero comunicare tra loro. E’ stato incontestabilmente provato che “cosa nostra” si avvale di ambienti massonici per infiltrarsi e condizionare i settori istituzionali più difficilmente permeabili all’influenza mafiosa.

L’inchiesta a cui si fa riferimento ha accertato che mafiosi legati ad Agate Mariano sfruttavano le relazioni allacciate tramite la massoneria per attivare contatti con magistrati impegnati in processi che li riguardavano. Non va dimenticato che anche Salvatore Greco, detto il “senatore”, fratello di Michele, ed altri uomini d’onore risultarono iscritti alle logge palermitane, i cui elenchi furono trovati a Palermo, in via Roma, nel corso di una perquisizione nel 1986. […]Sono ampiamente noti, poi, i rapporti tra Sindona, legato alla Loggia massonica P2, e “cosa nostra”, di cui fu ospite nel 1979 in occasione del suo simulato rapimento.

Da ultimo si ricordano i legami tra “cosa nostra” e la Loggia P2 che sono emersi dalle indagini, ancora aperte, sugli intricati intrecci tra Pippo Calò, la banda della Magliana e uomini legati a Gelli come Roberto Calvi e Flavio Carboni. […] Anche a Milano si rinvengono canali di contatto tra la ‘ndrangheta e la massoneria di Licio Gelli. Ci si riferisce ancora al Papalia Domenico, sul conto del quale ci si è già soffermati, […].

b. Gli ambienti della destra eversiva.

Già sono stati ricordati i primi contatti, avvenuti nel 1970, tra “cosa nostra” siciliana e la destra eversiva in occasione del golpe Borghese. In epoca più recente è stato certamente Pippo Calò, attraverso i suoi rapporti romani con la banda della Magliana, ad avere la possibilità di contattare appartenenti all’estremismo di destra. Un dato di fatto certo è che, con riferimento alla strage del rapido 904, in quella circostanza, come si è già avuto modo di dire, una componente della struttura che operò era formata da uomini del gruppo napoletano di Giuseppe Misso, il quale aveva dato alla sua organizzazione una connotazione anche ideologica di estrema destra.

Una connessione tra “cosa nostra” e l’estremismo di destra è emerso con la scoperta degli autori della strage di Capaci. Tra questi, infatti, si trova Pietro Rampulia, da Mistretta, che ebbe il ruolo di artificiere. […] Oltre che mafioso il Rampulla vanta pregiudizi di natura politica […]. A tale periodo  risale infatti la sua adesione ad Ordine Nuovo e la sua conoscenza con Cattafi Rosario, unitamente al quale fu denunciato e successivamente condannato per lesioni. Il Cattafi Rosario, da Barcellona Pozzo dì Gotto (ME), anch’egli militante di Ordine Nuovo, nei primi anni 70 ha vissuto le medesime esperienze del Rampulla venendo più volte denunciato.[…].

c. I servizi segreti.

La trattazione dell’argomento deve essere affrontata con responsabile prudenza perché i riferimenti ai servizi di sicurezza che si rinvengono sono sempre generici, senza alcuna indicazione che consenta di individuare con esattezza a quale organismo ci si debba esattamente riferire. Anche quando taluno viene indicato come appartenente ai servizi segreti non è mai possibile stabilire quale ruolo ricopra in quegli ambiti: funzionario regolarmente inquadrato, collaboratore esterno, informatore. […] L’unica prova concreta dell’esistenza di rapporti tra criminalità organizzata e servizi segreti è stata raccolta nel contesto della recente indagine condotta dalla D.D.A. di Palermo sui legami tra mafia e massoneria mediante i quali “uomini d’onore” di Mazara del Vallo tentavano di “aggiustare” i processi. Nel relativo provvedimento di custodia cautelare si legge di una conversazione intercorsa tra due “uomini d’onore” di Mazara del Vallo, raccolta a mezzo di intercettazione ambientale, durante la quale si fa esplicito riferimento ai servizi segreti ed ai loro legami con ambienti massonici e giudiziari, questi ultimi da avvicinare per il tentativo di aggiustare i processi. Contatti con i servizi segreti sono emersi nel corso degli anni a proposito della “Banda della Magliana”, con cui Pippo Calò, malgrado le sue smentite, ha mantenuto rapporti strettissimi.

Per quanto riguarda Licio Gelli e i suoi rapporti con i servizi segreti, oltre alle molteplici risultanze processuali, basterà rammentare come nel 1978 il prefetto Walter Pelosi, direttore del Cesis, il generale Giulio Grassini, direttore del Sisde, e il generale Giuseppe Santovito, direttore del Sismi, fossero tutti iscritti alla P2.

d. Attività di depistaggio e campagna di disinformazione

[…] Altro elemento di inquinamento e di disinformazione è lo stillicidio di minacce e rivendicazioni della “Falange Armata”, organizzazione terroristica nota solo per i suoi comunicati ed atti intimidatori, che sembra essere solo una sigla usata da diverse componenti. Da parte dell’organizzazione in argomento sono state rivendicati, mediante telefonate ad agenzie d’informazione di varie città, l’omicidio di Salvo Lima, le stragi di Capaci e di via d’Amelio, gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgojìli a Firenze, di San Giovanni in Laterano e via del Velabro a Roma e di via Palestro a Milano.

CONCLUSIONI

La presente informativa che ha lo scopo, come si è detto, di individuare ipotesi investigative e delineare un possibile quadro globale di riferimento degli eventi stragistici del 1993, in virtù della quantità e qualità dei dati riscontrati nell’ambito di procedimenti penali e di indagini tuttora in corso presso le diverse competenti DDA relative ad attività criminali di tipo mafioso, di tipo mafioso-politico, di tipo mafioso-massonico e di tipo stragistico, può diventare una chiave di lettura unitaria in relazione alle stragi di cui all’oggetto.

L’attualizzazione dei rapporti tra le persone indicate nel presente documento e soprattutto l’individuazione dei loro nuovi ed aggiornati punti di contatto potranno essere la chiave di lettura per risolvere in senso positivo, con l’acquisizione di riscontri probatori certi, le inchieste sulle stragi.


La misteriosissima Falange Armata   Una corposa parte dell’istruttoria dibattimentale è stata dedicata anche al fenomeno della “Falange Armata” in relazione a due diversi, più o meno esplicitati, profili.In particolare, sotto un primo profilo, la Pubblica Accusa ha fatto riferimento all’utilizzo delle rivendicazioni degli attentati ad opera della Falange Armata come forma di rafforzamento della minaccia utilizzata da “cosa nostra” nei confronti dello Stato.

Sotto un secondo profilo, invece, la Pubblica Accusa si è riferita alla Falange Armata con riguardo al concorso nel reato di minaccia da parte di terzi ignoti riconducibili all’area dei c.d. “servizi segreti deviati”.

E’ necessario, pertanto, dare conto di alcune risultanze dell’istruttoria dibattimentale compiuta ancorché della Falange Armata non vi sia alcuna traccia nel capo di imputazione di cui alla lettera a) della rubrica e la stessa istruttoria non abbia consentito di acquisire elementi di particolare utilità ai fini della ricostruzione delle responsabilità penali qui in esame.

[…] Quanto alle acquisizioni documentali, vi sono agli atti, innanzitutto, due sentenze pronunziate nei confronti di colui che, all’esito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Roma[…], venne individuato quale autore di telefonate di rivendicazione a nome della c.d. “Falange Armata”

Si tratta, in particolare, delle due sentenze di merito divenute irrevocabili.

La prima di esse è la sentenza del Tribunale di Roma Sez. 7 del 17 marzo 1999 nei confronti di Scalone Carmelo per il reato di cui ali ‘art. 416 c.p. (commesso fino al 21 ottobre 1993 per essersi associato al sodalizio denominato “Falange Armata”), nonché per i reati di cui agli art. 336 c.p. e 289 c.p., con la quale il predetto imputato venne condannato alla pena di anni 3 di reclusione.

Nella detta sentenza, tra l’altro, si legge che il 12 ottobre 1993 era stata individuata un’utenza chiamante utilizzata per alcune rivendicazioni a nome della Falange Armata risultata corrispondente ad una abitazione in Taormina nella disponibilità di Scalone Carmelo, arrestato, quindi, il25 ottobre 1993.

La prima delle dette rivendicazioni veniva fatta risalire, però, a oltre tre anni prima. L’11 aprile 1990, infatti, era stato ucciso a Milano l’educatore carcerano Umberto Mormile e alle ore 15,40 era pervenuta all’ANSA di Bologna una telefonata di rivendicazione senza indicare alcuna sigla (“Non importa chi sono, ci conoscerete in seguito”).

Nei giorni successivi, quindi, erano seguite altre telefonate di minaccia sempre senza sigla.

Il 22 maggio 1990 erano, poi, pervenute alle Carceri di San Vittore e Opera alcune telefonate nelle quali, per la prima volta, si faceva riferimento alla sigla “F.A.C. – Falangi Armate Carcerarie”.

Indi, dai primi giorni del 1991, iniziava a comparire la sigla “Falange Armata” (anziché quella di “Falangi Armate Carcerarie” prima utilizzata) con la rivendicazione dell’omicidio di tre carabinieri avvenuto a Bologna.

Si erano susseguite telefonate di minacce, tra le quali quelle nei confronti di Amato per la politica riformista all’interno delle carceri e per l’applicazione di benefici a detenuti appartenenti ad aree ideologiche diverse (telefonata del 7 aprile 1991).

Innumerevoli sono, poi, le telefonate di minaccia o rivendicazione che vennero fatte a nome della “Falange Armata” ed è opportuno ricordarne alcune citate nella sentenza In esame perché più attinenti al temi oggetto del presente processo.

Il 20/6/1991 telefonata che preannunzia l’uccisione dell’Ambasciatore Fulci da poco nominato segretario del Cesis.

Il 26/9/91 telefonata di minaccia nei confronti del Ministro della Giustizia.

Il 26/6/92 telefonata di minaccia nei confronti del Ministro dell’Interno Scotti (si ricorda l’attentato al Ministro spagnolo Carrero Bianco).

Il 13/7/92 telefonata di minaccia nei confronti di Leoluca Orlando e Giuseppe Ayala.

Il 4/9/92 telefonata di minaccia nei confronti di Antonino Caponnetto.

Il 9/9/92 telefonata di minaccia nei confronti del Ministro dell’Interno Mancino,

di Achille Serra (direttore SCO) e Antonio Manganelli (vice di Serra).

Il 19/11/92 telefonata di minaccia nei confronti di Andreotti, Mancino e il capo della Polizia Parisi.

Il 14/1/93 telefonata di minaccia nei confronti del Seno Spadolini.

L’1/4/93 telefonata di minaccia con la quale si indicano come obbiettivi della Falange Armata il Presidente della Repubblica Scalfaro e gli Ono Mancino e Spadolini.

Il 10/4/93 telefonata di minaccia nei confronti di Martelli.

Il 21/4/93 telefonata di minaccia nei confronti di Martelli, Parisi, Spadolini e Mancino.

Il 14/6/93 telefonata con la quale “la Falange Armata manifesta la sua soddisfazione per la nomina alla Direzione Generale Istituti pena di Alberto Capriotti in luogo di Nicolò Amato, considerando la sostituzione di quest’ultimo come una vittoria della Falange stessa” (v. pago 16 della sentenza citata).

Il 16/6/93 telefonata di minaccia nei confronti di Parisi e Mancino.

Il 16/9/93 telefonata di minaccia nei confronti di Capriotti e Di Maggio.

Il 18/9/93 telefonata con la quale si smentisce l’ipotesi del coinvolgimento nella Falange Annata di ufficiali del SISMI o altro personale di questo servizio.

Il 19/9/93 telefonata di minaccia nei confronti del Presidente della Repubblica Scalfaro.

Il 21/9/93 telefonata di minaccia nei confronti del Presidente della Repubblica Scalfaro.

Il 7/10/93 telefonata di minaccia nei confronti di Capriotti e Di Maggio.

Tuttavia, nel giudizio di secondo grado, la predetta sentenza fu riformata e Cannelo Scalone fu assolto per non avere commesso il fatto.

Da tale sentenza della Corte di Appello di Roma del 20 novembre 200 l risulta, infatti, che a seguito dell’acquisizione di una perizia fonica effettuata nell’ambito di un procedimento svolto si a Firenze su telefonate giunte all’ANSA di Firenze, la cui paternità era stata attribuita a Scalone e che aveva, invece, concluso che la voce del parlatore (anche per una telefonata proveniente dall’utenza sita nella casa di Taormina dell’imputato) non era quella di Scalone, venne disposta una nuova perizia tecnica.

Ebbene, ancora secondo le risultanze di tale sentenza, all’esito degli ulteriori accertamenti tecnici, il Perito incaricato Raffaele Pisani, innanzi tutto, riferì che “risulta tecnicamente impossibile stabilire l’utenza dalla quale provengono le telefonate registrate dal R.O.S. presso l’Agenzia ADNKRONOS … ” e che la comparazione fonica escludeva che le telefonate fossero state fatte da Scalone (in particolare, veniva esclusa la corrispondenza per tutte e tre le telefonate registrate, nelle quali, peraltro, il telefonista era stata sempre persona diversa, infatti indicata come ignoto A, B e C).

Tra gli altri documenti acquisiti riguardo alla “Falange Annata”, a parte gli innumerevoli dispacci di agenzia e articoli di stampa concernenti le telefonate nel tempo effettuate con la predetta sigla, oltre che l’elenco dei comunicati (con relativo testo) consegnato dalla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione alla difesa degli imputati Subranni e Mori (v. nota dell’II dicembre 2014 in atti) ed acquisito con ordinanza del 29 giugno 2017, possono, poi, ricordarsi:

l) l’annotazione riportata sull’agenda del Presidente del Consiglio Ciampi alla pagina del giorno 28 settembre 1993 all’esito di un colloquio avuto con il Presidente della Commissione Stragi: “a) richiama attenzione su Falange Armata (a suo dire sottovalutata) b) fra qualche giorno la

Commissione ascolterà Pippo Calò “;

2) la Cartella intestata “SENATO DELLA REPUBBLICA” intitolata con dicitura manoscritta “Bloc-Notes Riflessioni vacanze natalizie ’92-’93” contenente un documento dattiloscritto composto da 23 fogli avente il titolo “BLOC NOTES RIFLESSIONI SUL PERIODO NATALEEPIFANIA

1992-1993″, acquisita il 29 ottobre 2015 in Firenze presso la “Fondazione Spadolini Nuova Antologia” e, in questo processo, con ordinanza del 14 dicembre 2017. Nel dattiloscritto prima indicato, il Seno Spadolini fa riferimento alle minacce ricevute dalla Falange Armata nell’anno 1993: “…Questa volta – era il venerdì 18 dicembre, stavo offrendo il consueto pranzo di Natale agli amici più stretti della cerchia storica – fui informato dal comando del corpo Carabinieri del palazzo che c’era stata una comunicazione di morte da parte della Falange Armata presso la redazione dell’ANSA di Genova. Detti la notizia, con la imperturbabilità di sempre, ai miei amici ricordando che un’analoga vicenda mi aveva colpito al pranzo in una casa esterna a Castiglioncello la sera del 20 e 22 agosto …. …. ….. La mano assassina che si levava ancora una volta con i consueti comunicati della Falange Armata veniva attribuita a quella persistente vena terroristica di cui la P2 è stata interprete in Italia. Furono i giorni, tra il 22 e il 29 di agosto, che passai a Castiglioncelio in mezzo ad uno schieramento eccezionale di forze di copertura, durante i quali mantenni un viaggio a Livorno … …….. Tornai poi a Roma a fine agosto …. … …. Quella sera improvvisamente a Palazzo Giustiniani sentii che si tornava sulla stessa lunghezza d’onda. In una delle numerose conversazioni televisive fatta nella prima quindicina di dicembre, e tale da rilanciare molto il mio nome e la mia immagine nella gente, avevo anche accennato alla P2 proprio a riguardo delle nuove rivelazioni circa l’assassinio di Calvi …. … …. E di nuovo anche nella mia mente la connessione P2-attentati e l’istintivo tornare su quell’accenno perentorio alle collusioni fra mafia e P2 che da agosto hanno ricevuto tante conferme e tante ulteriori prove, e non mettere la questione un po’ da parte senza esagerare in nessun modo la portata. Se non che il mattino dopo, e questa volta semplicemente attraverso la mia scorta, mi giungeva notizia di un secondo manifesto della Falange Armata e Bologna, e più tardi quella di una comunicazione della Falange Armata a Napoli al giornale 11 Mattino, che risuonava esattamente come quella di agosto: “Avvertite Spadolini è suonata la sua ora”. […]”;

3) l’altra Cartella intestata “SENATO DELLA REPUBBLICA” intitolata con dicitura manoscritta “Minacce”, pure come sopra rinvenuta ed acquisita, contenente una missiva manoscritta dell’On. Spadolini datata 7 aprile 1993 che inizia con le parole “Caro Presidente” cui sono allegati cui sono allegati tre dispacci relativi a segnalazioni di minacce di morte e, in particolare, la prima relativa ad una telefonata anonima ricevuta dall’Agenzia ANSA il 6 aprile 1993 (“Numero di codice 181432. 11 Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il Presidente del Senato Giovanni Spadolini e il Ministro dell’Interno Nicola Mancino sono nel mirino politico e militare della Falange Armata. Non ci resta altro che attendere”); la seconda relativa da una telefonata del 2 aprile 1993 ricevuta dalla redazione del Corriere della Sera (”Verrà fatto un attentato al Capo dello Stato Scalfaro e a Spadolini”); la terza relativa ad una telefonata ricevuta dalla Agenzia ANSA il l aprile 1993 (“Certa parte anche importante del potere giudiziario non più a lungo, possiamo assicurare, riuscirà a nascondere all’opinione pubblica ad usare impunemente come insostituibili strumenti di servizio e di controllo Scalfaro, Spadolini, Mancino. L’azione verrà forzata quando non decideremo non unificante prima. La bomba istituzionale è innescata. L’operazione militare è ineluttabile. […] l’organizzazione è in grado di eseguire in qualsiasi momento lo decida. 181432 Falange Armata”);

4) il verbale del Comitato Nazionale Ordine e Sicurezza Pubblica del 30 luglio 1993 (prodotto dalla difesa degli imputati Subranni, Mori e De Donno all’udienza dell’8 ottobre 2015 e sopra già citato), dal quale risulta il riferimento che anche in quella sede il Capo della Polizia Parisi ebbe a fare al fenomeno della “Falange Armata […];

5) il resoconto dell’audizione dinanzi la Commissione Parlamentare Antimafia in data Il ottobre 1995 del Dott. Saviotti, magistrato della Procura della Repubblica di Roma che si era occupato delle indagini sulla “Falange Armata” (documento prodotto dalla difesa degli imputati Subranni, Mori e De Donno all’udienza dell’8 ottobre 2015). Nel corso di tale audizione vengono ricostruite almeno in parte le indagini effettuate da quell’Ufficio e vengono sviluppate alcune analisi che qui possono omettersi in quanto confluite, poi, nelle sentenze sopra già ricordate;

6) l’articolo di stampa pubblicato sul quotidiano La Repubblica il 30 dicembre 1992 contenente un’intervista a Nicola Mancino dal titolo: “Era pagato per sporcarsi, ci dicano presto se ha sbagliato” (documento prodotto dalla difesa degli imputati Subranni, Mori e De Donno all’udienza dell’8 ottobre 2015), nel quale il medesimo Mancino dice a proposito della Falange Armata: “Le cito quel che risulta dall’ultimo rapporto ricevuto. E’ definita istituzione fantomatica. Si inserisce in attività violente tentando di far credere di esserne partecipe. E’ una centrale di intelligence: che pratica orari di ufficio (mai rivendicazioni o comunicati di notte o di mattina presto) o simula una struttura burocratica. A volte ha rivendicato delitti mai avvenuti…”);

7) l’informativa della Direzione Investigativa Antimafia sottoscritta in data 4 marzo 1994 dal Capo Reparto Investigazioni Giudiziarie Dott. Pippo Micalizio (documento prodotto dal P.M. all’udienza del 26 settembre 2013 e sopra già ricordato) che contiene un’ampia ricostruzione delle indagini svolte sulle stragi degli anni 1992-1993 e sui collegamenti dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” con altre organizzazioni criminali, sia di stampo mafioso, sia di stampo terroristico con un riferimento anche al fenomeno della Falange Armata ove si legge: ”Altro elemento di inquinamento e di disinformazione è lo stillicidio di minacce e rivendicazioni della “Falange Armata”, organizzazione terroristica nota solo per i suoi comunicati ed atti intimidatori, che sembra essere solo una sigla usata da diverse componenti. Da parte dell’organizzazione in argomento sono state rivendicati, mediante telefonate ad agenzie d’informazione di varie città, l’omicidio di Salvo Lima, le stragi di Capaci e di via d’Amelio, gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze, di San Giovanni in Laterano e via del Velabro a Roma e di via Palestro a Milano”;

8) il resoconto della seduta del 20 luglio 1992 dinanzi la Camera dei Deputati (documento prodotto all’udienza del 19 giugno 2014 dalla difesa di Nicola Mancino e, poi, sull’accordo delle parti, acquisito alla successiva udienza del 26 giugno 2014) contenente l’intervento del Ministro dell’Interno Mancino nel corso del quale quest’ultimo ebbe a riferirsi anche alla rivendicazione della strage di via D’Amelio da parte della Falange Armata: ” […] « Siamo la Falange Armata … … … la Falange Armata rivendica la responsabilità politica nonché la paternità di quanto accaduto a Palermo dove è stato ucciso il giudice Borsellino» “;

9) il resoconto della seduta del 18 maggIO 1993 dinanzi la Camera dei Deputati (documento prodotto e acquisito come sopra) contenente le risposte del Ministro dell’Interno Mancino ad alcune interrogazioni sull’attentato di via Fauro a Roma in occasione delle quali il predetto ebbe a riferire, tra l’altro, di rivendicazioni dell’attentato pervenute anche da parte della Falange Armata, definite “a prima vista inattendibili, forse tentativi devianti, forse espressione di quelle nuove forme di destabilizzazione occulta che agiscono attraverso sofisticati sistemi di intimidazione, di indebita ingerenza e di disorientamento della pubblica opinione… … … Gli analisti concordano nel ritenere estremamente improbabile che l’evento possa ricollegarsi in qualche modo al terrorismo internazionale o interno .. … … La prima ricostruzione dei fatti rende d’altra parte ragionevolmente ipotizzabile che l’azione criminosa abbia avuto quale obiettivo il giornalista Maurizio Costanzo … … … Se l’ipotesi è attendibile .. … … diventa anche più chiara la matrice mafiosa dell’attentato …. … … Questa strategia eversiva della mafia è ancora lontana dall’esaurimento. Ne avevamo percezione precisa … …… Lo stragismo poteva costituire un monito sinistro, un folle e crudele tentativo di intimidazione. come la scelta dello scontro aperto contro uomini ed istituzioni dello Stato fosse determinata dalla difficoltà. sempre maggiore, di stabilizzare pratiche collusive, mediazioni continue, contati costanti con pezzi consistenti della pubblica amministrazione”.

[…] Iniziando dal primo profilo rilevante con riferimento al fenomeno della Falange Armata, quello dell’utilizzazione di tale sigla, da parte di “cosa nostra”, in funzione di rafforzamento della minaccia al Governo della Repubblica, va osservato, innanzi tutto, che non v’è alcun riscontro diretto riguardo alla dichiarazione del collaboratore di Giustizia Filippo Malvagna sul fatto che lo stesso Salvatore Riina, in occasione di una riunione della “commissione regionale” di “cosa nostra” ebbe ad ordinare di rivendicare tutti gli attentati che l’organizzazione si accingeva a compiere con la sigla della “Falange Armata”.

Nessun altro collaboratore è stato in grado di raccontare ciò di cui si parlò in quella medesima riunione cui si è riferito il Malvagna e deve, per contro, escludersi, in ogni caso, che un’analoga indicazione possa essere stata data da Riina in sede di “commissione provinciale” di Palermo, poiché di essa nulla hanno saputo due degli abituali partecipanti dell’epoca, Giovanni Brusca e Antonino Giuffré.

Ma, quale che fosse la fonte (Riina in quell’occasione o altri) della decisione di rivendicare gli attentati con la sigla della Falange Armata, è riscontrato, in ogni caso, anche per effetto delle dichiarazioni convergenti di Maurizio A vola, che effettivamente, da un certo momento, dopo la strage di Capaci, le cosche catanesi iniziarono ad utilizzare quella sigla per minacciare o rivendicare attentati.

Ed in proposito, va ricordato che in occasione dell’esame, all’udienza del 24 settembre 2015, del teste Ernesto Cusimano, sostituto commissario presso il Centro Operativo D.I.A. di Palermo, sull’accordo delle parti, è stata acquisita anche una informativa con relativi allegati redatta dalla D.I.A. Centro Operativo di Caltanissetta il 20 maggio 2011 sulla scorta di accertamenti effettuati dal predetto teste unitamente al Luogotenente Rosario Merenda.

Ebbene, in tale informativa si dà conto, tra l’altro, della notizia dell’Agenzia Ansa del 9 giugno 1992 riportante lo stralcio di una telefonata anonima da parte di un uomo con accento catanese (si sottolinea perché la difesa degli imputati Subranni e Mori si è molto soffermata, in sede di discussione all’udienza del 2 marzo 2018, su altre rivendicazioni fatte da un soggetto con accento tedesco – peraltro verosimilmente contraffatto – utilizzate per smentire i collaboranti, ma ha del tutto tralasciato la telefonata di rivendicazione in questione) che, rifacendosi a quanto era stato chiesto ed ottenuto dalla Falange Armata, pur senza indicare la propria appartenenza, contestava l’inasprimento del regime carcerario deciso dal Governo appena il giorno precedente (“Quelli della Falange Armata, i politici, hanno ottenuto quello che volevano, noi no … … … certe cose non sono state rispettate per ciò noi non rispetteremo più i loro interessi”).

V’è, poi, il riscontro che si ricava dal fatto che vi fu effettivamente la rivendicazione della collocazione del proiettile inesploso nel Giardino dei Boboli a Firenze da parte del catanese Santo Mazzei, così come riferito tanto da Giuseppe Di Giacomo, quanto, soprattutto, da Giovanni Brusca che ne ebbe pressoché immediata notizia dallo stesso Mazzei.

Ma v’è, poi, la prova certa che, quanto meno per le stragi di Milano e Roma del 27-28 luglio 1993, “cosa nostra” ha utilizzato la sigla della “Falange Armata” per rivendicare quegli attentati.

Di ciò ha riferito il collaboratore di Giustizia Gaspare Spatuzza che, su incarico di Fifetto Cannella, il quale a sua volta era stato incaricato da Giuseppe Graviano, ebbe a ricevere le lettere di rivendicazione da spedire la sera prima di quegli attentati ed ebbe personalmente ad occuparsi della detta spedizione a Roma ed a incaricare a sua volta Lo Nigro per la spedizione da effettuarsi a Milano in contemporanea.

Ebbene, come risulta dalla contestazione effettuata dal P.M. in sede di esame dello Spatuzza […], è stato effettivamente riscontrato l’invio delle lettere di rivendicazione degli attentati […], fatto assolutamente inusuale nell’ordinario operare dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, che, storicamente, mai ha rivendicato gli innumerevoli omicidi, anche eclatanti, compiuti.

Senza volere affermare, dunque, ovviamente, che il fenomeno della Falange Armata sia riconducibile ad associazione mafiose, dal momento che si è piuttosto trattato di un sigla utilizzata da “diverse componenti” (v. informativa D.I.A. del 4 marzo 1994 acquisita in atti e sopra già richiamata), tuttavia, può ritenersi raggiunta la prova che “cosa nostra” abbia voluto rafforzare la minaccia, allora in corso, diretta al Governo con le rivendicazioni in esame, nelle quali si prospettavano, infatti, ulteriori bombe dirette a provocare, questa volta, centinaia di vittime (ed in proposito, allora, il pensiero non può non andare all’attentato che sarebbe stato organizzato qualche mese dopo allo stadio Olimpico di Roma con l’intendimento di provocare, appunto, come si è già visto sopra, un centinaio di vittime tra i Carabinieri li in servizio).

E ciò conferma ulteriormente quanto si è già concluso riguardo alla minaccia di “cosa nostra” ed a quelle che furono definite “bombe del dialogo” (v. sopra), perché è del tutto evidente che in quel frangente la strategia di “cosa nostra” non era più quella della contrapposizione frontale che aveva condotto alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, bensì quella sopravvenuta con la quale si intendeva trarre benefici dalle aperture al dialogo ed alla trattativa che erano giunte ai vertici di “cosa nostra” attraverso l’iniziativa dei Carabinieri con Vito Ciancimino.

Passando, dunque, al secondo profilo concernente il fenomeno della “Falange Armata”, quello del possibile concorso nei fatti delittuosi qui in esame da parte di esponenti dei C.d. “servizi segreti deviati”, va detto che gli indizi, che pure sono ravvisabili, non appaiono idonei ad assurgere al rango di prova.

V’è, innanzitutto, il fatto che con la sigla della “Falange Armata” sono stati minacciati e rivendicati in quegli anni innumerevoli attentati nei confronti di altrettanto innumerevoli esponenti delle Istituzioni ed è certo che l’utilizzo di tale sigla non è riconducibile (solo) ad un preciso gruppo di soggetti (si è visto sopra il sostanziale fallimento del processo penale nel quale si era ritenuto di avere individuato uno dei responsabili).

Certo, è forte il sospetto che il fenomeno della “Falange Armata” abbia potuto avere origine nell’ambito di servizi di sicurezza dello Stato (in tal senso si sono espressi pressoché unanimemente tutti gli esponenti delle Istituzioni chiamati a testimoniare in questo processo: v. sopra testimonianze riportate).

Ed appare, nel contempo, veramente improbabile che un mafioso “rozzo” come Riina abbia potuto autonomamente pensare di utilizzare la sigla della “Falange Armata” per rivendicare gli attentati di “cosa nostra”.

Ma all’interno di quest’ultima, come emerso in questo ed in molteplici altri processi già definitivamente conclusi, v’erano sicuramente altri soggetti meno “rozzi” e adusi anche a rapporti con esponenti degli apparati di sicurezza che avrebbero potuto instillare o, quanto meno, in qualche modo provocare, quell’idea di rivendicare gli attentati con la sigla della “Falange Armata”.Si tratta, però, come si vede, di mere ipotesi che, per quanto altamente plausibili, non possono supportare, in termini di prova processuale, alcuna conclusione sull’effettivo concorso di esponenti degli apparati di sicurezza dello Stato nei fatti di minaccia che sono oggetto del presente processo.


L’infinita latitanza di Bernardo Provenzano   Nell’ambito della ricostruzione delle vicende nelle quali risulta racchiusa la minaccia rivolta da “cosa nostra” al Governo della Repubblica, sono stati sinora esaminati anche due profili delle condotte concorsuali, addebitate dalla Pubblica Accusa ai soggetti esterni alla predetta organizzazione mafiosa “che, per un verso, agevolavano la ricezione presso i destinatari ultimi della minaccia di prosecuzione della strategia stragista e, per altro verso, rafforzavano i responsabili mafiosi nel loro proposito criminoso di rinnovare la predetta minaccia” (v. capo di imputazione di cui alla lettera A della rubrica).

I detti due profili sono quello degli iniziali contatti con “uomini collegati a cosa nostra” (tra i quali Vito Ciancimino “nella sua veste di tramite con uomini di vertice della predetta organizzazione mafiosa ed ambasciatore delle loro richieste”) e della iniziale sollecitazione di “eventuali richieste di Cosa Nostra per far cessare la strategia omicidiaria e stragista”; e quello della successiva azione diretta a favorire “lo sviluppo di una trattativa fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista e, dall’altra, all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato” (v. ancora capo di imputazione di cui alla lettera A della rubrica).

Ma v’è anche un terzo profilo della contestazione di reato formulata a carico dei medesimi soggetti esterni a “cosa nostra”, quello, invece, connesso al “protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano Bernardo, principale referente mafioso di tale trattativa” (v. capo imputazione citato).

Orbene, tale terzo profilo della contestazione di reato si fonda, da un lato, sulla ricostruzione delle vicende relative ai contatti tra Mori, De Donno e Vito Ciancimino nella seconda metà dell’anno 1992 che è stata operata da Massimo Ciancimino e che, pertanto, per quanto detto (v. Parte Seconda della presente sentenza), deve essere totalmente disattesa, essendo frutto delle fantasiose “sovrastrutture” artatamente create da quel dichiarante sul (limitato) nucleo dei fatti veri dallo stesso effettivamente conosciuti; e, dall’altro, sostanzialmente e pressoché interamente, si fonda su un episodio di favoreggiamento che è stato oggetto di un separato processo definito con sentenza irrevocabile e che è temporalmente successivo anche alla seconda parte della condotta di minaccia, quella nel confronti del Governo Berlusconi, che sarà esaminata successivamente nella Parte Quarta della presente sentenza.

Esclusa, dunque, la necessità di qualsiasi ulteriore considerazione per la parte concernente le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, occorre, allora, concentrarsi sull’episodio che ha dato luogo al diverso processo per favoreggiamento della latitanza di Bernardo Provenzano, quello verificatosi in Mezzojuso in data 31 ottobre 1995 e sviluppatosi nei giorni immediatamente successivi, e, più in generale, sulla vicenda della collaborazione della fonte confidenziale denominata “Oriente”, successivamente identificata in Luigi Ilardo, con il Ten. Col. Riccio, che è stata oggetto di una non piccola parte dell’istruzione dibattimentale svolta su sollecitazione dell’Accusa.

All’udienza del 14 gennaio 2016 veniva esaminato il teste Giuseppe Pignatone, il quale, in sintesi, quanto al tema oggetto del presente Capitolo, riferiva:

– di avere svolte le funzioni di sostituto procuratore presso la Procura di Palermo dal 1977 sino al 19 marzo 1996 […], occupandosi, in particolare, negli anni dal 1994 al 1996 soprattutto del territorio di San Giuseppe Jato e delle indagini per le ricerche di Brusca e Bagarella […];

– che nel mese di ottobre 1994 gli fu affidata l’indagine relativa a notizie raccolte dal Col. Riccio da una fonte confidenziale […] che avevano già consentito di arrestare alcuni latitanti e che avrebbero potuto condurre alla cattura di Provenzano (“Questa indagine aveva credo portato alla cattura dei latitanti, consegnarono una informativa di cui onestamente non ho alcun ricordo ormai, e c’erano state anche delle intercettazioni. A questo punto l’attività del Colonnello Riccio, basata su questa fonte di cui non fu detto il nome, né allora, né dopo, era mirata altra cattura di Provenzano”);

– che il procedimento affidatogli nasceva sostanzialmente da atti trasmessi a Palermo dalla Procura di Genova […];

– che il procedimento venne iscritto il 15 ottobre 1994 a seguito della riapertura delle indagini nei confronti di Simone Castello ed altri […] ed in esso confluirono una informativa del 15 aprile 1994 di cui egli non aveva avuto alcuna cognizione e una informativa del 30 settembre 1994 trasmessa da Genova nelle quali si faceva riferimento al latitante Provenzano[…];

– che all’epoca la delega per le indagini relative alle ricerche di Provenzano era affidata ai sostituti Natoli e Scarpinato (“Erano i colleghi Natoli e Scmpinato”) i quali continuavano tutte le indagini diverse da quelle scaturenti dalle informative di Riccio […];

– che il Procuratore Caselli gli disse di riferire soltanto a lui di quell’indagine e, inusualmente, di non parlarne con altri colleghi […];

– che la Procura di Genova aveva già svolto alcune indagini e, in particolare, alcune attività di intercettazione di utenze riferibili a Scaduto Giovanni […] e una intercettazione ambientale sull’autovettura di Castello Simone […];

– che la DIA manifestava grande ottimismo sulla possibile cattura di Provenzano […] anche tenuto conto della cattura di altri importanti latitanti già operata grazie alle informazioni della fonte confidenziale di Riccio […] la cui identità non gli venne mai rivelata sino a quando IIardo venne ucciso[…];

– che non furono disposte attività classiche di indagine, ma periodicamente Riccio gli riferiva le informazioni acquisite dalla fonte riguardo a Provenzano […];

– che il Col. Riccio gli mostrò anche una o due lettere attribuite a Provenzano consegnategli dalla fonte[…];

– che Riccio gli disse in primo momento che la fonte non era disponibile a farsi arrestare insieme a Provenzano nel caso lo avesse incontrato, ma, in un secondo momento, invece, gli comunicò che la fonte aveva dato la disponibilità anche a tale evenienza […] e ciò nel periodo in cui Riccio lavorava

ancora alla DIA […] ed operava ancora con grande autonomia, cosa che, invece, non poté più fare dopo essere passato al ROS […];

– che, comunque, aveva incontrato Riccio anche dopo il rientro di questi al ROS anche se a quel punto l’indagine appariva sempre meno produttiva […];

– che il Dott. Pappalardo gli fece cenno all’indagine che a Genova vedeva coinvolto Riccio e che questo era il motivo per il quale era stato deciso il rientro nell’Arma […];

[…]

– di non avere mai parlato di quell’indagine successivamente con il Col. Mori, ma soltanto con Riccio e Obinu che talvolta lo accompagnava (“lo sono pressoché certo con Mori di questa indagine non ne ho mai parlato, sono invece certo di averne parlato, continuato a parlare con Riccio e di averne parlato in più occasioni con Obinu, che non so bene quale ruolo ricoprisse in quel momento, ma con Obinu. Mori, fermo restando sempre il discorso di venti anni, mi pare proprio di no … … … Per quello che ricordo io, non ci sono … Obinu veniva con Riccio”);

– che nel 2002 o 2003, leggendone sui giornali, aveva sentito parlare per la prima volta della riunione di Mezzojuso cui aveva partecipato Provenzano, stupendosi perché Riccio non gliene aveva parlato […];

– che allora aveva fatto una relazione al Procuratore della Repubblica allegandovi un appunto rinvenuto nella memoria del suo computer relativo ad un incontro con Riccio avvenuto il l novembre 1995 e nel quale non vi era alcun riferimento all’incontro della fonte con Provenzano […]; che l’annotazione nell’appunto di “prepararsi al meglio” era evidentemente riferita alla cattura di Provenzano (“Quando lui mi dice mi devo incontrare con la fonte, prepariamoci al meglio, è quello che diceva il cinquanta per cento delle volte, come ho detto … ……. il meglio era la cattura di Provenzano. Cioè dice facciamo … lo incontro la fonte, la fonte avrà la riunione e possiamo catturare Provenzano, questo era il cinquanta per cento delle volte … … … La convocazione per l’indomani, io gli dico semplicemente: ovviamente se tu incontri la fonte oggi 31, dico, domani sei ancora a Palermo, vediamoci perché si evitavano i contatti telefonici, cioè, non è che per telefono si diceva ho incontrato la fonte, mi ha detto che, eccetera. Dico, visto che siamo qua vediamoci”);

– che, come annotato, egli dopo avere ricevuto la telefonata di Riccio aveva chiamato Pappalardo per sapere se Riccio lavorava ancora con la DIA […];

– che né Mori, né altri ufficiali del ROS ebbero mal a parlargli di quanto accaduto il 31 ottobre 1995 a Mezzojuso e di indagini fatte successivamente riguardo a tale accadi mento 

– che tutta quella vicenda, d’altra parte, era stata alquanto anomala perché riguardava la cattura di Provenzano e si scontavano ancora le scorie residuate dalla mancata perquisizione del covo di Riina (“lo voglio… Mi permetto di insistere su una cosa, a me è stato chiaro dal primo minuto che questa era una indagine particolare, cominciando dalla assegnazione, come ho detto prima.

Cioè, è una indagine che il dottore Caselli, cioè il Procuratore della Repubblica, quel Procuratore della Repubblica, assegna fuori dagli schemi ordinari a me che ero… Cioè, quanto meno ero il più anziano dei Sostituti in servizio all’epoca e mi dice di parlare solo con lui, di non riferire né ad altri

Aggiunti, né ad altri Sostituti. E una anomalia che a me non è più successa con il dottore Caselli, né con altri. Parliamo di Provenzano. Riina era stato già arrestato due anni prima, quindi era il numero uno, magari insieme a Brusca e a Bagarella le cui indagini io stavo seguendo con modalità totalmente diverse, che erano quelle che dicevo prima, centinaia di intercettazioni, contatti quotidiani con la Polizia che ti riferiva abbiamo visto questo, abbiamo visto quello, abbiamo sentito questo, forse quello è lo zio di quest’altro, c’è la società, ci può essere il prestanome, cose di questo genere. […] Aggiungo: la Procura di Palermo, siamo nel 95, era reduce da una cosa che non si è chiusa sostanzialmente ancora oggi nel 2016, e cioè dalla vicenda mancata perquisizione del covo di Riina, con tutte le polemiche, eccetera, che è credo patrimonio di tutti quelli che siamo in questa aula. […]”);

[…]

All’udienza dell’8 gennaio 2016 veniva esaminato il teste Alfonso Sabella, il quale, in sintesi, quanto al tema oggetto del presente Capitolo, riferiva:

– che durante il servizio prestato quale sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Palermo sia era occupato della cattura di numerosi esponenti mafiosi di primo piano latitanti, tra i quali, Domenico Farinella, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Vito Vitale e molti altri […];

 che nel corso delle indagini aveva, quindi, appreso che i Carabinieri avevano avuto modo di vedere il latitante Farinella in due o tre occasioni e che, tuttavia, non lo avevano arrestato adducendo ragioni poco convincenti (”Nel corso delle indagini, io mi arrabbio più volte perché viene fuori che in qualche modo Farinella l’avevano visto almeno due, se non tre volte, e non l’avevano mai arrestato. La cosa mi fece proprio arrabbiare, all’epoca non capii perché, loro … Le giustificazioni che mi venivano fornite dal Ros erano che non avevano personale sufficiente, ma in un caso davanti a una gioielleria mi era sembrato un po’ forzata questa giustificazione e devo dire che ad un certo punto avevamo pure rischiato di perderlo Farinella”), tanto che quando era stata acquisita un’altra informazione sulla presenza di Farinella egli aveva invitato il Cap. Salsano ad andarvi personalmente, riuscendo, in quel caso, a catturare il latitante

– di non essersi mai occupato delle ricerche di Provenzano (“No, o meglio, non direttamente, non ho mai avuto … Non sono mai stato assegnatario di indagini che riguardassero Provenzano, Provenzano mi pare che fosse stato originariamente assegnato al dottor Pignatone, alla dottoressa Principato, c’era stato un periodo che c’è stato anche Natoli, Gioacchino Natoli nel Pool, ma io non l’ho mai avuto tra i latitanti assegnati a me insomma”), anche se, occupandosi delle indagini sul “mandamento” di Corleone aveva in alcune occasioni acquisito notizie riguardo al detto Provenzano soprattutto con riferimento alla spaccatura che si era determinata con Riina ed altri riguardo alla strategia stragista[…];

– che sulle ricerche di Provenzano v’era sostanzialmente una esclusiva del ROS (”Su Provenzano c’aveva l’esclusiva il Ros ed era sostanzialmente impossibile … lo percepivo anche gli umori delle forze di polizia, era sostanzialmente impossibile per le altre forze di polizia lavorare i, questo era evidente. Molte forze di polizia ci volevano lavorare, cosa che per esempio… Quando poi inizierà a collaborare il Brusca, Brusca lo arrestiamo il 20 di maggio del 96, inizia praticamente già il 23 a fare dei colloqui investigativi con il Capo della Mobile e con il Capo della Catturandi o Vice Capo della Mobile, non mi ricordo Claudio Sanfilippo che cosa era, con Savina e Sanfilippo praticamente, e dà anche delle indicazioni su Provenzano. Queste indicazioni in realtà che dà

Brusca sono indicazioni… … … Brusca aveva dato, dicevo, delle indicazioni su Provenzano e quindi io avrei gradito che quelle indicazioni le sviluppasse almeno la Squadra Mobile, perché era la Squadra Mobile che aveva in qualche modo, insieme allo Sco, arrestato Brusca. Devo dire che… So che poi… Ho saputo poi da Savina, Sanfilippo che non è stato facile e che non sono riusciti a svilupparle più di tanto quelle indicazioni. […]”);

– che in più occasioni aveva esternato al Procuratore Caselli l’opportunità di togliere al ROS l’esclusiva sulle ricerche di Provenzano (“Sì, e sicuramente non sono stato il solo, glielo ho detto anche in più di una occasione, anche perché poi c’erano state varie polemiche, poi si sarebbero verificate le note vicende che avevano coinvolto la denuncia del Capitano De Donno… … …Sicuramente Vittorio Teresi, ne sono pressoché… Sono assolutamente certo, perché il colloquio avvenne anche in mia presenza. […]”);

– che all’epoca vi erano anche perplessità riguardo alla gestione da parte del ROS di alcuni collaboratori e, in particolare, di Cancemi Salvatore e Di Maggio Baldassare, soprattutto quando era emerso che quest’ultimo aveva fatto ritorno in Sicilia ed aveva iniziato ad uccidere soggetti vicino ai Brusca […];

[…]

– che aveva saputo che ad un certo momento il ROS aveva invitato i Carabinieri territoriali ad astenersi da attività di indagini nella zona di Marineo perché aveva in corso una importante operazione (” .. . ho avuto una informazione, qualcuno me lo disse, qualche ufficiale dei Carabinieri che aveva partecipato a quella … Non lo so, che in quell’occasione il Ros avrebbe chiesto ai territoriali di astenersi dal svolgere indagini nella zona di Marineo in particolare e di Marineo, Misilmeri, ma Marineo, più Marineo che Misilmeri, perché avevano una operazione grossa da fare in quella zona,[…]”);

[…]LA VALUTAZIONE DELLE RISULTANZE SULLA LATITANZA DI BERNARDO PROVENZANO

Come si è già anticipato sopra, sulla vicenda specifica della mancata cattura di Bernardo Provenzano allorché questi ebbe ad incontrarsi in Mezzojuso con Luigi Ilardo e, più in generale, sulla collaborazione che quest’ultimo ebbe ad intraprendere con il Col. Riccio con la precipua finalità di individuare ed arrestare i mafiosi latitanti, primo tra questi Bernardo Provenzano, si è già formato, sulla assoluzione di Mario Mori (imputato in quel processo insieme a Mauro Obinu) dal contestato reato di favoreggiamento personale, un giudicato irrevocabile.

Pertanto, è necessario definire, innanzitutto, i confini dell’esame che questa Corte intende effettuare muovendo proprio dalla pronuncia ormai irrevocabile per la quale trovano applicazione i criteri generali di valutazione già esposti nella Parte Prima della presente sentenza, Capitolo 3, paragrafo 3.1 cui si rimanda.

[…] Mario Mori e il coimputato in quel processo Mauro Obinu sono stati assolti dal reato di favoreggiamento della latitanza di Bernardo Provenzano. Ciò costituisce un punto fermo della valutazione che questa Corte è chiamata qui ad effettuare.

E, tuttavia, gli imputati sono stati assolti per difetto dell’elemento soggettivo del reato in relazione ad una condotta che è stata accertata e che, per quanto si ricava dalle sentenze suddette, ha – o, quanto meno, può avere – oggettivamente consentito il ”protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano Bernardo” secondo quanto contestato dalla Pubblica Accusa in questa sede (v. capo di imputazione).

Nella sentenza di primo grado del 17 luglio 2013, invero, si legge che “sia pure alla stregua di un giudizio ex post, può, ad avviso del Tribunale, ammettersi che nell’arco di tempo oggetto della contestazione siano state adottate dagli imputati scelte operative discutibili, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano”.

Secondo il Tribunale, in sostanza, “può ritenersi che la condotta attendista prescelta con il concorso degli imputati sia sufficiente a configurare, in termini oggettivi, il reato addebitato “, ma “benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato – ad di là di ogni ragionevole dubbio, come richiede l’art. 533 cpp. – che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura.

Ne consegue che i medesimi devono essere mandati assolti con la formula perché il fatto non costituisce reato, che sembra al Tribunale quella che più si adatti alla concreta fattispecie”.

Ancora più netto, sul punto, è il giudizio espresso dalla Corte di Appello con la sentenza del 19 maggio 2016.

In tale sentenza, innanzitutto, viene complessivamente definito “opaco” l’operato del R.O.S. dell’epoca (dalla perquisizione del covo di Riina del gennaio 1993 sino all’episodio oggetto di quel processo relativo alla mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso nell’ottobre 1995, passando per la mancata cattura di Benedetto Santapaola nell’aprile 1993 di cui si dirà nel Capitolo che segue), laddove, in un passo della motivazione, infatti, si legge: “… Né si può negare che -fermi restando i grandi meriti nel campo della lotta al terrorismo e della criminalità organizzata di questo reparto di eccellenza dell’Arma dei Carabinieri e i lusinghieri giudizi sull’operato complessivo del Mori espressi da autorevoli esponenti di Autorità civili e militari – molti episodi connotano di opacità l’operato di questa articolazione dell’Arma in quel periodo, evidenziando una serie di incongruenze anche con riferimento ai fatti specifici che ci occupano ed a quelli precedenti o successivi che con questi hanno attinenza. Basti a tal uopo richiamare alcune delle risultanze che sono state riversate nel processo e che hanno riguardo, in particolare, alla mancata perquisizione del covo di Riina e all’episodio relativo alla presunta, omessa cattura di Benedetto Santapaola in Terme Vigliatore, nell’aprile 1993″.

Tuttavia, la Corte di Appello ritiene che non possa “non concordarsi con i Giudici di primo grado laddove gli stessi affermano la sussistenza sotto il mero profilo oggettivo delle condotte ascritte agli imputati che possono, in astratto, anche con giudizio ex ante, configurare sotto il mero profilo oggettivo il reato addebitato agli imputati”.

[…] la Corte di Appello ha respinto la richiesta della difesa di assoluzione per insussistenza dei fatti contestati, osservando in proposito “orbene, volendo tirare le fila del ragionamento sin qui seguito, non possono certamente accogliersi le richieste della difesa che vorrebbero una pronuncia affermativa dell’insussistenza dei fatti contestati. Non vi è dubbio, invero, che, data per certa la presenza del Provenzano all’interno del casolare di contrada Fondacazzo – presenza basata non già sulle inutilizzabili dichiarazioni del Riccio, bensì sulle chiare ed inequivocabili dichiarazioni dei collaboranti, sul punto credibili perché logiche, precise, prive di contraddizioni e, soprattutto, sorrette dai riscontri oggettivi costituiti dalla identificazione dei personaggi che sicuramente avevano sostenuto la latitanza del Provenzano – emerge una condotta, quantomeno, contrassegnata da presa di distanza dalle emergenze e dagli sviluppi dell’indagine svolta dal Riccio, nonostante i successi sul piano della ricerca dei latitanti delle informazioni fornite dall’llardo a quest’ultimo, nonché da scelte tecniche discutibili astrattamente idonea ad integrare, dal punto di vista oggettivo la fattispecie di reato in contestazione”.

Ed allora, la Corte di Appello di Palenno, conformemente, peraltro, alla pronunzia di primo grado, ha ritenuto di giungere all’esclusione dell’elemento psicologico del reato soltanto per l’assenza di prove univocamente idonee a dimostrare in termini di certezza che gli imputati avessero voluto favorire la latitanza di Provenzano […], non potendosi, infatti, escludere che gli imputati “pur avendo presente la connessione causale tra il loro agire e l’evento (sottrazione del Provenzano alla cattura), abbiano realizzato le condotte loro contestate, per trascuratezza, imperizia, irragionevolezza o, piuttosto per altro biasimevole motivo”,

Da tali conclusioni emerge chiaramente il perimetro della valutazione che può essere effettuata in questa sede: quello della verifica degli effetti che le condotte materiali degli imputati […] hanno prodotto riguardo al ”protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano” (v. capo d’imputazione) e sulle determinazioni operative di “cosa nostra” in relazione al reato di minaccia contestato e, più specificamente, all’eventuale rafforzamento dei “responsabili mafiosi nel loro proposito criminoso di rinnovare la predetta minaccia” (v. ancora il medesimo capo di imputazione).

Ebbene, i punti fermi della ricostruzione fattuale di quegli accadimenti possono facilmente sintetizzarsi alla stregua delle risultanze convergenti ed univoche degli elementi di prova prima riportati:

l) è assolutamente certo e provato che il 31 ottobre 1995 vi fu un incontro tra Luigi I1ardo e Bernardo Provenzano nelle campagne di Mezzojuso, ancorché la circostanza sia ancora ostinatamente negata dal difensore degli imputati Subranni e Mori nonostante la stessa risulti accertata e confermata anche nella sentenza del Tribunale di Palermo sopra citata e pure richiamata ad ogni piè sospinto nel corso del dibattimento dal medesimo difensore, che, in più occasioni, l’ha, peraltro, definita un “monumento giuridico”;

2) è assolutamente certo e provato che Mori e Subranni (ancorché quest’ultimo all’epoca avesse già lasciato il Comando del R.O.S.) furono informati preventivamente (seppure coi tempi ristretti determinati dal pervenimento della notizia da parte dell’Ilardo) dell’incontro che l’Ilardo medesimo si accingeva adavere, con elevatissima probabilità, con Bernardo Provenzano;

3) è assolutamente certo e provato che anche Mori e Subranni erano a conoscenza in quel momento della elevatissima attendibilità delle indicazioni sino ad allora fomite dalla fonte “Oriente” (Luigi I1ardo) e veicolate dal Col. Riccio, che avevano, infatti, consentito già di catturare un gran numero di latitanti di mafia anche di grande rilievo all’interno dell’associazione “cosa nostra” (quali, ad esempio, Domenico Vaccaro e Salvatore Fragapane) e che avevano condotto alla aggregazione, di fatto, del Col. Riccio al R.O.S. per consentirgli di proseguire nelle indagini dirette alla cattura anche di Bernardo Provenzano;

4) è assolutamente evidente che il servizio predisposto in occasione dell’incontro tra Ilardo e Provenzano del 31 ottobre 1995 fu del tutto inadeguato rispetto all’importanza del possibile obiettivo ed alle capacità investigative dell’allora Col. Mori, da tutti riconosciute e decantate nonostante l’altrettanto evidente “flop” della mancata perquisizione del covo di Riina di cui si è già detto e della mancata cattura di Benedetto Santapaola di cui si dirà;

5) è assolutamente inspiegabile, per un Reparto d’elite qual è il R.O.S., l’inerzia investigativa che seguì nell’immediatezza dell’avvistamento delle autovetture giunte nei pressi del casolare in cui avvenne l’incontro (nonostante questo fosse durato ben otto ore secondo quanto poi riportato nella informativa “Grande Oriente”) ed, ancor più, soprattutto l’inerzia investigativa dei giorni immediatamente successivi, quanto meno per l’omessa attivazione di ulteriori servizi di osservazione, per l’omessa immediata identificazione degli intestatari delle autovetture avvistate, per l’omessa conseguente attivazione di intercettazioni ambientali e telefoniche e persino per l’identificazione dei proprietari e degli utilizzatori del casolare, attività tutte che certamente qualsiasi capace investigatore (anzi, qualsiasi “normale” investigatore) avrebbe tentato di compiere indipendentemente dalla aspettativa di un possibile ulteriore incontro di Ilardo con Provenzano;

6) sono ugualmente inspiegabili – e non sono state, di fatto, spiegate come si evince anche dalle sentenze prima richiamate […] le innumerevoli “anomalie” investigative che si sono verificate da lì in poi e sino alla uccisione di Luigi Ilardo e ancor dopo sino alla stesura del rapporto “Grande Oriente” e, soltanto molto tempo dopo, alla individuazione ed arresto di Giovanni Napoli ed altri favoreggiatori della latitanza di Provenzano, in relazione alle quali, rinviando per maggiore completezza alle risultanze delle citate sentenze e dell’istruttoria compiuta nel presente dibattimento di cui prima si è dato conto, possono ricordarsi:

– la vicenda delle relazioni di servizio, per le quali appare grave sia, seguendo la versione di Mori, che tali relazioni non siano state pretese, sia, seguendo invece la versione di Riccio, che le stesse non siano state adeguatamente protocollate e custodite, oltre che tempestivamente trasmesse all’Autorità Giudiziaria;

– la mancata informazione a quest’ultima di quanto accaduto direttamente da parte del R.O.S. e di Mori che pure erano stati coinvolti nell’azione del 31 ottobre 1995, come è dimostrato dalla partecipazione ad essa della Sezione Anticrimine di Caltanissetta, e ciò tanto più se Riccio, come sostenuto da Mori, all’epoca non era stato formalmente aggregato al R.O.S. medesimo (v., sul punto, anche quanto osservato dalla Corte di Appello con la sentenza del 19 maggio 2016: “…se è discutibile l’obbligo di riferire quello che si apprende dalla viva voce della fonte confidenziale, non vi è, invece, dubbio alcuno sull’obbligo di riferire allorché, a seguito di notizie apprese per tale mezzo, siano state svolte indagini che abbiano sortito effetti positivi, ed a maggior ragione ove siffatte indagini siano suscettibili di ulteriori sviluppi investigativi. Nemmeno coglie nel segno l’ulteriore strale difensivo sopracennato … … … che individua nel solo Riccio il destinatario dell’obbligo previsto dall’art. 347 del codice di rito”);

– la redazione del rapporto “Grande Oriente”, del quale, a prescindere da Riccio, è bene sottolinearlo, il RO.S. si è assunta la paternità e responsabilità, nel quale, nonostante nel frattempo Ilardo fosse stato ucciso e non vi fosse, dunque, più la possibilità di ulteriori incontri con Provenzano, v’è ancora una ricostruzione lacunosa degli accadi menti e viene persino omessa ancora l’identificazione di Giovanni Napoli (v. sentenza della Corte di Appello di Palermo del 19 maggio 2016 secondo la quale ciò è avvenuto ” … in modo sicuramente inspiegabile e non giustificabile”) e degli altri favoreggiatori del Provenzano, ivi compreso di colui che si serviva della Fiat Campagnola di colore verde già avvistata il 31 ottobre 1995 e, ancora, a seguito del servizio disposto dal Cap. Ierfone (v. sopra), il 23 maggio 1996;

– il tempo ancora trascorso successivamente per l’attivazione delle attività di intercettazione (soltanto a partire dal 21 ottobre 1996 secondo quanto risulta dalla certificazione del 6 maggio 2003 acquisita agli atti) nei confronti dei soggetti coinvolti in quell’episodio del 31 ottobre 1995 e, peraltro, soltanto da parte dei Carabinieri del R.O.N.O. per le asserite ricerche del latitante Francesco Nangano, mentre i Carabinieri del R.O.S., facendo seguito alla informativa “Grande Oriente”, soltanto il 5 novembre 1996 chiedevano di intercettare due utenze riferibili a Giovanni Napoli e ciò nonostante già la stessa sera del 31 ottobre 1995 Luigi Ilardo avesse comunicato il numero di un’utenza del medesimo Napoli secondo quanto è riportato anche nella informativa del R.O.S.denomianta “Grande Oriente”.

In ogni caso, ci si è limitati qui ad un’elencazione del tutto sommaria delle risultanze fattuali poiché, comunque, infine, occorre arrestarsi di fronte alla assoluzione irrevocabile dell’imputato Mario Mori dal reato di favoreggiamento della latitanza di Bernardo Provenzano.

Nel processo già concluso non si è raggiunta, infatti, come si è visto sopra, la prova sull’elemento psicologico del reato contestato.

[…] Si vuole dire in altre parole che la condotta omissiva di Mori (e, sia pure in limiti certamente più circoscritti, in questa circostanza, di Subranni) riguardo alla vicenda del 1995-96 oggetto del presente Capitolo, non è incompatibile, sotto il mero profilo fattuale C come, invece, lo sarebbe stato se, al contrario, il R.O.S., in quell’occasione, senza alcuna “opacità”, avesse dispiegato tutte le proprie forze, tutto il proprio impegno e tutte le proprie capacità investigative per catturare Provenzano o, quanto meno – e vi era certamente la concreta possibilità di farlo – per disarticolare immediatamente la rete di protezione della sua latitanza, così da agevolare, almeno potenzialmente, il tentativo di catturarlo), con quelle del biennio 1992-93 ben più ampiamente ricostruite nei

Capitoli precedenti e non ne pregiudica, quindi, le relative valutazioni e conclusioni, ancorché questa del 1995-96, non possa essere utilizzata, per la carenza dell’elemento psicologico, ai fini della conferma del terzo profilo della condotta qui contestata e cioè quello di avere consapevolmente assicurato “il protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano Bernardo” (v. capo di imputazione), nonostante le condotte oggettivamente poste in essere possano effettivamente avere rafforzato “i responsabili mafiosi nel loro proposito criminoso di rinnovare la predetta minaccia” (v. ancora capo di imputazione).

– che allorché egli ed il Dott. Teresi sollecitavano che si togliesse al ROS l’esclusiva delle indagini per le ricerche di Provenzano e sembrava che il Dott. Caselli potesse addivenire a tal decisione, giungevano notizie di contatti di ufficiali del ROS con altre Procure finalizzati a far sapere che erano imminenti esiti positivi di quelle indagini […];


Santapaola, una cattura molto “difficile”   Considerazioni e conclusioni in parte analoghe a quelle del precedente Capitolo devono formularsi anche riguardo ad un’altra vicenda, che, però, a differenza di quella prima esaminata, temporalmente si colloca nel biennio 1992-93 e, quindi, nel periodo dell’originaria “trattativa” e dell’originaria minaccia di “cosa nostra” nei confronti del Governo della Repubblica allora in carica.

Si tratta della mancata cattura del latitante Benedetto Santapaola in data 6 aprile 1993.

Anche su tale vicenda, ancorché non richiamata in alcun modo nel capo di imputazione, si è svolta un ‘ampia istruttoria, di cui è opportuno, innanzi tutto, dare conto[…] Anche per questa vicenda, come nel caso dell’episodio del 31 ottobre 1995 esaminato nel Capitolo precedente, emergono evidenti ed apparentemente inspiegabili (e, comunque, non spiegate dai diretti protagonisti) anomalie ed “opacità” (v. sentenza della Corte di Appello di Palermo del 19 maggio 2016) nell’operato del R.O.S. guidato anche in questo caso dall’imputato Mario Mori.

Va precisato che si tratta di un episodio che non rileva direttamente rispetto alla contestazione del reato di minaccia formulata al capo a) della rubrica (ed, infatti, in questa di tale episodio non v’è traccia), ma che rileva, più in generale, in riferimento alla condotta (anche) dell’imputato Mori posta in essere nel periodo della c.d. “trattativa” con i vertici mafiosi, avendo ipotizzato la Pubblica Accusa che possa esservi stata, da parte del Mori medesimo, la volontà di consentire al Santapaola, se libero seppur latitante, di sostenere, nell’ambito dell’associazione mafiosa, la sua posizione favorevole, così come lo era anche quella di Provenzano, alla linea più “pacifica” in contrapposizione alla linea dei fedelissimi di Riina nel frattempo già arrestato (sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sugli schieramenti creatisi dopo l’arresto di Riina si rimanda a quanto già esposto sopra nel Capitolo 14).

E per tale ragione l’episodio, pur se estraneo alla contestazione del reato di favoreggiamento della latitanza di Bernardo Provenzano in quella sede formulata, è stato in qualche modo già vagliato anche nelle sentenze, ormai irrevocabili, nei confronti di Mori ed Obinu di cui si è detto nel Capitolo precedente.

Invero, già il Tribunale all’esito del giudizio di primo grado, ha ravvisato l’assenza di adeguate spiegazioni della presenza dei Militari del R.O.S. centrale a Terme Vigliatore il 6 aprile 1993 (v. sentenza del 17 luglio 2013: “11 Tribunale riconosce che la presenza nella zona, in quel particolare frangente, dei militari del ROS possa destare legittimi sospetti. specie considerando che in merito non è stata fornita una giustificazione sempre univoca … … …. deve, però, ritenersi poco credibile una presenza solo casuale nella zona del DE CAPRlO, dello stesso DE DONNO e degli altri militari del ROS che li accompagnavano, non potendosi non considerare anomalo che proprio in quel particolare frangente due ufficiali di punta del ROS si siano trovati del tutto accidentalmente in quel di Terme Vigliatore. tra l’altro deviando rispetto al più comodo tragitto autostradale che li avrebbe condotti alla riferita destinazione … “), pur escludendo, però, che l’azione dei medesimi Militari possa essere stata posta in essere per la “deliberata volontà di creare nella zona una situazione idonea a mettere in allarme il SANTAPAOLA ed i suoi favoreggiatori” (v. sentenza citata).

A sua volta, anche la Corte di Appello, con la sentenza del 19 maggio 2016, ha, poi, addirittura ritenuto singolare ed inquietante che i protagonisti dell’episodio del 6 aprile 1993 non siano riusciti a fornire spiegazioni plausibili dell’accaduto (v. sentenza citata: “Ciò che tuttavia è emerso dalle dichiarazioni dei predetti militari – e che appare indubbiamente singolare ed in definitiva inquietante – è l’estrema difficoltà dagli stessi manifestata nel corso delle loro deposizioni nell’indicare e chiarire in modo plausibile le ragioni della loro presenza a Terme Vigliatore. incorrendo anche in palesi contraddizioni”) e, tuttavia, a prescindere dalla non univocità degli elementi a sostegno dell’ipotizzata messinscena finalizzata a mettere in allarme Santapaola (v. sentenza citata: “I superiori elementi. pur idonei ad ingenerare serie perplessità in merito allo reale svolgimento dei fatti ed alle ragioni che avevano portato il De Caprio a Terme Vigliatore, non assumono un valore univoco, tale da dimostrare la fondatezza dell’assunto accusatorio (secondo cui. in buona sostanza. si sarebbe trattato di una messa in scena per mettere sull’allarme il Santapaola ed indurlo ad allontanarsi dalla zona. così da garantirne la latitanza), sussistendo ulteriori elementi di indubbio segno contrario”), ha ritenuto, però, l’episodio comunque non rilevante anche per l’assenza di prova sul fatto stesso che De Caprio ebbe a recarsi a Terme Vigliatore su disposizione del Col. Mori anziché di propria iniziativa (v. ancora sentenza citata: “Infine, va considerato che comunque non è stato acquisito alcun elemento che consenta di ritenere dimostrato che il De Caprio si sia recato a Terme Vigliatore a seguito di uno specifico incarico impartitogli dal Mori … … … pur essendo logico ricollegare la presenza del Mori in Sicilia all’informazione datagli dal m.llo Scibilia, nulla – al di là del mero sospetto – consente di ritenere accertato che il Mori abbia incontrato il De Caprio e comunque lo abbia incaricato di recarsi in Terme Vigilatore allo scopo dì allertare il Santa paola, non essendo emersa la prova né di un qualsivoglia contatto tra i due, né – come detto – del fatto che la presenza del De Caprio a Terme Vigliatore fosse finalizzata al suddetto scopo …. … … .In definitiva, deve ritenersi che quanto verificatosi a Terme Vigliatore in data 6/4/ 1993 non appare rilevante ai fini del presente giudizio, non potendo ritenersi provato con la necessaria certezza né che il Mori abbia inviato il De Caprio sul posto al fine specifico di mettere sull’avviso il Santapaola ed impedirne la cattura, né che il De Caprio abbia effettivamente e consapevolmente operato in quest’ultimo senso”).

Ora, va precisato, innanzi tutto, che le conclusioni di cui alle citate sentenze su un episodio, comunque, estraneo alla contestazione di reato concernente il favoreggiamento della latitanza, non già di Benedetto Santapaola, ma di Bernardo Provenzano non sono oggetto di alcun giudicato irrevocabile e preclusivo e che, pertanto, le risultanze probatorie acquisite ben liberamente possono essere valutate in questa sede.

Ed allora, va subito detto che questa Corte ritiene che non possa sussistere alcun dubbio, alla stregua dei dati di conoscenza acquisiti, sulla circostanza che fu proprio Mori ad attivarsi per organizzare l’operazione a Terme Vigliatore con i suoi uomini più fidati, primo fra tutti il Cap. De Caprio già protagonista della cattura di Salvatore Riina avvenuta meno di tre mesi prima.

Per le conclusioni che infine saranno raggiunte non è qui utile uno speciale approfondimento delle risultanze prima esposte, ma è sufficiente, in proposito, richiamare già le dichiarazioni di un altro degli uomini più fidati dello stesso Mori, il M.llo Scibilia (il quale, a riprova di tale rapporto, non soltanto, come è emerso nel corso del suo esame, pur non abitando a Palermo, ha presenziato spesso alle udienze del processo a carico di Mori quando questi era presente, ma anche nel presente processo è stato notato dalla Corte tra il pubblico quando ugualmente Mario Mori è stato presente in aula).

Ebbene, dalle stesse parole di Scibilia (v. sopra per il più ampio resoconto delle relative dichiarazioni) si ricava:

1) che il M.llo Scibilia aveva informato il Col. Mori riguardo alle indagini che stava svolgendo sulla mafia di Barcellona anche con la finalità di individuare Santapaola che si riteneva potesse essersi rifugiato in quel territorio;

2) che il 5 aprile 1993 il M.llo Scibilia ebbe la certezza che quel soggetto intercettato che si faceva chiamare “zio Filippo” fosse effettivamente Santapaola e ciò anche grazie ad un riconoscimento vocale che egli aveva fatto effettuare ad alcuni confidenti;

3) che la registrazione della voce dello “zio Filippo” era assolutamente chiara e comprensibile, tanto che le persone cui l’aveva fatta ascoltare non manifestarono alcun dubbio sul riconoscimento di Santapaola;

4) che quella stessa sera del 5 aprile 1993 egli informò il Col. Mori di avere acquisito la certezza della presenza di Santapaola a Terme Vigliatore;

5) che, peraltro, quello stesso pomeriggio del 5 aprile 1993 era stata ascoltata anche un’altra conversazione nella quale si faceva espressamente il nome di Santapaola;

6) che il Col. Mori, informato della presenza di Santapaola a Terme Vigliatore, non gli aveva impartito alcuna disposizione, così che lo stesso Scibilia intese che la questione a quel punto fosse stata presa in carico al ROS centrale.

Orbene, se così è, non v’è chi non veda come la presenza il giorno successivo proprio a Terme Vigliatore (un piccolo paesino fuori dai circuiti ordinari della viabilità tra Messina e Palermo ed in un luogo – l’abitazione di Imbesi – cui occorre necessariamente dirigersi per raggiungerlo) degli uomini, appunto, del R.O.S. centrale più legati a Mori, sotto il profilo logico-indiziario, non possa che ricollegarsi con assoluta certezza (in assenza di qualsiasi plausibile spiegazione alternativa, che, anche secondo il Tribunale e la Corte di Appello, non è stata mai data) alla notizia della presenza in quel luogo di Benedetto Santapaola che appena la sera precedente il M.llo Scibilia aveva dato a Mori.

Alla Corte questo appare un punto assolutamente certo ed incontestabile a prescindere dalla finalità perseguita dai Militari che si recarono a Terme Vigliatore.

La tesi della mera casualità di quella presenza dei Militari del R.O.S. a Terme Vigliatore offende l’intelligenza di chiunque legga le risultanze probatorie acquisite, tanto più che, come risulta dalla nota datata 10 aprile 1993 del Commissariato di P.S. di Barcellona Pozzo di Gotto a firma del Commissario Carmelo Castrogiovanni (v. testimonianza Bonferraro sopra riportata), quei Militari non incontrarono casualmente Imbesi durante il tragitto, ma si appostarono nei pressi della sua abitazione (distante appena qualche centinaio di metri dal luogo ove era stata registrata la voce di Santapaola) e lo seguirono, con ben quattro diverse autovetture prive di contrassegni d’Istituto (tutte casualmente transitanti in quel remoto luogo?), fino al luogo (questo, sì, distante circa due-tre chilometri) in cui, poi, avvenne la sparatoria.

Se si vuole escludere la malafede e, quindi, l’intendimento di allarmare Santapaola con una azione “rumorosa” che in quel piccolo centro non sarebbe potuta passare inosservata, non resta che concludere, allora, che i medesimi Militari del R.O.S., nella precipitazione dell’agire, abbiano erroneamente individuato l’immobile nel quale si riteneva che potesse essersi trovato il giorno precedente Santapaola e, quindi, muovendo da tale erroneo presupposto, abbiano poi iniziato a seguire colui che era uscito da quell’abitazione per poi arrestarlo a distanza da questa (perché l’Imbesi, non avendo riconosciuto coloro che lo seguivano, essendo questi in borghese ed a bordo di autovetture prive dei segni d’Istituto, aveva tentato di darsi alla fuga), mentre un’altra squadra, pressoché in contemporanea (anche questa casualmente sui luoghi?) effettuava un’irruzione nella medesima abitazione.

Di tale irruzione la difesa degli imputati Subranni e Mori, in sede di discussione all’udienza del 16 marzo 2018 (v. trascrizione in atti) non ha fatto alcun cenno e ciò non a caso, dal momento che essa contrasta con la pretesa di escludere che Santapaola possa essere stato messo in allarme a causa dell’azione dei Carabinieri per il solo fatto che la sparatoria avvenne a circa due o tre chilometri.

Che la finalità dei Militari del R.O.S. fosse quella di individuare Santapaola (così escludendosi l’incredibile tesi della casualità del passaggio da Terme Vigliatore) e che v’è stato semmai un errore nell’individuazione dell’immobile, d’altra parte, è apparso subito ben chiaro a tutti gli altri investigatori, tanto che se ne fa espressa menzione nella stessa nota del Commissariato di P.S. indirizzata alla Questura di Messina il 15 aprile 1993 e prima richiamata nella quale, infatti, si legge: ” … La successiva attività info – investigativa svolta da questo ufficio in collaborazione con la Squadra Mobile di Messina e il Servizio Centrale Operativo, ha consentito di acclarare che il su menzionato intervento del Ros di Palermo era mirato alla cattura del noto latitante Benedetto

Santapaola…. … .. . .In particolare l’Arma aveva seguito, il 6 aprile scorso, Imbesi Fortunato, sin dal momento in cui quest’ultimo. a bordo della propria  autovettura. era uscito dall’abitazione nella convinzione che all’interno del predetto mezzo potesse esservi il Benedetto Santapaola. Contestualmente al su citato episodio, un’altra squadra del Ros faceva irruzione all’interno della villa dell’Imbesi. sita nella via XXVII Censimento del Comune di Terme di Vigliatore, per catturare il predetto latitante, qualora questi vi avesse trovato ospitalità. La successiva attività informativa dispiegata, permetteva accertare che il fallimento della cennata operazione del Ros era stata causata da un errore nella localizzazione della villa ove si nascondeva il Santapaola” (v. testimonianza Bonferraro ).

Sin qui gli accadimenti, dunque, apparivano ben spiegabili: il RO.S., come spesso accade, per precedere l’intervento di altre Forze dell’Ordine, attivato da Mori che era stato informato dal M.llo Scibilia della presenza di Santapaola a Terme Vigliatore, si è precipitato in tale località per arrestare il latitante e, però, per la fretta, ha errato nella individuazione dell’immobile del favoreggiatore del latitante medesimo.

E, però, a quel punto, si è innestata l’inspiegabile ed inspiegata condotta dei protagonisti di quell’azione, i quali, non soltanto, hanno negato che essi avessero l’intendimento di arrestare Santapaola (e ciò anche quando fu chiaro a tutti che quest’ultimo si era allontanato da quel luogo e non sarebbe stato più possibile arrestarlo ivi), ma hanno iniziato un’azione di sostanziale depistaggio anche nei confronti dell’Autorità Giudiziaria nascondendo le chiare risultanze della presenza in quei luoghi di Benedetto Santapaola.

Basti pensare che per molti mesi i Carabinieri del R.O.S. si sottrassero alle richieste del\’ A.G. (nella persona del Sost. Proc. Canali) di notizie e chiarimenti sugli accadimenti del 6 aprile 1993, che soltanto il 17 giugno 1993 consegnarono una relazione di servizio con l’insostenibile racconto della casualità della presenza dei Militari del ROS centrale a Terme Vigliatore e che ancora con l’informativa del 25 luglio 1993 omisero di riferire le chiare risultanze sulla accertata presenza di Santapaola in quei luoghi quanto meno dal 18 febbraio 1993 e certamente ancora il 5 aprile 1993 quando con assoluta chiarezza era stata ascoltata la voce del Santapaola medesimo secondo quanto riferito dal teste Scibilia.

Come si è già visto sopra (paragrafo 36.2.1) nella detta informativa, sottoscritta dal Cap. Valente ma redatta sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso Scibilia (v. testimonianza Valente sopra riportata), si fa riferimento solo a due registrazioni del!’ l aprile l 993 soltanto in termini ipotetici ricollegate a Santapaola (v. informativa citata: ” …. venivano rivisitate alcune telefonate registrate in precedenza sulle utenze controllate. Da tale revisione, venivano individuati due colloqui registrati il 10 aprile ed intercorsi tra Orifici Domenico e Franchini Paola che, oggi, alla luce degli ultimi episodi, sembrano riferirsi al noto boss catanese …. “) e, quanto alla registrazione del colloquio del 5 aprile 1993 (quella assolutamente chiara e comprensibile che aveva consentito a Scibilia di acquisire la certezza che lo “zio Filippo” fosse Santapaola), si dice, invece, che “la conversazione era disturbata da rumori di fondo che rendevano quasi incomprensibile il colloquio”.

Tale inspiegabile – e, si ripete, inspiegata – condotta dei Carabinieri, accompagnata da un evidente mendacio sulla casualità della presenza in quei luoghi, alimenta allora il fortissimo sospetto della fondatezza dell’ipotesi accusatoria di un’azione volutamente diretta a far sì che Santapaola potesse allontanarsi indenne da Terme Vigliatore (ed infatti, Santapaola certamente si allontanò, tanto che, poi, il 19 maggio 1993 venne arrestato, dalla Polizia di Stato, in altro luogo), sospetto che non può di certo ritenersi eliso da quella lettera di rammarico che in occasione dell’arresto di Santapaola il Col. Mori inviò al M.llo Scibilia, poiché questi certamente intendeva arrestare Santapaola (tanto da essersi immediatamente attivato per il riconoscimento della voce e da avere immediatamente informato il medesimo Col. Mori) e, per quel che risulta, rimase estraneo all’azione del R.O.S. centrale e, quindi, presumibilmente ignaro delle eventuali illecite finalità dell’azione medesima, oltre che, conseguentemente, sinceramente dispiaciuto dell’esito negativo dell’operazione e, per tale motivo, “consolato” e gratificato da Mori con la lettera in questione.

Ma si tratta, appunto, di un sospetto che non può raggiungere il rango di prova neppure sotto il profilo logico ove inserito nel contesto delle risultanze sulla c.d. “trattativa”, non potendosi escludere quanto meno un’ipotesi alternativa ancorché meno probabile.

La condotta del R.O.S. e, quindi, di Mori (non potendo esservi alcun dubbio, per quanto detto sopra e per quanto risulta dalla testimonianza di Scibilia, che allo stesso debba farsi risalire la regia di tutti quegli accadi menti) potrebbe trovare spiegazione alternativa anche nella volontà di “coprire” il grave errore di precipitazione commesso nel tentativo di arrivare per primi ad arrestare, dopo Riina, anche Santapaola e che, però, aveva determinato il fallimento dell’operazione e l’irripetibilità dell’occasione data dalla registrazione addirittura della stessa voce di un così importante esponente mafioso della “cosanostra” catanese qual era, appunto, allora Santapaola.

Non si può escludere, in altre parole, che Mori non abbia voluto “bruciare” il credito, in termini di riconoscimento delle capacità investigative, acquisito con la cattura di Salvatore Riina e ciò tanto più in un momento in cui erano ancora recenti le polemiche per la mancata perquisizione del covo di quest’ultimo che avevano, in qualche modo, ombrato il successo di quell’operazione.

In altre parole, avendo Mori esaltato la propria professionalità ed il proprio acume investigativo in occasione del recente arresto di Salvatore Riina (forse anche oltre gli effettivi meriti, stante l’apporto determinante per tale esito, non già di investigazioni classiche del R.O.S., ma in via pressoché esclusiva della collaborazione di Baldassare Di Maggio, peraltro, sollecitata ed ottenuta dal “nemico” di Mori – v. testimonianza Caselli – Col. Delfino), ha fatto, poi, di tutto per nascondere, oltre ogni evidenza, il gravissimo insuccesso di quell’operazione che ebbe a determinare l’allontanamento di Benedetto Santapaola dai luoghi, ove, grazie alle intercettazioni in corso, era stato individuato e, se il R.O.S. avesse agito in modo più accorto, avrebbe potuto certamente essere agevolmente arrestato ben prima del 18 maggio 1993 (e, peraltro, ad opera della Polizia di Stato, col conseguente evidente rammarico, di cui si è detto, del M.llo Sci bilia, che, più di ogni altro, si era speso per quel risultato).

Ed, allora, In conclusione, non resta che ripetere le considerazioni già sostanzialmente formulate in relazione ali ‘altro episodio prima esaminato, quello della mancata cattura di Provenzano: si tratta di un elemento probatorio per così dire neutro, nel senso che, se non incrementa la fondatezza della ricostruzione prima operata riguardo ai fatti delittuosi della minaccia oggetto della contestazione di cui al capo a) della rubrica, neppure, però, inficia minimamente la medesima ricostruzione già autonomamente sufficiente, come si è visto sopra, sotto il profilo probatorio.

E resta, comunque, il fatto oggettivo che anche tale vicenda, per le sue innegabili anomalie sempre ed ancora un volta, come nel caso della mancata perquisizione del covo di Riina, riconducibili agli uomini del Col. Mori, servì ad accreditare ulteriormente, nel vertice mafioso dell’epoca, l’idea dell’utilità della prosecuzione di quella strategia già intrapresa e che sembrava produrre i suoi attesi frutti.


La minaccia contro il governo Berlusconi   Secondo la Pubblica Accusa, in parallelo già con l’azione concretizzatasi nella minaccia ai Governi Amato prima e Ciampi, soprattutto, dopo, venne a svilupparsi, dopo l’arresto di Salvatore Riina (già preceduto da quello di Vito Ciancimino), un’ulteriore azione che vide protagonisti da un lato Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, che di fatto, al di là delle cariche formali mai loro attribuite, raccolsero il testimone dello stesso Riina rappresentandone la volontà, e, dall’altro, Marcello Dell’Utri (per il tramite di Vittorio Mangano che con lo stesso vantava un risalente rapporto di frequentazione) e che sfociò, infine, ancora secondo la contestazione di reato del P.M., nella rinnovazione della minaccia mafiosa nei confronti anche di Silvio Berlusconi appena insediatosi nel maggio 1994 a Capo del nuovo Governo della Repubblica.

Tale azione così, infine, sfociata, peraltro, ancora secondo l’Accusa, avrebbe avuto già un prologo nel 1992, dopo l’uccisione di Salvo Lima, allorché il medesimo Marcello Dell’Utri si sarebbe offerto alle cosche mafiose come nuovo interlocutore delle stesse in sostituzione del predetto Lima.

E’ opportuno, allora, iniziare proprio dalla figura di Marcello Dell’Utri quale emerge, innanzi tutto, dalle sentenze irrevocabili acquisite agli atti, per poi verificare:

– se nel 1992 il predetto imputato abbia in qualche modo istigato, sollecitato, stimolato o assecondato le minacce che il vertice di “cosa nostra”, come si è visto nella precedente Parte Terza di questa sentenza, ebbe a rivolgere al Governo sotto forma di condizioni per la cessazione della strategia stragista;

– se, successivamente, il medesimo imputato abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia questa volta nei confronti del Governo Berlusconi;

– se tale minaccia sia stata effettivamente formulata dai vertici mafiosi;

– se, infine, Dell ‘Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino al Presidente del Consiglio Berlusconi.

[…] Nel corso del processo, quanto all’odierno imputato Marcello Dell’Utri, sono state acquisite al fascicolo del dibattimento le sentenze pronunciate nei confronti del predetto rispettivamente il 29 giugno 20 l O dalla Corte di Appello di Palermo, il 9 marzo 2012 dalla Corte di Cassazione, il 25 marzo 2013 ancora dalla Corte di Appello di Palermo e, infine, dalla Corte di Cassazione il 9 maggio 2014 con la quale è stato irrevocabilmente definito il processo.

Marcello Dell’Utri, invero, venne portato a giudizio per rispondere dei seguenti reati:

a) di cui agli artt.110 e 416 commi 1,4 e 5 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra “, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni in tessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:

1. partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;

2. intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali Bontate Stefano, Teresi Girolamo, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Mangano Vittorio, Cinà Gaetano, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore;

3. provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;

4. ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Così rafforzando la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell ‘Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare – a vantaggio della associazione per delinquere – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui all’articolo 416 commi 4° e 5° c.p. trattandosi di associazione armata ed essendo il numero degli associati superiore a dieci. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo della associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982;

b) di cui agli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p. per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra “, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima. E così ad esempio:

1. partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;

2. intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;

3. provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;

4. ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Così rafforzando la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa Nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell’Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare – a vantaggio della associazione per delinquere – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell’art.416 bis c.p., trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziate, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi.

Con la prima delle predette sentenze, quella del 29 giugno 2010, l’imputato Marcello Dell’Utri, già condannato dal Tribunale di Palermo per i predetti reati unificati sotto il vincolo della continuazione alla pena di anni nove di reclusione, venne assolto dalla Corte di Appello di Palermo dal reato di cui sopra al capo b), nel quale veniva dichiarato assorbito il reato di cui al capo a), limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perché il fatto non sussiste e per l’effetto venne ridotta la pena allo stesso inflitta ad anni sette di reclusione.

Con la seconda delle predette sentenze, quella del 9 marzo 2012, tuttavia, la Corte di Cassazione annullava la sentenza della Corte di Appello nel capo relativo al reato del quale l’imputato era stato dichiarato colpevole e rinviava per un nuovo giudizio ad altra sezione della medesima Corte di Appello.

Con la terza delle predette sentenze, quella del 25 marzo 2013, quindi, la Corte di Appello di Palermo, decidendo in sede di rinvio, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Palermo dell’ Il dicembre 2004, tenuto conto dell’assoluzione irrevocabile pronunziata dalla Corte di Appello con la sentenza del 29 giugno 2010 con riferimento alle condotte contestate per il periodo successivo al 1992, rideterminava la pena inflitta in anni sette di reclusione.

Con l’ultima delle predette sentenze, quella del 9 maggio 2014, infine, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso di Marcello Dell’Utri determinando il passaggio in giudicato anche della condanna così come stabilita dalla Corte di Appello di Palermo il25 marzo 2013.

[…] Per la condotta per la quale Dell’Utri è stato condannato ci si può rifare, in particolare, alla sentenza della Corte di Appello di Palermo del 25 marzo 2013. Da tale sentenza si ricava, invero, che già dalla precedente pronunzia della Corte di Cassazione di annullamento della sentenza della Corte di Appello di Palermo del 29 giugno 2010 era derivato il definitivo accertamento, “in virtù del giudizio positivo formulato in ordine all’attendibilità soggettiva ed alla esistenza di riscontri reciproci delle dichiarazioni di Di Carlo, Galliano e Cucuzza, collaboranti gravitanti ali ‘interno di cosa nostra” di alcuni precisi fatti indicati nei seguenti termini:

“- l’assunzione – per il tramite del Dell ‘Utri – di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di cosa nostra;

– la non gratuità dell’accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo essendosi posto anche come garante del risultato;

– il raggiungimento dell’accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri che, di quell’assunzione, è stato l’artefice grazie anche ali ‘impegno specifico profuso dal Cinà”.

Tali condotte, sostanzialmente “consistite nella ricerca di un contatto con esponenti di “cosa nostra” al fine del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e l’associazione mafiosa, la mediazione nei pagamenti di somme di denaro da parte dell’imprenditore milanese alla stessa consorteria mafiosa in cambio di una generale protezione”, sono state, quindi, già ritenute “sintomatiche della fattispecie delittuosa contestata all’imputato di concorso esterno in associazione mafiosa”.

Secondo la Corte di Appello, dunque, era “incontestabile che, nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e durante il dominio di Salvatore Rima, non si è registrata alcuna interruzione dei pagamenti” cospicui da parte di Silvio Berlusconi di cui si è detto sopra, essendo “emerso che l’imputato (con il Cinà) ha agito in modo che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia, a titolo estorsivo, e ciò fino agli inizi degli anni ’90”.

E’ importante qui sottolineare che, ancora secondo quei giudici, la “cifra notevolmente più aggressiva tanto da divenire artefice, in seguito della stagione stragista della nuova direzione mafiosa”, quella voluta da Salvatore Riina subentrato, sin dai primi anni ottanta a Stefano Bontate nella guida della “cosa nostra” palermitana, non aveva “inciso sugli equilibri sanciti tra cosa nostra e Dell’Utri e Berlusconi con il patto del 1974 che – per i motivi più volte evidenziati – è rimasto del tutto immutato ed è proseguito senza soluzione di continuità fino al 1992″.

Sino a tale data, pertanto, sono stati ravvisati “tutti gli elementi costitutivi del delitto contestato non essendo mai emerso alcun fatto da cui poter desumere un mutamento dell’elemento psicologico di Dell’Utri” che investiva “sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica, che dopo quasi un ventennio Dell’Utri ben conosceva, sia il contributo causale recato con il proprio comportamento alla conservazione ed al rafforzamento dell’associazione mafiosa con la quale consapevolmente e volontariamente l’imputato interagiva dal 1974″.

E’ ugualmente utile rilevare in questa sede che, ancora secondo quella Corte di Appello, la “peculiarità del comportamento di Dell’Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di cosa nostra non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell’intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo” e ciò non per “ravvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee all’area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione”, ma per “valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all’associazione mafiosa, ha voluto consapevolmente interagire sinergicamente con soggetti  mafiosi, rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un’attività di sostegno all’associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento”.

La Corte di Appello con la medesima sentenza del 25 marzo 2013 non ha trattato, invece, l’assoluzione dell’imputato Dell’Utri per la condotta successiva al 1992, poiché questa, a seguito dell’inammissibilità del ricorso proposto dal Procuratore Generale avverso la precedente sentenza della Corte di Appello del 29 giugno 2010, era divenuta definitiva.

Da quest’ultima sentenza, comunque, si ricava che, secondo quel Giudice, poteva ritenersi provato l’assunto accusatorio in ordine al concorso esterno a carico dell’imputato soltanto fino al 1992, poiché, appunto, solo fino a detta data l’imputato risultava avere svolto l’attività di “mediazione” tra Silvio Berlusconi, vittima dell’estorsione, e l’associazione mafiosa “cosa nostra”, rappresentata prima da Stefano Bontate e poi da Salvatore Riina.

Nel periodo successivo, infatti, l’imprenditore Berlusconi aveva maturato l’idea di assumere quel ruolo politico che, poi, effettivamente, aveva assunto dalla fine del 1993 ed erano mancati elementi probatori tali da far ritenere che quei pagamenti fossero proseguiti.

Quella Corte di Appello, dunque, aveva escluso che per il periodo successivo al 1992 fossero state poste in essere dall’imputato Dell’Utri condotte consapevoli e concrete di contributo materiale aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell’organizzazione mafiosa, avendo, peraltro, escluso che, al fine di ritenere integrato il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, potessero rilevare le condotte dell’imputato di mera disponibilità o di vicinanza ad esponenti mafiosi e, sotto altro profilo, che l’imputato medesimo avesse avuto un ruolo nell’ipotetica trattativa tra i mafiosi catanesi ed il gruppo Fininvest nella vicenda che traeva origine dai cinque attentati ai magazzini Standa nella provincia di Catania, compiuti agli inizi del 1990, il più grave dei quali aveva causato danni gravissimi all’edificio nel quale aveva sede uno dei detti magazzini.

D’altra parte, la Corte traeva conferma sul fatto che “cosa nostra”, sino alla fine del 1993 – inizi del 1994, non avesse ricevuto garanzie politiche né da Dell’Utri né da altri, dal fatto che l’associazione mafiosa sino a quella data, non avendo trovato nuovi contatti politici, aveva avviato una politica stragi sta ed aveva nel contempo progettato di costituire un proprio partito siciliano autonomista.

Inoltre, la Corte di Appello del 2010 aveva ritenuto di non potere escludere in termini di assolutezza che Vittorio Mangano potesse avere millantato con Brusca e Bagarella di avere ricevuto da Dell’Utri promesse politiche nel corso degli incontri avvenuti nel 1993-1994 e che, dunque, i pretesi contatti fossero rimasti soltanto a livello di tentativo senza alcun esito positivo.

In sostanza, quindi, dopo il 1992, ancora secondo la Corte di Appello del 2010, non era stato possibile acquisire “prove inequivoche e certe di concrete e consapevoli condotte di contributo materiale ascrivibili a Marcello Del ‘Utri aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell’organizzazione mafiosa”.

[…] Orbene, i fatti accertati in positivo all’esito del processo nei confronti di Marcello Dell’Utri di cui alle sentenze appena ricordate possono ritenersi pienamente provati anche nel presente processo alla stregua della valutazione che qui può essere fatta unitamente agli altri elementi di prova direttamente acquisiti in questa sede e che saranno di seguito esposti.


IL RUOLO DI MARCELLO DELL’UTRI NELLE VICENDE DEL 1992  Come si è già anticipato nella Premessa alla Parte Quarta della presente sentenza, secondo la contestazione di reato formulata dalla Pubblica Accusa al capo a) della rubrica riportata in epigrafe, l’azione che, dopo l’arresto di Salvatore Riina (già preceduto da quello di Vito Ciancimino), vide protagonisti da un lato Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (di fatto in rappresentanza di “cosa nostra” avuto riguardo al ruolo, in quel momento senza effettivo potere, di Provenzano), e, dall’altro, Marcello Dell ‘Utri (per il tramite di Vittorio Mangano che con lo stesso vantava un accertato risalente rapporto di frequentazione) e che sfociò, infine, ancora secondo la contestazione di reato del P.M., nella rinnovazione della minaccia mafiosa nei confronti anche di Silvio Berlusconi appena insediatosi nel maggio 1994 a Capo del nuovo Governo della Repubblica, ebbe già un prologo nel 1992, allorché, dopo l’uccisione di Salvo Lima, il medesimo Marcello Dell’Utri si sarebbe offerto alle cosche mafiose come nuovo interlocutore delle stesse in sostituzione del predetto Lima.

Infatti, la prima condotta che viene espressamente contestata all’imputato Marcello Dell’Utri è quella del concorso nel reato di minaccia al Governo “inizialmente proponendosi ed attivandosi, in epoca immediatamente successiva all’omicidio LIMA ed in luogo di quest’ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa Nostra” per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici” di varia natura (“tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali ed il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione”) in favore degli aderenti all’associazione mafiosa (v. capo d’imputazione).

[…] L’accusa si fonda sostanzialmente sulle propalazioni di Giovanni Brusca e di Salvatore Cancemi.

[…] Brusca ha riferito di avere chiesto a Riina, dopo la strage di Capaci (periodo indicato con qualche margine di incertezza, poiché in precedenza si era temporalmente riportato al periodo dopo l’uccisione di Lima), se qualcuno si fosse fatto effettivamente avanti e che, a quel punto, il medesimo Riina, tra gli altri soggetti (Ciancimino e Bossi), gli aveva fatto anche il nome di Dell’Utri, nome che, tuttavia, lo stesso Brusca non aveva indicato inizialmente (v. dich. Brusca sopra riportate: “… Ed io, in base a questi ragionamenti fatti con Totò Riina precedentemente, a un dato punto, dopo la strage … dopo l’omicidio … dopo la strage di Capaci veramente gliel’avevo chiesto pure prima, però più approfonditamente dopo la strage di Capaci, dico: “È venuto qualcuno? Si è sentito qualcuno? C’è novità?” Ma con riferimento, diciamo, a questo tipo di meccanismo, cioè una volta ucciso Lima vediamo chi si fa sotto per vedere qualche cosa. E lui mi risponde con fare disinteressato, dice: “Sì. mi hanno portato il mio paesano, che sarebbe Vito Ciancimino, a Bossi, la Lega di Bossi” e non avevo fatto il nome di Dell’Utri. che poi ho fatto ultimamente, che non lo avevo fatto in precedenza … […] Non me l’ha detto chi gli … Mi dice: “Mi hanno portato”. Non mi ha detto: “Me li ha portati Tizio, Caio e Sempronio”. Posso immaginare, ma credo che non interessa. No che “me li ha portati Vito Ciancimino”. Si sono fatti sotto, si sono fatti presenti del posto di … Il senso era: “Il posto di Lima, il nostro referente, ci sono questi soggetti che possono adempire a quelle che erano le nostre esigenze” e dice: “Mi hanno portato la Lega di Bossi, il mio paesano Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri”, però tra il gesto e il tono della voce era come dire “non m’interessa”… “).

Sennonché, poi, ancora Brusca ha riferito di un ulteriore incontro avuto con Riina dopo circa venti giorni dal primo, nel quale quest’ultimo aveva manifestato disinteresse verso quei politici che precedentemente si erano proposti, raccontando che questa volta il medesimo Riina si era mostrato soddisfatto perché qualcuno “si era fatto sotto” ed egli aveva così avanzato un “papello” di richieste quali condizioni per cessare le stragi[…].

[…] Ciò premesso, seppure l’indicazione nominativa di Dell’Utri in quella fase, così come quella di Bossi, potrebbe non sorprendere alla stregua di alcune risultanze su talune iniziative politiche di quel periodo di cui si dirà meglio nel Capitolo seguente, tuttavia, quel che occorre rilevare in questa sede è, in ogni caso, che dalle stesse dichiarazioni del Brusca non è dato ricavare un benché minimo effettivo collegamento di qualsiasi tipo tra una eventuale iniziativa dell’imputato Dell’Utri (e ciò a prescindere da ogni considerazione sulla tardività dell’indicazione di quest’ultimo da parte del detto dichiarante, comunque superabile in forza delle risultanze di alcune intercettazioni dei colloqui di Riina in carcere di cui si dirà nella successiva Parte Quinta della sentenza) e le richieste che, a un certo momento, Riina, mutando il suo intendimento di vendetta e di mera contrapposizione frontale allo Stato, aveva ritenuto di avanzare a titolo di condizione per la cessazione della contrapposizione medesima e, quindi, delle stragi.

Lo stesso Brusca, infatti, ha riferito che Riina si era mostrato disinteressato all’approccio dei “politici” precedentemente da lui indicati, tra i quali Dell’Utri, ed ha quindi aggiunto che quando successivamente, invece, Riina gli aveva detto che qualcuno “si era fatto sotto” ed aveva mostrato per tale ragione soddisfazione, egli aveva “pensato” che si potesse trattare di quegli stessi soggetti citati nel precedente incontro […].

Dunque si è trattato di una mera deduzione del dichiarante che non trova alcun riscontro né nelle copiose acquisizioni probatorie ampiamente esposte nella Parte Terza, che consentono di ricollegare piuttosto quella indicazione di Riina all’iniziativa dei Carabinieri attuata per il tramite di Vito Ciancimino, né in qualsiasi altra delle acquisizioni probatorie pure esposte nel Capitolo precedente di questa Parte Quarta della sentenza.

D’altra parte, lo stesso Brusca ha dichiarato espressamente che il riferimento (anche) a Dell’Utri era stato da lui soltanto “immaginato” […], perché in occasione di quel secondo incontro Riina non gli disse chi fossero i suoi interlocutori […], specificando, semmai, soltanto chi fosse il destinatario del “papello”, il Ministro Mancino (v. dich. Brusca: “…le richieste erano assai e dette in tono arrabbiato, seccato e mi fa il nome di Mancino, l’onorevole Mancino, che ‘sta richiesta era andata a finire a lui…”), ancorché va sottolineato che, anche in questo caso, si tratta di una aggiunta del Brusca alle precedenti dichiarazioni ancora più tardiva e, quindi, sospetta, oltre che smentita dallo stesso Riina in occasione di uno dei suoi colloqui (quello del 12 agosto 2013) intercettati durante la detenzione che saranno esaminati più avanti.

[…] Come detto, dunque, a prescindere da ogni considerazione sulla tardività dell’indicazione da parte di Brusca anche di Dell’Utri quale soggetto che già nell’immediatezza dell’uccisione di Salvo Lima si era proposto per prenderne il posto quale tramite con il mondo politico, difetta, in ogni caso, qualsiasi riscontro sulla detta indicazione. Riscontro che, in particolare, non può rinvenirsi neppure nelle propalazioni di Antonino Giuffré, il quale, infatti, ha, sì, parlato di Dell’Utri subentrato nel ruolo che era stato di Salvo Lima, ma con riferimento ad un momento successivo, quello della fine del 1993 allorché si approssimava l’ufficialità della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi con una nuova forza politica in vista delle elezioni della primavera del 1994.

Ed invero, Giuffrè ha riferito, appunto, che, dopo la sua scarcerazione e ancora nei primi mesi del 1993, si pensava piuttosto all’On. Mario D’Acquisto come soggetto che avrebbe potuto prendere il posto di Salvo Lima e che soltanto verso la fine del 1993 l’interesse di “cosa nostra” si era rivolto, invece, verso la nuova forza politica di Silvio Berlusconi, utilizzando ancora, quale tramite per raggiungere quest’ultimo, Marcello Dell’Utri […].

Dunque, secondo Giuffrè è soltanto nella seconda metà del 1993 che il ruolo che “in precedenza era stato svolto da Vito Ciancimino nell’interesse di “cosa nostra” fu assunto da Marcello Dell’Utri (v. ancora dich. Giuffrè citate: “Non lo so questo, cioè, c’è un discorso dell’83, post Ciancimino, di cui io diciamo non ho notizie. Riprendiamo tutto il discorso alla fine poi nella seconda metà del 93, con il discorso che ho detto, che ci si sia appoggiati su Dell’Utri, di altro non so, signor Presidente.. … …Allora diciamo che possiamo dire che il posto del Ciancimino era stato preso da Dell’Utri, questo lo posso tranquillamente asserire”).

Tale indicazione, peraltro, appare più coerente con altre acquisizioni probatorie che saranno esaminate nei Capitoli che seguiranno con riguardo alle elezioni politiche del 1994 e, d’altra parte, risulta confermata anche dalle sia pure più generiche indicazioni fomite da Stefano Lo Verso sulla scorta di alcune confidenze raccolte direttamente da Provenzano.

Come si è visto sopra nel precedente Capitolo, paragrafo 2.34, infatti, Lo Verso ha raccontato che Provenzano, nel contesto di un discorso che aveva preso le mosse dall’uccisione di Salvo Lima, ad un certo punto, gli aveva fatto il nome di Marcello Dell’Utri come soggetto che aveva preso il posto di Lima quale referente politico dell’associazione mafiosa […].

Sennonché, secondo quanto ancora raccontato da Lo Verso, Provenzano aveva aggiunto che ciò era avvenuto dopo le stragi […].

Come si vede, dunque, pur dovendosi dare atto della genericità di quella confidenza, d’altra parte, fatta da Provenzano dopo oltre un decennio dai fatti e, quindi, senza alcuno specifico riferimento ad una delle stragi […], v’è piena coincidenza con l’indicazione ben più precisa di Giuffré secondo cui soltanto nella seconda metà del 1993 (quindi, appunto, dopo le stragi del luglio 1993) il ruolo che in precedenza era stato svolto da Vito Ciancimino nell’interesse di “cosa nostra” fu assunto da Marcello Dell’Utri (v. sopra).

Peraltro, a riprova di tale collocazione temporale, v’è il fatto che anche in quel discorso del Provenzano riferito da Lo Verso il contatto con Dell’Utri è stato, poi, direttamente collegato con le elezioni politiche del 1994 e con l’appoggio dato a Forza Italia anche dallo stesso Provenzano […], così come, d’altra parte, già noto al dichiarante […].

Considerazioni pressoché analoghe a quelle prima svolte riguardo alle propalazioni di Giovanni Brusca, poi, devono farsi anche per le propalazioni di Salvatore Cancemi.

[…] Cancemi, in estrema sintesi, ha confermato sia l’episodio precedente del 1991 quando Riina gli aveva detto di avvisare Vittorio Mangano di mettersi da parte nei rapporti con Dell’Utri e Berlusconi in quanto intendeva gestirli direttamente […], aggiungendo, peraltro, che nel medesimo periodo Riina, parlandogli della prospettiva di un investimento della Fininvest a Palermo, aveva fatto cenno a possibili benefici […], sia l’incontro con Riina che precedette la strage di Capaci nel quale quest’ultimo aveva detto di essersi incontrato con “persone importanti” non meglio specificate […], sia, infine, la riunione del 1992 in cui Riina aveva espressamente fatto i nomi di Dell’Utri e Berlusconi, aggiungendo, peraltro, che a tale riunione era presente anche Giovanni Brusca […].

Orbene, in più punti precedenti della presente sentenza si sono già evidenziate le criticità delle dichiarazioni di Cancemi soprattutto derivanti dal ritardo con il quale quest’ultimo ha reso (anche) le dichiarazioni appena esaminate concernenti Dell’Utri e Berlusconi, inizialmente – e per alcuni anni – mai citati.

[…] Un ulteriore straordinario ed eccezionale riscontro all’episodio raccontato da Cancemi relativo all’invito di Salvatore Riina ad informare Vittorio Mangano che da quel momento non avrebbe dovuto più occuparsi dei contatti con Dell’Utri e Berlusconi perché lo stesso Riina li aveva ormai “nelle mani” (v. dich. Cancemi del 23 aprile 1998 già sopra più ampiamente riportate: “…dice:<

Ma in ogni caso qui non appare utile approfondire ulteriormente l’attendibilità delle dichiarazioni del Cancemi concernenti Dell ‘Utri e Berlusconi, dal momento che dalle stesse parole del predetto collaborante non è dato ricavare alcun elemento che possa, da un lato, riscontrare e supportare il racconto di Giovanni Brusca e la conseguente ipotesi accusatoria secondo cui Dell’Utri si“propose” ai mafiosi già nel 1992, […] e, dall’altro lato, l’ulteriore contestazione secondo cui il medesimo Dell’Utri, ancora nel 1992, abbia in quel modo agevolato o sollecitato le minacce che, poi, effettivamente furono rivolte al Governo dell’epoca ovvero anche soltanto se ne sia fatto intermediario verso quest’ultimo.

[…] Non solo, ma, come si vedrà meglio nella successiva Parte Quinta della sentenza, nelle stesse parole del Riina intercettate in carcere nel 2013 si rinviene la definitiva conferma che quest’ultimo in quell’anno 1992 e sino al suo arresto aveva, di fatto, “snobbato”, non ritenendolo allora abbastanza importante, Silvio Berlusconi e, quindi, anche Dell’Utri che ne fungeva da intermediario verso “cosa nostra” (v. intercettazioni del 22 agosto e 29 settembre 2013 che saranno riportate più avanti nella già richiamata Parte Quinta della sentenza).

Sotto altro profilo, inoltre, v’è anche un’altra intercettazione delle conversazioni del Riina, quella del 5 settembre 2013 di cui pure si dirà più ampiamente nella successiva Parte Quinta della sentenza, che, laddove Riina racconta di avere appreso di una visita fatta da Provenzano a Dell’Utri a Como, pur dicendo di non sapere se ciò fosse effettivamente accaduto (v. intercettazione citata che più avanti sarà più ampiamente riportata: “” … Però iu aveva sempri… che questo Binnu e questo Marcello (incomprensibile) iri a truvallu (incomprensibile) … ci rida (incomprensibile) ma iddu ci riceva (incomprensibile) Binnu stai attento … …….. Però… se è vero che ci iu a … a Como … ma vieru è? …”), sembra avallare il fatto che i contatti con Dell’Utri furono ripresi soltanto dopo l’arresto del Riina (che, infatti, non ha conoscenza diretta di quanto accaduto) e, quindi, come si è visto sopra, soltanto dopo le stragi del 1993 in vista dei nuovi assetti politici che iniziavano a delinearsi.


La regia di Marcello Dell’Utri   Escluso che l’imputato Marcello Dell’Utri abbia avuto un ruolo nelle vicende del 1992 e, quindi, nella minaccia che fu formulata dall’associazione mafiosa “cosa nostra”, […], occorre ora esaminare se, come pure contestato al capo a) della rubrica riportato in epigrafe, il medesimo, nel prosieguo, abbia, comunque, posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia questa volta nei confronti del Governo Berlusconi.

E’ necessario, però, muovere da alcune premesse fattuali che, nell’ottica dell’accusa, costituiscono l’antecedente di tale minaccia e che pure sono state oggetto di attività istruttoria dibattimentale.

La prima di tali premesse è costituita dall’iniziale progetto di “cosa nostra” di dare luogo ad una iniziativa politica di carattere autonomista creando un proprio movimento politico denominato “Sicilia Libera”.

[…] Il teste Serafini, come si è visto sopra, ha ampiamente riferito, con l’informativa della D.LA. del 31 gennaio 1998, acquisita all’udienza del 13 novembre 2015 e con la testimonianza resa nel dibattimento all’udienza del 22 ottobre 2015, sui progetti politici di carattere autonomista che sin dall’inizio degli anni novanta iniziarono a svilupparsi suscitando anche tal uni interessi delle associazioni mafiose operanti nell’Italia meridionale che intravidero i vantaggi che sarebbero potuti derivare per esse quanto meno da un’ulteriore accentuazione delle autonomie locali se non da un’effettiva separazione di carattere federativo.

Le indagini effettuate dalla DIA hanno fatto emergere collegamenti dei nuovi movimenti autonomisti di quegli anni sia con ambienti della destra anche eversiva, sia con ambienti della massoneria deviata, sia, infine, con ambienti della criminalità organizzata di tipo mafioso.

Emblematica di un simile connubio è, ad esempio, quella iniziativa congressuale della Lega Meridionale Centro Sud Isole (movimento pressoché parallelo agli altri che nel nord e nel centro d’Italia si costituirono contestualmente per opera di Stefano Menicacci, già legale di Stefano Delle Chiaie) che fu diretta a proporre, tra le altre, le candidature politiche, da un lato, di Licio Gelli e, dall’altro, di Vito Ciancimino che pure ebbe a partecipare personalmente a quel congresso.

Il teste Serafini ha anche riferito di un comizio tenuto personalmente da Stefano Delle Chiaie sul finire del 1991 in Sicilia e sulla proposta avanzata dallo stesso, tra l’altro, dell’abolizione delle “leggi eccezionali”, che indubbiamente avrebbe potuto suscitare l’interesse dell’associazione mafiosa “cosa nostra” in quanto riferita anche alla legislazione antimafia di carattere speciale.

Ebbene, ancora secondo quanto riferito dal teste Serafini, tra i referenti siciliani di quella Lega si segnalano Antonino Strano (di cui emergevano già contatti sia con ambienti di Ordine Nuovo, sia con il noto Pietro Rampulla, successivamente compartecipe della strage di Capaci) e Giuseppe Lipera, i quali, il successivo 28 ottobre 1993, avrebbero costituito il movimento federalista Sicilia Libera di Catania in parallelo all’analoga iniziativa palermitana della fondazione, in data 8 ottobre 1993, di Sicilia Libera di Palermo ad opera, tra gli altri, di Vincenzo Edoardo La Bua (che nel prosieguo costituirà, però, un circolo della nuova formazione politica di Silvio Berlusconi denominata Forza Italia) e di Tullio Cannella.

Ancora, quanto alla testimonianza di Serafini, va rimarcato che Sicilia Libera Palermo e Sicilia Libera Catania furono in contatto tra di loro per il tramite del Principe Domenico Orsini (frequentatore della Villa Vanda di Licio Gelli), oltre che dello stesso Tullio Cannella, cui è opportuno fare, innanzitutto, riferimento per i rapporti tra il movimento Sicilia Libera e “cosa nostra”.

Ed invero, in proposito, Tullio Cannella, sicuro protagonista della vicenda per essere stato, come si è visto, tra i fondatori di Sicilia Libera di Palermo cui seguì la costituzione anche di Sicilia Libera di Catania, ha riferito, per conoscenza diretta, che l’idea di fondare quel nuovo partito autonomista nacque conversando con Bagarella nell’estate del 1993 (“Sì, nel periodo dell’estate 93, ne cominciammo a parlare nell’agosto del 93 e piano piano, piano piano lo abbiamo portato avanti, e poi insomma ha avuto il suo…”), in quanto quest’ultimo, sostanzialmente, intendeva così bypassare l’intermediazione di uomini politici, inserendo, piuttosto, nel nuovo movimento politico soggetti che fossero diretta espressione di “cosa nostra” […].

L’iniziativa della fondazione di Sicilia Libera, pertanto, deve farsi risalire direttamente a Bagarella, il quale incaricò a tal fine Tullio Cannella e si attivò per reperire alcuni collaboratori per i diversi territori siciliani […], che avrebbero dovuto individuare anche personaggi di spicco che potessero fare da catalizzatori di consensi elettorali […].

La riferibilità dell’iniziativa a “cosa nostra” nel suo insieme fu confermata a Cannella dal fatto che Bagarella, dopo quelle iniziali conversazioni, gli disse che si sarebbe prima consultato anche con Bernardo Provenzano […] e che successivamente, quindi, gli diede l’autorizzazione a procedere in quel progetto […].

[…] Lo stesso Cannella ha ancora riferito anche di un incontro che verso la fine del 1993 si tenne tra i rappresentanti dei vari movimenti separatisti a Lametia Terme (“Questo incontro, se non vado errato, avviene sempre nel 93, verso la fine mi pare, comunque avviene a Lamezia Terme dove vi erano presenti tutti gli esponenti di Sicilia Libera, di Catania, Sicilia Libera di Palermo, Calabria Libera, Basilicata Libera e così via di seguito e vi erano anche rappresentanti della Lega Nord. Questo è un fatto che ho vissuto, insomma importante. Mi ricordo anche il nome di questi della Lega Nord, mi pare che c’era un tale Tempesta, se non vado errato, un certo Marchioni, Marchionne, comunque uno o l’altro … Erano tutti e due vicini alla Lega Nord, uno comunque faceva parte mi pare della compagine di segreteria, non so che ruolo avesse. Poi vi erano un paio di Deputati Regionali delle Calabrie, uno della Calabria e uno della Basilicata, quindi vi erano tutti questi esponenti, dove si … “) ed al quale parteciparono, quindi, anche alcuni rappresentanti di Catania, tra i quali quel Nino Strano di cui si è già detto sopra ed anche tale Nando Platania […], soggetto risultato essere in contatto con Marcello Dell’Utri secondo quanto emerso dall’esame di una delle agende personali sequestrate a quest’ultimo ed in particolare da un’annotazione riportata proprio in un giorno, il 21 dicembre, della fine dell’anno 1993 di cui si è detto […].

Ancora, Cannella, quanto ai collegamenti di Sicilia Libera con “cosa nostra”, ha aggiunto che Bagarella aveva informato di quell’iniziativa politica anche i fratelli Graviano, i quali si erano messi a disposizione (v. dich. Cannella: “[…]e allora i fratelli Graviano ci fecero mettere a disposizione, però abbiamo pagato, con uno sconto ma abbiamo pagato, la sala convegni dell’Hotel, come si chiama? Palace … Che è San Paolo mi pare, in Via Messina Marine, Palace, San Paolo,[…]… E quindi i fratelli Graviano sì, ne furono messi a conoscenza e organizzammo infatti il primo incontro del movimento all’Hotel San Paolo Palace, ecco, quello di Via Messina Marine …. … … Avviene sempre in quel periodo, sempre nel 93, alla fine del 93 …… … Penso di sì, oppure fu all’inizio del gennaio 94, adesso non mi ricordo bene, prima delle elezioni politiche, boh, insomma non mi ricordo bene, giù di lì, comunque avvenne”), ancorché essi, per quel che Filippo Graviano ebbe a dire personalmente al Cannella, fossero scettici sulla detta iniziativa e preferissero portare avanti alcuni importanti contatti politici che già avevano intrapreso […].

Di tali contatti si dirà nel paragrafo successivo, ma quel che può rilevarsi è che le iniziative parallele di così importanti esponenti di rilievo dell’organizzazione mafiosa che infine prevalsero anche sull’idea del partito in proprio di Bagarella, svuotarono, di fatto, alla fine dello stesso 1993 il progetto di Sicilia Libera, che, infatti, fu pressoché abbandonato già in occasione delle elezioni comunali di Palermo del novembre di quell’anno, tanto che Bagarella stesso si disinteressò della formazione della lista […].

[…] Ma, come detto, non sembra necessario approfondire ulteriormente il progetto di “cosa nostra” di creare un proprio movimento politico, perché tanto Cannella, quanto Brusca e Giuffrè hanno concordemente riferito che ad un certo momento in “cosa nostra” maturò l’idea che potesse essere più proficuo appoggiare un nuovo movimento politico, la cui nascita, in quel medesimo periodo, iniziava a preannunciarsi in vista delle elezioni politiche che si sarebbero svolte nella successiva primavera del 1994.

Di ciò si parlerà più diffusamente nel paragrafo che segue, ma è opportuno qui evidenziare, per il rilievo che potrà assumere in relazione alla figura di Marcello Dell’Dtri che qui importa delineare, che in “cosa nostra” si ebbe notizia dell’imminente nascita di quel nuovo movimento politico ancor prima della sua ufficializzazione e che ciò comportò, sostanzialmente, il progressivo abbandono del progetto di Sicilia Libera.

In proposito, invero, Tullio Cannella ha riferito che egli aveva appreso della imminente nascita del nuovo partito di Berlusconi in ambienti di “cosa nostra” prima della presentazione ufficiale (” .. io che c’era in programma la discesa in piazza di questo movimento politico di Berlusconi, io lo apprendo un pochettino prima nell’ambiente di Cosa Nostra … “) e che certamente da ben prima, forse addirittura dai primi mesi del 1993, ne era informato anche Bagarella […].

La conoscenza anticipata da parte di “cosa nostra” della nuova iniziativa politica di Silvio Berlusconi si trae anche dalle dichiarazioni di Antonino Giuffré […].

Tale dato temporale è stato fortemente contestato dalle difese degli imputati e, specificamente, soprattutto dalla difesa di Marcello Dell’Utri, ma, anche a volere tralasciare le risultanze che portano a retrodatare le prime “avvisaglie” della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi addirittura al 1992 […], basta ricordare che il teste Ezio Cartotto ha datato con certezza (anche per un incidente che gli era occorso il giorno precedente) nei primi di aprile del 1993 un colloquio che egli stesso ebbe con Berlusconi e Craxi avente ad oggetto la nuova iniziativa politica di Berlusconi […] e la conseguente decisione di por termine alla riservatezza sull’iniziativa sino ad allora mantenuta […]. Da quel momento, dunque, non v’è dubbio che molti iniziarono a venire a conoscenza di quell’intendimento di Silvio Berlusconi […] e non è, pertanto, inverosimile che, grazie agli accertati rapporti di Marcello Dell’Utri con esponenti mafiosi quali Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, oltre che con altri esponenti della mafia catanese, nell’ambito di “cosa nostra” possa essere giunta la notizia della nuova iniziativa politica così come anche in questa sede confermato dai collaboratori di Giustizia prima ricordati. D’altra parte, che il canale delle conoscenze di “cosa nostra” possa essere stato quello di Marcello Dell’Utri è confermato dal fatto che è proprio a quest’ultimo che i mafiosi di diverse appartenenze decidono di rivolgersi per giungere sino a Silvio Berlusconi.

Di ciò occorre parlare nel paragrafo che segue.

4.2 L’INTERLOCUZIONE DI “COSA NOSTRA” CON MARCELLO DELL’UTRI IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI POLITICHE DEL 1994

[…] Fu in tale contesto, dunque, che, secondo Giuffré, Marcello Dell’Utri venne ad assumere il ruolo che fino al suo arresto era stato svolto da Vito Ciancimino […]. Tale propalazione del Giuffrè, peraltro, trova riscontro anche nelle confidenze raccolte da Stefano Lo Verso direttamente da Provenzano nel periodo (gennaio 2004) nel quale lo aveva ospitato in una sua abitazione.

Lo Verso, infatti, ha riferito che Provenzano gli aveva fatto il nome di Marcello Dell’Utri come soggetto che aveva preso il posto di Lima quale referente politico dell’associazione mafiosa dopo le stragi (v. dich. Lo Verso già sopra riportate: ” … Dopo che lui mi raccontò l’evento delle stragi, mi disse: dopo le stragi Marcello Dell’Utri si avvicinò ai miei uomini, diventò lui il referente, prese il posto di Lima .. “) e che, per tale ragione, lo stesso Provenzano si era a quel punto personalmente impegnato nella campagna elettorale in favore di Forza Italia (v. ancora dich. Lo Verso citate: ” .. E Provenzano mi dice: tanto che nel 1994 Forza Italia in Sicilia l’ho fatta votare io…. … .. .. E nel 1994 Provenzano mi disse: l’ho fatto votare io Forza Italia in Sicilia … … … lui mi dice chiaramente, dice, il referente è diventato lui, lui ha sostituito Lima …lui mi dice che nel 1994, Forza Italia in Sicilia l ‘aveva fatto votare lui .. “).

Ma, come si è visto sopra, tra gli esponenti mafiosi che avevano maturato l’idea di avvalersi dei risalenti rapporti con Marcello Dell’Utri per raggiungere Berlusconi, Giuffrè ha indicato anche i fratelli Graviano (v. dich. Giuffrè prima riportate: “…Questo è un discorso che è maturato dentro Cosa Nostra, quindi è un discorso nostro, maturato nell’ambito di Provenzano, di Aglieri, di quelle persone che ancora … dei Graviano…”).

Infatti, ancora secondo Giuffré, in quell’ultimo periodo, i contatti con Dell’Utri erano stati ripresi dai Graviano[…], così come egli ebbe ad apprendere direttamente da Provenzano […].

Tale indicazione collima pienamente con quanto riferito da Tullio Cannella, secondo cui, quando egli si rivolse ai Graviano per ottenere supporto nell’iniziativa di Sicilia Libera, questi ultimi, pur manifestando disponibilità, rappresentarono di preferire la diversa strada degli “agganci potenti” con la politica che gli stessi vantavano […].

Sotto il profilo temporale, quindi, un primo punto fermo della nuova strategia delineatasi in “cosa nostra” con la decisione di puntare sulla nuova forza politica affacciatasi nel panorama nazionale avvalendosi della intermediazione di Marcello Dell’Utri, si ricava dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza concernenti l’incontro che questi ebbe il 19 o il 20 gennaio 1994 a Roma con Giuseppe Graviano e di cui si è già detto sopra nella precedente Parte Terza della sentenza, Capitolo 32.

Gaspare Spatuzza, […], ha riferito, infatti, che allorché in quell’occasione ebbe ad incontrare, presso il Bar Doney di Roma, Giuseppe Graviano, questi, con espressione felice, gli disse di avere ottenuto ciò che volevano grazie a “persone serie” subito indicate in Silvio Berlusconi e nel “compaesano” Dell’Utri che aveva fatto da intermediario e che, quindi, si erano “messi il paese nelle mani”[…].

In tale contesto, dunque, matura in “cosa nostra” (tanto nell’ala facente capo agli alleati di Riina, tanto nell’ala contrapposta facente capo a Provenzano) la decisione di appoggiare il neo costituito partito politico “Forza Italia” nella convinzione che, grazie al canale diretto con il suo fondatore Silvio Berlusconi garantito dai risalenti e ampiamente sperimentati rapporti con Marcello Dell’Utri, si sarebbero potuti ottenere i benefici per i quali tutta l’organizzazione mafiosa si era impegnata sin dalla metà del 1992 (non è secondario ricordare, infatti, che sebbene già da alcuni mesi vi fossero stati significativi segnali della “discesa in campo” di Berlusconi, tale partito nasce poi ufficialmente, con l’apporto determinante di Marcello Dell’Utri, proprio negli stessi giorni in cui Giuseppe Graviano, con espressione felice e gioiosa, manifesta a Spatuzza la propria soddisfazione per le prospettive favorevoli all’organizzazione mafiosa che l’affermazione di quel nuovo partito lasciava prevedere).

Copiose e tutte concordanti, in proposito, sono le dichiarazioni dei collaboranti esaminati nel presente processo.

Ed invero, possono, innanzi tutto, ricordarsi ancora le propalazioni di Antonino Giuffrè, il quale, appunto, ha sottolineato come si fosse aperto, a quel punto, un nuovo capitolo della storia dei rapporti tra la politica e “cosa nostra” con la decisione di appoggiare quel nuovo partito che, poi, sarebbe riuscito effettivamente ad affermarsi […], nella prospettiva, per l’associazione mafiosa, di lucrare successivi vantaggi […].

Peraltro, Giuffré ha correttamente evidenziato che con ciò non intendeva affermare che il successo di Forza Italia (come, d’altra parte, va precisato, è ovvio per le dimensioni stesse di quel successo in tutto il Paese) fosse stato determinato dall’appoggio delle organizzazioni mafiose[…], ma soltanto che, comunque, “cosa nostra” si era determinata in quel senso perché aveva ottenuto garanzie, per mezzo di Marcello Dell’Utri, che consentivano ai capi dell’organizzazione di spendersi verso gli associati chiedendo loro di appoggiare il nuovo partito scommettendo sul suo successo[…].

Analoghe conoscenze sono state riversate nel processo anche da Ciro Vara, altro collaborante di Giustizia che, come Giuffré, deve ritenersi altamente credibile per le ragioni che sono state già precedentemente espresse.

[…] Nello stesso senso depongono anche le dichiarazioni di Stefano Lo Verso prima già riportate a proposito dell’impegno personale del medesimo nella campagna elettorale del 1994 (v. dich. Lo Verso: “E nel 1994 Provenzano mi disse: l’ho fatto votare io Forza Italia in Sicilia. E questo ne ho prova anche io, perché io sono stato uno di quelli che nel 94 ho partecipato a un convegno di Forza Italia … “).

Un ulteriore riscontro, particolarmente importante perché indicativo della volontà di Bagarella e, quindi, di fatto, di Riina, si trae dalle dichiarazioni di Tullio Cannella.

Quest’ultimo, infatti, ha, innanzi tutto, riferito che gli fu espressamente detto che erano state date assicurazioni sul fatto che la nuova forza politica si sarebbe interessata dei problemi che stavano più a cuore dei mafiosi […], ma, poi, ha aggiunto che lo stesso Bagarella lo sollecitò a recarsi ad un comizio di Berlusconi […] e che, quando poi egli aveva riferito a Bagarella alcune frasi pronunziate durante quel comizio da Berlusconi contro la mafia, lo stesso Bagarella gli aveva risposto di non preoccuparsi perché comunque Berlusconi aveva assunto impegni con loro […].

Ed, anzi, addirittura, a riprova della sicura volontà di Bagarella di sposare l’iniziativa del nuovo partito berlusconiano, Cannella ha riferito, non soltanto che Bagarella lo invitò, ad un certo momento, a sospendere ogni attività in favore di Sicilia Libera per sostenere i candidati di Forza Italia […], ma che, addirittura, lo stesso Bagarella gli chiese, poi, se volesse indicare qualche soggetto da candidare con Forza Italia, proponendogli, quindi, di incontrare, a tal fine, Vittorio Mangano […].

Tale ultima dichiarazione riferita a Vittorio Mangano, peraltro, converge con una dichiarazione di Giusto Di Natale secondo cui anche Guastella, altro esponente mafioso in quel periodo particolarmente vicino a Bagarella, indicò nel medesimo Mangano il soggetto che, grazie ai rapporti con Dell’Utri, avrebbe potuto favorire qualche candidatura proposta dai mafiosi […].

Ed anzi, ancora secondo quanto riferito da Cannella per averlo saputo direttamente da Bagarella, avvenne effettivamente che alcuni personaggi vicini a “cosa nostra” che pure erano stati individuati come possibili candidati di Sicilia Libera, furono, poi, candidati in Forza Italia e furono appoggiati da “cosa nostra” avendo dato preventive garanzie di tutelare gli interessi[…].

Ancora più esplicito sull’appoggio a Forza Italia deciso dai vertici di “cosa nostra” è stato, poi, Emanuele Di Filippo, altro soggetto allora particolarmente vicino a Bagarella, il quale, infatti, ha riferito che gli arrivò l’indicazione di votare, appunto, Forza Italia per ottenere la modifica del 41 bis e della legge sui collaboratori di Giustizia (v. dich. Emanuele Di Filippo pure sopra riportate: “…la notizia che arrivò fu quella di votare Forza Italia nel nome di Berlusconi, che avrebbe dovuto cambiare le cose e in modo particolare cambiare il 41 bis, la legge sui collaboratori di giustizia .. “) e ciò per volere espresso dei vertici di allora di “cosa nostra” (v. ancora dich. di Emanuele Di Filippo: “No, non è stata una indicazione, è stata una volontà da parte dei vertici di Cosa Nostra, a me questa volontà arrivò da mio fratello, da Tommaso Spadaro, mi scusi, di Antonino Spadaro, dai Tagliavia, dai Graviano, si doveva votare Forza Italia perché il signor Berlusconi, ripeto, nel nome di Berlusconi avrebbe dovuto cambiare la situazione nostra per quanto riguarda collaboratori e 41 bis… … … so soltanto che la notizia che arrivò era quella di votare Forza Italia e Berlusconi'”).

Ugualmente nel medesimo senso convergenti sono anche le propalazioni di Angelo Siino, il quale pure, in occasione delle elezioni politiche del 1994, ricevette nel carcere ove si trovava detenuto l’indicazione di fare votare per Forza Italia […].

Infine, quanto al versante palermitano di “cosa nostra”, vi sono le dichiarazioni di Giuseppe Monticciolo secondo il quale fu Brusca in persona a dirgli di diffondere tra gli associati l’ordine di far votare Forza Italia […], perché, ancora secondo quanto dettogli da Brusca […], Forza Italia avrebbe risolto i problemi di “cosa nostra” […], motivo per il quale egli si era, poi, personalmente ed effettivamente adoperato per far votare Forza Italia […].

Ma analoghe e convergenti risultanze sono state acquisite anche riguardo alle “famiglie” mafiose della restante parte della Sicilia.

[…] In conclusione, allora, può ritenersi ampiamente provato che, in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1994, le cosche mafiose, facendo affidamento sulle “assicurazioni” e sulle “garanzie” ricevute attraverso Marcello Dell’Utri, decisero di appoggiare il nuovo partito politico fondato da Silvio Berlusconi (con l’apporto determinante dello stesso Dell’Utri) nella prospettiva di ricavarne vantaggi e benefici.

In particolare, per quel che si ricava dalle risultanze prima esposte, a ciò si giunse all’esito delle parallele iniziative verso Marcello Dell’Utri (del quale, all’interno di “cosa nostra” era noto a tutti il ruolo svolto da molti anni quale intermediario tra l’organizzazione mafiosa e Silvio Berlusconi) tanto dell’ala stragista di “cosa nostra” nella persona di Giuseppe Graviano (ed in un secondo momento, dopo l’arresto di quest’ultimo, come si vedrà, nelle persone di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca), quanto dall’ala che a questa si contrapponeva e voleva la cessazione delle stragi nella persona di Bernardo Provenzano, senza che ciascuna abbandonasse le proprie posizioni.

Graviano e, quindi, tanto più dopo il suo arresto, come si vedrà nel paragrafo che segue, Brusca e Bagarella intendevano proseguire nella pregressa strategia continuando a commettere stragi (ad iniziare da quella dello stadio Olimpico organizzata da Graviano e per fortuna fallita) ed a minacciarne ulteriori per ottenere ciò che “cosa nostra” da tempo chiedeva alle Istituzioni; Provenzano, nel contempo, agiva separatamente e, come detto, parallelamente per iniziare una nuova fase di restaurazione dei rapporti con la politica e, quindi, per superare la fase delle stragi, così come si ricava chiaramente dalle risultanze prima esposte.

[…] Vi fu, pertanto, piena convergenza dell’intera “cosa nostra” nella decisione di puntare tutto sui nuovi politici che si proponevano di sostituire la vecchia classe di governo e che, per ciò che aveva assicurato Marcello Dell’Utri […], promettevano ai mafiosi la “normalizzazione” dei rapporti e la revisione della legislazione antimafia che aveva caratterizzato i primi anni novanta soprattutto grazie all’apporto incessante e determinante di Giovanni Falcone.

Ma accanto alle iniziative di contatti con Marcello Dell ‘Utri da parte, separatarnente, di Bernardo Provenzano e Giuseppe Graviano di cui si è detto, ve ne fu anche una terza ad opera di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, i quali, ad un certo punto, trovandosi in contrapposizione strategica con

Provenzano e tanto più dopo l’arresto dei fratelli Graviano, decisero di assumere, appunto, direttamente essi l’iniziativa nei rapporti con Dell ‘Utri.

[…] CONCLUSIONI SULLA RINNOVAZIONE DELLA MINACCIA NEI CONFRONTI DEL GOVERNO BERLUSCONI

Alla stregua delle risultanze probatorie sin qui esaminate, deve, innanzitutto ritenersi provato che ben prima dell’insediamento del nuovo Governo Berlusconi ed, anzi, quando neppure, ovviamente, fosse certo che il nuovo partito politico fondato da Silvio Berlusconi con l’apporto determinante di

Marcello Dell ‘Utri sarebbe riuscito a prevalere nelle elezioni politiche del 1994 e ad ottenere l’incarico di formare il nuovo Governo (superando le perplessità del Capo dello Stato Scalfaro quali emergono anche dalla lettura dell’agenda del 1994 del Presidente del Consiglio uscente Ciampi), Dell’Utri, attraverso Vittorio Mangano, al fine di accaparrare in favore di Forza Italia anche i voti che in Sicilia “cosa nostra” allora ancora in misura non piccola controllava, aveva dato assicurazioni – rectius, aveva promesso – che l’eventuale nuovo Governo presieduto da Berlusconi […] avrebbe adottato alcuni provvedimenti oggetto di risalenti richieste dei mafiosi.

Tale promessa, proprio perché finalizzata ad acquisire il consenso elettorale controllato da “cosa nostra” che in quel momento poteva anche apparire determinante in un’importante Regione qual è la Sicilia, non può, però, ritenersi frutto della minaccia che pure Mangano, non potendo di certo sottrarsi all’incarico espressamente affidatogli da Bagarella e Brusca, ebbe a recapitare al

Dell’Utri […], dal momento che, per un verso, non risulta – non avendone mai alcun collaborante riferito – che siano state rivolte in quel periodo minacce di carattere personale a Dell’Utri o a Berlusconi e, per altro verso, il pericolo di nuove stragi in quel momento riguardava altro Governo ed, anzi, avrebbe potuto semmai favorire l’ascesa di nuove forze politiche se si fosse diffusa l’opinione che il Governo allora in carica non fosse in grado di farvi fronte.

Tale segmento delle condotte degli imputati, da un lato Bagarella e Brusca quali autori in senso stretto della minaccia indirizzata al destinatario finale individuato dagli stessi mafiosi in Berlusconi, e, dall’altro Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri quali tramiti prestatisi per far giungere la minaccia sino al predetto suo destinatario finale (ed, in proposito, non può essere dubbio che Dell’Utri abbia effettivamente recapitato il messaggio a Berlusconi, perché altrimenti non avrebbe potuto assumere, in assenza di qualsiasi ruolo decisionale nella nuova formazione politica, l’impegno che, invece, egli assunse nei confronti dei mafiosi; d’altra parte, in proposito, a riprova, va ricordato che ancora nel 1994, secondo quanto è stato possibile per la prima volta accertare in questa sede – v. sopra Capitolo 2, paragrafo 2.13.1 – continuava, da parte di Berlusconi in favore dei mafiosi, il pagamento di somme di denaro frutto dell’intermediazione di Dell’Utri), non potrebbe, tuttavia, da sola e di per sé, integrare il reato di cui all ‘art. 338 c.p., dal momento che non v’era ancora il Governo presieduto da Silvio Berlusconi […] e la fattispecie di reato in questione punisce la minaccia formulata nei confronti del Corpo politico costituito e non certo futuro ed eventuale.

Ma si è visto che, ancora alla stregua delle risultanze prima esposte, deve ritenersi provato che dopo l’insediamento del nuovo Governo, Mangano ebbe ancora a incontrare Dell’Utri in almeno due occasioni (la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994) per sollecitare l’adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete assicurazioni.

Occorre esaminare, allora, se tali sollecitazioni integrino o meno gli estremi della minaccia, atteso che, in relazione a tali ulteriori incontri successivi all’insediamento del Governo Berlusconi, non risulta che sia stato dato specifico incarico a Mangano di ricordare la pregressa minaccia genericamente indirizzata alle Istituzioni e, quindi, al Governo in carica e che Mangano, dunque, abbia effettivamente ricordato al suo interlocutore la minaccia medesima nel momento in cui, se non sollecitava l’adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, quanto meno chiedeva notizie sui provvedimenti promessi.

[…] Come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina, per la consumazione del reato non occorre che il predetto effetto si verifichi in concreto, ma soltanto che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo, essendo il bene tutelato dalla norma penale quello della integrità psichica e della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.

Tale precisazione è necessaria per puntualizzare che non occorre in questa sede accertare che gli interventi legislativi, tentati o attuati su iniziativa della forza politica facente capo al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di autodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa.

Anzi, vi sono fondate ragioni per ritenere – e in ciò può concordarsi con la difesa dell’imputato Dell’Utri (v. trascrizione udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata) – che le dette iniziative non siano state effetto diretto di una minaccia, dal momento che, sin dalle origini, in Forza Italia era stata inserita anche una consistente componente di soggetti che, per asserita vocazione “garantista”, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi.

Si pensi, in proposito, alla opposizione al regime del 41 bis già nel 1992 da parte di alcuni esponenti politici e dell’avvocatura poi confluiti in Forza Italia e ad alcune iniziative ampiamente pubblicizzate, di cui pure si è dato conto nel presente dibattimento, quali le visite in carcere, viste con favore anche dai mafiosi, effettuate nel settembre 1993 degli On. Maiolo e Biondi […], poi, entrambi, appunto, inseriti nelle liste di Forza Italia e successivamente anche divenuti la prima Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ed il secondo Ministro della Giustizia nel Governo Berlusconi.

Si vuole dire, in altre parole, che i tentativi da parte del Governo Berlusconi di adottare provvedimenti attesi (anche) da “cosa nostra” e, poi, l’effettiva adozione di tal uni di essi, ai fini che qui rilevano, non devono essere necessariamente letti come legati da un rapporto di causa ed effetto con una minaccia mafiosa, ben potendo anche ricondursi alla attuazione di un programma ampiamente prevedibile (e previsto dagli stessi mafiosi) e, quindi, come mantenimento di impegni volontariamente assunti durante la campagna elettorale (anche da parte di Dell’Utri nei confronti dei mafiosi) per acquisire il consenso e i voti anche di quei non piccoli settori della popolazione che vedevano sfavorevolmente la contrapposizione frontale con le organizzazioni mafiose perché ritenuta causa delle efferate stragi che si erano verificate nel biennio 1992-93.

Al contrario, ai fini che qui rilevano, quello dell’accertamento della sussistenza o meno della minaccia mafiosa indirizzata al Governo nella persona del suo Presidente Silvio Berlusconi, deve soltanto accertarsi se negli interventi di Vittorio Mangano nei confronti di Marcello Dell’Utri possa ravvisarsi o meno una obiettiva attitudine ad intimorire il destinatario finale, come detto individuato dai mafiosi in Berlusconi, indipendentemente dal fatto che l’effetto intimidatorio, comunque percepibile e percepito, possa avere inciso concretamente sulla sua libertà psichi ca e morale di autodeterminazione.

[…] E però non può essere dubbio che l’azione di Vittorio Mangano su incarico di Bagarella e Brusca, indipendentemente dal tipo di approccio attuato nei confronti di Dell’Utri eventualmente anche ostentatamente amichevole stante i temporalmente lunghi comuni trascorsi, avesse, in sé, un’indiscutibile attitudine ad intimorire, oggettivamente percepibile da chiunque fosse a conoscenza dello spessore criminale del latore della richiesta ed ancor più di coloro che quest’ultimo rappresentava.

Invero, certamente, perché è stato definitivamente accertato all’esito del pregresso processo definito con le sentenze irrevocabili acquisite agli atti, sia Dell’Utri, sia Berlusconi cui erano rivolte le richieste, ben conoscevano lo spessore mafioso di Vittorio Mangano, tanto che questi fu utilizzato dai predetti prima per garantire la sicurezza del medesimo Berlusconi e successivamente per risolvere le problematiche connesse alle attività economiche esercitate dalle imprese di quest’ultimo in Sicilia mediante versamento all’associazione mafiosa “cosa nostra” di ingenti somme di denaro […].

Infatti, in tutte queste vicende Mangano aveva sempre operato, non certo uti singuli, ma nella sua qualità di esponente della predetta organizzazione criminale.

Ed anche in quel caso, sollecitando (o anche soltanto chiedendo notizie di) provvedimenti che non lo riguardavano personalmente, ma interessavano una platea indeterminata di appartenenti all’organizzazione mafiosa, non poteva essere minimamente dubbio per i suoi interlocutori (quello mediato e quello finale) che Mangano agiva in nome e per conto di “cosa nostra”.

Ed, infatti, lo stesso Mangano in quel momento rivestiva una carica rappresentativa apicale nell’associazione mafiosa, essendo, sia pure come “reggente”, a capo di uno dei più importanti “mandamenti” di Palermo, a suo tempo comandato dal noto Pippo Calò, e coloro che gli avevano affidato l’incarico di riallacciare a quel fine i rapporti con Dell’Utri e Berlusconi (precedentemente interrotti, come si è visto sopra nel Capitolo 3 che precede, per volere di Salvatore Riina che ne aveva assunto la “titolarità” in prima persona), cioè Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, erano di fatto, al vertice assoluto di “cosa nostra” perché considerati, soprattutto il primo in virtù dello stretto rapporto parentale, braccio operativo, all’esterno del carcere, di Salvatore Riina nel frattempo arrestato e, quindi, ivi detenuto.

Quale che sia stata, dunque, si ripete, la natura dell’approccio di Mangano, nessuno può dubitare che questo sia stato inevitabilmente percepito dal proprio interlocutore quanto meno come una forma di pressione più o meno esplicita, ma sicuramente esercitata sotto la minaccia di possibili ritorsioni come la storia e l’esperienza avevano sempre dimostrato anche più direttamente e specificamente a quegli stessi interlocutori, Dell’Utri e Berlusconi, tanto che quest’ultimo era già addivenuto al pagamento di ingenti somme di denaro in favore di “cosa nostra” per il timore di subire conseguenze sia personali che in pregiudizio delle proprie imprese.

[…] D’altra parte, a riprova della detta conclusione sulla natura dell’intervento di Mangano dopo l’insediamento del Governo Berlusconi come “pressione” quand’anche non accompagnato dall’esplicita replica della minaccia che era stata, invece, espressamente profferita dal Mangano prima delle elezioni politiche su incarico di Bagarella e Brusca, v’è il giudizio formulato dalla stessa

Corte di Cassazione nella sentenza del 9 marzo 2012 che pure ha reso definitiva l’assoluzione dell’imputato Dell’Utri dal reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa “cosa nostra” per la condotta successiva al 1992.

[…] In proposito, già sopra si sono già indicate le ragioni logico-fattuali che conducono a non dubitare che Dell ‘Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa “cosa nostra” mediati da Vittorio Mangano (ma, in altri casi, anche da Gaetano Cinà).

Il fatto che Berlusconi fosse stato sempre messo a conoscenza di tali rapporti è, d’altra parte, incontestabilmente dimostrato dal ricordato esborso, da parte delle società facenti capo al Berlusconi medesimo, di ingenti somme di denaro, poi, effettivamente versate a “cosa nostra”.

Dell’Utri, infatti, senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di cosÌ ingenti somme recapitate ai mafiosi. Ed è determinante rilevare che tali pagamenti, come si è visto sopra nel precedente Capitolo 2, paragrafo 2.13.1, sono proseguiti almeno fino al

dicembre 1994 quando a Di Natale fu fatto annotare il relativo versamento di L. 250.000.000 nel “libro mastro” che in quel momento egli gestiva, perché ciò dimostra inconfutabilmente che ancora sino alla predetta data (dicembre 1994) Dell ‘Utri, che faceva da intermediario, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti con i mafiosi, ottenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versarle a “cosa nostra”.

Dunque, Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare al mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui con il medesimo Mangano, così che non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della “pressione” o dei “tentativi di pressione” che, come si detto, anche secondo la Corte di Cassazione, erano inevitabilmente insiti negli approcci di Vittorio Mangano e che, altrettanto inevitabilmente per la caratura criminale dei richiedenti, portavano seco l’implicita minaccia di ritorsioni, d’altra parte, già espressamente prospettata, come si è visto sopra, durante la precedente campagna elettorale.

Ma altri elementi di conforto alla predetta conclusione si traggono specificamente anche dal primo dei due episodi riferiti da Cucuzza e riscontrati dagli elementi esterni, anche individualizzanti nei confronti di Dell’Utri […].

Ci si intende riferire al fatto che in quella occasione del giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano “in anteprima” […] di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia (v. dich. Cucuzza del 14 aprile 1998 già riportate: … Per quanto riguardava il 416 bis, per quanto riguarda l’arresto sul 416 bis c’era stata una piccola modifica … “) senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata a differenza di altra, pure concernente i reati di mafia, ma certamente meno rilevante di quella, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi.

A ciò si aggiunga che quel decreto legge era stato deciso per intervenire su reati del tutto diversi da quelli di mafia […] e che, pertanto, non vi era ragione per la quale un soggetto estraneo al Governo, qual era Dell’Utri, fosse informato sino ai più minuti – e, si ripete, nascosti – dettagli di quel provvedimento idonei ad incidere anche sui reati di mafia.

Ora, il fatto che, invece, Dell’Utri fosse informato di tale modifica legislativa, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del Governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale Presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell’Utri per “tranquillizzare” i suoi interlocutori, così come il Dell’Utri effettivamente fece.

Si ha definitiva conferma, pertanto, che anche il destinatario finale della “pressione” o dei “tentativi di pressione”, e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste (d’altronde in precedenza espressamente già prospettato) che un’ inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere.

[…] Ne consegue che deve darsi risposta positiva al secondo ed ali ‘ultimo dei quesiti formulati nella premessa a questa Parte Quarta della sentenza e cioè, rispettivamente, se, successivamente al 1992 (anno per il quale è stato già sopra escluso alcun apporto concorsuale nel reato contestato), l’imputato Dell’Utri abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia questa volta nei confronti del Governo Berlusconi e se, infine, il medesimo imputato Dell’Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino a Berlusconi quando questi era già Presidente del Consiglio.


Lo “stile” di Mori e compagnia cantante  Come si è visto, le risultanze che qui ora occorre esaminare si fondano sull’esito delle investigazioni compiute, su specifiche deleghe della Procura della Repubblica di Palermo, dal T.Col. Massimo Giraudo, il quale, quindi, assunto in qualità di teste, ne ha riferito in questo dibattimento.

Tale teste è stato fortemente criticato sul piano soprattutto personale, dall’imputato Mori, che con le sue dichiarazioni spontanee prima riportate, lo ha accusato addirittura di comportamenti delittuosi (v. dich. sopra riportate: “Giraudo ha violato il Segreto di Stato”) ed ha adombrato che lo stesso abbia potuto persino manipolare alcune sommarie informazioni raccolte […], nonché, anzi con maggiore veemenza, dal difensore del detto imputato in sede di arringa conclusiva (v. trascrizione in atti dell’udienza del 15 marzo 2018) con riferimento ai metodi di indagine stigmatizzati in alcuni provvedimenti giudiziari ed anche con riferimento all’insuccesso che tutte le indagini del Giraudo avrebbero avuto, misurate con l’esito conclusivo dei relativi procedimenti e processi penali […].

Sennonché, non sono emerse agli atti, né sono state in concreto indicate né dal Mori, né dal suo difensore, le ragioni di astio, risentimento o altro che avrebbero potuto indurre Giraudo a venire meno ai suoi doveri nello svolgimento delle attività di polizia giudiziaria, si ripete, sempre eseguite su espressa delega dell’A.G., per danneggiare specificamente il predetto imputato.

Anzi sono emersi rapporti sempre positivi e di stima, tanto che lo stesso Mori, quando ebbe ad essere nominato a Capo del SISDE, già nell’agosto 2002, insieme a tanti altri suoi “fedelissimi” che lo avevano collaborato al R.O.S., ebbe a richiamare con sé anche Giraudo, che, infatti, ha poi prestato ivi servizio sino al 2007 e, quindi, per tutto il periodo – ed ancora per un periodo successivo

– durante il quale Mori ebbe a ricoprire quell’incarico, e ciò a riprova che nulla ebbe mai ad incrinare i rapporti tra i predetti.

V’è, poi, il fatto che, ancor dopo che Mori aveva cessato l’incarico, a riprova degli ottimi rapporti, secondo quanto riferito dallo stesso Mori, Giraudo si rivolse a quest’ultimo quando, rientrato nell’Arma dopo il servizio al SISDE, gli fu ritirato il nulla osta di segretezza (NOS).

[…] Ma, in ogni caso, va rilevato che tutte le dichiarazioni di Giraudo più fortemente contestate da Mori trovano fondamento inequivocabile nei documenti acquisiti nel corso delle indagini del predetto teste e riversati nel presente processo.

Basti pensare, ad esempio, alla vicenda che più è stata contestata da Mori, quella del coinvolgimento di quest’ultimo nelle indagini padovane sulla “Rosa dei Venti” e sul conseguente suo allontanamento, non soltanto dai Servizi, ma addirittura dalla città di Roma.

Mori, invero, nelle sue dichiarazioni spontanee, ha tenuto ad affermare di non essere stato mai a nessun titolo coinvolto in indagini relative alle trame eversive degli anni settanta (v. dich. Mori: ” .. nessuna inchiesta relativa ai tragici fatti degli anni settanta ha mai fatto cenno, né tanto meno sindacato la mia attività professionale, golpe Borghese compreso .. .. … nel quale io a nessun titolo venni ovviamente coinvolto .. “) e che, pertanto, il suo allontanamento del Servizio dipese esclusivamente da contrasti che egli aveva avuto nei mesi precedenti con i suoi superiori  […]

Ma come detto, a smentire Mori, vi sono risultanze documentali inequivocabili. Quanto al primo punto, quello del coinvolgimento (certo non formale ma sicuramente fattuale) nelle indagini relative alla “Rosa dei Venti”, vi sono, innanzitutto, la nota a firma del Giudice Istruttore del Tribunale di Padova, Dott.Tamburino, con la quale, in data 3 novembre 1974, si chiede all’Amm. Casardi

di “inviare foto tipo tessera del capitano Cc. Mori Mario, in servizio presso il Raggruppamento Centri di Roma” […] e la conseguente nota di risposta a firma della stesso Amm. Casardi con la quale, in data 7 dicembre 1974 (prot. 4863 N. 10460), si trasmette “una fotografia tipo tessera del Capitano Cc. Mori Mario”.

Ciò senza dimenticare che lo stesso Mori, […] era stato già convocato, insieme a Maletti ed altri, per essere sentito dal medesimo G.I. Tamburino (v. telegramma a firma del G.I. Tamburino, in atti, con il quale si convocano per i giorni 21 e 22 novembre 1974 i testi Gianadelio Maletti, Mario Mori, Giambattista Minerva e Gustavo Bonanni).

Sul secondo punto, quello delle ragioni per le quali Mori, non soltanto fu allontanato dal Servizio, ma addirittura dalla città di Roma, vi sono, oltre alla coincidenza temporale con quella richiesta del G.I. Tamburino e, soprattutto, con il successivo trasferimento del relativo procedimento per la riunione con quello relativo al C.d. “Golpe Borghese” pendente presso l’A.G., appunto, di Roma, innanzitutto, i documenti che dimostrano che effettivamente, nel disporre il rientro di Mori nell’Arma, fu raccomandato dal Servizio e accolto dal Comando dell’ Arma, di allontanare Mori anche da Roma. Ciò si evince, non soltanto dall’appunto per “il Sig. Capo Servizio” datato 4 gennaio 1975 avente ad oggetto il Cap. Mori (già sopra più completamente riportato unitamente alle annotazioni manoscritte di Maletti e Casardi che ne evidenziano l’urgenza) nel quale nella parte finale si legge: “Nel restituire il Capitano Mori ali ‘Arma propongo altresì che venga precisato l’intendimento della S. V. ad allontanare l’ufficiale dalla sede di Roma”), ma, soprattutto, dalla successiva nota del 9 gennaio 1975 indirizzata dal Capo Servizio Informazioni della Difesa Amm. Casardi al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri con la quale “Il capitano Cc. Spe Mori Mario dal dipendente Raggruppamento Unità Speciali – Roma, viene dato disponibile per avvicendamento”, cui, infatti, si accompagna una lettera a firma dello stesso Amm. Casardi, personalmente indirizzata al Gen. Enrico Mino, Comandante Generale dell’Arma, che

raccomanda l’impiego di Mori “in sede diversa da quella di Roma”, nonché dalla lettera di risposta del Gen. Mino, datata 14 gennaio 1975, con la quale, in risposta alla sollecitazione ricevuta, il Gen. Mino comunica a Casardi “di avere destinato l’ufficiale ad incarico territoriale nel! ‘ambito della legione di Napoli”.

[…] Ma a dirimere definitivamente ogni dubbio, v’è, poi, l’appunto del SID datato 11 marzo 1978 (v. documento sopra già richiamato e del tutto trascurato dalla difesa dell’imputato nell’ampia discussione dedicata a tale tema all’udienza del 15 marzo 2018) nel quale si legge che venne risposto ad una richiesta proveniente dal Comando Generale dell’Arma che “che sino al termine del Processo Borghese sarebbe consigliabile che l’ufficiale in questione non fosse destinato ad un reparto della Capitale” e ciò “in ottemperanza a quanto disposto dal Gen. Rombo”.

In tale documento, dunque, viene espressamente esplicitata la ragione di opportunità che aveva indotto a consigliare l’allontanamento di Mori dalla città di Roma e cioè il fatto che in questa città era pendente il “Processo Borghese” e, quindi, quelle stesse indagini che, in base all’originaria richiesta del G.I. Di Padova Tamburino, avrebbero potuto riguardare anche Mori (e non certo soltanto come testimone se la fotografia fosse stata effettivamente utilizzata ai fini del riconoscimento per il quale era stata richiesta dal G.I. Tamburino prima che l’indagine fosse trasferita alla sede giudiziaria di Roma).

[…] Infine, a riprova del potenziale coinvolgimento del Mori nel procedimento padovano sulla “Rosa dei Venti” confluito nel processo per il “Golpe Borghese”, ancorché verosimilmente, per la maggiore rilevanza di quest’ultimo e per la mole degli atti, il primo aspetto che riguardava Mori non fu mai più approfondito, si ricava dalla dichiarazioni di Umberto Zamboni che ebbe a riconoscere il soggetto (Mori) raffigurato nelle due fotografie che gli sono state mostrate come la persona presente nell’albergo (in chiusura stagionale invernale) nel quale si era svolta la riunione a Cattolica di appartenenti ad Ordine Nuovo (e non rileva certo qui che tale riconoscimento sia avvenuto esaminando soltanto le due fotografie raffiguranti Mori anziché nell’ambito di un album fotografico più ampio, trattandosi, comunque, come costantemente” affermato dalla Suprema Corte, di un accertamento di fatto pur tuttavia liberamente apprezzabile dal giudice e la cui affidabilità, semmai, dipende dall’attendibilità del teste e della deposizione da questi resa).

Analoghe considerazioni riguardo alle risultanze documentali sulle quali si fonda la testimonianza di Giraudo, possono farsi anche, ancora ad esempio, riguardo al rapporto tra Mori e Gianfranco Ghiron, che il primo, sempre con le dichiarazioni spontanee, ha tentato in ogni modo di minimizzare (forse nel timore del possibile collegamento con il fratello del Ghiron, Giorgio, poi nel 1992, in coincidenza con la ”trattativa”, difensore di Vito Ciancimino) escludendo espressamente rapporti personali e diversi da quelli relativi alla ricerca del latitante Nardi […], salvo, poi, a non riuscire a fornire una convincente spiegazione […] del fatto che egli, non soltanto ebbe a partecipare come invitato al matrimonio di Gianfranco Ghiron, ma, nonostante questi, oltre ad essere ”portato a facili deduzioni e alle elaborazioni fantasiose” e ad avere una vita “sregolata e non sempre corretta”, risultasse addirittura agli atti dei Servizi titolare di “attività e comportamenti poco lineari, se non addirittura truffaldini” […], fu anche testimone di quelle nozze […].

[…] Si tratta di vicende che, comunque, non è necessario approfondire ulteriormente poiché non direttamente rilevanti ai fini che qui interessano, se non, forse, per i riferimenti a Gelli, in relazione a Mori, che emergono dalle lettere del Vecchiotti e che sono stati contestati dalla difesa con riguardo alla identificazione, da parte di quest’ultimo, del Dott. Amici nella persona di Venturi anziché nella persona di Mori che ai Servizi utilizzava documenti con quel nome.

Ma per i collegamenti tra Mori e Gelli appaiono, in ogni caso, ben più rilevanti le dichiarazioni di Mauro Venturi, secondo le quali Mori ebbe a proporgli di aderire alla Loggia Propaganda 2 di Licio Gelli […] ed anche di recarsi con lui a incontrare lo stesso Gelli […].

Ora, occorre, innanzitutto, premettere, che non vi sono ragioni per disattendere le predette dichiarazioni del Venturi […]ed, anzi, fino a pochi mesi prima di quelle dichiarazioni, ha continuato ad intrattenere cordiali rapporti con detto imputato […].

[…] Tuttavia, tale testimonianza qui rileva, non già quale prova della iscrizione di Mori alla P2 e ciò non certo perché, come sostenuto da Mori e dal suo difensore in sede di discussione, non v’è riscontro del nome del predetto nelle liste a suo tempo sequestrate a Castiglion Fibocchi, dal momento che è stata acclarata l’incompletezza delle dette liste […] ma perché, a ben leggere le dichiarazioni di Venturi, non emerge che effettivamente Mori si iscrisse alla P2 […]; ma rileva, piuttosto, ancora con riferimento al mendacio dell’imputato nella parte in cui, approfittando anche di alcune incertezze oggettivamente risultanti riguardo alla sua identificazione da parte del Vecchiotti quale soggetto destinatario dell’informazione su Gelli, ha negato qualsiasi collegamento con quest’ultimo a fronte della chiara testimonianza del Venturi, che, come si è visto, non soltanto ha riferito della proposta dell’iscrizione alla P2 che Mori gli fece, ma anche dell’invito dello stesso Mori a recarsi insieme ad incontrare Gelli.

[…] Ma ciò premesso quanto alle risultanze riguardanti in generale la personalità dell’imputato Mori, vi sono, però, anche due profili fattuali, emersi all’esito dell’istruttoria qui in esame, che appaiono rilevare, invece, con riguardo al”modus operandi” del Mori, nella misura in cui presentano alcune analogie con le vicende più propriamente oggetto del presente processo.

Il primo profilo attiene al rapporto strumentale di Mori con organi di stampa. Di esso ha riferito, innanzitutto, ancora il teste Venturi, il quale, in particolare, ha raccontato del ruolo di Mori quale ispiratore di alcuni articoli di stampa scritti da un giornalista amico in servizio presso il quotidiano “Il Tempo” […]. Ma vi sono, poi, anche le risultanze concernenti il rapporto tra l’imputato Mori e il giornalista Mino Pecorelli, la cui agenzia di stampa (O.P.), alimentata anche da fonti dei Servizi, spesso venne utilizzata strumentalmente per il raggiungimento di scopi diversi da quelli dell’informazione (v., ad esempio, quanto in proposito riferito dal Cap. Giancarlo Servo lini nelle sue informative ai Servizi acquisite agli atti).

Mori ha negato di avere mai avuto rapporti con Pecorelli ed, anzi, di averlo mai conosciuto […].

Sennonché, agli atti della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla P2 è stata rinvenuta una relazione di servizio dell’Ispettorato di Polizia presso il Quirinale, trasmessa alla Commissione dall’ex Presidente della Repubblica Giovanni Leone, dalla quale risulta che nella richiesta di rilascio del passaporto in favore del giornalista Mino Pecorelli v’è apposto il timbro del Cap. Mario Mori, appartenente al R.U.D., quale premurante.

In particolare, nel detto documento, consegnato, appunto, dal Seno Giovanni Leone alla Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla Loggia Massonica P2 in data 9 novembre 1982, si legge che “l’Avv. Pecorelli, vanta numerose ed importanti amicizie in svariati settori, tra cui in quello dell ‘Arma dei carabinieri della Capitale” e che ”per ottenere sia il rilascio che il rinnovo del proprio passaporto e di quelli dei familiari, nonché della donna con la quale convive more uxorio, della propria segretaria e degli altri collaboratori, si è sempre avvalso delle sue amicizie nell ‘Arma dei Carabinieri, che hanno sempre provveduto in merito presso l’Ufficio Passaporti della Questura di Roma, opponendo a tergo delle relative domande i timbri dei rispettivi Comandi dell ‘Arma, tra i quali figurano, prevalentemente… …. . … Capitano Carabinieri Mario Mori – Ministero Difèsa – Raggruppamento Unità Speciali – Distaccamento di Roma”, nonché si riportano numerose pendenze penali, dando atto, però, che le stesse non erano state mai dichiarate nelle richieste di rinnovo del passaporto. […]

L’imputato Mori ha negato tale circostanza, adducendo a spiegazione che quel timbro, da lui lasciato dopo essere andato via dal Servizio, potrebbe essere stato utilizzato artatamente da altri per addossargli responsabilità che non aveva […]. Sennonché, la richiesta di rilascio del passaporto in favore di Pecorelli, come precisato da Giraudo, risale al 1973 (v. sopra) e, dunque, proprio nel periodo in cui Mori ancora prestava servizio presso il Raggruppamento Centri e, come riconosciuto dallo stesso imputato […], aveva, dunque, competenza, in assenza del titolare dell’Ufficio, il Magg.

Venturi, a richiedere alla Questura di Roma il rilascio di passaporti con la procedura agevolata prevista per i Servizi, fatti che rendono superflua l’ulteriore acquisizione documentale ancora sollecitata dalla difesa dell’imputato in sede di discussione.

[…] Ciò detto, emerge evidente l’analogia tra il ricorso di Mori al giornalista amico per ispirare alcuni articoli di stampa, l’utilizzo che i Servizi fecero in quegli anni (anche) dell’agenzia giornalistica O.P. di Pecorelli e, infine, l’utilizzo che Mori ebbe a fare del suo rapporto col giornalista Nicola Rao per far trapelare sulle agenzie di stampa una notizia che serviva in quel momento a confermare l’individuazione di una possibile interlocuzione dello Stato soltanto con Provenzano ed a delimitare l’oggetto del potenziale dialogo (sul punto si rimanda alla Parte Terza, Capitolo 31).

Il secondo ben più importante profilo che appare rilevante ai fini del modus operandi di Mori, è, invece, quello relativa all’arresto di un latitante internazionale, il terrorista algerino Djamel Lounici.

[…] Ma qui non rileva il merito della vicenda, ma il fatto che anche in quel caso Mori aveva ritenuto di potersi sottrarre all’obbligo, che gli derivava dalla funzione svolta, di arrestare il latitante nel momento in cui era stato individuato (obbligo, peraltro, riconosciuto come sussistente dallo stesso Mori che ha definito l’arresto “giuridicamente obbligato”) sulla scorta di valutazioni che non gli competevano e, soprattutto, senza informare la competente Autorità Giudiziaria.

Non v’è chi non veda come si tratti di un comportamento del tutto analogo a quello posto in essere sia precedentemente all’episodio in questione a proposito dell’iniziativa intrapresa con Vito Ciancimino ed alla mancata perquisizione dell’abitazione di Riina, sia successivamente a proposito della mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso, trattandosi, in tutti i predetti casi, di comportamenti che denotano l’insofferenza del Mori alle regole e, soprattutto, ai doveri che connotano le attività di Polizia Giudiziaria rispetto alla Autorità Giudiziaria che ne è referente.

[…] Sovvengono ancora, allora, le parole del Prof. Pino Arlacchi, profondo conoscitore degli apparti investigativi dei primi anni novanta, che, in questo dibattimento, ha fondatamente definito Mori “pericoloso” (v. testimonianza Arlacchi già riportata: “P. M DI MA TTEO : – Lei, parlando del Colonnello Mori, ha testualmente detto, nel momento in cui ha, diciamo, distinto la sua posizione e la sua condotta rispetto a quella del dottore Contrada, ha detto noi lo consideravamo pericoloso per altri aspetti.. . …. quali erano questi aspetti o queste conoscenze che vi facevano considerare Mori pericoloso?; DICH. ARLACCHI GIUSEPPE: – Il principale era il suo muoversi al di fuori del

controllo dell’autorità giudiziaria. e quindi di pensare di potere intrattenere rapporti con i mafiosi e con chiunque senza tener conto che esiste un potere giudiziario a cui bisogna fare riferimento ed esistono poi delle regole, cioè esistono delle Leggi. Per noi era un personaggio spregiudicato, la Legge certe volte era un optional.. . … .. .Io sto parlando di cose che si sapevano all’interno del mondo investigativo. Per il suo passato, per le indagini precedenti. Di preciso non le posso dire nulla a questo riguardo, perché non sono un professionista, non sono un Ufficiale di Polizia Giudiziaria, ma il giudizio largamente negativo nei suoi confronti nasceva da questo discorso che le ho detto, l’uso dei confidenti, il non riferire all’autorità giudiziaria, il muoversi in maniera completamente autonoma e probabilmente, come ho già detto, il millantare coperture politiche che secondo noi non aveva assolutamente”).

[…]LA VALUTAZIONE DELLE RISULTANZE SULLA PERSONALITA’ DI ANTONIO SUBRANNI

Occorre premettere che nel dare conto delle risultanze concernenti l’imputato Subranni non direttamente connesse al reato contestato non sono state riportate né quelle relative alla confidenza ricevuta dalla consorte del Dott. Borsellino pochi giorni prima dell’uccisione di quest’ultimo perché già oggetto di apposito esame nella Parte Terza della sentenza, Capitolo 4, cui si rinvia, né quelle relative all’esposto anonimo denominato “Corvo2” pervenuto a vari destinatari, istituzionali e non, nel mese di giugno 1992, poiché, la richiesta – ritenuta anomala dal P.M. – del Subranni di archiviazione senza alcun accertamento potrebbe ben trovare giustificazione nei rapporti con Mannino, pesantemente chiamato in causa in quell’anonimo, e che, però, per quel che rileva in questo processo, sono stati già ampiamente provati aliunde.

Quanto, invece, a tutte le altre risultanze ricordate nei paragrafi precedenti, se ne deve ribadire la scarsissima utilità.

[…] Delle predette risultanze, allora, in definitiva, residuano soltanto i rapporti di Subranni con i cugini Salvo, con Vito Ciancimino e con Andreotti.

Quanto ai cugini Salvo, invero, […] si tratta di risultanze scarsamente significative per il ruolo pubblico ricoperto per moltissimi anni dai cugini Salvo e per la sopra indicata origine dei rapporti in questione.

Quanto a Vito Ciancimino, […], residua soltanto il dato della conoscenza reciproca in quanto confermata dal biglietto di ringraziamento a firma del Subranni a suo tempo sequestrato allo stesso Ciancimino.

Ma l’episodio, in assenza di altre diverse risultanze, può avere un rilievo soltanto etico, laddove certo può sorprendere che un ufficiale dei Carabinieri che aveva operato a Palermo abbia ritenuto di scambiare convenevoli con un soggetto di cui in quel momento – e da molti anni […] – era noto lo spessore criminale ancorché lo stesso non fosse stato ancora attinto da provvedimenti coercitivi.

[…] Quanto, infine, ad Andreotti, premesso che non v’è alcuna ragione di dubitare della testimonianza di Luigi Li Gotti nelle parti in cui ha riferito fatti direttamente da lui vissuti sol perché vi sono state alcune imprecisioni sul racconto (o sul ricordo del racconto) a suo tempo fattogli dall’Avv. Ascari su altre vicende […], così come per i cugini Salvo, deve ugualmente tenersi conto del ruolo pubblico dello stesso Andreotti, già più volte Ministro e Presidente del Consiglio, che può avere dato origine al rapporto in questione, residuando, conseguentemente, soltanto il profilo etico tanto del mantenimento del rapporto medesimo anche dopo che Andreotti era stato sottoposto ad indagine per gravi reati, quanto, se poi effettivamente vi fu perché nulla in proposito è stato riscontrato, dell’interessamento del Subranni, sollecitatogli dallo stesso Andreotti, nelle vicende riferite da Li Gotti.

In conclusione, dunque, non si ritiene che le risultanze offerte dall’Accusa, valutate in uno alle difese opposte dall’imputato, possano offrire elementi idonei a supportare un giudizio significativamente negativo sulla personalità del Subranni al di là di quanto piuttosto emerga già dalla condotta di quest’ultimo comportante la sua responsabilità penale per il contestato reato di cui al capo a) della rubrica nei termini già ampiamente richiamati nel precedente paragrafo

[…] GIUSEPPE DE DONNO

Infine, quanto al Carabinieri, anche all’imputato Giuseppe De Donno il P.M. contesta di avere concorso nel reato di minaccia finalizzato a turbare l’attività del Governo della Repubblica, commesso dai vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, mediante la medesima triplice condotta addebitata ai coimputati Mori e Subranni la cui posizione è stata prima esaminata:

[…] Anche a Giuseppe De Donno, dunque, la Pubblica Accusa attribuisce (così come a Mario Mori ed a Antonio Subranni, le cui posizioni, come detto, sono state esaminate nei paragrafi precedenti) una condotta concorsuale consistente nell’avere sollecitato, agevolato sotto diversi profili criminoso della minaccia al Governo della Repubblica attribuito, Invece, ovviamente ai vertici di “cosa nostra”.

In altre parole, di essere stato (insieme a Mori e Subranni) “istigatore”, “determinatore” e “facilatore” del ricatto di “cosa nostra” secondo le definizioni utilizzate dal P.M. nella sua requisitoria all’udienza del 19 gennaio 2018.

Ed, allora, occorre, innanzitutto, richiamare, anche per Giuseppe De Donno, le preliminari considerazioni già svolte nei precedenti paragrafi 2.1 e 2.2 per i coimputati Mario Mori e Antonio Subranni, cui, dunque, si può rinviare al fine di evitare una superflua ripetizione.

[…] La condotta del De Donno, in particolare, attiene soprattutto, come si vedrà meglio più avanti, alla fase iniziale del contatto con Vito Ciancimino e, poi, nell’affiancamento consapevole del superiore Mori in tutta l’azione materiale, ancora sempre istigatrice ed agevolatrice, posta in essere successivamente a quell’iniziale approccio una volta constatato che effettivamente Ciancimino aveva preso contatto con i vertici mafiosi, e non, dunque, all’intera condotta tipica del reato di minaccia corrispondente al modello astratto delineato nell’art. 338 c.p. invece posta in essere dagli autori in senso stretto del reato (i mafiosi).

[…] Il presupposto della condotta posta in essere dall’imputato De Donno e della sua eventuale responsabilità penale, dunque, è costituito dall’accertamento, alla stregua dell’ampia e complessa istruttoria compiuta in questo processo, dell’azione tipica del reato contestato, quella della minaccia in danno di un Corpo politico prevista dall’art. 338 c.p., che è stata posta in essere dai mafiosi, quali autori in senso stretto del reato.

Per tale accertamento probatorio, può rinviarsi a tutte le risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, che evidenziano incontestabilmente come, dopo la strage di Capaci, Riina ed i suoi sodali ebbero a porre in essere un vero e proprio ricatto al Governo della Repubblica (peraltro, sostanzialmente riconosciuto dalla difesa dell’imputato De Donno, che, in sede di discussione all’udienza del 5 aprile 2018, negando vi sia stata mai una “trattativa”, ha, tuttavia, testualmente affermato che v’è stato soltanto un “ricatto” dei mafiosi), ponendo l’ottenimento di alcuni benefici quale condizione per la cessazione della contrapposizione frontale di “cosa nostra” con lo Stato e, quindi, per la cessazione della strategia stragista.

[…] Nella medesima Parte Terza è stato, quindi, altresì, già delineato il contributo causale fornito da De Donna al verificarsi del fatto delittuoso della minaccia mafia sa nei confronti del Governo della Repubblica.

De Donno, invero, su incarico di Mori ebbe ad attivarsi per “agganciare”, attraverso il figlio Massimo appositamente cercato, Vito Ciancimino, che, essendo ben noti i suoi rapporti con Riina e Provenzano in virtù della sua comune origine corleonese, era stato individuato quale canale idoneo a consentire di aprire un dialogo con i vertici mafiosi.

Che la finalità dell’approccio con Vito Ciancimino fosse questa e non certo (o almeno non principalmente) quella asserita dell’indagine diretta a identificare i responsabili della strage di Capaci ed a catturare i grandi latitanti di “cosa nostra”, si è già ampiamente detto nella Parte Terza della sentenza e poi ancora, più in sintesi, esaminando nei paragrafi precedenti le posizioni di coimputati Mori e Subranni.

[…] Mentre sollecitavano Vito Ciancimino a prendere contatto con i vertici di “cosa nostra” (sul punto si tornerà più avanti anche con riferimento specifico alla posizione del De Donno qui in esame) e persino quando ebbero la certezza che tali contatti furono effettivamente instaurati da Ciancimino, i Carabinieri non svolsero alcuna attività di tipo investigativo per mettere a frutto l’esito positivo della loro iniziativa.

I Carabinieri, infatti, mantenendo il segreto assoluto nei confronti dell’Autorità Giudiziaria (ma non anche, si ripete, nei confronti del potere politico), non hanno neppure tentato di svolgere una qualsiasi ordinaria attività investigativa, quali pedinamenti, servizi di osservazione, intercettazioni telefoniche ed ambientali (del tutto usuali in casi simili), che potessero consentire loro di individuare i soggetti cui si era rivolto Ciancimino ed, attraverso questi, risalire sino ai vertici mafiosi allora tutti latitanti e certamente coinvolti nella strage di Capaci della quale asseritamente intendevano individuare ed arrestare i responsabili.

[…] Null’altro, poi, appare necessario aggiungere, rispetto a quanto già osservato tanto nella Parte Terza della sentenza, tanto nei paragrafi nei quali precedentemente sono state esaminate le posizioni dei coimputati Mori e Subranni, riguardo all’evidente effetto di istigazione insito nell’iniziativa dei Carabinieri, che, infatti, ha dato luogo, a quel punto, al ricatto (e, per quel che qui rileva, all’insita minaccia) rivolta dai mafiosi al Governo che avrebbe dovuto attivarsi per concedere i benefici richiesti da “cosa nostra” in risposta a quel segnale di cedimento dello Stato che sopraggiungeva per la prima volta dopo la dura repressione culminata nell’esito finale del “maxi processo”.

Ora, anche per De Donno, deve ancora ricordarsi che al fine della compartecipazione nel reato punibile, è, per giurisprudenza costante, sufficiente anche soltanto una semplice esortazione rivolta all’autore in senso stretto se tale esortazione abbia, comunque, rafforzato, nella persona cui essa è stata, appunto, rivolta, il proposito criminoso e ciò anche se, eventualmente, tale proposito, in termini di generalità, fosse stato già preesistente.

Ciò è esattamente quanto accaduto nel caso in esame, laddove il generico e futuro proposito del Riina (“fare la guerra per poi fare la pace”) è stato improvvisamente attualizzato e, quindi, attuato, per l’istigazione e l’esortazione ricevuta dai Carabinieri, per il tramite di Vito Ciancimino, ad aprire il dialogo per superare lo stato di contrapposizione frontale nel frattempo creatosi.

E non può di certo minimamente dubitarsi che quei Carabinieri, Subranni, Mori e De Donno, tutti già particolarmente esperti ed avvezzi a confrontarsi con la mentalità e l’agire mafiosi, fossero pienamente consapevoli che la loro esortazione al dialogo, se raccolta (eventualità che certo dovevano necessariamente prefigurarsi se quell’iniziativa fu tentata) avrebbe dato inevitabilmente luogo all’indicazione, da parte dei vertici mafiosi, delle condizioni per far cessare la contrapposizione frontale con lo Stato e, dunque, ed è ciò che qui rileva, alla minaccia mafiosa di proseguire altrimenti nelle stragi, non potendo di certo neppure ipotizzarsi che i mafiosi potessero raccogliere l’invito spontaneamente e senza contropartita ovvero con la contropartita riferita da Mori e De Donno (v. deposizione dinanzi alla Corte di Assise di Firenze), che, oltre che veramente risibile, già in sé appare totalmente inverosimile […].

Quindi, la detta consapevolezza, che si estende dalla ideazione (da parte dei soli Subranni e Mori) dell’azione materiale cui De Donno poi ha compartecipato sia nella fase dell’istigazione, sia nella fase successiva della agevolazione e facilitazione dell’azione di risposta dei mafiosi grazie all’apertura di quel canale diretto di interlocuzione con esponenti delle Istituzioni (i Carabinieri) che spendevano (o facevano credere di spendere) il nome dei più alti esponenti delle Istituzioni medesime (che, comunque, i predetti tentarono di coinvolgere), integra pienamente l’elemento soggettivo del compartecipe nell’azione tipica del reato propria degli autori in senso stretto del reato di minaccia medesimo.

[…] Ma per quest’ultimo [De Donno ndr.] devono specificamente aggiungersi alcune ulteriori

considerazioni.

Occorre, invero, evidenziare che, sebbene Mori ebbe ad intervenire personalmente negli incontri in un momento successivo al De Donno (e, dunque, sempre in un momento successivo, secondo quanto dichiarato dallo stesso Mori, ma anche da De Donno, fu pronunziata la frase disvelatrice dell’effettivo scopo dell’iniziativa dei Carabinieri prima ancora una volta ricordata) è stato accertato

– e ciò refluisce sull’elemento psicologico della condotta del detto imputato De Donno – che sin dal primo approccio (e, anzi, ancor prima dalla ricerca di tale approccio) con Vito Ciancimino lo scopo dei Carabinieri e, dunque, anche di De Donno che materialmente l’attuò, fu esclusivamente, o almeno principalmente, quello di servirsi del medesimo Ciancimino per aprire un dialogo con i vertici mafiosi.

[…] Dunque, contrariamente a quanto dichiarato dal De Donno a Firenze e nelle occasioni successive […], sin dal primo approccio del solo De Donno avvenuto, immediatamente dopo la strage di Capaci, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 1992, la finalità dei Carabinieri fu assolutamente chiara a Vito Ciancimino, il quale, appunto, come detto, già nel medesimo mese di giugno 1992 si attivò, infatti, prima infruttuosamente con Pino Lipari e, poi, con successo, con Antonino Cinà, per informare Riina di quella prospettiva di trattativa che costituiva già un chiaro segno di cedimento delle Istituzioni dello Stato (qual è anche l’Arma dei Carabinieri) dopo il durissimo colpo ricevuto con l’uccisione di Giovanni Falcone.

Si vuole dire, in altre parole, che prima ancora dell’esplicitazione anche da parte di Mori della volontà di aprire un dialogo con i vertici mafiosi, anche l’azione di De Donno aveva, nei fatti, manifestato a Ciancimino quella volontà, tanto che questa era stata, conseguentemente, trasmessa a Riina dando luogo alla istigazione al ricatto ed alla minaccia al Governo di cui si è detto.

Anche al De Donno, pertanto, va estesa la consapevolezza della condotta diretta a istigare o, comunque, a rafforzare e ad attualizzare il generico proposito criminoso dei mafiosi con l’inevitabile previsione, da parte anche dello stesso De Donno, sia delle condizioni che i mafiosi, ove avessero accolto l’esortazione che gli veniva rivolta, avrebbero posto per non proseguire nella contrapposizione frontale e, quindi, nella strategia stragista, sia della utilizzazione che i medesimi mafiosi avrebbero potuto fare di quel canale di comunicazione con le Istituzioni che si era improvvisamente aperto e, conseguentemente, della agevolazione che ne sarebbe derivata per i mafiosi medesimi per inoltrare le loro richieste ricattatorie.

D’altra parte, la consapevolezza del De Donno e, per l’effetto, la sussistenza dell’elemento psicologico della sua condotta sono ulteriormente comprovati dalla piena ed assoluta condivisione, anche nei molti anni seguenti e fino ad oggi, delle scelte e delle azioni di Mori senza mai neppure per un momento richiamare la necessità, da parte sua, dell’esecuzione di ordini superiori.

[…] Da tale complesso di acquisizioni, pertanto, non può che derivare l’affermazione della responsabilità penale anche dell’imputato De Donno per il contributo causale concorsuale dallo stesso fornito al verificarsi del fatto delittuoso della minaccia mafiosa nei confronti del Governo della Repubblica.

Valgono, però, anche per il detto imputato le considerazioni finali esposte già sopra per i coimputati Mori e Subranni con riferimento alla formulazione aperta del capo di imputazione che sembra estendere la contestazione anche ad epoca successiva al 1993 lasciando ipotizzare, come detto, addirittura una sua cessazione soltanto con la cattura di Provenzano avvenuta nel 2006, così che, anche per l’imputato De Donno, si impone una pronunzia assolutoria per le condotte contestate (almeno apparentemente) come commesse successivamente al 1993 quando il reato si è, invece, consumato.


Marcello e le “esigenze” di Cosa Nostra  All’imputato Marcello Dell’Utri il P.M. contesta di avere concorso nel reato di minaccia, finalizzato a turbare l’attività del Governo della Repubblica, commesso dai vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, e, in particolare, di avere posto in essere in relazione alle richieste di questi ultimi ”finalizzate ad ottenere benefici di varia natura (tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali ed il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione) per gli aderenti all’associazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”.

Ponendo l’ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle Istituzioni la cui esecuzione aveva avuto inizio con l’omicidio dell’On. Salvo LIMA ed era proseguita con le stragi palermitane del ’92 e le stragi di Roma, Firenze e Milano del ’93”, le seguenti specifiche condotte: -“inizialmente proponendosi ed attivandosi, in epoca immediatamente successiva all’omicidio LIMA ed in luogo di quest’ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa Nostra” per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati”;

-“successivamente rinnovando tale interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra, in esito alle avvenute carcerazioni di CIANCIMINO Vito Calogero e di RIINA Salvatore, così agevolando il progredire della “trattativa” Stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista”;

-“agevolando materialmente la ricezione di tale minaccia presso alcuni destinatari della stessa ed in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da BERLUSCONI Silvio dopo il suo insediamento come Capo del Governo”.

Nella Parte Quarta della sentenza sono state già esposte tutte le risultanze probatorie acquisite al fine di verificare, […], se nel 1992 il predetto imputato abbia in qualche modo istigato, sollecitato, stimolato o assecondato le minacce che il vertice di “cosa nostra” ebbe già allora a rivolgere al Governo sotto forma di condizioni per la cessazione della strategia stragi sta, se, successivamente, il medesimo imputato abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia, se, poi, tale minaccia sia stata effettivamente formulata dai vertici mafiosi questa volta nei confronti del Governo Berlusconi e, infine, se Dell ‘Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino al Presidente del Consiglio Berlusconi.

La prima parte della verifica ha avuto esito negativo,[…].

Soltanto nella seconda metà del 1993, invero, prima parallelamente al tentativo di dare luogo ad una propria formazione politica nella quale collocare direttamente soggetti che potessero rappresentare gli interessi di “cosa nostra”, e, poi, invece in modo sempre più concentrato verso la sopravvenuta diversa finalità di sfruttare la nuova forza che si accingeva a debuttare nel panorama politico nazionale per iniziativa di Silvio Berlusconi, esponenti dell’organizzazione mafiosa siciliana, di diversa appartenenza e provenienza, ritennero utile servirsi anche di Marcello Dell’Utri per ottenere i benefici per gli associati che erano stati già oggetto dell’azione ricattatori a stimolata dalla sciagurata iniziativa dei Carabinieri del R.O.S. nel giugno del 1992 letta dai mafiosi come primo segnale di cedimento dello Stato dopo la strage di Capaci poi, ulteriormente confermato, nel successivo anno 1993, da altri segnali promananti dal settore carcerario in relazione all’applicazione del regime del 41 bis (dall’avvicendamento dei vertici del D.A.P. alla mancata proroga di molti provvedimenti di 41 bis).

In questa fase, con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa “cosa nostra” manifestata da Dell’Utri ancora nella sua funzione di intermediario con l’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo “sceso in campo” in vista delle elezioni politiche che poi vi sarebbero state nel marzo 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria

iniziata da Riina nel 1992 e si pongono le premesse della rinnovazione della minaccia in danno del Governo, quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato, appunto, presieduto dallo stesso Berlusconi (v. per la ricostruzione di tale premessa la Parte Quarta, Capitolo 4, paragrafi da 4.1 a 4.3.2).

Contrariamente a quanto fatto dalla difesa di Dell ‘Utri con la sua minuziosa ricostruzione delle dichiarazioni di tutti i collaboranti in relazione, da un Iato, all’iniziativa di Giuseppe Graviano e, dall’altro, all’iniziativa di Bagarella e Brusca, non è questa, dunque, la fase in cui va ricercata la minaccia che può integrare la fattispecie criminosa oggetto della contestazione formulata in questo processo a carico del medesimo Dell’Utri.

Ai fini della prova di tale minaccia più strettamente riconducibile al reato contestato a Dell’Utri rilevano, invece, gli incontri che con quest’ultimo, dopo l’insediamento del nuovo Governo presieduto da Berlusconi, Mangano ebbe ancora ad avere in almeno due occasioni (la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994) per sollecitare l’adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni.

Ora, già nella parte Quarta, Capitolo 4, paragrafo 4.5, si è già ricordato, quale necessaria premessa alla chiesta valutazione delle condotte dei vari protagonisti delle vicende in esame, che la minaccia è un reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l’attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l’effetto di diminuirne la libertà psichica e morale di autodeterminazione.

[…] Anzi, in proposito si è sostanzialmente concordato con la tesi difensiva dell’imputato Dell’Utri (v. trascrizione udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata il 23 marzo 2018) secondo la quale non v’è ragione di ritenere che le dette iniziative siano state effetto diretto di una minaccia, piuttosto che di libere scelte di quella consistente componente di soggetti facenti parte di Forza Italia, che, per risalente asserita vocazione “garantista”, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi.

Ciò, però, non toglie che ugualmente gli interventi di Vittorio Mangano nei confronti di Marcello Dell’Utri possano avere avuto una obiettiva attitudine ad intimorire il destinatario finale, individuato dai mafiosi in Berlusconi, indipendentemente dal fatto che l’effetto intimidatorio, purché comunque percepibile e percepito, possa avere inciso concretamente sulla sua libertà psichica e morale di autodeterminazione.

Sotto tale profilo, non sembra che possa residuare alcun dubbio, dal momento che il messaggio recapitato o la sollecitazione o anche soltanto la richiesta di notizie da parte di Vittorio Mangano, per la loro provenienza, sicuramente ed indiscutibilmente, erano idonei a provocare obiettivamente nell’uomo medio un timore di conseguenze nefaste e, dunque, ad integrare la fattispecie penale della minaccia, quand’anche, nei fatti, il timore non dovesse essere neppure insorto, perché, ad esempio, indipendentemente da quel messaggio, da quella sollecitazione o da quella richiesta, il destinatario si era già autodeterminato a porre in essere una già individuata condotta anche per ragioni del tutto diverse, come, ad esempio, nel caso in cui, appunto, eventualmente anche prima dell’intervento del Mangano, Silvio Berlusconi si fosse già determinato ad adottare alcuni provvedimenti anche attesi dai mafiosi, in ipotesi, anche soltanto per rispettare patti liberamente assunti durante la campagna elettorale ovvero anche soltanto perché riteneva che quel tipo di provvedimenti fosse in generale atteso dal proprio elettorato, trattandosi di provvedimenti in linea con la politica asseritamente “garantista” di una componente non certo secondaria (ma, anzi, particolarmente attiva e appariscente soprattutto sui mezzi di comunicazione) della nuova forza politica da lui guidata.

[…]Ciò induce a non dubitare, sulla base di considerazioni, sì, di carattere logico-deduttivo, ma comunque ineludibili, che l’approccio del Mangano, quale ne sia stata la forma esteriore (eventualmente anche quella “amichevole” usuale, in molti casi, nella prima fase dell’agire mafioso), non possa che essere stato percepito dal proprio interlocutore come una forma di pressione inevitabilmente esercitata sotto la minaccia di possibili ritorsioni come la storia e l’esperienza avevano, d’altra parte, sempre dimostrato anche più direttamente e specificamente a quegli stessi interlocutori, Dell’Utri e Berlusconi, tanto che, come già rilevato, quest’ultimo aveva dovuto sottostare al pagamento di ingenti somme di denaro in favore di “cosa nostra” per il timore di subire conseguenze sia personali che in pregiudizio delle proprie imprese.

[…] Della conseguente implicita minaccia, dunque, devono ritenersi responsabili, tanto gli autori in senso stretto individuabili nei mafiosi dai quali promanava la “pressione”, quanto, a titolo di concorso, colui, Dell’Utri, che anche in questo caso come nel caso delle richieste dei pagamenti di denaro e dei relativi versamenti, ha svolto la funzione di intermediario verso il Capo del Governo Silvio Berlusconi. Su tale ruolo si tornerà più avanti a proposito dell’elemento psicologico del reato.

Prima deve, però, ribadirsi che, seppure non v’è e non può esservi prova diretta sull’inoltro della minaccia da Dell’Utri a Berlusconi (perché ovviamente soltanto l’uno o l’altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui), vi sono, tuttavia, ragioni logico-fattuali che conducono a non dubitare che Dell’Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa “cosa nostra” mediati da Vittorio Mangano (ma, in precedenza, in altri casi, anche da Gaetano Cinà).

Il primo di tali fatti è costituito proprio dal ruolo di intermediario tra gli interessi di “cosa nostra” e gli interessi di Berlusconi svolto con continuità da Dell’Utri incontestabilmente (perché definitivamente accertato per effetto delle ricordate sentenze irrevocabili) dimostrato dal ricordato esborso, da parte delle società facenti capo al Berlusconi medesimo, di ingenti somme di denaro, poi, effettivamente versate a “cosa nostra”.

[…] Dunque, v’è la prova che Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal Governo.

Ma un ulteriore elemento di conforto alla predetta conclusione si trae dal primo incontro tra Mangano e Dell’Utri, quello del giugno-luglio 1994, di cui ha riferito Cucuzza[…]. Cucuzza, infatti, ha raccontato che nel giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano “in anteprima” di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia […] che senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata a differenza di quella concernente l’art. 335 c.p.p. (v. testimonianza Maroni), sarebbe stata inserita nel testo di un decreto legge che di lì a poco sarebbe stato approvato dal Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi.

[…] Ora, il fatto che, come si ricava dal racconto del Cucuzza e dall’eccezionale riscontro rinvenuto, Dell’Utri fosse informato, sino ai più minuti – e, si ripete, nascosti – dettagli, di tale modifica legislativa che sarebbe stata inserita in un decreto legge che si intendeva emanare a breve per intervenire su reati del tutto diversi da quelli di mafia, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del Governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale Presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell’Utri per “tranquillizzare” i suoi interlocutori, così come il Dell’Utri effettivamente fece.

Si ha conferma, pertanto, che anche il destinatario finale della “pressione” o dei ”tentativi di pressione”, e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste (d’altronde in precedenza espressamente già prospettato) che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere.

[…] Deve, allora, concludersi che, a prescindere dall’effettiva incidenza della pressione mafiosa sulle decisioni assunte da Berlusconi a mezzo del Governo da lui presieduto e, in definitiva, dall’effettivo insorgere in quest’ultimo di un timore, v’è, comunque, conferma che, con il raggiungimento del destinatario finale, si consumò, anche in questo caso, la rinnovazione della minaccia mafiosa per la sua comunque indiscutibile ed indubitabile oggettiva attitudine a intimorire il destinatario medesimo e, quindi, a turbare l’attività del Governo in quel momento in carica.

Occorre, però, a questo punto tornare sul ruolo di Dell’Utri e sugli aspetti che rilevano ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, dal momento che la difesa del detto imputato ha accostato la condotta di questi, al fine, appunto, di escludere l’elemento psicologico del reato, a quella della moglie dell’imprenditore che, in assenza e per conto di questi, riceva la richiesta estorsiva e la comunichi al marito, ovvero a quella del semplice nuncius o “ambasciatore che non porta pena” […].

Sennonché, nel tentare tali arditi accostamenti, la difesa dell’imputato, come può evincersi dalla citata trascrizione dell’intervento all’udienza del 16 febbraio 2018 e dalla memoria successivamente depositata il 23 marzo 2018, ha totalmente trascurato, evitando accuratamente qualsiasi pur minimo accenno, l’analogo ruolo di intermediario svolto da Dell’Utri tra “cosa nostra” e Berlusconi per il quale il medesimo imputato è stato già definitivamente condannato per il diverso reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa seppure, in forza delle prove che fu possibile acquisire in quel processo, con riferimento alla sola condotta come commessa sino al 1992.

Da tale condanna irrevocabile emerge in modo del tutto plastico ed evidente il fatto che Dell’Utri, in ogni caso, non ha mai agito nell’esclusivo interesse di Berlusconi, ma, altresì, anche nell’interesse quanto meno concorrente dei soggetti mafiosi (tra i quali soprattutto Vittorio Mangano e Gaetano Cinà) con i quali egli ha intrattenuto ultraventennali rapporti di amicizia e frequentazione, perché altrimenti, alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità, non sarebbe stato possibile giungere alla affermazione di responsabilità penale per il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa.

[…] La minaccia rinnovata dai mafiosi dopo l’insediamento del Governo presieduto da Silvio Berlusconi, infatti, trova le sue radici nelle promesse che Dell’Utri, da assoluto protagonista della nascita ed affermazione della nuova forza politica, ebbe a indirizzare all’organizzazione mafiosa in vista delle elezioni politiche del 1994 […].

Tali promesse, o, quanto meno, la disponibilità manifestata dal Dell’Utri anche in quell’occasione per soddisfare le esigenze di “cosa nostra” e che hanno contribuito all’entusiastico appoggio dato da quest’ultima in Sicilia alla nascente nuova forza politica, nonché all’affidamento, se non, in qualche caso, all’euforia, di molti capi mafiosi, hanno, nel contempo rafforzato, nei vertici dell’associazione mafiosa, il proposito criminoso di proseguire nella strada del ricatto anche nei confronti del Governo presieduto da Berlusconi.Tutt’altro, quindi, che un ruolo di Dell’Utri “neutro”.

Non solo, ma anche negli incontri con Mangano successivi all’insediamento del Governo Berlusconi, Dell ‘Utri non si è limitato ad ascoltare e a raccogliere le richieste dei mafiosi, ma ha ancora manifestato disponibilità nel farsi carico delle iniziative del medesimo Governo, fornendo specifiche notizie su di esse e sui vantaggi che i mafiosi ne avrebbero potuto ricavare (v. vicenda del decreto legge n. 440 del 14 luglio 1994 con riferimento alla norma “nascosta” che avrebbe aperto ai mafiosi la strada della detenzione domiciliare sino ad allora, di fatto, loro preclusa).

Anche tale atteggiamento ha contribuito all’affidamento riposto in Dell’Utri e Berlusconi dai vertici mafiosi[…] ed ha, conseguentemente, da un lato, rafforzato il proposito criminoso mafioso, tanto che al primo incontro di giugno-luglio 1994 ne è seguito almeno un altro nel dicembre 1994 in occasione del quale quell’atteggiamento e quella disponibilità da parte di Dell’Utri sono stati ancora rinnovati, ma, dall’altro, ha, nel contempo, inevitabilmente, nel momento in cui egli ne riferiva a Berlusconi, consapevolmente contribuito alla trasmissione della coazione psicologica e, quindi, in definitiva all’evento del reato contestato (che è bene ricordare, non è costituito dai provvedimenti legislativi poi adottati, ma esclusivamente dal percepimento da parte di Berlusconi in qualità di Capo del Governo della pressione psicologica operata da “cosa nostra” col ricatto, esplicito o implicito che fosse, della reiterazione delle stragi il cm recente ricordo, anche al di fuori della lontana Sicilia, era ben vivo in tutti).

Non si vede, pertanto, come possa dubitarsi, alla stregua del ruolo complessivamente e storicamente svolto da Dell ‘Utri in rapporto, non soltanto a Berlusconi, ma anche a “cosa nostra”, della coscienza e della volontà del predetto imputato di contribuire, con la propria condotta, che, si ripete, trovava

le radici proprio nei risalenti rapporti di amicizia e di frequentazione con appartenenti alla consorteria mafiosa, da un lato al rafforzamento del proposito criminoso del ricatto mafioso, e, dall’altro al raggiungimento dello scopo intimidatorio perseguito da coloro che rinnovavano ancora tale ricatto e, quindi, la minaccia mafiosa finalizzati ad ottenere illeciti vantaggi per i sodali.

Prima di formulare le conclusioni, però, deve affrontarsi un ulteriore tema che è stato introdotto, in sede di discussione, dal secondo intervento difensivo nell’interesse dell’imputato Dell’Utri, quello del divieto di un secondo giudizio ai sensi dell’art. 649 c.p.p. per effetto del giudicato già intervenuto in favore del predetto con l’assoluzione dal reato di concorso nell’associazione mafiosa per le condotte contestate come commesse successivamente al 1992 (v. trascrizione udienza del 23 marzo 2018).

[…] D’altra parte, anche in concreto, la diversità del fatto emerge dallo stesso oggetto del pregresso processo che, per la parte che qui riguarda, è consistito, come asserito e, quindi, riconosciuto dalla medesima difesa dell’imputato Dell’Utri, che, infatti, sul punto, ha molto e lungamente insistito (v. trascrizione della discussione all’udienza del 23 marzo 2018), nel c.d. “patto politico-mafioso” che, secondo la contestazione, era intervenuto nella fase antecedente alle elezioni politiche del marzo 1994 (v. sentenza della prima Corte di Appello sopra citata che ha affermato l’insussistenza di tale “patto politico-mafioso” integrante la condotta di concorso eventuale nel reato di cui all’art. 416 bis C.p. ed ha, pertanto, assolto l’imputato Dell’Utri dalle condotte contestate come commesse successivamente al 1992).

Ora, tale “fatto” così individuato ed indicato dalla stessa difesa dell’imputato Dell’Utri, non coincide, neppure temporalmente, con l’oggetto del presente processo consistente, invece, nella minaccia al Governo consumatasi dopo l’insediamento di Silvio Berlusconi come Presidente del Consiglio nel maggio 1994 a mezzo di un’intermediazione di Dell’Utri, che non è legata in alcun modo, neppure concettualmente, al “patto politico-mafioso” (negato, come detto, dalla sentenza definitiva di assoluzione), né da questo necessariamente dipendente, ma piuttosto discende dall’analoga intermediazione che era stata già utilizzata dai mafiosi anche ben antecedentemente al detto ipotizzato “patto politico-mafioso” e per ragioni del tutto diverse e distinte (v. sentenze irrevocabili in atti prima richiamate).

Deve, pertanto, escludersi che nella fattispecie sia ravvisabile l’ipotesi del divieto di bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.

Va affermata, conseguentemente, la colpevolezza di Marcello Dell’Utri in ordine al reato ascritto in relazione alle condotte, tra quelle descritte nel capo di imputazione, che hanno dato luogo, infine, alla rinnovazione della minaccia mafiosa dopo l’insediamento del Governo presieduto da Silvio Berlusconi.

Al contrario, alla stregua di quanto prima rilevato, il medesimo imputato deve essere assolto dal reato ascrittogli con riferimento alle condotte contestate come commesse nei confronti dei Governi precedenti a quello presieduto da Silvio Berlusconi per non avere commesso il fatto.

 

LA TRATTATIVA STATO- MAFIA  – Di A. Bolzoni, S. Palazzolo e F. Trotta.

È il processo che negli ultimi anni in Italia ha sollevato più polemiche e che ha spaccato anche la magistratura. Tutti ne parlano (o ne straparlano) ma pochi conoscono le pagine di questa COLOSSALE inchiesta che trae origine dai patti inconfessabili stretti prima, durante e dopo le stragi siciliane del 1992.

In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo un’ampia sintesi delle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, processo che si è chiuso nell’aprile del 2018 dopo 5 anni e mezzo di udienze con un verdetto eclatante della Corte di Assise di Palermo (presidente Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille) che ha condannato a dodici anni i generali dell’Arma dei carabinieri Mario Mori e Antonino Subranni che erano ai vertici del Ros, stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, otto anni sono stati inflitti all’ex colonnello Giuseppe De Donno, ventotto al boss corleonese Leoluca Bagarella.

Assolto perché “il fatto non sussiste” per falsa testimonianza l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, assolto dal concorso esterno ma condannato per calunnia a otto anni nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, l’ex sindaco di Palermo.

Una sentenza che ha accolto la ricostruzione dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi: e cioè che uomini dello Stato avevano negoziato in quello spaventoso 1992 con i vertici di Cosa Nostra in cambio della fine dei massacri e delle bombe. Un dialogo che sarebbe proseguito anche l’anno successivo.

Il processo d’appello è iniziato a fine dell’aprile scorso ed è in pieno svolgimento.

Ancora prima delle condanne un altro giudice aveva assolto l’ex ministro Calogero Mannino – che aveva scelto il rito abbreviato – dall’accusa anche lui di avere partecipato alla trattativa Stato-mafia. Di più: di essere lui stesso l’origine del patto in quanto terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima. L’ex ministro Mannino è stato assolto in primo grado e un paio di settimane fa anche in Appello “per non avere commesso il fatto”.

Da una parte una Corte che sostiene che sia stato Mannino la “miccia” del “dialogo” e dall’altra una Corte che lo esclude categoricamente. In attesa della sentenza d’Appello per gli imputati già condannati con il rito ordinario, leggiamoci le carte sullo Stato che processa se stesso.

Non era mai accaduto che rappresentanti delle istituzioni a così alto livello e capimafia fossero seduti insieme sul banco degli imputati. Oggi – proprio grazie a questo processo – qualcosa in più sappiamo, nonostante i troppi “non ricordo” degli uomini delle istituzioni chiamati a testimoniare.

Ma resta l’interrogativo più grande: Paolo Borsellino, che aveva appreso del patto segreto degli alti ufficiali dei carabinieri con Vito Ciancimino, fu ucciso perché voleva fermare la trattativa fra Stato e mafia?

(Hanno collaborato Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Sara Carbonin, Ludovica Mazza, Alessia Pacini, Asia Rubbo e Valentina Nicole Savino)

https://youtu.be/tWPBvngVPwk