il Maxiprocesso a Cosa Nostra

 
 
 
 
 


MAXIPROCESSO ALL’AULA BUNKER
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La chiamavano “l’astronave verde” ed era stata costruita per l’occasione nel carcere dell’Ucciardone a Palermo: una grande aula bunker che avrebbe visto andare in scena il Maxiprocesso istruito Falcone e Borsellino con Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli a Cosa Nostra, tra il 1986 e il 1987.
Alla sbarra, per la prima volta, oltre 400 mafiosi chiamati a rispondere di decine di reati.
Si decise di costruirla in Via Enrico Albanese, all’interno del complesso del carcere Ucciardone, per permettere uno spostamento agevole dei detenuti. L’aula fu provvista di sofisticati sistemi di sicurezza, porte blindate e vetri antiproiettile per evitare attentati e fughe, mentre il soffitto fu costruito in modo che potesse resistere ad attacchi aerei.Il costo fu di quasi 36 miliardi di lire. Dato che l’aula doveva essere pronta in un tempo brevissimo, i lavori furono eseguiti ogni giorno, dalle 6 alle 22, anche di domenica.
Gli operai che lavorarono furono circa 120.
La costruzione fu terminata in appena 6 mesi. All’interno dell’aula il colore predominante è il verde: per questo fu soprannominata “Aula verde” o anche, per via della grandezza e della struttura ottagonale, “Astronave verde”. Le gabbie riservate ai detenuti sono 30, di cui le ultime tre al Maxiprocesso furono riservate ai pentiti.
Munite di gabbie di ferro e vetri blindati, possono accogliere ciascuna circa 20 detenuti. Sopra le gabbie ci sono tre tribune da 150 posti ciascuna: quella centrale riservata ai giornalisti, mentre le altre laterali sono destinate al pubblico. Di fronte alle gabbie, sula lato opposto dell’aula, prende posto la Corte; presidente, giudice a latere e giudici popolari. Dietro alla Corte è appeso sul muro un crocefisso di fabbricazione spagnola.
Tra le gabbie e la Corte sono posizionate due file di tavoli per i difensori al centro, mentre la fascia destra e sinistra sono riservate ad altri imputati: al Maxiprocesso, a destra sedevano i 35 agli arresti domiciliari, e a sinistra i 112 a piede libero.


MAXI PROCESSO – 12 febbraio 1986 pagina de L’UNITÀ


Il rapporto “Greco Michele più 160”, l’indagine all’inizio di tutto


MAXI PROCESSO A COSA NOSTRA  – 

Durò dal 10 febbraio 1986 (giorno di inizio del processo di primo grado) al 30 gennaio 1992 (giorno della sentenza finale della Corte di Cassazione). Tuttavia spesso per maxiprocesso si intende il solo processo di primo grado, durato fino al 16 dicembre 1987.

349 udienze, 1314 interrogatori, 12 giorni per le due requisitorie dei pubblici ministeri, 635 arringhe difensive di oltre 200 avvocati, 35 giorni di camera di consiglio, 475 imputati, 19 ergastoli inflitti, 327 condanne, 114 assoluzioni, 2665 anni di reclusione. 8  mesi  per la stesura delle motivazioni. 
Il 16 dicembre  1987 alle 18.07, conclusasi la camera di consiglio, il Presidente Alfonso Giordano iniziò la lettura delle 54 pagine della sentenza terminando alle ore 19,35

 

 



     AUDIO UDIENZE


APPELLO

Il processo Gli atti processuali del tribunale di Palermo Processo di appello

 

Il processo Gli atti processuali del tribunale di Palermo Dibattimenti primo grado

 

LEGGI


ORDINANZA-SENTENZA ABBATE GIOVANNI + 706


MAXI PROCESSO ABBATE GIOVANNI + 459 – GIUDIZIO DI PRIMO GRADO


MAXI PROCESSO ABBATE GIOVANNI + 386 – GIUDIZIO DI SECONDO GRADO


MAXI PROCESSO – GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ


CONFRONTI

 


 




 


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MAXIPROCESSO – il patrimonio di Cosa nostra


QUEI 35 GIORNI CHE CAMBIARONO LA LOTTA A COSA NOSTRA

 
 
 
Il giorno 11 di novembre del 1987 era un mercoledì e fu anche la data di inizio della camera di consiglio del maxiprocesso contro Cosa nostra. Poche persone avevano creduto che il “mostro giuridico” – come il “maxi” veniva appellato dagli avvocati difensori del Gotha mafioso e da molti garantisti per interesse – potesse arrivare a quel traguardo (la camera di consiglio), che non era ancora quello finale, ma rappresentava certamente un successo inaspettato. E perciò aleggiava una certa soddisfazione in quella parte dell’aula bunker lontana dalle gabbie degli imputati e dagli scranni degli avvocati. Ma, insieme, si avvertiva il peso di una cappa di paura che per tutta la durata del processo non era mai venuta meno. Già, perché più ci si avvicinava alla sentenza e più si temeva che Cosa nostra avrebbe tentato di “intervenire” alla sua maniera, cioè con un colpo di violenza inaudita.
Era di un certo conforto il fatto che la Corte d’Assise da quel momento sarebbe rimasta chiusa, asserragliata dentro il bunker, sottratta, quindi, alla vista degli assassini che, fuori dall’aula, rimuginavano su come impedire che “u Maxi” arrivasse a sentenza. La più temuta delle sentenze, perché avrebbe sancito definitivamente la supremazia dello Stato legale sulla prepotente illegalità di Cosa nostra. Insomma – si pensava – se ora la mafia volesse giocarsi la carta estrema, dovrebbe letteralmente “spianare” l’aula bunker. Soluzione ritenuta di difficile approccio, soprattutto perché non erano ancora maturi i tempi in cui Cosa nostra si sarebbe trasformata in una organizzazione criminal/terroristica. Cosa avvenuta poi nel 1992, 1993 e 1994, con le stragi nel Continente e la tentata carneficina dello stadio Olimpico.
L’11 novembre, dunque, cominciava la camera di consiglio più lunga della nostra storia giudiziaria. Più lunga e più difficile, sia per la mole del processo che per il clima in cui si sarebbe svolta. L’attesa per quella sentenza era qualcosa di indescrivibile: lo Stato si giocava la faccia e rischiava la patente di eterna inaffidabilità. Cosa nostra metteva sul tavolo da gioco la sua proverbiale “immortalità” di fronte ai colpi inferti dallo Stato legale. Più “esposto” di tutti il capo, Totò Riina, che aveva garantito presso il suo popolo la certezza che il processo si sarebbe sciolto come neve al sole senza provocare conseguenze, se non qualche piccolo “danno collaterale”.
Questo l’enorme peso che la Corte si trascinò nel chiuso degli alloggi e della camera dove si riunivano i due magistrati togati e i sei giudici popolari. Chiusi come in carcere, senza nessun contatto con l’esterno, senza la possibilità di telefonare, di leggere i giornali o guardare la TV. Questo per garantirne l’imparzialità verso gli imputati e per “preservarli” dal condizionamento psicologico che sarebbe potuto giungere dall’esterno, minacce e pressioni comprese.
Era costato una fatica enorme mettere in piedi il Maxiprocesso di Palermo. Fatica e risorse economiche fuori dal comune, come dimostrano il costo dell’aula bunker e la inusitata e straordinaria velocità con cui venne costruita. Una fatica enorme trovare i giudici popolari, strappati a forza alla comprensibile paura per un impegno che appariva davvero improbo. Una marea di certificati medici annunciarono l’indisponibilità di decine di cittadini convocati e neppure presentatisi. Ed anche per i togati le cose non furono piane. Solo il giudice a latere fu certo sin dall’inizio: Pietro Grasso, grande amico di Giovanni Falcone, tecnicamente dotato e ritenuto in grado di garantire una buona tenuta di fronte alle difficoltà insite in quel “mostro giuridico”. Molti magistrati declinarono l’invito a far parte di quella Corte: chi aveva impegni, chi stava male, chi si apprestava ad andare in pensione. La disponibilità arrivò da un magistrato proveniente dalla giustizia civile: il presidente Alfonso Giordano che, contro ogni previsione, a dispetto dell’aspetto fisico, si rivelerà una roccia.
Non sapremo mai cosa avvenne dentro quelle quattro mura dove dibatterono due magistrati togati diversi per carattere e formazione, ma entrambi sostenuti da un incrollabile senso del dovere e sei cittadini (Francesca Agnello, Maria Nunzia Catanese, Luigi Mancuso, Lidia Mangione, Renato Mazzeo e Francesca Vitale, tra i supplenti c’era anche Mario Lombardo, storico corrispondente de L’Ora da Cefalù) gravati dal compito di giudicare non un solo imputato, come accade nella maggior parte dei processi di corte d’Assise, ma un’intera organizzazione criminale che ha tenuto sotto scacco per decenni un popolo e portato la violenza sistemica anche fuori della Sicilia, in territori che sembravano immuni dal contagio mafioso.
I segreti della camera di consiglio non possono essere divulgati e sono protetti da un inviolabile giuramento di segretezza. Immaginate quanto sarebbe appetibile conoscere le dinamiche sviluppatesi dentro quella piccola, eterogenea comunità durante i 35 giorni di lavoro comune. Hanno “ripassato” il film di 349 udienze, 1314 interrogatori e 635 arringhe, hanno “rivisto” i volti di 460 imputati e ad ognuno è stata assegnata una pena.
I siciliani devono molto a quelle otto persone che dovrebbero esser considerate alla stregua di eroi di una Resistenza, ardua come sono tutte le guerre di liberazione. Grazie a loro, due giudici e sei cittadini comuni (insegnanti, impiegati pubblici e bancari) chiamati ad una grande impresa, oggi possiamo vivere una vita migliore, con una mafia che c’è ancora, ma non è più egemone.
“L’ora” – edizione straordinaria di FRANCESCO LA LICATA


IL MAXI PROCESSO A COSA NOSTRA  – 
349 udienze, 1314 interrogatori, 12 giorni per le due requisitorie dei pubblici ministeri, 635 arringhe difensive di oltre 200 avvocati, 35 giorni di camera di consiglio, 475 imputati, 19 ergastoli inflitti, 327 condanne, 114 assoluzioni, 2665 anni di reclusione. 8  mesi  per la stesura delle motivazioni. Il maxiprocesso di Palermo istruito contro Cosa nostra dal pool antimafia, di cui furono protagonisti i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, si aprì 34 anni fa, il 10 febbraio 1986. Sul banco degli 475 imputati di associazione a delinquere di stampo mafioso, omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione e decine di delitti e una serie di reati minori. Il verdetto, pronunciato il 16 dicembre 1987 dalla Corte d’Assise presieduta da Alfonso Giordano con giudice a latere Pietro Grasso, decretò 19 ergastoli, tra cui a Totò Riina e Bernardo Provenzano, 2665 anni di carcere, 11 miliardi e mezzo di lire di multe e 114 assoluzioni. Il maxiprocesso fu reso possibile grazie anche alle rivelazioni di Tommaso Buscetta, che nel 1984, dopo l’estradizione dagli Stati Uniti, è il primo e più importante degli ex mafiosi che, per le rivelazioni che forniscono, vengono chiamati poi “collaboratori di giustizia” o più comunemente “pentiti”.

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16 dicembre 1987  – Sentenza maxiprocesso. Il presidente Giordano diede lettura del dispositivo della sentenza che concludeva il Maxiprocesso di primo grado. Lesse 346 condanne, 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2.665 anni di reclusione. La sentenza fu considerata un duro colpo a Cosa nostra e ricevette commenti favorevoli da tutto il mondo.

Quello del Maxi processo fu un percorso lungo e tortuoso, che ebbe come parte fondante  il rapporto del 13 luglio 1982 “Michele Greco+161”. Quel rapporto  si basava sulle confidenze di  Salvatore Contorno. Quelle  indagini furono coordinate dal comandante del gruppo carabinieri di Palermo, Ten. Colonnello Francesco Valentini, e dal dirigente del centro Criminalpol. E furono  dirette, tra gli altri, da Ufficiali di Polizia Giudiziaria tra i quali ricordiamo: per la Polizia il Dr. Antonio Cassara’ e  il  dr. Francesco Accordino, per l’Arma dei Carabinieri il Capitano Comandante  del nucleo Tito Baldo Honorati e  il Cap. Angiolo Pellegrini. Per la GdF il Colonnello Elio Pizzuti, Comandante del nucleo regionale  di polizia tributaria. Seguirono poi, dal luglio 1984,  le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, e  successivamente il blitz di San Michele con 475 mandati di cattura.

Il  Giudice Istruttore Rocco Chinnici per fronteggiare quel lavoro, mastodontico e smisurato, aveva pensato a un pool di magistrati. L’ idea  fu ripresa nei fatti da Antonino Caponnetto, succeduto alla morte di Chinnici alla guida del pool, come ricordato nell’ordinanza del Maxi, composto da   Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta  e Giuseppe Di Lello Finuoli. 

“All’istruttoria che qui si conclude hanno preso parte per delega ad essi conferita a norma dell’art.17 R.D. 28.5.1931 n.603. I Giudici Istruttori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli. I quali hanno- altresi’- preparato il materiale per la redazione del provvedimento finale.

Ad essi va dato atto della dedizione, dello scrupolo e della professionalità certamente fuori dal comune, con cui hanno-per lungo tempo- operato, in condizioni difficili ed i un’istruttoria eccezionalmente complessa e laboriosa. Riteniamo, inoltre, doveroso ricordare che l’istruttoria venne iniziata, oltre tre anni fa, dal consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che in essa profuse tutto il suo impegno civile, a prezzo della sua stessa vita.” FRATERNO SOSTEGNO AD AGNESE BORSELLINO – GABRIELLA TASSONE



All’inizio degli anni ottanta a Palermo imperversava la seconda guerra di mafia: la fazione dei Corleonesi e quella guidata da Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti (cui faceva parte anche Tommaso Buscetta, scappato in Brasile) si contendevano il dominio sul territorio, al punto che tra il 1981 e il 1983 vennero commessi circa 600 omicidi e la seconda fazione risultò perdente. Anche numerosi uomini delle istituzioni italiane, che avevano tentato di combattere la mafia attraverso nuove leggi, indagini e azioni di Polizia, caddero sotto i colpi della mafia; tra questi il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il segretario provinciale democristiano Michele Reina, il commissario Boris Giuliano, il giornalista Mario Francese, il candidato a giudice istruttore di Palermo Cesare Terranova, il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il segretario regionale siciliano del PCI Pio La Torre e molti altri ancora. Per far fronte a una simile situazione, il primo a pensare che presso l’ufficio istruzione del tribunale di Palermo potesse essere istituita una squadra di giudici istruttori, che avrebbero lavorato in gruppo, fu il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Quando poi nel 1983 Cosa nostra uccise anche Chinnici, il giudice chiamato a sostituirlo, Antonino Caponnetto, decise di mantenere e ampliare l’organizzazione dell’ufficio voluta dal predecessore. Caponnetto si informò presso la Procura di Torino riguardo a come si fosse organizzata durante gli anni del terrorismo e decise infine di istituire presso l’ufficio istruzione un vero pool antimafia, ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso. Lavorando in gruppo, essi avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso nel palermitano, e di conseguenza la possibilità di combatterlo più efficacemente. Caponnetto scelse, tra i giudici istruttori che meglio conosceva e dei quali riteneva di potersi fidare, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Questi avrebbero svolto tutte le indagini su Cosa nostra, coadiuvati dal sostituto procuratore Giuseppe Ayala e tre colleghi, il cui compito era inoltre quello di portare a processo come pubblici ministeri i risultati delle indagini del pool e ottenere le condanne.


Il 16 dicembre del 1987 il presidente Alfonso Giordano, irriconoscibile per via della folta barba che non aveva trentasei giorni prima, al momento di entrare in camera di consiglio, lesse la sentenza del primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Poche persone avevano creduto che quell’inchiesta potesse arrivare al dibattimento e alla conclusione. Ci si erano messi in tanti a boicottare la “creatura” di Giovanni Falcone: una vera mobilitazione generale per cercare di vanificare anni e anni di lavoro del pool antimafia. Avevano cominciato gli ipergarantisti con la campagna contro il “mostro giuridico”, illustri magistrati erano stati colti da dubbi e angosce sulla sorte che avrebbe subito la “responsabilità individuale” se fosse passata la “cultura dei maxiprocessi tomba del diritto”. Il “palazzo”, manco a dirlo, guardava quei marziani del bunker con occhio distaccato e incredulo: la vecchia guardia, seduta sulla sponda del fiume, aspettava di veder transitare il cadavere del “maxi” che si sarebbe trascinati Caponnetto, Falcone, Borsellino, Guarnotta, Di Lello, De Francisci, Ayala e Conte, i “samurai” del pool.I Geraci, i Tessitore, i Palmegiano, i Prinzivalli, i Barreca, immobili, non avevano alzato un dito. Nessun gesto che potesse agevolare il compito di quei colleghi che lottavano contro il tempo e contro una concezione vecchia e improduttiva della lotta alla mafia. Anzi, se parlavano era peggio. Dalle loro bocche uscivano solo dubbi e perplessità, mai un consiglio o un incoraggiamento. Quanti articoli scrisse il sostituto procuratore Vincenzo Geraci, fine sofista, per dare linfa alla campagna garantista. Per fortuna c’era anche chi lavorava molto e parlava poco. E’ il caso di Giovanni Paparcuri, il sopravvissuto della strage Chinnici. Dopo una lunga convalescenza che aveva lasciato prevedere il peggio, l’ex autista del consigliere istruttore assassinato non volle abbandonare la trincea e decise che poteva essere utile in altro modo. Studiò e si inventò esperto dei computer. In breve divenne il motore che permise di stampare la monumentale ordinanza di rinvio a giudizio per gli oltre quattrocento imputati.  Ne aveva fatta di strada, Falcone. Quanta fatica per far passare la tesi dell’unicità di Cosa Nostra, per far capire che il “processone” era più che altro un’esigenza dettata dalla stessa concatenazione dei fatti, dalla storia di Cosa Nostra siciliana. L’intuizione, si sa, gli era venuta dal processo Spatola. Le conferme giunsero dopo l’incontro con Tommaso Buscetta, con Contorno, poi con Calderone e con tutti gli altri pentiti. Storia di Giovanni Falcone di FRANCESCO LA LICATA


16.12.1987. Ricordo come fosse oggi l’emozione provata in quei secondi dietro la porta prima di entrare nell’Aula bunker di Palermo per la lettura della sentenza del maxiprocesso: 346 condannati, 2665 anni di reclusione, 19 ergastoli, 114 assolti. Fu un evento storico: con quella sentenza dimostrammo, per la prima volta, l’esistenza di Cosa nostra. Un traguardo importantissimo di una lotta che continua ancora oggi. Il maxiprocesso, basato sul lavoro del pool antimafia e istruito da Falcone e Borsellino, è stato possibile grazie a uomini e donne che hanno compiuto fino in fondo il loro dovere. Tra questi una menzione particolare deve andare ai giudici popolari: cittadini siciliani che hanno risposto con coraggio e grande senso civico alla chiamata dello Stato. Una volta le foto non si mandavano in pochi secondi sugli smartphone, era una questione più complessa fatta di negativi e stampe fisiche. Grazie alla bella docufiction “Io, una giudice popolare al maxiprocesso” ho visto alcuni scatti che non avevo e che sono riuscito a recuperare, come quello pubblicato qui: insieme a me, il Presidente Alfonso Giordano e i 6 giudici popolari, con i quali abbiamo condiviso quasi due anni di incessante lavoro e 35 giorni in totale isolamento per la camera di consiglio.  PIETRO GRASSO


Quel mercoledì quando fu emessa la sentenza del maxi processo era già tardo pomeriggio.  Il dr. Falcone era nella sua stanza, io nella mia. Nell’ufficio del giudice (così come tutto il Bunkerino), che dava all’interno del palazzo di giustizia dalle finestre non filtrava nessuna luce naturale, era perennemente al buio anche per colpa dei vetri oscuranti per cui si tenevano sempre le luci artificiali accese. Pure quel giorno c’erano i due lampadari in ottone accesi e anche la sua lampada da tavolo era accesa, ma dopo 12 ore passate all’interno del bunkerino, quelle luci, vuoi anche per gli occhi stanchi, non illuminavano un bel nulla, però quella sera quando mi chiamò per comunicarmi che c’erano state le condanne al maxi, in quella stanza, fermo davanti la porta, vidi una luce particolare, era la luce emanata dai suoi occhi e dal suo sorriso quando mi disse “Papa abbiamo vinto”. GIOVANNI PAPARCURI


IL PRIMO MAXI PROCESSO CONTRO LA MAFIA si è svolto ad Agrigento nel 1885. Tutto cominciò due anni prima con un clamoroso blitz, che sbaragliò una delle più potenti ed organizzate cosche mafiose dell’epoca, denominata “La Fratellanza”.
La notizia si diffuse in tutta Italia. «Sulla metà di questo mese (aprile) furono visti uscire da Girgenti alla spicciolata e con diversi intervalli di tempo circa 90 carabinieri, 40 guardie di P.S. a cavallo e una cinquantina di soldati di fanteria. Tutti questi agenti della Forza pubblica si riunirono poi al punto denominato “Quatrivio”, distante due chilometri dalla città. Ivi ponevano le baionette in canna e prendevano la via che mena a Favara.
Verso mezzanotte una carrozza fermatasi fuori delle porte di Favara e ne scendeva il Procuratore del re. Poco dopo dalla cennata forza pubblica venivano circondate diverse case di Favara ed erano tratti agli arresti, per mandato di cattura, ben quaranta individui, i quali erano subito condotti alla caserma dei Reali Carabinieri e dopo essere sottoposti ad interrogatorio venivano spediti in queste grandi prigioni.
Nella stessa notte in altri paesi di questa provincia erano eseguiti altri non pochi arresti per lo stesso oggetto. Si vuole che il numero degli arresti arrivi a 150» (Il Secolo”, giornale milanese, 30 aprile 1883).
Il blitz del 1883 nasce dalle inchieste promosse dall’ispettore romagnolo Ermanno Sangiorgi, alla guida dell’ufficio di Pubblica Sicurezza della provincia di Agrigento dal 1876 e poi proseguite dal delegato di polizia Cesare Ballanti. Grazie ad accurate indagini, tutto venne alla luce intorno alla potente organizzazione della mafia agrigentina, sin nei minimi dettagli.
Con questo giuramento, ritrovato in casa di uno degli arrestati, si entrava a far parte del sodalizio mafioso.
«Giuro sul mio onore di essere fedele alla Fratellanza come la Fratellanza è fedele con me; come si brucia questa santa e queste poche gocce del mio sangue, così verserò tutto il mio sangue per la Fratellanza; e come non potrà tornare questa cenere nel proprio stato e questo sangue un’altra volta nel proprio stato così non posso lasciare la Fratellanza».
L’affiliato, durante il rito di iniziazione, si pungeva l’indice per poi tingere con il suo sangue l’immagine sacra, che veniva bruciata. Si conteranno alla fine sino a duecento affiliati, residenti soprattutto a Favara, Canicattì, Racalmuto, Grotte, Aragona (centri presso Agrigento) e in qualche località della provincia di Caltanissetta.
L’organizzazione presentava una struttura piramidale: uno o più capi-testa comandavano più capidecina, ognuno dei quali aveva sotto di sé non più di dieci affiliati. Il resto della banda non conosceva il capo della decina, solo agli uomini più importanti dell’intera cosca era consentito conoscerne il comandante. Avevano uno statuto, pagavano una tassa mensile di 50 centesimi.
La cosca era costituita da zolfatari, minatori, contadini, artigiani, mugnai, pastori, calzolai, gabellotti. In seguito entrarono a farne parte pure i proprietari terrieri, rendendola molto potente. La “Fratellanza” operò dal 1878 al 1883 uccidendo, intimidendo, rubando e saccheggiando.
Dalla ricostruzione delle attività della cosca si seppe che numerosi membri erano stati affiliati alla mafia nel 1879, durante la prigionia con mafiosi palermitani nel carcere di Ustica.
Costoro diedero vita poi alla cosca una volta tornati a casa. Il primo omicidio firmato dalla Fratellanza avvenne a Canicattì e gli esecutori vennero arrestati. Il calzolaio Calogero Camilleri, era scomparso da casa il giorno 11 febbraio 1883, ed era stato imprigionato nella casa di suo zio Alaimo Martello Rosario.
Pochi giorni dopo venne strangolato e sepolto in un castello abbandonato perché “l’infame” aveva parlato al delegato di polizia del suo paese dell’esistenza della Fratellanza (leggiamo in una nota conservata presso l’archivio di Stato di Agrigento).
Una conferma dell’esistenza della cosca arrivò pochi giorni dopo, quando un ferroviere si presentò alla polizia denunciando di aver ricevuto un invito ad entrare in un’organizzazione chiamata la Fratellanza, ma aveva sentito “puzza” di criminalità organizzata, come disse, e decise di rompere il muro dell’omertà.
Tanto bastò per decidere il blitz della primavera del 1883. Due anni dopo, nel 1885, ad Agrigento si tenne il maxi processo.
Le udienze si svolsero dal 2 marzo al 31 marzo del 1885 in una chiesa sconsacrata dedicata a Sant’Anna, nella via principale del capoluogo. Il processo riguardò il solo reato di associazione a delinquere. Vennero processati 168 affiliati, ma ad essi sono da aggiungere 23 imputati per omicidio.
Può essere pertanto considerato, con 191 imputati, il primo maxiprocesso contro la mafia. Il tribunale li ritenne tutti colpevoli e furono comminate naturalmente condanne a pene detentive diverse. L’organizzazione sopravvisse a se stessa, perché il suo modello organizzativo fu ripreso da molte cosche e si diffuse ovunque. BALARM 29.3.2021

 


La documentazione del Maxiprocesso, conservata al CIDMA di Corleone 

 

I NUMERI
  • Documentazione: 750.000 pagine
 IMPUTATI
  • 475 imputati (scesi a 460 durante il dibattimento)
  • 207 detenuti
  • 102 a piede libero o in libertà provvisoria
  • 44 agli arresti domiciliari
  • 121 latitanti
DURATA
  • Processo: 21 mesi, 638 giorni
  • Camera di consiglio: 35 giorni (387 ore)
  • Lettura della sentenza: 1 ora e mezza
FASE DIBATTIMENTALE
  • 22 mesi di dibattimento
  • 349 udienze
  • 8608 pagine di ordinanza-sentenza (40 volumi)
  • 1314 interrogatori
  • 635 arringhe difensive
ESITO
  • 346 condanne (74 in contumacia)
  • 114 assoluzioni
  • 19 ergastoli
  • 2665 anni di carcere
  • 11.5 miliardi di multe
PROTAGONISTI
  • 900 tra testimoni e parti lese
  • 200 avvocati difensori
  • 16 giudici popolari (tra effettivi e supplenti)
  • 3000 agenti delle forze dell’ordine
  • 600 giornalisti da tutto il mondo
  • 21 pentiti


DOPO L’OPERAZIONE DEL 29 SETTEMBRE 1984, IN CUI FURONO EMESSI 366 MANDATI DI CATTURA, SI RESE NECESSARIO INTERROGARE IN BRASILE DEI FIANCHEGGIATORI DI BUSCETTA CHE ERANO STATI ARRESTATI CON LUI MESI PRIMA. PER CUI, NEI MESI SUCCESSIVI, DA PALERMO PARTIRONO FALCONE, BORSELLINO, AYALA, I FUNZIONARI DI POLIZIA CASSAR
À E DE LUCA. ABBIAMO PROVATO A RICOSTRUIRE QUEL VIAGGIO NELLE NOTIZIE CHE DIRAMAVA L’ANSA. I COMPLICI DI BUSCETTA, DA INTERROGARE, ERANO: PAOLO STACCIOLI LORENZO GARELLO, GIUSEPPE FANIA, GIUSEPPE BIZZARRO E FRABRIZIO NORBERTO SANSONE.

La foto
   

 

ANSA NEWS

  • GIUDICI PALERMITANI PARTITI PER IL BRASILE – 18-NOV-84 00:33 I GIUDICI ISTRUTTORI DEL TRIBUNALE DI PALERMO GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO E IL SOSTITUTO PROCURATORE GIUSEPPE AYALA SONO PARTITI ALLE 23,40 DA ROMA PER RIO DE JANEIRO. IN BRASILE ASCOLTERANNO I QUATTRO SICILIANI ARRESTATI INSIEME A TOMMASO BUSCETTA LO SCORSO ANNO EALTRIAMICI PARENTI DEL BOSS MAFIOSO. I TRE MAGISTRATI SONO ARRIVATIALL’AEROPORTO DI FIUMICINO SOTTO SCORTA E SI SONO IMBARCATIDOPO AVER SOSTATO ALCUNI MINUTI IN UNA SALA RISERVATA. INSIEME CON LORO SONO PARTITI DUE UFFICIALI DIE CARABINIERI, UNO DELLAGUARDIA DI FINANZA E UN FUNZIONARIO DI POLIZIA
  • GIUDICI ITALIANI IN BRASILE  BRASILIA, 19 NOV. – IL GIUDICE PALERMITANO GIOVANNI FALCONE, INSIEME AL SOSTITUTO PROCURATORE GIUSEPPE AJALA ED ALCOMMISSARIO CAPO DELLA SQUADRA MOBILE, ANTONINO CASSARA’, E’ GIUNTO OGGI A BRASILIA DOVE, DOMANI POMERIGGIO, ASSISTERA’ ALLAROGATORIA DI FABRIZIO NORBERTO SANSONE E GIUSEPPE BIZZARRO, DUE PRESUNTI COMPLICI DI TOMMASO BUSCETTA, ENTRAMBI IN STATO DIARRESTO IN ATTESA CHE IL SUPREMO TRIBUNALE FEDERALE SI PRONUNCI SULLA RICHIESTA DI ESTRADIZIONE PRESENTATA DALL’ITALIA.SECONDO ALCUNE INDISCREZIONI I MAGISTRATI ITALIANI HANNO PRESENTATO A QUELLI BRASILIANI, CHE CONDURRANNO L’INTERROGATORIO, UN VOLUMINOSO FASCICOLO, CON MOLTE RICHIESTE DI CHIARIMENTI E LA ROGATORIA POTRA DURARE MOLTE ORE.FALCONE OGGI SI E’ INCONTRATO CON IL PROCURATORE GENERALEDELLA REPUBBLICA, CLAUDIO FONTELLES PER CONCORDARE LO SVOLGIMENTO DELLA ROGATORIA DI DOMANI. IL MAGISTRATO BRASILIANO AVEVA ANCHE CHIESTO A QUELLI ITALIANI INFORMAZIONISULLE DATE DI USCITA DALL’ITALIA DI SANSONE. FALCONE NONSI OCCUPERA’, INVECE, DELLA RICHIESTA, ALLA GIUSTIZIA DEL BRASILE,DELL’AUTORIZZAZIONE PER ESTRADARE TEMPORANEAMENTE NEGLI STATIUNITI TOMMASO BUSCETTA. QUESTA ISTANZA E’ STATA GIA’ PRESENTATA DALL’AMBASICATA DUE SETTIMANE FA.
  • MAFIA: GIUDICI ITALIANI IN BRASILE (2) 19-NOV-84 18:46  –  NELLA RICHIESTA DI ESTRADIZIONE L’ITALIA, PER EVITARE LA POSSIBILITA’ CHE +DON MASINO+ FOSSEDATO AGLI STATI UNITI, CHE AVEVANO PRESENTATO ISTANZA ANALOGA, SI ERA GIA’ IMPEGNATA A CONCEDERLO ALLA GIUSTIZIA NORDAMERICANA.MA PER IL TRASFERIMENTO OCCORRE L’AUTORIZZAZIONE BRASILIANA CHESPETTA AL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA ED E’ DATA PER SCONTATA.  L’ARRIVO DEI MAGISTRATI ITALIANI E DEI LORO COLLABORATORI (MENTRE FALCONE SI E’ RECATO A BRASILIA IL SUO COLLEGA PAOLOBORSELLINO, CON IL RESPONSABILE DELLA CRIMINALPOL, ANTONINO DE  LUCA HA RAGGIUNTO SAN PAOLO PER ASSISTERE ALLA ROGATORIA DI PAOLO STACCIOLI, ALTRO RESUNTO COMPLICE DI BUSCETTA) HA PROVOCATO GRANDE TUMULTO TRA GLI ORGANI DI INFORMAZIONE BRASILIANA. LA TELEVISIONE HA APERTO I NOTIZIARI CON LEIMMAGINI DI FALCONE E DEI SUOI COLLABORATORI, I GIORNALI PUBBLICANO FOTO E SERVIZI IN PRIMA PAGINA. +E’ ARRIVATO ILNEMICO NUMERO UNO DELLA MAFIA+, SCRIVE UN QUOTIDIANO CARIOCA.  I GIORNALISTI HANNO IERI PEDINATO I MAGISTRATI ITALIANI DURANTE TUTTI GLI SPOSTAMENTI A RIO DE JANEIRO OBBLIGANDOLI A RIENTRARE IN ALBERGO. I GIORNALI RIFERISCONO CON DOVIZIA DI PARTICOLARE I LOCALI CHE HANNO VISITATO, GLI ACQUISTI CHE HANNO FATTO, QUANTO HANNO SPESO PER I PASTI E QUANTO COSTAVANO LECAMERE DELL’ALBERGO CHE OCCUPAVANO.
  • GIUDICI ITALIANI IN BRASILE (3) – 19-NOV-84 18:52 (FALCONE, BORSELLINO E GLI ALTRISONO COSTANTEMENTE ACCOMPAGNATI DA AGENTI BRASILIANI ARMATI DIMITRAGLIATRICI. SI SPOSTANO SU AUTOMOBILI BLINDATE E DURANTE TUTTA LA LORO PERMANENZA IN BRASILE SARANNO SOTTOPOSTI ASEVERE MISURE DI PROTEZIONE
  • ALLARME DURANTE ROGATORIA IN BRASILE – 19-NOV-84 18:52  MOMENTI DI PANICO E TENSIONE DURANTE LAROGATORIA DI PAOLO STACCIOLI, IL PRESUNTO COMPLICE DI TOMMASO BUSCETTA ASCOLTATO QUESTA SERA ALLA PRESENZA DELGIUDICE SICILIANO PAOLO BORSELLINO E DI ALCUNI SUOI COLLABORATORI. ERA DA POCO COMINCIATA L’ UDIZIENZA QUANDO LE LUCI DELLA SALA SI SONO SPENTE LASCIANDO TUTTI AL BUIO. I POLIZIOTTI BRASILIANI HANNO IMMEDIATAMENTE BLOCCATO LE PORTE, C’ E’ STATOUN ATTIMO DI PAURA POI SONO STATI ACCESI I RIFLETTORI DELLE TELEVISIONI PRESENTI ED ANCHE L’ ENERGIA ELETTRICA E’ TORNATAQUASI SUBITO. SECONDO IL RESPONSABILI DEL PALAZZO DI GIUSTIZIA SI E’ TRATTATO DI UNA SEMPLICE GUASTO. PER LA VISITA DEI MAGISTRATI ITALIANI LA POLIZIA BRASILIANA HA ASSICURATO UN VASTO SERVIZIO DI SICUREZZA. A SAN PAOLO BORSELLINO ED I SUOI COLLABORATORI SONO PROTETTI COSTANTEMENTE DA 35 AGENTI E TUTTI I LOCALI CHE VISITANO SONO PREVENTIVAMENTE PERQUISITI.LO STESSO AVVIENE PER GIOVANNI FALCONE A BRASILIA.
  • PRIMA ROGATORIA IN BRASILE – 19-NOV-84 23:41 SAN PAOLO – ”SONO MOLTO SODDISFATTO, ABBIAMO RACCOLTO NOTEVOLISSIMI RISCONTRI CON LE DICHIARAZIONIGIA’ FATTECI DA TOMMSO BUSCETTA” , E’ QUANTO HA DETTO ALL’ ANSA IL GIUDICE PAOLO BORSELLINO AL TERMINE DELLA ROGATORIA DI PAOLO  STACCIOLI, PRESENTO COMPLICE DI ”DON MASINO” IN BRASILE, ALLA QUALE HA ASSISTITO INSIEME AD ALCUNI INVESTIGATORI PALERMITANI.  L’ INTERROGATORIO E’ STATO PUBBLICO, MA AI NUMEROSI GIORNALISTI CHE LO HANNO ACCOMPAGNATO IL MAGISTRATO ITALIANONON HA VOLUTO FARE DICHIARAZIONI. ”DA NOI – HA SPIEGATO – LA PROCEDURA PREVEDE IL SEGRETO ISTRUTTORIO PER QUESTA FASE,QUINDI SE DICESSI QUALCOSA LO VIOLEREI. DI FRONTE ALL’ INSISTENZA DEI GIORNALISTI BORSELLINO HA AGGIUNTO: ”L’ INTERROGATORIO DI UN TESTIMONE CHE ABBIAMO DECISO DI SENTIREFORNISCE SEMPRE ELEMENTI UTILI”.  PAOLO STACCIOLI, 47 ANNI, DA DIECI IN BRASILE, SI E’REGOLARMENTE PRESENTATO PER LA ROGATORIA, COME PROMESSO. BENABBRONZATO, ELEGANTE, HA NEGATO DI APPARTENERE ALLA MAFIA, HA  DETTO DI AVER CONOSCIUTO TOMMASO BUSCETTA CON IL NOME DI ROBERTO FELICE E DI NON AVER MAI LAVORATO PER LUI.  QUESTA PRIMA ROGATORIA HA, COMUNQUE, DIMOSTRATO CHE I MAGISTRATI ITALIANI SONO SOPRATTUTTO INTERESSATI AD AVER NOTIZIESULLA ”MAJOR KAY”, LA FABBRICA DI ARTICOLI SPORTIVI CHE SAREBBE STATA USATA PER RICICLARE IL DENARO DELLA BANDA DI ”DON MASINO” ED A FABRIZIO NORBERTO SANSONE, IL QUALE SARA’ INTERROGATO DOMANI A BRASILIA, PRESENTE IL GIUDICE GIOVANNI FALCONE.
  • BRASILIA, 21 NOV. 84  IL GIUDICE PALERMITANOGIOVANNI FALCONE ED I SUOI COLLABORATORI HANNO CONCLUSO OGGI LA LORO MISSIONE A BRASILIA (L’ALTRO GIUDICE PAOLO BORSELLINOCON IL CAPO DELLA SQUADRA MOBILE ANTONIO CASSARA’ SI E’ RECATO A BELO HORIZONTE PER ASSISTERE AD ALTRE AUDIZIONI) ASSISTENDOALL’INTERROGATORIO DI GIUSEPPE BIZZARRO, UN ALTRO DEI PRESUNTI COMPLICI DI TOMMASO BUSCETTA. BIZZARRO DOVEVA ESSERE SENTITOIERI, MA L’UDIENZA ERA STATA RINVIATA PERCHE’ QUELLA DEL SUO AMICO FABRIZIO NORBERTO SANSONE SI ERA PROTRATTA PER OLTRE TREORE.  IL DIFENSORE DI BIZZARRO HA SOLLEVATO UN’ECCEZIONE SOSTENENDO CHE EGLI, IN REALTA’, E’ JOSE’ CARLOS FATTORI LANZA”.  COMUNQUE, IL TESTE HA ACCETTATO DI DARE ALCUNI CHIARIMENTI CONFERMANDO LA SUA AMICIZIA CON SANSONE E GLI ALTRI PRESUNTIAPPARTENENTI AL GRUPPO DI DON MASINO. AL TERMINE IL GIUDICE FALCONE, IL SOSTITUTO PROCURATOREGIUSEPPE AJALA ED IL CAPO DELLA CRIMINALPOL DELLA SICILIAANTONINO DE LUCA, HANNO DETTO DI ESSERE RIMASTI MOLTO SODDISFATTI DEGLI ELEMENTI RACCOLTI IN QUESTE ROGATORIE ABRASILIA. FALCONE ED I SUOI COLLABORATORI RIPARTIRANNO DOMANI PER L’ITALIA. MAFIA: CONCLUSE ROGATORIE IN BRASILE.
  • BELO HORIZONTE, 21 NOV – SI E’ CONCLUSO QUESTA SERA A BELO HORIZONTE IL CICLO DELLE ROGATORIE DEI PRESUNTICOMPLICI DI TOMMASO BUSCETTA ALLE QUALI HANNO ASSISTITO I MAGISTRATI SICILIANI CHE SI OCCUPANO DELL’ INCHIESTA SULLAMAFIA. NELLA CAPITALE DELLO STATO DI MINAS GERAIS DOVEVANO ESSERE SENTITI LORENZO GARELLO E GIUSEPPE FANIA, TITOLARI DI UN’IMPRESA DI ABBIGLIAMENTO CHE HA AVUTO LEGAMI CON IL GRUPPO DI ‘DON MASINO” E CHE, SECONDO GLI INVESTIGATORI, POTREBBE ESSERE STATA USATA PER RICICLARE DENARO O COPRIRE ATTIVITA’ ILLEGALI.  DEI DUE TESTIMONI SI E’ PRESENTATO SOLO GARELLO. FANIA E’RISULTATO INTROVABILE E LA POLIZIA BRASILIANA NON HA POTUTO CONSEGNARGLI LA CITAZIONE. GARELLO, PRESENTE IL GIUDICE PALERMITANO PAOLO BORSELLINO, HA DETTO DI NON AVER MAI CONOSCIUTO BUSCETTA ED HA ADDOSSATOOGNI RESPONSABILITA PER QUANTO CONCERNE LEGAMI CON GLI ALTRIPRESUNTI COMPLICI DI ”DON MASINO” AL SUO SOCIO FANIA. LA DEPOSIZIONE E’ DURATA DUE ORE E HA PERMESSO AI MAGISTRATIITALIANI DI ACQUISIRE ULTERIORI DATI SULLE ATTIVITA’ DIBUSCETTA E DI ALTRI NOTI ESPONENTI MAFIOSI IN QUESTO PAESE.

Parole e silenzi al tempo del maxi processo  di Franco Nicastro Le forme teatrali, le parole allusive, i messaggi trasversali. Tutta la struttura del linguaggio era la fedele rappresentazione di un codice che nel tempo aveva mantenuto il suo impianto originario. Così la mafia aveva sempre comunicato. E così continuava a comunicare nell’aula bunker del maxiprocesso dove erano stati radunati i protagonisti della pagina più infame della storia siciliana. Si viveva un clima di attesa e di cambiamenti annunciati: per la prima volta lo Stato sembrava deciso a rispondere alla sfida prepotente della mafia. E noi cronisti eravamo eccitati non solo dall’idea di essere testimoni di una svolta epocale ma anche dal contatto ravvicinato con personaggi per lo più conosciuti attraverso il racconto mediato dalle carte giudiziarie. Ora quei nomi che evocavano trame, stragi e misfatti avevano un volto e quel volto faceva capolino dalle sbarre dell’aula bunker. Ma erano le parole a comporre una rappresentazione della mafia che cercava di offrire dei suoi profeti sanguinari un’immagine ora rassicurante ora suggestiva. Perfino cordiale. “Mi fa piacere rivederla” mi fece sapere, alzando dalla sua postazione il viso incorniciato da un sorriso, il boss che spesso incrociavo nelle aule di giustizia o al bar vicino al giornale. Vario era, nell’unicità degli obiettivi, il campionario degli stili comunicativi: quello beffardo di Luciano Liggio, quello curiale di Michele Greco il “papa”, quello finto e untuoso di Pippo Calò. Pur nella diversità delle forme, la linea comunque era una sola. E per noi cronisti più che scontata. Tutti erano lì a negare l’evidenza. La mafia? Liggio: “Non so cosa sia”. Le accuse? “Calunnie tetre e meschine” (ancora Liggio). Buscetta? “Lo manda qualcuno” (Pippo Calò). Ecco la teoria del complotto e della manipolazione delle prove: una grande mistificazione messa in piedi per trovare “capri espiatori” ma anche per costruire (i giudici e gli investigatori) visibilità mediatica e carriere. E i pentiti poi sono pronti a dire tutto per acquisire benefici a profusione. “Si prendono i soldi, si prendono lo stipendio, si prendono le ville” avrebbe detto Totò Riina dopo l’arresto. Erano messaggi rivolti non solo alla corte ma destinati soprattutto a una veicolazione interna e a un target esterno. Quei boss di alto rango parlavano ai giudici ma strizzavano prima di tutto l’occhio al popolo degli affiliati e dei gregari per tamponare frane e per riaffermare gerarchie. Si preoccupavano quindi di presidiare l’organizzazione. Parlavano anche ai giornalisti e, tramite loro, al grande pubblico. E per questo riconoscevano l’importanza dell’informazione e il potere evocativo della televisione. Non a caso Liggio avrebbe accettato, dopo il processo, di essere intervistato in tv da Enzo Biagi. Lo aveva fatto per rimettere in piedi, davanti a una platea ben più vasta, lo spettacolino recitato nell’aula bunker secondo il suo copione più consumato: sorrisino impertinente, orgogliosa distanza dai poteri dello Stato, risposte ironiche e divaganti. E nel momento topico la solenne rivendicazione di avere salvato la democrazia rifiutandosi di appoggiare il golpe Borghese. Appoggio che invece aveva dato Tommaso Buscetta. Doveva essere la chiusura teatrale ma il finale pieno di gloria era stato rovinato dal fatto che di quelle storie proprio Buscetta aveva parlato prima di lui. Tanto scenografico Liggio tanto cerimonioso e doppio Pippo Calò. Il suo linguaggio segnato dall’ambiguità era così fragile che a Buscetta risultò un gioco facile facile demolire la credibilità di Calò affibbiandogli, seduta stante, un omicidio: “Hai fatto fuori Giannuzzu Lallicata. Lo hai strangolato con le tue mani”. In quel momento veniva inesorabilmente demolita, insieme con l’immagine, anche la loquacità asfittica e ambigua del padrino che sfoggiava, pretendeva di sfoggiare, eleganza e buone maniere. Buscetta ha spiegato in questo modo il codice linguistico in uso a Cosa Nostra che Calò aveva cercato di replicare: “Gli uomini d’onore (…) parlano una loro lingua fatta di discorsi molto sintetici, di brevi espressioni che condensano lunghi discorsi. L’interlocutore, se è bravo o se è anche lui uomo d’onore, capisce esattamente cosa vuol dire l’altro. Il linguaggio omertoso si basa sull’assenza delle cose. I particolari, i dettagli non interessano, non piacciono all’uomo d’onore”. Vaghezza e inconcludenza si combinavano con l’obliquità incolore di Michele Greco (“La violenza non fa parte della mia dignità”) che proprio mentre la corte si ritirava in camera di consiglio per la sentenza mandò ai giudici la sua benedizione: “Io vi auguro la pace, signor presidente, la serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, sono parole di nostro Signore che lo raccomandò a Mosé. ‘Quando devi giudicare che ci sia la massima serenità’. (…) E io vi auguro ancora, signor presidente, che questa pace vi accompagnerà nel resto della vostra vita, oltre a questa occasione”. L’ambiguità del linguaggio era sottolineata dal riferimento insistito alla pace. “Si poteva pensare anche alla pace eterna” avrebbe poi scherzato, ma non troppo, il giudice a latere Pietro Grasso. E fin qui il copione era stato uniformemente interpretato. A spezzare il filo della recitazione sarebbe stato Giovanni Bontade. La mafia aveva ucciso un bambino, Claudio Domino. Ha sempre ucciso bambini, come qualcuno nega. Dalle sbarre si fece sentire l’accorato messaggio di Giovanni Bontade che prendeva le distanze dagli assassini per un delitto che avrebbe sottratto molto consenso a Cosa nostra: “Signor presidente, noi non c’entriamo niente con questo omicidio. È un delitto che ci offende e ancor di più ci offende il tentativo della stampa di attribuirne la responsabilità agli uomini processati in quest’aula. Anche noi abbiamo figli”. Chi aveva ideato quel messaggio aveva certamente sottovalutato l’implicita ammissione che in quell’aula si processava veramente la mafia. Anche per questo, rivelerà il pentito Francesco Marino Mannoia, Bontade venne fatto fuori. Con lui veniva archiviato un modello comunicativo che si irrigidiva nella negazione di un potere sanguinario e cercava di accreditare invece la continuità con il mito dei Beati Paoli: un’organizzazione segreta di giustizieri che difendeva il popolo dalle angherie dello Stato.La mafia stava già cambiando il suo stile e i suoi metodi. Da qui in poi non avrebbe negato più la sua esistenza ma avrebbe aperto nuovi canali di comunicazione con l’economia, la politica, la società. Avrebbe ucciso di meno, calato il sipario e si sarebbe nascosta dietro le quinte per fare meglio i propri affari.

Il 12 marzo 1992 venne ucciso, a Palermo, l’On. Salvo Lima.  Su tale omicidio, oggetto, peraltro, nell’originario unico procedimento, anche di una specifica imputazione a carico di Bernardo Provenzano poi, però, stralciata per le condizioni di salute di quest’ultimo imputato che non gli consentivano, all’epoca, la cosciente partecipazione al processo e che successivamente lo hanno condotto alla morte, è stata ugualmente svolta un ‘ampia istruttoria dibattimentale per la rilevanza che, secondo l’accusa, l’episodio ha avuto nell’evoluzione delle successive vicende che hanno dato luogo alla c.d. “trattativa Stato-mafia”. In particolare, sono state acquisite le dichiarazioni di numerosi collaboranti (tra i quali anche alcuni degli esecutori materiali dell’omicidio) ed sono state, altresì, acquisite le sentenze, divenute definitive, con le quali sono stati condannati alcuni esponenti dell’associazione mafiosa “cosa nostra” (tra i quali Salvatore Riina) quali responsabili dell’omicidio in questione (sentenza della Corte di Assise di Palermo nei confronti di Riina Salvatore +31 pronunziata in data 15 luglio 1998; sentenza della Corte di Assise di Appello di Palermo in data 29 marzo 2000; sentenza della Corte di Cassazione in data 27 aprile 200 I; e, successivamente a quest’ultima, sentenze della Corte di Assise di Appello di Palermo del 10 maggio 2002 nei confronti di Madonia Francesco ed altri e del 5maggio 2004 nei confronti di Aglieri Pietro ed altri). Per la ricostruzione del fatto, dunque, può certamente rinviarsi alle predette sentenze definitive, evidenziando soltanto che il primo parziale esito avutosi con la sentenza della Corte di Cassazione del 27 aprile 2001 prima ricordato è stato certamente influenzato dall’assenza di conoscenza di elementi di fatto soltanto successivamente acquisiti grazie ad ulteriori sopravvenute importanti collaborazioni con la Giustizia da parte di altri esponenti mafiosi. Basti pensare, per ciò che rileva in questa sede in relazione alle conclusioni del paragrafo precedente, ad esempio, con riguardo alla mancata prova di una riunione della “commissione provinciale” di Palermo precedente all’omicidio Lima, che tale riunione era stata allora riferita soltanto Brusca Giovanni ed è stata, pertanto, ritenuta non riscontrata nella sentenza della Corte di Cassazione del 27 aprile 2001. Nel ricordato paragrafo precedente, però, si è già dato conto della sopravvenuta collaborazione di Antonino Giuffrè avvenuta dopo il suo arresto in data 16 aprile 2002 e delle dichiarazioni da questi rese in proposito (“lo ho partecipato alla riunione in Cosa Nostra del dicembre del 91, se la memoria non mi inganna, dove appositamente c’è stata la famosa riunione della resa di conti tra Cosa Nostra e le persone ostili a Cosa Nostra, tra cui i politici da un lato e tra cui Salvo Lima e altri politici, e la resa dei conti nei confronti dei Magistrati, quali Falcone e Borsellino. Questo è stato fatto in una famosa riunione del 91, del dicembre del 91. Tanto è vero che poi nel 92 ci sarà l’uccisione di Lima e del dottore Borsellino, del dottore Falcone, eccetera, eccetera. Da tenere presente che nella lista dei politici vi erano … Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell’ambito politico, appositamente per il discorso che era partito politicamente della inaffidabilità, ed ecco il discorso dell’87, quando c’è stato il cambiamento di rotta, venivano… Erano stati considerati inaffidabili questi politici”). Ma, in ogni caso, anche dalla più riduttiva sentenza della Suprema Corte prima ricordata, ancora per quel che rileva in questa sede, in estrema sintesi, si ricavano, comunque, l’esistenza di risalenti rapporti tra l’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e l’On. Lima (v. la citata sentenza della Corte di Cassazione: ” … l’on. Lima, figlio d’uomo d’onore, aveva coltivato legami, per scambio di favori con uomini d’onore, quale esponente rappresentativo del partito di maggioranza in Sicilia, già all’epoca in cui era sindaco di Palermo, e sino alla sua morte, quando era parlamentare europeo … “) e la riconducibilità dell’omicidio alla stessa “cosa nostra” (ibidem: ” … l’induzione univoca che il delitto sia frutto del concorso di più persone, per ragioni di mafia … “). Quanto al ruolo della “commissione provinciale”, d’altra parte, anche la successiva sentenza pronunziata dalla Corte di Assise di Appello in sede di rinvio il 10 maggio 2002 (divenuta irrevocabile ed acquisita agli atti), sulla scorta di precise risultanze probatorie (nonostante non fosse ancora sopravvenuto l’apporto collaborativo di Giuffrè), ha evidenziato “come in svariati ambienti di cosa nostra si fossero fatti strada, ancor prima della conclusione del maxiprocesso, sentimenti di forte ostilità nei confronti di Lima, circostanza questa che già di per sé porta ad escludere che la decisione di uccidere tale uomo politico possa essere stata il frutto di una autonoma decisione di Salvatore Riina”, concludendo che, fermo restando la necessità di individuare le responsabilità individuali dei componenti della “commissione provinciale”, la regola che assegnava a quest’ultima la decisione di simili delitti “era, all’epoca del delitto Lima, ancora pienamente attuale”. La medesima sentenza, nel contempo, ha confermato anche la causale dell’omicidio in esame nel risentimento nutrito dai mafiosi nei confronti di quell’uomo politico accusato di inerzia riguardo alle aspettative dei mafiosi medesimi. Nel presente processo, quindi, ancora in sintesi, sono stati, innanzitutto, ulteriormente confermati i rapporti tra esponenti di “cosa nostra”, tra i quali specificamente Salvatore Riina per il tramite dei cugini Antonino e Ignazio Salvo, e 1’on. Salvo Lima (v. dich. Giovanni Brusca: ” … il contatto con l’onorevole Lima era più quasi esclusiva di Totò Riina … …… Sì, attraverso i cugini Salvo … …. … il rapporto con i Salvo era privilegiato esclusivamente con Totò Riina …. … …. i Salvo erano cugini, uomini d’onore. appartenevano alla famiglia di Salemi ed erano autorizzati a poter contattare … cioè, poter avere rapporti direttamente con Riina senza l’autorizzazione del loro capo famiglia o capo mandamento”) e, più in generale, il ruolo di quest’ultimo di “referente” dell’associazione mafiosa per i rapporti di questa con gli ambienti politici. In proposito, oltre alle dichiarazioni dell’imputato Brusca Giovanni, possono ricordarsi le dichiarazioni di Giuffrè Antonino, il quale, pur riferendo di non avere mai personalmente conosciuto l’On. Lima, ha, però, confermato, appunto, che quest’ultimo costituiva il principale referente provinciale dell’organizzazione mafiosa (” .. era il referente ufficiale di Cosa Nostra a livello provinciale. Le posso tranquillamente dire che nel nostro mandamento (PAROLA INCOMPRENSIBILE) era … Si votava per gli uomini del Riina, per la corrente di Riina … di Lima. chiedo scusa …. … … Quello che mi risulta, a partire da Stefano Bontade. Michele Greco, Salvatore Riina e così via di seguito. Tutti diciamo gli esponenti più importanti di Cosa Nostra. in modo particolare a livello della provincia di Palermo erano in contatto con l’Onorevole Lima …. … … .Il referente, per quello che ricordo. diciamo che il principale era lui, faceva parte della corrente di Andreotti, vi erano anche altri personaggi importanti quali i cugini Salvo, Ignazio e Nino Salvo, Vito Ciancimino, questi sono quelli più importanti che mi ricordo. Cioè poi altri personaggi importanti potevano essere Mannino, per ipotesi, sull’agrigentino questi sono i personaggi più importanti che mi ricordo in questo momento”). Contatti addirittura personali, poi, sono stati riferiti sia da Siino Angelo che da Di Carlo Francesco. Il primo, in particolare, nel corso del suo lungo esame, ha, tra l’altro, appunto riferito che nella sua attività concernente la gestione degli appalti per conto di “cosa nostra” egli aveva come referente politico l’Ono Lima (“Debbo dire che anche politicamente sono stato accreditato perché il mio referente politico, che allora era l’Onorevole Salvo Lima, mi disse: tu guarda che da questo momento in poi gestisci gli appalti per conto mio e per conto di altri .. “) e che, per tale ragione, i rapporti si erano via via intensificati e mantenuti sino al suo arresto nei 1991 (“Allora, debbo dire che ho avuto, avevo una (PAROLA INCOMPRENSIBILE) per ragioni politiche la frequentazione con l’Onorevole Lima. Debbo dire che queste frequentazioni politiche che avevano, erano conseguenti al fatto che io ero Consigliere Comunale di San Giuseppe lato per quindici anni all’incirca, con. .. Della Democrazia Cristiana, per questo avevo modo di avere conosciuto sia il Lima e di avere dei rapporti con lo stesso. Debbo dire che immediatamente dopo il mio inizio di collaborazione con la questione degli appalti, debbo dire che questo rapporto si intensificò e io, malgrado il relativo ruolo non di vertice che avevo, sia in Cosa Nostra, sia in politica, praticamente continui ad avere un rapporto più diretto con lo stesso. Rapporto che si è protratto fino al mio primo arresto. Stiamo parlando del luglio 1991… … . .. avevamo un rapporto che naturalmente anche per la differenza di età lui mi dava dell’Angelo del tu e io lo citavo Onorevole, ci dicevo Onorevole, e questo era il tipo di rapporto. Lui mi diceva spesso e mi sollecitava: evitiamo sta camurria di Onorevole e io ci dicevo … Insomma, finivo sempre con il chiamarlo Onorevole. Debbo dire che la frequentazione nostra avveniva la mattina presto, nella sua villa di Mandello, era una villa che lui aveva comprato da un mio amico che era perito nella famosa cosa di … L’aereo che era caduto su Montagna Longa e poi debbo dire che lui mi riceveva nei luoghi più impensati, anche la sua segreteria sita nel grattacielo che c’era in Via Emerico Amari e poi alle volte, quando veniva da Roma, sia tardi che presto, comunque mi doveva, mi diceva che questo rapporto doveva restare riservato perché praticamente si ni sbentano, questo era il suo modo di parlare, che era un modo di parlare molto palermitano, si ni sbentano semu consumati, per cui evidentemente cerca di stare più attento possibile anche nei tuoi interessi, nel tuo interesse. Cioè, mi metteva in guardia che con il fatto che si scopriva questa cosa, saremmo finiti non nei guai, ma nei guai più terribili, in effetti cosa che è successa”), tanto che proprio l’On. Lima gli aveva consegnato una copia del rapporto “mafia e appalti” (” .. io sapevo nei minimi particolari quale era il contenuto del rapporto mafia e appalti e questo rapporto mi fu dato, principalmente dato, proprio materialmente consegnato dall’Onorevole Lima, Lima Salvatore, che praticamente mi disse che gli avevano dato questo rapporto e che praticamente mi disse di stare attento .. “) dopo avergliene parlato per la prima volta circa sei o sette mesi prima del suo arresto (” .. praticamente diciamo un sei mesi – sette mesi prima ho avuto conoscenza di questo rapporto e se non mi sbaglio uno dei primi che me lo mostrò, e non so se fu il primo, è stato l’Onorevole Lima, che prima mi avvisò verbalmente e poi mi disse stai attento ca viri ca sti sventaru. La sventata era il fatto che avevano potuto sapere di quella che era la mia attività nel settore degli appalti, che però io capii che c’era del dolo quando ho capito che c’era notizia di questa mia attività nel settore degli appalti, ma non c’era effettiva notizia di quel che era il settore degli appalti in Sicilia, che era veramente una cosa enorme … “). Di Carlo Francesco, invece, ha raccontato di avere conosciuto Salvo Lima sin dagli anni sessanta (“.. L’Onorevole Lima … Ci sono stati, tante volte a Palermo, tante volte a Roma, molte volte c’è stato Nino Salvo di presenza e … Frequentazioni, non ero la persona che andava a chiedere posti di lavoro o chiedere … Così, va bene. Forse per questo mi frequentavo di più, perché non ho chiesto mai, solo … Anzi, lui mi ha chiesto una volta un piacere, perché non so se era suo figlio o era figlio del fratello, no, il figlio del fratello era, che ha voluto aprire un laboratorio, era medico, giovanissimo, ad Altofonte, e allora la prima cosa che ha fatto, fammelo sapere, ci siamo incontrati, ti raccomando stu ragazzo. E ha aperto, ma poi è stato un anno e se ne è andato… ‘” … L’Onorevoie Lima l’ho conosciuto quando era già a Palermo, l’ultimo periodo, che era Sindaco, credo che era l’ultimo anno, poi è diventato parlamentare. L’ho conosciuto non mi ricordo in quale occasione, però l’ho conosciuto. Non so se è stato Nino Salvo o Ignazio Salvo a presentarmelo … ‘” … Anni 60″) e che, da allora, lo aveva molte volte incontrato presso il suo ufficio ricevendo sempre un trattamento di riguardo (” .. da Lima c’era sempre una sala d’aspetto che aspettavano tutti, quello che non aspettava ero io, basta che ci facevo sapere, subito mi faceva entrare. C’era un professore che ci faceva da segretario che mi conosceva, non mi ricordo come si chiamasse, e entravo .. “). Tra i tanti incontri, Di Carlo, inoltre, ha ricordato di avere partecipato nel 1980 ad una riunione nell’ufficio dell ‘On. Lima a Roma (” .. è stato nell’80, a fine 80, che c’è stata una riunione e io ero nell’ufficio di Lima a Roma intendo .. “) cui erano presenti, tra gli altri, il Gen. Santovito, l’Avv. Guarrasi e Nino Salvo. Giuffrè Antonino, quindi, ha riferito l’insoddisfazione che montava sempre più nell’ambito di “cosa nostra” per il più recente operato dell ‘On. Lima, tanto che già alcuni mesi prima della riunione della Commissione del dicembre 1991, nella quale, poi, Riina avrebbe ufficialmente comunicato la decisione di uccidere, tra gli altri, anche Salvo Lima, egli era stato informato da Bernardo Provenzano di quell’intendimento (v. dich. Giuffrè: “Diciamo che i primi discorsi, come è venuto fuori ieri, sono stati in un periodo anche antecedente al dicembre del 91, del discorso in seno alla Commissione. Diciamo che con Bernardo Provenzano, come è stato io magari non mi ricordavo, è venuto fuori nel discorso di ieri già con il Provenzano e antecedente a questa data mi aveva detto che prima o poi doveva essere eliminato il Lima. Ora, cioè, non mi vado a ricordare se sia il 90, se sia il 91, quando è stato questo non lo so. Dice: prima o poi va a sbattere e ci rompemu i corna. Chiedo scusa per il termine che è un pochino brutale, che dico. 11 tutto poi diciamo si è enunciato sempre in quella riunione di cui abbiamo parlato, dal dicembre del 91, sulla resa dei conti, dove l’Onorevole Lima, l’Onorevole Andò e l’Onorevole Mannino e l’Onorevole Vizzini, questi sono i nomi che io mi vado a ricordare, e in più Falcone, il dottore Falcone e il dottore Borsellino, in quella data di cui ho detto, nel dicembre del 91… … . .. Antecedentemente alla riunione del 91, non ho un ricordo preciso di un discorso antecedentemente al 91. Probabilmente che vi sono stati anche altri discorsi in precedenza che andavano ad interessare sempre altri soggetti… … … sto parlando di discorsi nell’ambito della commissione o anche di riunioni ristretto in seno a Cosa Nostra, e in modo particolare quando parlo di questo, parlo sempre della presenza di Salvatore Riina. Se non vado errato, anche in altre circostanze, in altre circostanze, ora non mi vado a ricordare se sia un discorso a livello di commissione completa o se riunioni ristrette o meno, si è parlato sempre, o per meglio dire ha parlato il Salvatore Riina di questo malcontento, di questo malessere e dell’eliminazione di questi soggetti, tra cui Lima, il dottore Falcone e il dottore Borsellino. Se la memoria non mi inganna, c’è stata qualche altra occasione in cui con il Riina si è parlato di questo … … … Diciamo che le posso tranquillamente dire che Lima ormai nel periodo di cui io ne posso parlare, dall’87, 88, 89, 90, cioè in modo cioè ne ho detto anche in particolare sul finire degli anni 80, per meglio dire, motivi che si era defilato, le ho detto anche i motivi che se ne è andato, si era portato alle europee, aveva abbandonato. Cioè, già diciamo che c’erano dei discorsi non solo per quanto riguarda il Provenzano, ma discorsi all’interno di Cosa Nostra, che già era considerato come un traditore per avere abbandonato quelli che erano gli interessi di Cosa Nostra. E già, cioè, questo discorso su Lima mi viene fatto, come ho detto, però non sono in grado di andare a quantificare se sia stato sei mesi, otto mesi o nove mesi prima del discorso … Se ne parlava all’interno di Cosa Nostra e me ne aveva parlato anche il Provenzano sui discorsi di Lima e che prima o poi doveva essere … Andava a sbattere perché veniva ad essere ucciso. Ma era un discorso che ormai diciamo all’interno di Cosa Nostra era … Era questione di tempo … “). La decisione di uccidere I ‘On. Lima, infine, matura alla vigilia della sentenza della Corte di Cassazione nel c.d. maxi processo, quando è ormai chiaro, con la sostituzione del Presidente Carnevale, che l’esito sarebbe stato negativo per i mafiosi (v. dich. Brusca: ” ….. si poteva salvare se l’onorevole Lima avrebbe portato un risultato positivo per Cosa Nostra …. “). Tale causale è stata, altresì, confermata anche In questo processo da due esponenti mafiosi particolarmente vicini ai “corleonesi”. Ci si intende riferire a Di Matteo Mario Santo, il quale, pur precisando di non sapere nulla del fatto materiale, non ha avuto il minimo dubbio nel ricollegare tanto l’uccisione dell’On. Lima, quanto quella successiva di Ignazio Salvo, al mancato interessamento degli stessi affinché nel giudizio di cassazione le condanne dei mafiosi fossero annullate (” … perché non si interessavano del Maxi Processo, c’è stato pure questo, non c’era interessamento sul Maxi Processo … … . … Si dovevano interessare sul Maxi Processo per non fare condannare diciamo le persone, su questo era. .. Invece non hanno fatto niente .. “); e a Gioacchino La Barbera, il quale ugualmente ha richiamato la medesima causale (“Le motivazioni erano appunto la sentenza che c’era stata in Cassazione nel 91, dove avevano confermato il teorema Buscetta, confermate le condanne e da allora si è partiti con questa strategia … .. …. Come esito, c’era sempre ottimismo, almeno quello che si diceva per non mettere paura alle persone che erano già state condannate o quelle che erano in attesa di giudizio, c’era ottimismo nell’aria, però in realtà, perché forse qualcuno aveva promesso che andava meglio, ma poi le cose sono andate male e allora si è incominciato con questo tipo di strategia … “). Ancora nel presente processo, una indiretta conferma della riconducibilità dell’omicidio Lima al volere della “commissione” per le ragioni prima esposte si trae dalle dichiarazioni di Tranchina Fabio, dalle quali è possibile, infatti, ricavare il coinvolgimento conoscitivo – e, quindi, decisionale stante l’importante ruolo ricoperto nell’ambito della “commissione” provinciale – di Giuseppe Graviano (v. dich. Tranchina: “Per quanto riguarda l’omicidio Lima, come ho anche dichiarato durante gli interrogatori, quando ci fu l’omicidio Lima Giuseppe Graviano mi disse espressamente di non andare nella zona di Mondello …. … … Prima, prima …. … .. ma sarà stato qualche giorno prima, una settimana prima, mi disse: “Non andare nella zona di Mondello in questo periodo ” … … … non mi ricordo se me lo disse tre, quattro, cinque giorni prima, nel momento in cui ci fu l’omicidio tutti i capimmo che il motivo era questo di qua, che non dovevamo recarci nella zona di Mondello”). Da FRATERNO SOSTEGNO AD AGNESE BORSELLINO


Il Maxiprocesso 30 anni dopo

Che fine hanno fatto i boss dopo la sentenza che riconobbe l’esistenza di una organizzazione verticistica. Ripercorriamo quella stagione che vide per la prima volta alla sbarra l’aristocrazia delle cosche. Una battaglia non ancora finita
E tra i padrini della Norimberga di Palermo c’è chi sogna ancora di rifare la Cupola
Sarà ancora vivo quello che si mangiava i chiodi per far finta di essere pazzo? Come si chiamava? Sinagra Vincenzo detto Tempesta, da non confonderlo con suo cugino – si chiamava come lui, Sinagra Vincenzo – che per tutti gli altri era pazzo per davvero perché si era pentito. E il vecchio Mario Labruzzo della Guadagna, è morto nel suo letto o è morto sparato? E che fine ha fatto Pietro Alfano “U’zappuni” per gli incisivi a forma di zappa? E Giovanni Di Giacomo “Il Lungo”? E Ludovico Bisconti di Belmonte Mezzagno? E Vincenzo Buffa? E Gioacchino Cillari? E Rocco Marsalone? Chissà dove sono finiti quelli del maxi processo di Palermo, la “crema” di Cosa nostra processata e condannata nel dibattimento che trent’anni fa – dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre del 1987 – segnò l’inizio della fine di una mafia padrona.
In quei mesi erano tutti lì, aggrappati alle sbarre e rinchiusi per la prima volta come animali in trenta gabbie disposte a semicerchio e affacciate su una gigantesca piazza che sembrava un Colosseo tecnologico, telecamere sospese nell’aria, microfoni, metaldetector, porte blindate, un camminamento sotterraneo – ad uno ad uno ci passavano loro, i 475 imputati – che dall’Ucciardone portava all’aula bunker.
Dove sono oggi i sopravvissuti alle indagini del giudice Falcone? E che cosa fanno? E quanti se ne sono andati per cause naturali o per qualche «conto» che avevano in sospeso, come quell’ Antonino Ciulla che a poche ore dalla fine di tutto si ritrovò con un colpo alla schiena e con la faccia imbrattata dalla ricotta dei cannoli comprati per festeggiare l’assoluzione?
Sfogliando l’album del maxi processo è come fare un salto nel passato. E a volte nel futuro. Qualcuno ha sempre in mente di rimettere su la Cupola.
Fra reperti di archeologia mafiosa e nostalgici che non si arrendono mai, il nostro viaggio dentro la Cosa nostra degli Anni ’80 non vi farà mancare qualche sorpresa.
Quelli che avevano una certa età già allora – dalla classe 1908 alla classe 1912 – ovviamente non ci sono più. Il più longevo, Procopio Di Maggio, i suoi 100 anni li ha celebrati un mese fa con i fuochi d’artificio a Cinisi, il paese di Peppino Impastato. Ma non c’erano già più neanche quando li avevano condannati – alla fine del 1987 – nemmeno Calogero Bagarella (ucciso in viale Lazio nel dicembre ‘69), Saro Riccobono (strangolato alla Favarella nell’82) e Filippo Marchese (vittima della lupara bianca in imprecisato giorno fra l’83 e l’84), la cui sorte fu rivelata in seguito da pentiti che confessarono le loro colpe in altri processi. Vivo e all’ergastolo per l’omicidio di un carabiniere è Masino Spadaro, un contrabbandiere che per quanto era ricco si autodefiniva l’«Agnelli di Palermo». Un paio di anni fa si è laureato in Filosofia nel carcere di Spoleto, la sua tesi: «La non violenza e i fondamenti della religione di Gandhi».Vivo e residente a Corleone è Carmelo Gariffo, nipote prediletto di Bernardo Provenzano. Vivo e libero è Pino Lipari, iscritto all’albo dei geometri ma in realtà diventato dopo il maxi una sorta di ministro dei Lavori Pubblici dei Corleonesi. Vivi e detenuti i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, al tempo sconosciuti ragazzini di Brancaccio e poi meglio conosciuti come “i Graviano delle stragi”. C’è chi ha scontato la sua pena come Giovanbattista Inchiappa e fa l’elettricista, c’è chi è stato assolto come Giuseppe Urso e ha aperto una vineria, c’è chi ha preferito «cantare» come Salvatore Cocuzza, c’è chi si è suicidato come Giuseppe Giacomo Gambino e chi trafficava in morfina base ed è sparito dall’altra parte del mondo come il malese Lam Sing Choy. Ci sono capi sottoterra come Luciano Liggio e Bernardo Brusca e capi ai loro ultimi giorni come Totò Riina e Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Morto Buscetta negli Usa, ancora vivo da qualche parte in Italia Totuccio Contorno.
Ci sono famiglie scomparse dal panorama criminale e altre sempre presenti. Di Vernengo al maxi processo ce n’erano 5, di Tinnirello 8, di Fidanzati 5. Ma i più numerosi erano i Greco: 10. Una stirpe. Greco Giuseppe fu Nicola, Greco Ignazio fu Vincenzo, Greco Leonardo, Greco Nicolò, Greco Salvatore fu Giuseppe e Greco Giuseppe fu Salvatore, Greco Salvatore fu Pietro, Greco Salvatore fu Salvatore. E poi Michele Greco, il signorotto di campagna che i Corleonesi fecero «Papa» e che augurò la «pace eterna» al presidente della Corte Alfonso Giordano e al giudice Pietro Grasso mentre si ritiravano in camera di consiglio. Morto nel 2009, all’età di 84 anni, a Rebibbia. Morto nel 2011, all’età di 58 anni, anche suo figlio Giuseppe, uno dei pochi assolti del maxi che poi aveva cambiato nome (Castellani, quello della madre) e si era lanciato senza troppe fortune nel cinema. Produttore di una commedia all’italiana – “Crema, cioccolata e paprika” con Barbara Bouchet e Franco Franchi – e regista de «I Grimaldi», una saga familiare dove la mafia «buona» (quella di suo padre) si contrapponeva alla mafia «cattiva» della droga. Ma accanto ai personaggi più pittoreschi ci sono gli in- tramontabili. Come Benedetto Capizzi, condannato a 8 anni e tornato alla ribalta nel 2008 per avere riunito un po’ di «vecchi amici» per rifondare la Commissione di Cosa nostra. Arrestato in diretta dai carabinieri: potenza della microspie. O come Salvatore Profeta, 6 anni al maxi e scarcerato per la revisione del processo Borsellino, che nel dicembre scorso chiacchierava con i suoi di Villagrazia firmando il ritorno in cella: «Quando c’era Stefano Bontate, in famiglia eravamo 100-120, oggi solo 20-30…». Ci riprovano sempre.
Avverte il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi: «Anche dopo tanto tempo abbiamo la certezza che tentano sempre di rigenerarsi e che le regole dell’associazione restano immutate, la mafia continua a fare la mafia». Gli scarcerati del maxi processo sono sempre sotto controllo. Il più illustre a piede libero al momento è uno che era stato assolto, Giuseppe Guttadauro. Primario di chirurgia al Civico e capo-mandamento di Brancaccio, è il boss che ha messo nei guai il governatore Totò Cuffaro. Il dottore Guttadauro fa il volontario in una onlus a Roma. Come libero è anche Alessandro Bronzini, conosciuto come “Il Vampiro” perché amava uscire solo di notte. Bronzini fa il pittore, dipingeva in cella anche i quadri che Liggio spacciava per suoi e uno schizzo del nottambulo è diventato la quarta di copertina dell’”Altra faccia dei pentiti”, libro di Rosalba Di Gregorio. Nel 1986 era una ragazzina che difendeva undici imputati, noi l’avevamo chiamata «l’avvocatessa del diavolo». Oggi è una bella signora che guarda al maxi sempre con la sua cultura libertaria e radicale: «Il processo ha una sua sacralità e sono ancora convinta che la formale parità delle parti allora non è stata rispettata». La Di Gregorio aveva fra i suoi clienti anche Vittorio Mangano, quello passato alla storia come lo “stalliere” di Berlusconi. Deceduto il 23 luglio del 2000.
Una mattina di questo febbraio 2016 siamo tornati all’aula bunker. Deserta. Dall’altra parte, in via Albanese numero 3 – un indirizzo che a Palermo conoscono tutti – c’è il portone dell’Ucciardone. Non c’è più un solo mafioso rinchiuso lì dentro, tutti deportati al 41 bis lontano dalla Sicilia dalla notte che uccisero Borsellino. Su un bastione del carcere sventolano due bandiere, una dell’Europa e un’altra dell’Italia. A pochi metri, sempre in via Albanese, al civico 46, sventolano altre due bandiere dell’Europa e dell’Italia. È l’ingresso dell’Ucciardhome, hotel a quattro stelle, legni, marmi, archi di pietra, design minimalista. Un’altra Palermo   La Repubblica del 29 febbraio 2016 Attilio Bolzoni

 

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