RICCIO, ILARDO e la mancata cattura di PROVENZANO




PROVENZANO NON L’HANNO VOLUTO ARRESTARE

 

L’INCONTRO CON ILARDO«Dietro alle bombe e alle stragi ci sono sempre gli stessi ambienti»

INTERVISTA – Parla Michele Riccio, già colonnello dei carabinieri. Abbiamo diviso l’intervista in più parti per affrontare nel modo migliore i vari argomenti trattati. Tutto ruota intorno alla figura del collaboratore di giustizia Luigi Ilardo, ucciso a Catania il 10 maggio del 1996, con otto colpi di pistola. Un omicidio eccellente? Un omicidio di Stato? I due si erano messi in testa di arrestare Provenzano, all’epoca la mente criminale di Cosa nostra. Ed era tutto pronto per il blitz. Binnu u tratturi verrà arrestato undici anni dopo. Chi non ha voluto mettere le mani sul Capo della mafia siciliana?

Una storia sbagliata. Per chi reggeva, e regge ancora, certi fili (mortali) in un Paese, da secoli, impregnato dalle schifose mafie. Questa è la storia di due uomini apparentemente diversi tra di loro: un uomo di Stato e un uomo di mafia. Uniti dallo stesso obiettivo: catturare latitanti e stanare un boss scomparso nel nulla. L’uomo di Stato si chiama Michele Riccio ed è un colonnello dei carabinieri di stanza alla Dia di Genova, proveniente dai Ros (Raggruppamento operazioni speciali). Nella sua attività professionale ha incontrato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con il quale ha collaborato nel nucleo antiterrorismo. Si è occupato di massoneria, di strategia della tensione. L’uomo di mafia, invece, si chiama Luigi Ilardo, cugino di Giuseppe Madonia, detto Piddu. Detenuto presso il carcere di Lecce.

«Mi chiamo Ilardo Luigi, sono nato a Catania il 13 marzo del ‘51. Attualmente ricopro l’incarico di Vice rappresentante provinciale di Caltanissetta, coprendo anche l’incarico di Provinciale in quanto il Provinciale Vaccaro Domenico, attualmente si trova detenuto. Ho deciso formalmente di collaborare con la giustizia dopo essermi reso conto di quello che effettivamente ho perduto durante questi anni passati lontano dai miei familiari e dai miei figli, nella speranza che il mio esempio possa essere di monito e d’aiuto a ragazzi, che come me, si sentono di raggiungere l’apice della loro vita entrando in determinate organizzazioni».

Ilardo decide di “saltare il fosso” perché quella Cosa nostra non gli piace più. Non si riconosce in quella organizzazione composta da animali assetati di sangue. E inizia a fidarsi di un uomo in particolare. Insieme si trovano a combattere una “guerra” che lo Stato, composto dai vari Tinebra (massoni e pericolosi traditori), non vuole vincere. Che fa solo finta di combattere, per carrierismo dei collusi. E la storia di questo Paese ne è piena.

La collaborazione tra Riccio e Ilardo sembra procedere bene. Arrestano diversi latitanti. Ma l’obiettivo principale, Bernardo Provenzano, sfumerà all’ultimo secondo. Inspiegabilmente. Per il volere di pezzi deviati dello Stato, per una Trattativa Stato-mafie (iniziata con l’arrogante e violenta imposizione dell’Unità d’Italia) mai terminata.

Ilardo, poco dopo, verrà ammazzato, a colpi di pistola, a Catania. Senza alcuna protezione. Per una soffiata massonica degli apparati deviati dello Stato.

Riccio, nel 1997, verrà arrestato dai Ros. Per il suo impegno sul fronte antimafia? È la storia che si ripete ciclicamente, è la tecnica utilizzata in molte occasioni: delegittimare e infangare il “nemico” per renderlo inoffensivo.

Provenzano, il vecchio boss malato, diventato inutile per il “sistema”, verrà arrestato nel 2006, undici anni dopo. Dopo 43 anni di beata latitanza, dopo tre anni dalla cattura di Totò Riina, detto u curtu.

Benvenuti nel Paese degli annunci, degli slogan, delle commemorazioni, degli show e della memoria corta. La lotta alle mafie è diventata una vetrina per fare carriera. Perché chi tocca realmente, consapevolmente ed inconsapevolmente, certi fili (dove passa una corrente ad alta tensione politico-massonica-affaristica) “muore”. Ed esistono tanti tipi di morte.  

Abbiamo raccolto la testimonianza del colonnello Riccio (ora in pensione con il grado di generale, «mi sento colonnello, questo grado l’ho conquistato sul campo»), per comprendere il suo punto di vista.

Questa è una storia sbagliata, come tante altre, realmente accadute in un Paese orribilmente sporco. «Ho ricevuto l’incarico – esordisce il colonnello – dal dottor De Gennaro di incontrare in carcere Ilardo, se non ricordo male era a Lecce, in quanto gli aveva scritto, mandando alcune indicazioni dalle quali si comprendeva che era disposto ad offrire una collaborazione informale in merito ai mandanti esterni delle stragi

Perché De Gennaro si affida a lei? «Già in passato avevo gestito collaboratori di livello come Patrizio Peci, tanto per fare un nome. Ed altri collaboratori importanti. Ero specializzato anche in operazioni sotto copertura con indagini in Sud America. Il dott. De Gennaro già mi conosceva. Mi dice: ‘sei l’elemento giusto per andare a parlare con Ilardo’. E così vado a Lecce e incontro Ilardo nel carcere e comincia ad imbastirsi, piano piano, una collaborazione con Ilardo».

Quando incontra Ilardo che sensazione prova, chi si trova davanti?  «Sono abituato a trattare con le persone e parlo sempre all’uomo e, diciamo, a ciò che rappresenta. Una prassi che ho sempre condotto, in cui credo, che mi ha sempre portato ad avere una collaborazione forte, umana e seria. Per cui mi trovo di fronte una persona che vedo ormai distante dalle connotazioni di Cosa nostra. Era fortemente critico, lo vedo molto legato ai rapporti e alla famiglia e ciò nonostante che gli mancasse poco alla sua scarcerazione. Questo è un dato che comincia a convincermi. La convinzione avviene nel prosieguo del rapporto. Mi fa pensare che Ilardo realmente voglia staccarsi da quel mondo verso cui è critico e mi fa degli esempi che vanno da come è stata trattata la sua famiglia, da Cosa nostra che non era più quella di un tempo. Mi porta degli esempi, anche dal punto di vista umano, per far comprendere che Cosa nostra era mutata. Parla degli attentati stragisti. Diciamo questa è la parte umana. Vedo un uomo colpito nel profondo dell’anima, che vuole recuperare quel po’ di umanità e di famiglia che gli è rimasta.»

Ilardo, catanese e cugino di Piddu Madonia, era vicino ai Corleonesi, la fazione vincente.  «Già sapevo chi avrei incontrato e sapevo anche il suo ruolo. Anche perché, poi, Ilardo, sempre nel primo incontro, che per me è illuminante, perché avevo già lavorato con il generale Dalla Chiesa e con il colonnello Bozzo (diventato generale dei carabinieri, già braccio destro del generale ucciso da Cosa nostra e comandante della divisione Pastrengo, nda) su quella frangia di potere deviato, con i suoi collegamenti con la massoneria e l’estremismo di destra con il supporto dei servizi segreti per quella che verrà chiamata la strategia della tensione. Fa il nome di un massone torinese, ma di origini siciliane, Savona Luigi, che era già emerso nelle indagini su Ordine Nuovo. Finalmente una conferma per fare chiarezza sui mandanti esterni. Di questo fatto ne do notizia a De Gennaro e al colonnello Bozzo. Quando mi fa quel nome, a me personalmente, mi da la conferma che eravamo messi sulla strada giusta per fare luce. E lui mi dice che se fosse stato mostrato qualche elemento del detonatore delle bombe delle stragi avrebbe potuto, eventualmente, dare indicazione sull’artificiere. Perché lui l’aveva già utilizzato in passato, con un suo amico a cui era molto legato – avevano frequentato insieme l’università a Messina-, quel famoso Rampulla

Diciamo, questo è il primo impatto. «Poi da anche altri riferimenti sulla massoneria, indica un ristorante dove si tenevano incontri istituzionali, massonici e servizi segreti a Roma. Quindi inizia questa collaborazione».

E questa collaborazione prosegue anche all’esterno del carcere. «Esatto. Una volta che lui esce mettiamo in atto un dispositivo per comunicare in maniera riservata e tranquilla. E con Ilardo cominciamo a vederci in Sicilia e io, di ogni incontro, redigo relazioni di servizio che invio alla Dia».

Ilardo aveva un nome in codice “Oriente”. Perché questa scelta? «Lo chiamo “Oriente” ed è anche strumentale. Non solo perché proviene dalla Sicilia orientale, ma anche in riferimento al mondo massonico. Una componente importantissima di quel contesto di cui Ilardo si appresta a parlare. Lui mi dice: ‘Colonnello, lei per comprendere gli ambienti a cui dovremmo apporre la nostra attenzione e che sono ispiratori di quella strategia stragista’…, proprio quegli ambienti istituzionali deviati, che già nei primi anni Settanta avevano posto la strategia: destabilizzare per stabilizzare. In passato questi avevano utilizzato i militari per i Golpe, poi erano passati ai terroristi e poi, in una modificazione sempre di strategia operativa, avevano messo in campo i loro rapporti con la criminalità organizzata. E la fanno entrare per la spartizione degli affari. Ilardo mi dice che questo tramite, per far entrare Cosa nostra in massoneria, fu questo Savona Luigi che era molto amico del Chisena. Entrambi erano massoni e anche collegati ai servizi segreti. Savona Luigi viene ospitato a Catania e vengono organizzati con il Chisena degli incontri a Palermo, dove andò anche Di Cristina e soci. L’attività del Savona Luigi fu anche attenzionata da Falcone. L’attività era sempre quella, contattare i soliti magistrati per favorire le posizioni dei vari affiliati».

E Ilardo cosa aggiunge? «Che lo stesso ambiente del ’74 è lo stesso che ha posto in essere gli attentati degli anni Novanta, ovviamente alcuni soggetti sono mutati, ma sono cloni di quelli del passato. Ma il contesto politico e massonico è sempre lo stesso, quello che fa riferimento ad Andreotti, ai socialisti di Craxi, ai loro uomini. E mi fa un esempio: l’attentato al giudice Carlo Palermo fu fatto da Cosa nostra in ossequio alla collaborazione che nasce con il partito socialista. Come primo rapporto viene chiesta la commissione di questo attentato.»

Il giudice Palermo stava indagando sui traffici di droga e di armi. «Sì e anche sulle parentele. Ilardo mi parla di Salvo Andò e mi dice che era organico alla organizzazione, lo avevano votato, frequentava ambienti catanesi – come ho scritto anche nel rapporto – di Cosa nostra. Mi fa tutti questi esempi e mi racconta tutti questi aspetti.»

Il giudice Palermo aveva individuato una società di intermediazione di armi, la Kintex. «Me ne sono occupato anche io. È una ditta di armi Bulgara. Gli ho sequestrato un carico di armi a Savona. La Kintex, come l’ho investigata io, operava tramite rappresentanti di armi, i quali danno partite di armi a qualsiasi ambiente. Hanno sempre spaziato: dal terrorista islamico, al terrorista mediorientale, sudamericano. A loro non interessa dove vanno a finire le armi, ovviamente non in uno Stato che è in guerra con l’allora Patto di Varsavia o Stato consorella. Un po’ come facciamo tutti quanti, anche noi lo facciamo. La Kintex, negli anni Ottanta, fu molto attenzionata. Sia da noi, come carabinieri, e anche dagli americani».

Ritorniamo ad Ilardo. Nel vostro rapporto di collaborazione quando subentra la latitanza dell’allora capo dei capi Provenzano. In quale occasione esce fuori questo nome? «Lui (Ilardo, nda) viene reinserito subito nella famiglia. Allora il rappresentante sul territorio era Vaccaro Domenico, operava alle dirette dipendenze di PidduMadonia che era in carcere. Ilardo, che era superiore a Vaccaro, faceva parte della famiglia, era organico alla famiglia, comincia ad operarci insieme. Mi spiega Ilardo che così si sente libero di sentire, di partecipare alle riunioni, senza nessun particolare vincolo, e mi dice: ‘lasciamo che siano gli altri a contattarmi’, ovviamente per ragioni di sicurezza. Fare domande in quegli ambienti è molto pericoloso. Nel frattempo lui si accredita, cosa molto importante per noi, con dei primi risultati operativi: come, ad esempio, il ritrovamento del materiale per l’apertura delle cassette di sicurezza delle banche. Ci fa arrestare dei primi latitanti. Questo lo accredita nei confronti della magistratura di Palermo che lo segue da lontano nella sua attività di collaboratore informale e, ovviamente, nella Dia di De Gennaro. È un collaboratore credibile che porta risultati tangibili.»

E cosa c’entra Provenzano? «La famiglia di Piddu Madonia è quella che ha da sempre supportato le attività di Provenzano. Se Provenzano si è sempre reso invisibile al resto dell’organizzazione perché ha sempre contato sugli appoggi, anche in Palermo, della famiglia di Caltanissetta. Anche per la parte avversaria, ai suoi nemici nell’organizzazione, risultava invisibile. ‘Le sorelle di Piddu, quindi le mie zie lo vanno a trovare perché malato, soffre di prostata’, mi comincia a raccontare. ‘Soffre di prostata. Gli portano le medicine, gli portano i cibi che lui può mangiare e che gli piacciono’. E lui dispensa consigli.

E che cosa succede? Riccio: «Mi ero già attrezzato per prendere Bernardo Provenzano» «Quando Ilardo mi fa comprendere, e arriviamo al 31 di ottobre (1995, nda), che c’è la possibilità di arrestare Provenzano io lo comunico a Mori. Ero abituato con il generale Dalla Chiesa. Parliamo di investigatori seri. Il generale mi avrebbe detto ‘se non hai la macchina, rubane una e vieni subito a Roma». Tutto ruota intorno alla figura del collaboratore di giustizia Luigi Ilardo, ucciso a Catania il 10 maggio del 1996, con otto colpi di pistola. Un omicidio eccellente? Un omicidio di Stato? I due si erano messi in testa di arrestare Provenzano, all’epoca la mente criminale di Cosa nostra. Ed era tutto pronto per il blitz. Binnu u tratturi, però, verrà arrestato undici anni dopo. Chi non ha voluto mettere le mani sul Capo della mafia siciliana.

 

 

MANCATA CATTURA DI PROVENZANO A MEZZOJUSO, COSA SUCCESSE IL 31 OTTOBRE 1995  Ricostruiamo prologo, svolgimento e risoluzione di quel 31 ottobre 1995, il giorno in cui, secondo quanto indicato da Luigi Ilardo al colonnello Riccio, di cui era confidente, avrebbe dovuto incontrare il boss latitante Bernardo Provenzano.

Tutto inizia, come descritto dallo stesso colonnello Riccio nell’informativa “Grande Oriente” quando «la sera del 29 Ottobre 1995, lo scrivente veniva contattato telefonicamente dalla fonte che gli faceva comprendere di avere incontrato il FERRO Salvatore, il quale gli aveva dato appuntamento
per le prime ore del Martedì 31.10.1995 al bivio di Mezzojuso, unitamente ed al VACCARO Lorenzo.
Consigliava, pertanto, di raggiungerlo al più presto in quanto l’incontro poteva avere importanti sviluppi anche in direzione di PROVENZANO. Lo scrivente, rappresentata superiormente l’esigenza, si recava in
Sicilia e la sera del 30 ottobre aveva modo di incontrare il confidente. La fonte gli confermava quanto già detto, ritenendo che l’appuntamento era propedeutico ad incontrare il PROVENZANO».

La circostanza è confermata dal generale Mori, nelle dichiarazioni spontanee rese dal Generale Mori il 7 giugno 2013, nel corso del procedimento che vedeva imputato, oltre allo stesso Generale Mori anche il Colonnello Mario Obinu, il quale afferma che «il 30 ottobre 1995, Riccio si presentò al ROS comunicandomi che la sera prima la sua fonte, denominata “Oriente”, da lui gestita a lungo e positivamente durante il periodo di permanenza alla DIA, lo aveva informato di essere stato contattato da Ferro Salvatore e Vaccaro Lorenzo, noti esponenti mafiosi, rispettivamente dell’agrigentino e del nisseno, che l’avevano convocata per un appuntamento, fissato per le prime ore dell’indomani 31.10.1995, presso il bivio di Mezzojuso, sulla strada di scorrimento veloce Palermo – Agrigento».

Quali azioni furono le azioni intraprese per quel 31 ottobre 1995 si evince sia dalle dichiarazioni di Mori «nel corso di una riunione estemporaneamente indetta, alla luce delle indicazioni disponibili, malgrado la sostanziale incertezza su partecipanti, terreno e modalità dell’incontro – fattori questi determinanti ai fini dell’efficace adozione di una qualsivoglia scelta operativa – preliminarmente mi orientai sull’ipotesi di approntare un dispositivo che potesse eventualmente procedere al pedinamento dell’Ilardo e dei suoi accompagnatori, dal luogo dell’appuntamento sino al successivo intervento, qualora in una delle fasi del servizio si fosse riscontrata la presenza del Provenzano.

Riccio, però, si mostrò decisamente contrario a tale soluzione, chiedendo un tipo di servizio mirato all’esclusiva documentazione dell’incontro al bivio di Mezzojuso, mediante l’osservazione a distanza dell’evento e la sua ripresa fotografica. Ciò anche in relazione all’indeterminatezza dei dati disponibili, con particolare riferimento alla località teatro dell’ipotizzato incontro ed alle modalità con cui il contatto si sarebbe potuto sviluppare. Tale soluzione, sollecitata a detta di Riccio anche dall’Ilardo, sarebbe servita a non fare sorgere sospetti sulla fonte, permettendogli, in prospettiva, di acquisire la piena fiducia degli interlocutori» ma e anche nell’informativa “Grande Oriente” a firma del colonnello Riccio in cui si legge che «dati i tempi ristretti di preavviso e non essendo pronto il materiale tecnico idoneo a garantire la cattura del latitante, in considerazione anche che l’incontro sarebbe avvenuto in territorio sconosciuto, in quanto in quel periodo il Provenzano si era allontanato da Bagheria, si decideva solo di pedinare il confidente. Servizio che veniva sospeso, allorquando, ci si accorgeva che i mafiosi, che proteggevano il latitante, stavano attuando manovre tese a verificare la presenza di eventuali servizi di pedinamento».

Illuminante, per capire cosa sia successo esattamente quel 31 ottobre 1995 è la “Relazione di servizio del 31.10.1995” del ROS redatta dal colonnello Riccio in cui si legge che «lo scrivente Ten. Colonnello RICCIO Michele, nelle prime ore della mattina del 31 ottobre 1995, si recava, con personale della Sezione Anticrimine di Caltanissetta, messogli alle sue dipendenze, presso il bivio di Mezzojuso, sito sullo scorrimento veloce Palermo – Agrigento. Lo scopo del servizio era quello di verificare se effettivamente si realizzasse quanto segnalato il giorno prima dalla “fonte”. Il confidente aveva riferito che si sarebbe dovuto incontrare FERRO Salvatore e VACCARO Lorenzo, per effettuare, probabilmente, un appuntamento con PROVENZANO Bernardo».

Per il servizio per il 31 ottobre 1995 veniva quindi predisposta «una aliquota di osservazione fissa, composto da due militari, dotati di attrezzatura fotografica» oltre a «un dispositivo dinamico, posto più lontano, pronto ad intervenire se si realizzavano le condizioni necessarie per effettuare un pedinamento senza che ne venisse pregiudicato l’esito e di conseguenza pregiudicata la tutela della “fonte” la cui identità era nota solo allo scrivente».

Lo svolgimento del servizio, sempre sulla base di quanto scritto dal colonnello Riccio nella succitata Relazione di Servizio fu il seguente:

«Il servizio aveva inizio alle ore 5,00 del 31 ottobre  1995 ed aveva il seguente esito:

– alle h. 7.55 giungevano sul luogo di interesse (bivio di Mezzojuso) due autovetture, una Fiat Uno tg. CL 17671O ed un fuoristrada Suzuki tg. SR 335003.

Dalle macchine scendevano due persone, in particolare dal fuoristrada scendeva una persona anziana mentre dalla Fiat Uno una persona giovane, le quali assumevano posizione di attesa su una stradina sopra lo scorrimento, di fronte al bivio di interesse. Le due autovetture, condotte da altre persone, si allontanavano m direzione di Agrigento;

– alle h. 8.05 giungeva un’autovettura Ford Escort, vecchio tipo, tg. PA, di color scuro, della quale non si riusciva a rilevare compiutamente il numero di targa. L’autovettura, proveniente da altra stradina di campagna, raggiungeva le due persone in attesa e, prelevatele, si immetteva sullo scorrimento veloce in direzione di Agrigento;

– non veniva eseguito il pedinamento poiché si riteneva che vi fossero in atto tecniche di contro pedinamento, di fatti nella zona d’interesse erano presenti più macchine tra le quali una Lancia Prisma, tg. EN, di colore verde scuro, la cui targa non veniva rilevata, che, proveniente dallo scorrimento veloce direzione Agrigento, si fermava in mezzo al bivio;

– alle h. 8.20 ritornava la Ford Escort che si fermava vicino al conducente della Lancia Prisma e dopo qualche minuto  entrambi riprendevano lo scorrimento veloce in direzione Agrigento;

– alle h. 8.30 venivano notate parcheggiate in un area di servizio ESSO, prossima al bivio di Mezzojuso, in direzione Agrigento, la Fiat Uno ed il Fuoristrada Suzuki in attesa;

– alle h. 1000 veniva terminato il servizio».

Il Riccio, quindi, non accompagnò l’Ilardo al supposto incontro con Provenzano, così come l’Ilardo non aveva registratori o microspie nascoste nei suoi abiti, ma coordinò le operazioni di pedinamento dopo di ché attese, verosimilmente, in altro luogo il suo confidente tant’è che nell’informativa “Grande Oriente” si legge che «lo scrivente, alle ore 23,00 del 31 ottobre 1995, incontrava la fonte
che riferiva di avere incontrato il latitante Bernardo PROVENZANO, in una casa con ovile posta lungo una trazzera che partiva sulla destra lungo il segmento stradale che collega i comuni di Mezzojuso e Vicari appartenente allo scorrimento veloce che porta da Palermo ad
Agrigento».

L’incontro, sulla base delle dichiarazioni rese dall’Ilardo al Riccio e contenute nell’informativa “Grande Oriente”, era durato complessivamente otto ore, e si era articolato in due fasi, «una prima, in cui si erano affrontati problemi di carattere generale dell’organizzazione alla quale avevano partecipato sia la fonte, che il VACCARO Domenico ed il FERRO Salvatore» e «una seconda, nella quale singolarmente i tre avevano affrontate situazioni di carattere riservato e personale con il PROVENZANO».

Proprio sulla base di quanto scritto nell’informativa e nella relazione di servizio indicata dal Riccio, entrambe da lui redatte appare evidente che l’incontro tra l’Ilardo e il Provenzano avvenuto il 31 ottobre 1995 non è stato un incontro monitorato direttamente né dal colonnello Riccio tantomeno da altre forze di polizia se non in un fase preliminare che terminò poche ore e risulta altrettanto evidente che non era finalizzata ad un’operazione di repressione con conseguente arresto del boss latitante anche perché, lo scrive lo stesso Riccio, si trattava di «probabile incontro». GLI STATI GENERALI ROBERTO GRECO 7 Novembre 2021


RICCIO: «MI ERO GIÀ ATTREZZATO PER PRENDERE BERNARDO PROVENZANO»

Nella prima parte di questa lunga intervista  con il colonnello Michele Riccio abbiamo affrontato il suo rapporto professionale con il collaboratore di giustizia Luigi Ilardo, cugino di Piddu Madonia, «organico alla famiglia» catanese, molto vicina al latitante di StatoBinnu Provenzano. «La famiglia di Piddu Madonia è quella che ha da sempre supportato le attività di Provenzano. Se Provenzano si è sempre reso invisibile al resto dell’organizzazione perché ha sempre contato sugli appoggi, anche in Palermo, della famiglia di Caltanissetta. Anche per la parte avversaria, ai suoi nemici nell’organizzazione, risultava invisibile», ha spiegato il colonnello Riccio.

I due avevano un obiettivo da raggiunge: scovare e arrestare il Capo dei Capi di Cosa nostraIlardo dimostra con i fatti la sua credibilità. Operazioni importanti cominciano a dare ottimi frutti: diversi latitanti, ad esempio, vengono tratti in arresto. Comincia l’avvicinamento, non basta la fiducia del colonnello e dei magistrati (quelli buoni). Deve cominciare a fidarsi pure il malandato boss dei Corleonesi.

Riprendiamo la nostra conversazione dal punto in cui i familiari di Ilardo assistono il vecchio e malato boss. «Provenzano invia una lettera, un primo appunto alla famiglia di Caltanissetta, che lui anche legge, che viene portato ad un imprenditore di Bagheria. Fontana, il quale deve imbucare delle lettere per conto di Provenzano dalla Calabria, destinazione Roma. Noi riusciamo a rintracciare le lettere. Abbiamo l’ulteriore conferma che Provenzano è vivo, né in Germania o morto, come allora si diceva.

Ilardo mi dice‘Guardi, se il capo militare è Riina, la vera mente dell’organizzazione è Provenzano’. Perché Provenzano è quello che sa più ragionare, molto più fine, molto più politico in confronto a Riina. Espone il paesano delle sue decisioni e lui può operare nell’ombra. Ad esempio, anche la scelta stragista è stata, pur accettandola, addebitata a Riina. E parte dell’organizzazione, mi dice Ilardo, si è rivolta a Provenzano. Il cui compito è quello di ricucire l’organizzazione in un unico corpo, spaccato in due fazioni: quella legata a Riina, Bagarella e soci e quella di Provenzano.

E mi dice che Provenzano è legato ai vecchi ambienti che gli hanno sempre consigliato di stare tranquillo. Mentre Riina, Brusca, Bagarella e gli altri si erano buttati nell’attività di fare soldi ed erano anche in contrapposizione con lo Stato, invece Provenzano suggeriva a loro di stare calmi, di ritornare ai vecchi reati di un tempo, con la forma meno di contrapposizione. ‘E vedrete che poi tutto si sistemerà’. Dal punto di vista politico, dopo aver tentato strade autonome come le Leghe, cominciavano a guardare con grande interesse, infatti Provenzano dice che avevano già stabilito dei contatti con gli ambienti di Berlusconi, con gli ambienti della nascente Forza Italia. Sarebbe stato il punto di riferimento di Cosa nostra, la quale aveva assicurato che avrebbe preso in considerazione tutte le esigenze e le aspirazioni dell’organizzazione. Sia per la gente ristretta in carcere e sia per quelli che stavano fuori, per riprendere le attività produttive e affaristiche dell’organizzazione. Questo, diciamo, è il quadro che noi ci troviamo con Ilardo.»

Riuscite ad individuare soltanto una lettera scritta da Provenzano? «A questa prima lettera ne susseguono delle altre indirizzate direttamente a Ilardo. E Ilardo diventa il riferimento di Provenzano per la Sicilia orientale, ovvero la famiglia di Caltanissetta, di Catania, da parte di Santapaola, più i suoi contatti con Messina e delle altre parti. E Ilardo, a sua volta, gli rispondeva. A me veniva sempre da ridere. Per la prima volta Provenzano si scrive con un colonnello dei carabinieri, in fin dei conti leggevo le lettere e Ilardo preparava con me le risposte.»

Ilardo e Provenzano, in quella fase, si sono mai incontrati? «No, ovviamente perché quando Ilardo comincia a ricevere le lettere si apre la prospettiva di un incontro. Auspicavo che si realizzasse al più presto, ma lui diceva: ‘Colonnello, lei non mi deve mettere fretta. Sarà lui che mi deve chiamare e se noi ci proponiamo diventa sospettoso. Noi con questa attività di arresti possiamo indirettamente stimolare un avvicinamentoPerché alla fine, mancando i riferimenti, ci sono solo io. Prima o poi mi manderà a chiamare. Sempre in maniera molto soft, perché dobbiamo stare attenti a non scoprirci. Altrimenti ci sarà il solito invito, mi toccherà andare e poi non torno.’ Noi rimaniamo in attesa, cominciamo a seguire i famosi bigliettini (i pizzini, nda) per avere una prima panoramica e sperare di avere la fortuna di poter individuare l’autore del bigliettino, che però quando arrivava a Bagheria – dopo alcuni passaggi – era più difficile. Perché non vai mai a capire quando, effettivamente, passa di mano in mano. Noi stabilivamo i contatti e iniziamo a fare quella famosa rete di fiancheggiatori che, poi, alla fine trarremo in arresto».  Lei, nell’agosto del 1995, passa dalla DIA ai Ros.

«Esatto. La nostra indagine trovava stimolo e alimento in De Gennaro. Mentre, come al solito, dalle altre parti, un po’ per invidia un po’ per altre scelte… già il fatto che eravamo in pochi a lavorare, producendo risultati, ricevendo mai nemmeno un ‘grazie’. Non dico che ci creasse delle ansie, ma non è che ci rendesse tanto sereni. Molte volte ci siamo ritrovati a lavorare non con la piena soddisfazione dei superiori perché venivano inquisiti i loro amici. Quando va via De Gennaro cerco di andare via. Mi sentivo isolato maggiormente e quando non ce l’ho fatta più rientro nell’Arma».

Però continua a curare i rapporti con “Oriente”.  «Quando mi presento al Comando generale dico che ho una fonte in Sicilia. Ho chiesto di essere messo in un posto da dove potevo passare la notizia a chi di dovere. Stavo lavorando sulla cattura di Provenzano».

Come viene presa questa notizia?  «Parlo con il mio collega, che io conoscevo già, del Comando generale che mi risponde: ‘Lei lo sa meglio di me, ci sono mille investigatori in questi ultimi dieci anni, tutti stanno lavorando su Provenzano’. Tutti stavano lavorando su Provenzano, tutti su Messina Denaro, ma bisogna vedere chi lo fa con cognizione di causa o lo fa solo perché ha l’aria in bocca. A me dicono: ‘non ti preoccupare, ti faremo sapere’. Nel frattempo vengo contattato dai Ros. E incontro il generale Subranni…»

Mi scusi, stiamo parlando del generale dei carabinieri, definito “punciutu” dalla signora Agnese, la vedova del magistrato Paolo Borsellino?  «Esatto, quello è. Quello è, che io già conoscevo perché era Comandante del Ros quando sono andato via. Dico a Subranni che non mi interessa rientrare nel Ros, voglio solo terminare questa operazione. Avevo intuito, con Ilardo era già un anno e mezzo che si stava lavorando…».

Cosa aveva intuito?  «Intuivo la portata importantissima e anche i contraccolpi che avrebbero creato ad Ilardo. Avevo capito che lui parlava dei rapporti con i mandanti esterni. E quando faceva i riferimenti, ad esempio, su Moschella, il giudice di Torino (magistrato della Procura di Torino e poi Procuratore a Ivrea, nda) si capiva dove saremmo arrivati. O altre situazioni del genere.»

Ad esempio? «Sulla Calabria, lui andava in Calabria; sui contatti con i servizi segreti; sulle armi che uscivano dalle basi Nato e della Marina in Sicilia, a Sigonella; i rapporti con la massoneria. Faceva riferimento al mio ambiente, ai miei superiori. Essendo io colonnello non è che ce ne sono tanti sopra di me. Sapevo già dove sarebbe andata a finire una collaborazione del genere. Sarebbe stata dirompente. Giorno per giorno acquisivo ulteriori elementi. Tutto sarebbe venuto fuori.»

Come finisce l’incontro con Subranni? «Mi dice: ‘ti aggreghiamo al Ros, gestisci la tua fonte e le confidenze che fa – lui ovviamente non sa che Ilardo è la fonte – e il Ros le sviluppa con un eventuale input per poter ampliare’. Così vengo aggregato al Ros. E i miei contatti sono di nuovo MoriObinu e il capitano del Ros di Caltanissetta».

Come reagiscono Mori e Obinu alle sue informative? «Alla Dia, di ogni mia missione, facevo relazioni scritte di servizio con quanto mi diceva Ilardo. Quello che mi diceva me lo appuntavo velocemente su delle agende, ovviamente in maniera sintetica, in modo da fare subito memoria, e facevo la relazione di servizio che mandavo alla sede centrale della Dia, che poi venivano indirizzate alle sedi competenti. Qualcosa di più urgente la dicevo a Catania e a Palermo. Ad esempio, a Catania avevo stabilito un ottimo rapporto lavorativo con due ispettori della Dia, Ravidà e Arena, molto seri che, con il loro PM Marino, lavoravano come lavoravamo noi. (Con l’ausilio dei due Ispettori, e grazie alle indicazioni di Ilardo, non mancano i risultati: come la cattura dei capi mafia Aiello Vincenzo (contabile famiglia Santapaola-Siino Catanese); Tusa Lucio capo di una fazione di Cosa nostra operante a Catania ma che dipendeva dai Tusa di Caltanissetta; Fragapane Salvatore, capo della Famiglia di Agrigento. Senza dimenticare l’indagine della DIA di Catania, con la quale vengono azzerati i vertici di “cosa nostra” catanese, con l’identificazione e l’arresto del capo famiglia Aurelio Quattroluni – op. “Chiara luce”, con l’arresto di circa 50 affiliati in due distinte operazioni. Tutti appartenenti al clan Santapaola, responsabili di omicidi ed estorsioni, (fonte Mario Ravidà, ex Ispettore Dia). Efficaci, determinati e seri.»

Alla Dia inviava le sue relazioni di servizio. Cambia qualcosa una volta transitato nel Ros? «Mori mi fa subito presente di non fare relazioni di servizio. Una nota stonata. Soprattutto per la mia tutela, non farle era fuori da ogni logica. Io rispondo che sono abituato a fare le relazioni. Poi poteva farne ciò che voleva. Avevo i miei contatti con l’autorità giudiziaria, il dott. Caselli mi aveva indirizzato al dott. Pignatone e, quest’ultimo, sapeva che facevo le relazioni di servizio. La prassi era sempre la solita. Ho sempre avuto il riscontro delle relazioni e dei rapporti inviati a Palermo. E, in questi incontri (al Ros, nda), mi dicono di non scrivere i nomi dei politici. Ovviamente era una politica a loro vicina, ma io ho sempre scritto tutto ciò che mi dicevano. Questo è il primo indirizzo che mi lascia un po’ perplesso».

Perché queste richieste? Qual è la sua opinione? «In quel momento l’ho vista una cosa fuori luogo. Magari, ho pensato, come strategia. Magari non si mette tutto per iscritto e un domani mettiamo una selezione di quello che dicono.» 

Ma da parte dei suoi superiori (Subranni, Mori, Obinu) c’era l’interesse di mettere le mani sul latitante mafioso Provenzano? «Non l’ho vista in una mentalità subito omissiva. L’ho vista in una maniera strategica, nel senso ‘domani scriviamo le cose selezionate’. Ma io non sapendo le scelte che avrebbero potuto fare e sapendo che mi trovavo in Sicilia, e che una Procura tante volte ha un indirizzo diverso dalle altre, dissi: ‘Mi dispiace, ma scrivo tutto’. Anche perché non è una risultanza mia, investigativa. Ilardo me la dice oggi ed è convinto che tutto ciò che mi dice viene subito rappresentato. Il rapporto è diverso, non è frutto di una indagine, che posso scriverla oggi e integrarla domani. Quando c’è un collaboratore di giustizia è diverso. Ilardo aveva completa fiducia in me e non potevo tradire questa fiducia che aveva nelle Istituzioni. In quel momento Ilardo si affida alle Istituzioni. Non vede in me solo il colonnello dei carabinieri, ma vede lo Stato».

Ma lei notava un interesse da parte dei suoi superiori? «In quell’istante non ho nessuna sensazione negativa. A Mori riferisco tutta l’attività che ho fatto con la Dia, gli consegno le copie delle relazioni che avevo mandato alla Dia. Perché, ovviamente, non poteva iniziare un’indagine senza sapere il passato. Era lui il responsabile e io l’investigatore di punta. Credevo di essere. L’ho reso edotto di tutto. E anche i primi contatti che riprendo con Ilardo in Sicilia, in attesa di entrare, perché non è che io entro subito nel Ros, passano un paio di mesi per formalizzare il mio ingresso. Però, già in quei mesi, faccio riferimento a loro. Tanto è vero che gli mando le relazioni della Sicilia. Quando vado a Catania e incontro Ilardo, anche se non sono organico, faccio la relazione a Mori. Non è che andavo in vacanza a Catania, a mangiare il gelato con Ilardo. Sono andato perché c’erano necessità investigative. In quel momento non ho nessun sospetto che loro non vogliano prendere Provenzano. Quando Ilardo mi fa comprendere, e arriviamo al 31 di ottobre (1995, nda), che c’è la possibilità di arrestare Provenzano e io lo dico a Mori, già il fatto che quando la mattina gli telefono dicendo ‘Guardi, tra due giorni Ilardo si deve incontrare con Provenzano’, Mori non mi dice ‘vieni immediatamente a Roma e parliamone’. Già questo lo giudico male. Ero abituato con il generale Dalla Chiesa, anche se loro dicono di aver lavorato con il generale ma non ci hanno mai lavorato, al massimo pochi mesi. Io, insieme ad altri, ci ho lavorato sin dall’inizio e conosco la mentalità del generale. Parliamo di investigatori seri. Il generale Dalla Chiesa mi avrebbe detto ‘se non hai la macchina, rubane una e vieni subito a Roma e raccontami tutto’. I tempi erano così stretti, per cui non si poteva parlare per telefono di cose così importanti che necessitano di decisioni tempestive».

E cosa accade? «Vado subito a Roma e quando presento il fatto e dico ‘guardate, se voi non avete la possibilità di utilizzare i segnalatori’, perché mi ero già attrezzato per prendere Provenzano. Già in passato, quando lavoravo al Ros ho arrestato dei trafficanti sotto copertura, nascondevo dentro al carico dei segnalatori che mi dava l’Ambasciata americana, in modo che ero ulteriormente tutelato per non perdere il carico. Perché può succedere di perdere un pedinamento e per una ulteriore garanzia ci mettevo un segnalatore dentro. Per cui Mori era a conoscenza di queste mie capacità di avere questi dispositivi elettronici, che erano semplici GPS. Allora erano più sofisticati, utilizzati dai piloti americani quando venivano abbattuti per segnalare la loro posizione. Avevo preparato una cintura e con Ilardo avevamo anche fatto delle prove. E gli dico: ‘quando ti trovi di fronte a Provenzano, per dare a noi la certezza, sposta il pulsante verso la fibbia’. Il segnale da intermittente diventava continuo. Per cui avendo la certezza che Ilardo era di fronte a Provenzano nel giro di pochi istanti, anche perché avevamo fatto tante prove ed eravamo abili ad utilizzare quegli strumenti, potevamo intervenire circondando il posto. Per arrestare il latitante».

 

 

 

«Non hanno voluto arrestare Provenzano»   Parla il colonnello dei carabinieri Michele Riccio: «A Provenzano non l’hanno voluto prendere, glielo scrivo con lettere di sangue. Hanno lavorato per altri interessi. Questa gente era quella che andava ai processi a Caltanissetta e diceva che Falcone si era fatto l’attentato da solo…». L’operazione muore sul nascere. Gli uomini dello Stato si fermano a pochi metri dal casolare di Mezzojuso. Il blitz non si deve fare. La Trattativa è in corso (e mai terminata). Provenzano deve continuare a fare il latitante, ha i suoi progetti da sviluppare. E continuerà a farlo per altri undici anni. I vertici di alcune istituzioni (deviate, come le loro menti) hanno cambiato il corso della storia. Quanti omicidi si potevano evitare? Se Provenzano fosse stato arrestato, ad esempio, si sarebbe potuta salvare la vita del famoso urologo Attilio Manca. Massacrato da “ignoti” a Viterbo. La sua morte violenta grida ancora vendetta. De Gennaro (in quegli anni ai vertici della Dia), dopo aver ricevuto una lettera scritta da Luigi Ilardo (stanco di una Cosa nostra mutata), si rivolge a Riccio. Per lui è l’uomo giusto. Un uomo di fiducia, un uomo delle Istituzioni. Così inizia questa storia. Dannata. Ambigua. Drammatica. La collaborazione si trasforma in un rapporto di fiducia. Riccio si fida di Ilardo. Quest’ultimo, nei panni del colonnello, vede lo Stato. Quello serio, fatto di persone oneste, che vogliono combattere e stroncare questi schifosi e vigliacchi personaggi organizzati. Non solo a parole. I due cominciano ad operare: grazie a Ilardo arrivano operazioni importanti, i latitanti vengono assicurati alla giustizia. Tutto è finalizzato per l’arresto eccellente: quello del latitante Bernardo Provenzano, “scomparso” dalla circolazione da 43 anni. Un fantasma. Ma solo per chi non vuole vedere, per chi non vuole sapere. Un’ombra pesante, servita e riverita. Ilardo è il cugino del pericoloso mafioso Piddu Madonia, molto vicino al Capo dei capi. “Oriente”, la fonte di Riccio, inizia una corrispondenza con il vecchio Binnu. Il rapporto si intensifica, Provenzano si fida di Ilardo. I due si incontrano. Siamo alla fine del 1995. Lo Stato, attraverso i suoi uomini, conosce il covo del latitante. È tutto pronto per consegnare, finalmente, alle patrie galere il killer di Corleone diventato capo. Ma qualcosa va storto. O meglio, qualcuno non vuole. L’operazione muore sul nascere. Gli uomini dello Stato si fermano a pochi metri dal casolare di Mezzojuso. Il blitz non si deve fare. La Trattativa è in corso (e mai terminata). Provenzano deve continuare a fare il latitante, ha i suoi progetti da sviluppare. E continuerà a farlo per altri undici anni. I vertici di alcune istituzioni (deviate, come le loro menti) hanno cambiato il corso della storia. Quanti omicidi si potevano evitare? Se Provenzano fosse stato arrestato, ad esempio, si sarebbe potuta salvare la vita del famoso urologo Attilio Manca. Massacrato da “ignoti” a Viterbo, nel 2004. E fatto passare, in questo Paese orribilmente sporco, per un tossicodipendente. La sua morte violenta grida ancora vendetta. E come andrà a finire? Il boss maledetto resterà a piede libero, Ilardo verrà ammazzato a Catania qualche tempo dopo. Per una fuga di notizie istituzionale. Per una talpa dello Stato corrotto.

Riprendiamo l’intervista a Michele Riccio. Il racconto dell’investigatore riparte da un punto preciso. Drammatico. Illuminante. Il colonnello comunica a Mori (superiore di grado) che Provenzano è in trappola. A portata di manette.

E il generale dei Ros cosa risponde?  «Lui dice: ‘no, no, no, dobbiamo arrestarlo… anche De Caprio’. Le solite cose. ‘Noi abbiamo anche gli strumenti. Facciamo tutto noi, non c’è problema. Tu crea i presupposti per un successivo incontro’. Ilardo era già addestrato a fare simili operazioni. Era necessario preparare i presupposti per un secondo incontro. ‘Tu vai giù in Sicilia, segui Ilardo in questa fase. Ti facciamo incontrare con il Capitano di Caltanissetta. E poi ci riferisci’. Io, diciamo, avrei voluto arrestarlo subito ma penso che, come al solito, se lo vogliono arrestare loro. Vogliono far vedere in un ambito nazionale che sono loro. Conoscendo anche i soggetti, avendo già operato con loro, ad esempio l’operazione a Milano (traffico di droga, famiglia Fidanzati, nda), quando Mori comandava la divisione, l’avevo fatta io, però si erano vantati loro. Pensavo che tutto fosse finalizzato ad acquisire solo loro i meriti, diciamo che ci stava, però mi dispiaceva in parte».

E cosa succede?«Quando incontro il Capitano mi accorgo con notevole sorpresa che questo non sapeva nulla. E comincio a vedere un po’ il gioco delle tre carte. Al che riferisco tutto al Capitano, lo rendo edotto della modalità del servizio. Mi dice di avere poco personale e di fare il pedinamento. Facciamo il pedinamento. E la storia si conosce».

Cioè?  «È mattino, Ilardo va all’appuntamento. Si incontra con Provenzano e sta con lui tutto il giorno.»

E lei dove si trova quando Ilardo si incontra con Provenzano?  «All’inizio della mattinata…».

Mi scusi, stiamo parlando del 31 ottobre del 1995?  «La mattinata dell’incontro…».

Se lo ricorda il giorno?
«Se non sbaglio era proprio il 31 ottobre».

Quindi la sua “fonte” si incontra con Provenzano.  «Sì, al famoso bivio di Mezzojuso. Noi andiamo prima, il Capitano mi fa vedere dove sarebbe stato il servizio. E mi indica i posti dove si sarebbero messi gli uomini. Ricordo che di fronte al bivio, dall’altra parte della strada, c’era un gruppo di alberi dove c’erano alcuni con le macchine fotografiche. Poi c’era una parte rialzata dove c’erano altri uomini. Noi ci mettiamo distante. E abbiamo conferma che era stato stabilito il contatto con Ilardo, che erano stati prelevati ed erano andati via lungo lo scorrimento veloce. Dopo un po’, non sapendo quando sarebbe durato l’incontro, rientro a Catania. Per essere subito pronto a contattarlo. Prima di rientrare mi fermo alla cabina telefonica e avviso il dott. Pignatone di quanto era successo. La sera, a Catania, incontro finalmente Ilardo, che mi racconta quello che è successo. E io lo riferisco immediatamente a Mori e al capitano Damiano (ex ufficiale del Ros di Caltanissetta, nda)».

Cosa le riferisce Ilardo dell’incontro con Provenzano?«Quello che ho scritto nel Rapporto.»

Cosa ha scritto nel Rapporto?«È un incontro che si svolge in due giornate. Ilardo, prima di tutto, mi ricostruisce in maniera molto semplice, ed era molto semplice, l’individuazione del casolare. Lo ripeto e non lo dico per piaggeria e non lo dico perché ci sono state tutte le storie che sa anche lei. Un giorno a un giornalista della Rai dico: ‘non le faccio nessun commento, le do le indicazioni che ho scritto sul Rapporto. Lei le segua e mi dica se è capace di trovare il casolare’. Questo è andato, mi telefona e dice: ‘Colonnello, ho capito tutto. Ha ragione lei’. Non ci voleva l’arca di scienza per capire. Bastava andare dritto, c’era un distributore di benzina sulla sinistra, bastava andare più avanti e l’unica strada che girava nella curva era quella. Il casolare era il primo che si trovava, di fronte c’era l’ovile. Era di una semplicità assurda».

Tornado ad Ilardo e all’incontro con il boss latitante?«Mi da queste indicazioni e mi dice che l’incontri si era svolto, come ho scritto sempre nel Rapporto, in due fasi. In una prima fase, loro erano di fronte al casolare, dove avevano aspettato il Ferro, il medico, che sarebbe arrivato. Aveva visto che il Provenzano aveva cotto la carne con poco sale, per via della prostata (operata, nell’ottobre del 2003, dall’urologo Attilio Manca a Marsiglia, nda). Gli racconta che si ricordava di lui dalla storia dello zio, di tutte le problematiche, che dovevano recuperare il contatto con tutti. Ilardo mi riferisce tutto quanto e mi ripete di arrestarlo quando si allontanava. Per una questione umana, per non sentirsi un infame. E io gli ripetevo che non doveva preoccuparsi, doveva solo pensare a mandare il segnale. In quel modo avevamo già arrestato un sacco di latitanti. La fiducia tra noi era grande. Poi mi fa tutta la descrizione: Provenzano era smagrito, aveva i capelli bianchi. Una descrizione che porterà al famoso identikit, perfettamente combaciante con il personaggio che poi (molto poi, dopo 11 anni, nda) verrà arrestato.

Quindi lei era convinto di poterlo arrestare?«Ero convinto che si sarebbero fatti gli appostamenti. Riferisco a Mori e gli dico: ‘guardi, faccio io l’attività’. E lui mi risponde che l’avrebbero fatta loro, De Caprio con la sua squadra, poi Obinu. Ma dopo una settima resto sorpreso. Mori continuava a dire: ‘mettiamo gli aerei militari, andiamo, facciamo’. Dopo una settimana mi dicono: ‘non abbiamo trovato niente. Fatti spiegare meglio perché non troviamo nulla’.

Non trovano il casolare dove era “nascosto” Provenzano?«Dico: ‘ma è così semplice’. Vado da Ilardo, pieno di vergogna, e rifacciamo il sopralluogo. Rifaccio tutto il percorso, con Ilardo nascosto dal passamontagna e disteso. Una semplicità disarmante. E riferisco tutto, di nuovo, a Mori e Obinu. Dopo una settimana arrivano e dicono: ‘non riusciamo a trovare nulla’. Al che io dico: ‘questi o ci fanno o ci sono’. Faccio di nuovo il sopralluogo con Ilardo, faccio le relazioni scritte. Sia nelle relazioni che nel rapporto, in maniera molto provocatoria, indico anche le coordinate geografiche. Non si è mai visto. Di questi rapporti nessuno mi ha chiesto nulla. L’unica cosa che sanno chiedere, quando Ilardo muore, è di estromettere dal rapporto la relazione di servizio. Anche di fronte a rapporti dove si fa riferimento alle relazioni scritte quelli continuavano a sostenere che non ho fatto nessuna relazione di servizio. Ma fortunatamente le ho ritrovate.

C’è qualche magistrato che ha contestato loro che hanno nascosto? Non lo leggo. Questa è la più grande amarezza. Questa gente era quella che andava ai processi a Caltanissetta e diceva che Falcone si era fatto l’attentato da solo…»

A chi si riferisce?«A Mori, Subranni. Questi sono parte dei personaggi, mica solo loro».

E, quindi, dicono di non trovare il casolare?«Dicono che non lo trovano».

Provenzano verrà arrestato undici anni dopo. «Ilardo chiedeva cosa stessimo facendo, io non sapevo più cosa rispondere. Cosa dovevo dire? Andavo da Mori e lui mi diceva di rispondere: ‘stiamo lavorando, stiamo verificando’».

E ci hanno messo undici anni per verificare«Andavano a mettere l’acqua ai fiori sul davanzale di Provenzano».

Ma Provenzano resterà in un quel casolare? Verrà avvisato da qualcuno di queste attività?  «A questo punto posso dire solamente che lì, Provenzano, c’è stato. Ne danno conferma anche i collaboratori di giustizia, come Giuffrè.
Non l’hanno voluto prendere, glielo scrivo con lettere di sangue.
Ho lavorato per lo Stato, ho vissuto di mio, non ho voluto e non voglio niente da nessuno. Ho fatto delle scelte di vita, per quello Stato in cui credevo, come quel povero Ilardo e i miei superiori seri, ne ho avuti tanti, come Dalla Chiesa ed altri. Ne hanno pagato sulla loro pelle anche loro.
Non dovevano permettersi di fare questo. Me la prendo con chi ha permesso loro di comportarsi in questo modo. Come si fa a dire che c’erano i pastori. Quando abbiamo preso Fracapane abbiamo preso anche i pastori con i cani, che facevano i favoreggiatori al Fracapane. Avrei arrestato tutti lì, per dire. Non è che mi scantavo di quattro pastori».

Quindi non l’hanno voluto prendere?  «È ovvio che non l’hanno voluto prendere e che hanno lavorato per altri interessi. Provenzano ha portato avanti il suo progetto, Forza Italia ha vinto 60 a 0 (nel 2001 il centrodestra in Sicilia conquisterà 61 seggi uninominali, nda). Scusate, due più due fa quattro».

C’era una Trattativa in corso con lo Stato?  «Certo, certo. Per chi lavoravano?»

Per chi lavoravano?  «Non hanno certo lavorato per le Istituzioni».

Undici anni dopo, quindi nel 2006, Provenzano verrà arrestato in quello stesso casolare?«No, non verrà arrestato nello stesso casolare. Sempre nella stessa zona».

Quindi si sposterà?  «Dopo si sposta. In quel casolare viene arrestato, sempre dalla Polizia di Stato, un altro latitante. Non dai carabinieri, figuriamoci. Ovviamente i Carabinieri sono persone serie. Alcuni carabinieri di quel Ros non lo erano. L’ho detto in mille udienze, dove sono andato. Ancora non riesco a capire perché nessun magistrato abbia mai fatto nulla.
Mi cercano di far collaborare quando si decide di far pentire Ilardo, in maniera formale, non con Palermo ma con Caltanissetta. E mi portano ad avere più incontri con Tinebra, perché si doveva pentire con loro. L’ho visto come un tentativo di condizionare le indagini. Però si vede che a loro è permesso di fare questo. Quando arrivo a Roma si presenta il momento del riscontro definitivo di tutto…»

 

 

 

Riccio: «L’ordine per ammazzare Ilardo è partito dallo Stato»  Quarta e ultima parte. OMICIDIO ECCELLENTE. Parla il colonnello dei carabinieri Michele Riccio: «Ilardo mi diceva: ‘il problema è Cancemi’. Era a conoscenza di parecchi fatti. Infatti, quando era al Ros non ha detto nulla. Poi, quando lo hanno allontanato dal Ros ha cominciato a parlare. Cosa nostra aveva paura dei pentiti storici. Cosa nostra ha paura del passato, perché nel passato nasce la Trattativa. In passato ci sono i colloqui tra Provenzano, Santapaola, Madonia. Sono loro che se iniziano a parlare possono creare i grandi danni». E sulla morte di Ilardo: «Lo Stato ha sempre utilizzato la criminalità organizzata. Il mandante esterno in questi omicidi di Stato c’è sempre. Poi c’è il contatto che dice a due picciotti: ‘andate ad ammazzare questo’. A Ilardo lo sparano sotto casa. L’ordine è arrivato dallo Stato. È successo per tutti gli omicidi eccellenti. Ilardo è uno degli omicidi eccellenti.»  

Provenzano non si deve arrestare. E, infatti, non verrà catturato. Una latitanza lunga 43 anni. Un vero e proprio record criminale e parastatale. C’è una schifosa Trattativa in corso tra Stato e mafia. Il vecchio boss deve continuare a fare il contadino e a scrivere pizzini per i picciotti. Cosa nostra, dopo le stragi, il sangue degli innocenti e gli attentati (Capaci, via d’Amelio, via Fauro a Roma, via dei Georgofili a Firenze, il black-out a Palazzo Chigi, via Palestro a Milano, le bombe alla Basilica di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro e la mancata strage dell’Olimpico a Roma), è in fase di riorganizzazione. Riina, la bestia assetata di sangue, è stato spedito nelle patrie galere e il suo compare ha il compito di riportare tutto alla normalità. Gli equilibri non si possono rompere.

Lo spiega, in un passaggio, il magistrato, già PM a Palermo, Nino Di Matteo. È il 2018 quando l’attuale consigliere togato del CSM pronuncia queste parole: «Bernardo Provenzano non poteva essere catturato perché l’eventualità di una sua collaborazione avrebbe scoperto le carte sparigliando gli accordi e comportando per i carabinieri del Ros la possibilità che il loro comportamento sciagurato e illecito venisse scoperto dall’autorità giudiziaria e dall’opinione pubblica.»

È dello stesso avviso anche l’ex PM Antonio Ingroia (l’intervista del collega Alessio Di Florio sarà pubblicata nei prossimi giorni): «Il mio pensiero è lo stesso delle conclusioni a cui giungemmo con Nino Di Matteo nel processo sulla mancata cattura di Provenzano. Non è pensabile che investigatori del Ros dei carabinieri, che si occupavano di quella indagine, siano potuti incorrere in una imperdonabile dimenticanza, negligenza o caduta di professionalità. Fu una scelta. E la scelta rientrava nella logica della Trattativa Stato-mafia in pieno corso all’epoca, nella quale Bernardo Provenzano era il garante della Trattativa sul versante mafioso e lo Stato, che l’aveva stipulata, nei vari accordi che erano stati presi, non poteva permettersi di arrestarlo, perché era funzionale al mantenimento dell’osservanza degli accordi. Questo è quello che è accaduto.»   

Binnu u Tratturi, infatti, non verrà arrestato nel 1995 a Mezzojuso. La campagna stragista, portata avanti non solo dalle mafie, è già terminata da quasi due anni (gennaio 1994). Il lavoro del colonnello Michele Riccio, grazie al suo confidente Luigi Ilardo (cugino di Piddu Madonia), non porta a nulla. Non per le mancanze investigative. La fonte “Oriente”, al contrario, è affidabile. Oltre ad “offrire” diversi latitanti alla giustizia, porta fisicamente gli inquirenti nel casolare del latitante. Per la precisione, a pochi metri. Ilardo incontra Provenzano. E grazie a questo incontro sarà realizzato il famoso identikit. Solo quello.

La mancata cattura di Zu Binnu, checché ne dica qualche nostalgico negazionista molto vicino ai responsabili di questa sciagurata decisione, si concretizza per l’intervento dei poteri forti. È già capitato in altre occasioni. La tecnica è raffinata e fruttuosa. Sono pur sempre delle “menti raffinatissime”. Anche se deviate verso il male. Non è il momento di rompere il patto sacro tra Stato e Cosa nostra. Un patto iniziato con l’Unità d’Italia e mai terminato. Provenzano resterà latitante per altri undici anni. Alla faccia dei proclami, degli slogan inutili, della “lotta alla mafia”, degli annunci, dei “siamo tutti Giovanni e Paolo” (offese continue verso i due magistrati uccisi dallo Stato e dalla mafia) e delle lacrime durante le commemorazioni delle vittime di mafie. Un teatrino studiato in maniera quasi perfetta. Riproposto in troppe occasioni.

In questa ultima parte dell’intervista con il colonnello Riccio siamo partiti dall’incontro tra Ilardo, Mori, Tinebra, Caselli e la Principato presso il Ros di Roma. Non esiste nessun verbale. È appurato, è agli atti. Ma ci sono le dichiarazioni del colonnello Riccio, presente a quell’incontro.

Ilardo, dopo aver fatto l’infiltrato, sta per entrare nel programma di protezione per collaboratori di giustizia. Verrà ammazzato prima, a Catania (10 maggio 1996), con nove colpi di pistola (ci scusiamo se nelle altre parti dell’intervista ne abbiamo indicato uno in meno). La notizia della sua collaborazione diventa di “dominio pubblico”. Per una fuga di notizie istituzionale. L’ennesima vergogna di Stato.

Vogliamo precisare, per dovere di cronaca, un aspetto. E lo facciamo attraverso le parole di Nino Di Matteo. «È vero che il generale Mario Mori è stato assolto in via definitiva dall’accusa di favoreggiamento», per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, «però dobbiamo tenere presente che quella sentenza assolutoria venne pronunciata con una formula ben precisa: non perché i fatti contestati siano stati ritenuti non provati, ma perché il fatto non costituisce reato». Facciamo un passo indietro e ritorniamo nella stanza dei Ros.

Colonnello, cosa succede a Roma?

«Ilardo, di fronte a Mori, di getto dice: ‘Guardi, che molti attentati attribuiti a Cosa nostra sono stati voluti dallo Stato. E noi ne abbiamo subito le conseguenze’.»

Lei sta parlando dell’incontro del maggio del 1996 presso il Ros di Roma?

«Esatto. Ho la definitiva conferma.»

Di cosa, scusi?

«Ilardo si alza, sposta la sedia…»

Parla solo con Caselli? Si posiziona di fronte al giudice Caselli?

«Esatto. Lo fa in maniera provocatoria. Chi è fuori non lo può comprendere, ma i partecipanti lo sapevano benissimo. Mori è già scappato.»

In che senso?

«Lui (Ilardo, nda), prima di entrare, dice: ‘certe cose le avete fatte voi’. E come ho sempre detto in qualsiasi udienza che se l’avessero fatta a me una battuta del genere lo avrei fatto correre a Ilardo. ‘Come ti permetti, cosa stai dicendo. Se hai da dire qualcosa dillo, questo è il momento’. E invece quello prende e scappa. Quindi ho capito che sarebbe successo il patatràc.»

Ma di quell’incontro non esistono verbali.

«Nessun verbale.»

Chi era presente?

«Io, Ilardo, Caselli, Tinebra era al centro, la Principato sulla mia destra che prendeva appunti su un block notes. Queste erano le persone presenti nella stanza. Non c’erano altre persone. Ilardo dice di aver incontrato Provenzano e che ha riferito a me, nessuno mi chiede spiegazioni. Quando si è concluso l’incontro ho accompagnato Ilardo in infermeria. Ricordo che aveva un forte mal di testa.»

Cosa le comunicano a lei?

«Caselli mi dice: ‘metti a registrare le dichiarazioniPer fare un primo quadro di quello che dirà’. Io quando esco, dopo aver salutato Caselli, incontro Subranni e Tinebra a braccetto, chiacchierando e sorridendo. Io riferisco a loro l’incarico che mi ha dato Caselli e mi sento dire: ‘no, non ti preoccupare. Nessuna registrazione, tanto non servono a nulla’. Non serviranno a nulla, però almeno è un dato su cui partire. E meno male che l’ho fatte, anche se non servono a nulla. Sarebbe stata la mia parola… il fine era quello. Io sono solo e loro hanno la forza del numero. Meno male che l’ho anche registrato.»

Otto giorni dopo, il 10 maggio del 1996, Ilardo verrà ammazzato.

«Sì.»

Lei come viene a sapere dell’omicidio della sua fonte?

«Gli ho sempre detto di non rientrare a Catania, lui aveva l’appartamento a Catania e poi a Lentini. Ero anche stato a Lentini, dove mi aveva fatto vedere i lavori fatti. Era la casa che avrebbe lasciato ai suoi familiari. Era convinto che transitando nel programma di protezione le due figlie al padre non l’avrebbero seguito. Mi diceva sempre: ‘Colonnello, non le dimenticherò mai. Ovunque mi troverò. Ma almeno avranno una casa’. In quel periodo doveva stare a Lentini, anche perché Lentini era molto protetta. Aveva il muro di cinta, il cancello automatico. Non era esposto, come lo era a Catania. Per cui ero convinto che stesse a Lentini. Quando poi, lasciato Ilardo, mi dirigo in aeroporto e, poco dopo, incontro il capitano Damiano. E lo vedo piuttosto turbato. Mi dice che era uscita la voce dalla Procura di Caltanissetta della possibile collaborazione di Ilardo, telefono subito e più volte ad Ilardo.

Ma il suo telefono risultava sempre staccato. Al che dico ‘sarà a Lentini’, perché a Lentini non si riusciva a telefonare. Diverse volte usciva dal cancello per trovare un posto di connessione, una zona coperta, e ci sentivamo.

Nel frattempo telefono a Mori per comunicare questa informazione, non pensavo fosse così tragica e urgente. Anche perché la voce l’avevano acquisita i carabinieri, non è che l’avessero acquisita i criminali. Il carabiniere aveva capito che c’era un nuovo collaboratore. Da lì a due giorni ci saremmo dovuti vedere. E a Roma avrei chiuso la porta per affrontare a muso duro Tinebra. Perché questo non è un modo di fare.

Mori, ovviamente, non dice nulla, Obinu non dice nulla. Non dicono nulla. Sono stati chiamati dal telefono del Capitano, per cui c’è anche lì la telefonata. Prendo l’aereo, arrivo a casa. Salgo le scale e vedo che una luce blu si diffonde in maniera irrituale per le scale. Vado sopra e vedo mia moglie seduta sul divano che piangeva.»

Perché piangeva sua moglie?

«C’era questa notizia sul televideo che dava la morte di Ilardo. Chiamo la moglie di Ilardo che mi dice: ‘Bruno, ce l’hanno ucciso’. (Bruno è il nome in codice di Riccio, nda). Chiamo Mori, il quale come al solito non fa nessun commento. Cos’altro devo dire? Che sono fortunato… vabbè, non mi faccia dire altro…»

Si sente fortunato?

«Con tutto quello che mi hanno fatto passare sono fortunato. Io ce l’ho con uno Stato che, come ha fatto costantemente nella sua storia, non ha mai difeso le persone che lavoravano, che credevano in lui. Ha sempre abbandonato queste persone. Questo Stato, per ragioni di compromessi e di convenienze, ha sempre fatto finta di dimenticarsi di tutto, con la scusa di grandi strategie.»

E, secondo lei, cosa sono?

«Strategie affaristiche e di potere. Perché nessuno ha il diritto della verità. Se vogliamo costruire un futuro dobbiamo resettare tutto, perché altrimenti ci sono sempre i coloni degli altri. Il mio più grande rammarico è nella magistratura. Ci sono magistrati seri, pochi, che vivono in maniera isolata.»

Lei ha sentito la sua vita in pericolo?

«Mi sono scontrato con le Brigate Rosse, non ho avuto mai una scorta. Sono simbolismi falsi, perché se ti vogliono fare qualcosa lo fanno. Non credo in queste cose. Sono sempre strumentali per poter comprare o accreditare qualcuno. Noi italiani viviamo di immagini. E i più grandi delinquenti hanno la scorta.

Hanno cercato, ma non ci sono riusciti, di rendermi poco credibile e ricattabile. Con me hanno sempre sbagliato, perché sono capace di vivere del mio. Ho rifiutato tutto. La dignità è la cosa più importante che esista. Le nostre scelte sono importanti. Dovevo rispettare la scelta di Ilardo e la dovevo tutelare. La stessa cosa per i pentiti che si sono affidati a noi, sempre difesi e tutelati per le scelte fatte. Lo Stato ci faceva promettere e poi non davano mai nulla. Abbiamo sempre dovuto mettere del nostro. Lo abbiamo fatto con tutti i pentiti. Quello che più dispiace è la strumentalizzazione che continua a fare questa gente. È una lotta difficile ed impari.

Non credo neanche nelle forze politiche.»

Perché non crede nelle forze politiche?

«Anche quello che dice di essere nuovo cade nel compromesso. Tutte queste battaglie di novità non esistono. Rispetto le singole persone, quei singoli magistrati che hanno lavorato seriamente, quei singoli avvocati o giornalisti che ricercano ancora, con serietà, la verità.»

Lei riporta la sua esperienza nel Rapporto “Grande Oriente”?

«Questo Rapporto non volevano che io lo presentassi.»

Lo scrive dopo la morte di Ilardo?

«Certo. Sono inserite tutte le relazioni di servizio che avevo mandato a loro. Lo scrivo dal Ros di Caltanissetta con l’aiuto del capitano Damiano. Scrivo questo Rapporto che Mori e Obinu non vogliono che io faccia. E questo mi costerà. Ma se questo Rapporto non fosse arrivato all’autorità giudiziaria la storia di Ilardo non sarebbe esistita. E se non avessi fatto anche le relazioni erano le stronzate di un poveraccio e di un secondo poveraccio, che ero io. Non staremmo oggi, io e lei, a parlarne.»

E in questo Rapporto parla di strategie, di contatti. Fa riferimento anche a Dell’Utri?

«Il nome di Dell’Utri l’ho fatto successivamente. Nel Rapporto scrivo, come c’era nella relazione, del riferimento ad uno dell’entourage di Berlusconi. Quando scrivo la relazione ancora non sapevo che fosse il nome di Dell’Utri. Questo me lo dice in epoca successiva, quando eravamo al Ros. Come sempre facevo, non sapendo tutte le vicende o una buona parte delle vicende siciliane, prendevo spunto nel fare le domande, quando c’era un incontro con Ilardo, da un quotidiano siciliano. Dove c’era un’ampia cronaca di mafia, erano molto ben informati. E molte di queste notizie le commentavo con Ilardo. E a un certo punto compare Dell’Utri, per una questione con un noto imprenditore, per una storia di pallacanestro.»

Che fine ha fatto questo Rapporto?

«Lo consegno alle autorità di Caltanissetta, Catania e Palermo. Allegando le cassette registrate con Ilardo, con le trascrizioni. Cassette che nemmeno mi volevano far registrare. Avevo anche la possibilità di registrare, ad esempio, quando Ilardo va ad incontrare l’avvocato calabrese, ad Ardore. Dico a Mori: ‘Ilardo mi porterebbe ad incontrare un avvocato, così registriamo…’»

A chi si riferisce?

«All’avvocato Minniti. Mori mi dice: ‘Non devi fare nulla’. Ilardo entra nello studio di Minniti e poi mi fa il resoconto.»    

L’incontro porta una data precisa: 7 maggio 1996. Tre giorni prima dell’assassinio di Ilardo.

«Sì, tre giorni prima. E anche in quella occasione mi è stato vietato, per cui facendo questo si doveva tutelare uno schieramento politico. Altrimenti, poi, come facevano a nominarlo capo del Sisde. Lo dicono gli atti, non è che lo dico io. Hanno fatto la relazione a favore di Dell’Utri. Quando mostro la foto di Dell’Utri a Ilardo, lui mi risponde: ‘Colonnello, ci ha messo tanto per capire?’.

Me lo segnai sull’agenda, tutte le cose me le segnavo sull’agenda, anche perché in sede di collaborazione gliele avrei richiamate. Questo era lo scopo delle relazioni di servizio. Non è che quello che scrivevo sulle relazioni di servizio fosse esaustivo del contesto. Era l’indicazione che Ilardo mi aveva dato, insieme alle registrazioni. Sarebbe servita per trattarla in maniera più diffusa. I magistrati sarebbero entrati nello specifico. Me lo segno sulle mie agende di lavoro, quelle che volevano i Ros. Quelle che ho nascosto, come ho fatto con i Cd, altrimenti non sarebbe rimasto nulla. Solo la mia voce, in un coro avverso.»

È stato utilizzato questo Rapporto? Ci sono stati degli sviluppi?

«Sì, lo consegnai sia alla Principato che a Caselli, presso la Procura di Palermo.»

Quasi un anno dopo dall’omicidio del suo confidente, il 7 giugno del 1997, lei viene arrestato dai Ros per associazione a delinquere e spaccio di stupefacenti.

«Il 90% delle accuse strumentali, sono stato condannato solo per un aspetto che ho ammesso. La famosa operazione di Milano, quella dove si sono presi i meriti e nessuno gli ha detto niente. Per aver eseguito l’ordine e permesso l’operazione che volevano far saltare. In sede di perquisizione, a casa mia, cercavano le famose agende, le famose relazioni e tutto il materiale sulla Sicilia. Ovviamente, tra agende rosse e carte rubate, sono molto bravi in Sicilia e anche da altre parti a far sparire, sarebbero scompare anche quelle».

Lei è stato arrestato dalla Procura di Genova?

«Sì. Procura di Genova, diciamo, provenienza Caltanissetta».

Come finisce questa vicenda?

«Molto ridimensionata in tutto. Quasi nulla».

Lei è andato in pensione con quale grado?

«Da colonnello. Poi se mi hanno fatto generale non lo so e nemmeno mi interessa. Mi presento sempre come colonnello perché è il mio grado che ho conquistato sul campo. A me non interessa, non devo dimostrare niente a nessuno. Mi sono sempre reputato un investigatore serio e una persona perbene. E non ho mai avuto una condanna per calunnia e le cose le ho dette. E non le ho dette in maniera strumentale. Perché non devo andare da nessuna parte.

Ma questa gente la deve smettere. Mori diceva: ‘facciamo le squadre. Il Ros va costruito in antitesi allo Sco di De Gennaro. De Donno lo mettiamo a pensare, De Caprio è l’uomo immagine’. Hanno costruito tutta quella povertà.»

Lei parla di accuse strumentali. Cosa doveva pagare?

«Lo capisco subito. Tutta la base era la gestione del collaboratore di giustizia. Loro hanno sempre mirato a delegittimare il mio rapporto con Ilardo. Ero quello che aveva costruito l’operazione. Nei vari processi hanno sempre giocato questa carta, poi è crollata miseramente. Non ho mai gestito nessuno, era sempre l’autorità giudiziaria che me l’ha affidato. Non c’è nessuna operazione in cui ho gestito in maniera poco lecita un collaboratore di giustizia. Tutte le operazioni sono andate a buon fine, tutti condannati, non c’è nessun soggetto che è stato revisionato. Io subito l’ho capito, quando ho letto, che quelli miravano a delegittimarmi. Per il Rapporto che avevo fatto. Affrontai Mori a Roma. Non avevo le prove, ma la voce della collaborazione di Ilardo era uscita da loro, da Tinebra

Lei classifica l’omicidio di Ilardo come un omicidio di Stato?

«È un omicidio di Stato, certo. Lo Stato ha sempre utilizzato la criminalità organizzata. Il mandante esterno in questi omicidi di Stato c’è sempre. Poi c’è il contatto che dice a due picciotti: ‘andate ad ammazzare questo’. E gli dà la giustificazione comprensibile, perché magari è un cornuto. A Ilardo lo sparano sotto casa. L’ordine è arrivato dallo Stato. È successo per tutti gli omicidi eccellenti. Ilardo è uno degli omicidi eccellenti. Ma perché hanno ammazzato Ilardo?».

Perché?

«Ilardo mi diceva sempre: ‘Cosa nostra ha paura dei pentiti, come possono essere Santapaola’. Quando c’era il problema di Santapaola, che stava cominciando a pregare e non sapevano se voleva pentirsi. L’attenzione era verso di lui. Ilardo mi diceva: ‘il problema è Cancemi’. Era a conoscenza di parecchi fatti. Infatti, quando era al Ros non ha detto nulla. Poi, quando lo hanno allontanato dal Ros ha cominciato a parlare. E Tinebra dice: ‘non è credibile. Parla di Berlusconi’

Cosa nostra aveva paura dei pentiti storici. Cosa nostra ha paura del passato, perché nel passato nasce la Trattativa. In passato ci sono i colloqui tra ProvenzanoSantapaolaMadonia. Tutti vecchi. Sono loro che se iniziano a parlare possono creare i grandi danni

Tra lei e Mori ci sono state delle denunce per calunnia. Come sono finite?

«Sì, sono state tutte archiviate.»

Mori ha denunciato lei per calunnia?

«Dopo la mancata cattura di Provenzano mi denunciò per calunnia. Ed è stata archiviata.»

Ma loro come si sono difesi dalle sue accuse?

«Loro si son difesi dicendo che c’erano i pastori. Io già al secondo sopralluogo gli avrei arrestati subito. È strumentale non trovare… un compito che anche un modestissimo comandante di una stazione avrebbe assolto. Questi dicono di essere eccellenze. E se un’eccellenza dell’investigazione non riesce a trovare un casolare per tre volte… ma che eccellenza sei. I casini che hanno combinato con la mancata cattura di Santapaola. Poi ci meravigliamo dei carabinieri di Piacenza, quelli sono delinquenti comuni. Ma questi proprio… Se noi ci aspettiamo che qualcuno di questi eccellenti ci venga a parlare della Trattativa siamo qui ventisei generazioni dopo.

Lo Stato deve avere la forza di dire basta. Mettiamo un punto e gli facciamo parlare noi. Perché questo modo di fare non può sussistere. Non si può andare a fare la mancata perquisizione al covo di Riina e si scrivono le cazzate che si devono scrivere, a giustificazione. Ho letto tutte le sentenze, siamo nel ridicolo.

E la mancata perquisizione di Riina e le lettere del Corvo e succede l’Addaura e succedono i morti. Loro comandavano.

Mori era comandante del gruppo a Palermo, Subranni era comandante di Regione e alla squadra mobile c’era La Barbera. E il loro amico Contrada era lì, già dagli anni Ottanta. Prima del Ros.

Ed è successo il Corvo, è successo Domino, è successa la storia dei poliziotti. Falcone si era messo la bomba. Prendono Riina e viene fuori la storia del bacio. Il più grande assist a favore. E come hanno gestito il pentito Di Maggio? Ho messo tutto in fila, continuamente hanno sempre operato in questo modo. Dicendo che Caselli non aveva capito nulla, che i fatti non erano così. E tutti stanno zitti. Ci scriviamo i libri? E quando vogliamo arrivare a trovare la verità.

E così fanno la mancata cattura di Provenzano, la mancata cattura di Santapaola e tutti gli altri bordelli che hanno combinato.»           

Lei, oggi, crede nello Stato?

«Credo molto poco nello Stato. Non ci credo per niente. Credo nelle persone che lavorano seriamente.»

Quindi lei sta dicendo che lo Stato non ha interesse a sconfiggere le mafie?

«Lo Stato non se ne frega proprio nulla. Devono fare affari. Tutti questi problemi per loro non esistono. Il problema esiste per le persone perbene.

Lo Stato se ne frega assai di questi problemi. Non ho nessuna fiducia in queste Istituzioni perché non sono interessate alla verità. La verità fa perdere le convenienze. Chi viene eletto e va a Roma è prigioniero delle Istituzioni del posto, dei funzionari dei Ministeri. Se non cacciano via tutta questa gente e mettono tutti nuovi rimarranno vittime delle logiche di potere. Questa è gente che vive dall’oggi al domani. Mori e De Donno erano inquisiti e i magistrati chiamavano De Donno per farsi raccomandare per la promozione. Abbiamo l’esempio di Palamara. Ce ne sono miliardi di questi esempi.»

Secondo lei quando arresteranno il vigliacco Messina Denaro?

«Quando non servirà più.»      

Oggi c’è ancora una Trattativa tra lo Stato e la mafia?

«Certo. C’è sempre stata e continuerà ad esserci. È anche una Trattativa economica. La mafia ha sempre prodotto denaro.» 

Da WORD NEWS – Luglio/Agosto 2020 Paolo De Chiara

 

Il ringraziamento di Luana Ilardo al Col. Riccio



 Colonnello Riccio: ”Istituzioni deviate mandanti di delitti eccellenti e di stragi’Colonnello Riccio, ad un certo punto della sua attività investigativa, Luigi Ilardo, suo confidente, Le riferì notizie sullo scenario politico che andava delineandosi. Lei le ha rese note deponendo al processo trattativa: “Nel ’94, nel corso di una riunione a Caltanissetta, fu comunicata ai capimafia locali la strategia di Bernardo Provenzano: tornare a un vertice unitario di Cosa nostra, far cessare la violenza e appoggiare Forza Italia con cui si era stabilito un contatto tramite un personaggio insospettabile che era nell’entourage di Berlusconi. In cambio Cosa nostra avrebbe avuto dei vantaggi anche normativi”. Ritenne subito attendibili quelle parole? E in seguito, si ritrovò a riflettere sull’incredibile risultato elettorale riportato da quel partito e da quel leader di partito proprio in Sicilia e sulla promozione di determinate leggi palesemente d’ostacolo per la lotta alla mafia?

“Giudicai attendibile Ilardo sin dal nostro primo incontro. Mi parlò subito di Rampulla, amico dai tempi dell’università di Messina frequentata assieme ai vari Romeo Paolo, Aldo Pardo e Rosario Cattafi. Rampulla dopo aver militato per un certo tempo nella destra extra parlamentare, sviluppò una vera e propria passione per gli esplosivi che in breve tempo lo condusse ad essere un esperto nel realizzare sofisticati ordigni esplosivi con attivazione anche a distanza.
Era certo che lui fosse uno degli artificieri della strage di Capaci. Lo aveva presentato tempo prima ai vertici di Cosa nostra a Palermo, dove aveva dato dimostrazioni delle sue capacità. Ma quando fece un accenno all’esistenza di quel connubio di ambienti politico – istituzionali deviati che con il supporto dei servizi segreti, della massoneria e della destra eversiva aveva negli anni Settanta promosso le stagioni dei golpe e ora con l’apporto della criminalità organizzata di tipo mafioso le stragi e gli attentati degli anni novanta, destò ancora di più la mia attenzione. Fece un nome, quello del gran maestro Savona Luigi, quale anello di congiunzione tra questi mondi, ed allora ebbi la certezza di trovarmi di fronte a qualcosa di veramente importante che stentai a credere si fosse davvero materializzato. Savona Luigi, il potente massone torinese, era già stato oggetto di mie indagini condotte con l’allora ten. col. Bozzo Nicolò mio superiore nei nuclei speciali anticrimine che avevamo avviato su incarico particolare del gen. Carlo Aberto dalla Chiesa. Indagini nei confronti di quegli ambienti deviati istituzionali ed alle loro strategie criminali di cui lo stesso Generale ne parlò in seguito ai magistrati di Milano, Turone e Colombo nel maggio 1981. Dopo aver informato dei risultati di quel primo incontro Gianni De Gennaro, mio direttore alla DIA che, mi aveva dato l’incarico di gestire Ilardo, nei parlai successivamente anche con Bozzo il quale disse: “comandante finalmente ci siamo”. Quando alle elezioni politiche del 2001 Forza Italia con i suoi alleati, realizzò una vittoria senza precedenti, 60 seggi a zero, ebbi l’ulteriore conferma che Provenzano era riuscito nel suo compito di compattare Cosa nostra e indirizzarla ad appoggiare quel nuovo soggetto politico, ma solo nell’apparenza, con il quale aveva stretto un patto di reciproco sostegno. Provenzano ormai libero dell’ingombrante figura di Riina, Bagarella e compagni aveva finalmente condotto l’organizzazione, verso acque più tranquille, un ritorno all’antico, più colloquiante con quei settori amici, propri di quell’apparato istituzionale deviato. Ambienti politici di riferimento, come mi confidò Ilardo, che sin dagli inizi degli anni Novanta gli avevano consigliato di aspettare con pazienza tempi migliori vista l’incertezza politica di quei tempi e di non seguire la strategia, sempre più antagonista con lo Stato, che stava prendendo Riina che poi lo avrebbe condotto a compiere le stragi e gli attentati degli anni Novanta. In realtà era stato proprio Provenzano a strumentalizzare con abilità la parte violenta dell’azione di comando del compagno, in modo da far rinascere come la fenice dalle sue ceneri una nuova Cosa nostra più moderna, più colloquiante con le Istituzioni, più affaristica e meno nota agli inquirenti”.

Di pochi mesi fa, la sentenza del processo che l’ha vista protagonista fra i testimoni; Mario Mori condannato a 12 anni e con lui Antonio Subranni, l’uomo che Luigi Ilardo avrebbe indicato fra i collusi semmai fosse arrivato a formalizzare la sua collaborazione con le forze dell’ordine. Non ci arrivò. Forse per l’Italia non ci sarà mai una vera giustizia riguardo questi fatti che raccontano molto più di quel che viene colto dall’opinione pubblica, ma almeno per lei che vide vanificare e minimizzare le sue fatiche investigative proprio da questi individui, c’è la dovuta giustizia in queste condanne?
“Questa prima sentenza, anche se è un primo passo importante, è ancora lontana per rendere giustizia a quanti hanno creduto e dato tutto, alcuni anche la vita a questo Stato ancora ostaggio di poteri oscuri. E i loro servi prima millantando visioni risorgimentali ed interessi atlantici hanno dato vita ad un unico piano criminale reiterato negli anni con un sistematico innalzamento del livello di “tensione” per assicurare il potere agli ambienti politici di riferimento e poi dopo stretto intese famigerate con Cosa nostra. Intese e patti che avevano poi visto quelle istituzioni deviate essere, in alcuni casi, i mandanti di delitti eccellenti e di stragi di cui la Mafia era stata indotta ad esserne l’autore ed a pagarne poi le conseguenze”.

Il mancato arresto di Provenzano a Mezzojuso è qualcosa di sconcertante; l’Italia intera attendeva quel momento; le bombe e il sangue delle stragi di tre anni prima erano ancora nell’aria e per quanto fosse ovvio come le lunghe latitanze dei boss corleonesi fossero frutto di patti sporchi, nessuno poteva davvero immaginare cosa stesse accadendo. Lei fu il primo a vivere lo sconcerto dinanzi alle scuse pretestuose dei suoi superiori che impedirono quell’arresto. Provi a raccontare come visse quei momenti. Ricordiamo che oltre a non intervenire, le fu chiesto di non fare relazioni di servizio in merito alle confidenze di Ilardo sul casolare occupato da Provenzano…
“Non potrò mai dimenticare il senso di frustrazione e di amarezza che seguì dopo che avevo individuato il casolare di Mezzo Juso dove Provenzano organizzava gli incontri con gli affiliati a lui più vicini. L’imbarazzo e il disagio che provavo ad ogni incontro con Ilardo nel dover affrontare le sue domande se avevamo già visto Provenzano nel luogo che ci aveva indicato e se era stata già programmata la sua cattura, mentre io dovevo chiedergli invece di ripercorrere ancora il tragitto fatto nei giorni precedenti per recarsi a Mezzo Juso. Ciò perché gli ‘specialisti’ del ROS di Mori non avevano nemmeno individuato la strada che conduceva al casolare, che era di una facilità sconcertante, e nonostante avessi riconfermato più volte le indicazioni date. E con Ilardo fummo costretti a ripetere ben due volte il tragitto con il timore di essere scoperti. La situazione non cambiò nemmeno quando provai a propormi nell’eseguire io quel lavoro e i successivi appostamenti ricordando che già in altre occasioni e con i medesimi scenari operativi con l’ausilio di pochi uomini della DIA, avevo sviluppato con successo le indicazioni di Ilardo giungendo all’arresto di più latitanti di livello dell’organizzazione. La risposta fu sempre la stessa da parte di Mori, quello non era un mio compito, ma dei suoi ‘specialisti’ Gli “specialisti”, ovvero De Caprio che non faceva altro che lamentarsi del superiore che non gli dava a suo dire né i mezzi né il personale per questo lavoro. Ero sconcertato, allibito ad assistere a queste scene. Che dire: Maschere. Silenzio assoluto era la risposta che avevo quando chiedevo l’esito dello sviluppo delle indagini in merito alle indicazioni precise date sempre da Ilardo nei confronti dei favoreggiatori del boss latitante, come targhe, nomi, numeri di telefono da porre sotto controllo. Questo stato di inefficienza e di omissione proseguì per tutta l’indagine. Gli esempi sarebbero tanti, molti riportati nel mio rapporto Grande Oriente. Avrei voluto che qualcuno avesse chiesto spiegazioni punto su punto su quanto era stato fatto in merito alle informazioni riportate nel referto. Input investigativi nessuno. Invece ebbi la richiesta di non fare relazioni scritte, disposizione che ovviamente non esegui e produssi 20 relazioni a Mori lungo tutta l’indagine che come al tempo della DIA erano poi inoltrate all’AG di Palermo referente dell’indagine. Nonostante l’evidenza dei riscontri, come l’esistenza di altri referti in cui si faceva menzione e riferimento a queste relazioni, Mori ha negato l’esistenza di questi importanti documenti. E come quel detto popolare che dice: “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi” il collega non si ricordò che altro suo dipendente fortunatamente mi aveva dato copia su floppy disk delle relazioni, su mia richiesta con la scusa che mi sarebbero servite quando un domani sarei stato chiamato in qualche aula di tribunale a testimoniare sul lavoro svolto. Fatto grave non solo nei confronti dell’AG, ma ancor più del dipendente che, quale fiducia potrà mai avere del superiore quando si troverà ad affrontare contesti investigativi delicati e le relazioni di servizio costituiscono tutela e testimonianza del lavoro svolto? La vicenda che considero ancor più inaccettabile fu poi la richiesta di pilotare la collaborazione formale di Ilardo solo nei confronti dell’AG di Caltanissetta dott. Tinebra escludendo l’AG di Palermo con la quale era stata sin dall’inizio avviata l’indagine. Ovviamente non eseguii la disposizione, lasciando che Ilardo incontrasse le due AG e facesse autonomamente le sue scelte.Pochi giorno dopo quell’incontro Ilardo a Catania veniva ucciso a colpi di arma da fuoco da killers di Cosa nostra”. L’ombra dei servizi segreti aleggia su tutti i casi relegati alla voce “misteri italiani”. Il rapimento di Moro, i legami con la banda della Magliana, Cosa nostra, le telefonate della Falange armata dagli uffici del Sismi, sono solo alcune delle vicende che hanno interessato la presenza dei servizi in posizioni tutt’altro che chiare. Come immaginava questo apparato dello Stato quando decise di diventarne servitore e cosa pensa oggi? “Pur provenendo da una famiglia di ufficiali dell’esercito, negli anni trascorsi all’accademia militare e poi alla scuola di applicazione, non mi posi mai domande sulla esistenza dei Servizi Segreti. Le mie conoscenze si fermavano ai libri di avventure e quanto visto al cinema. La prima conoscenza l’ho fatta quando ero al comando della tenenza di Muggia un cittadina attigua a Trieste e posta proprio sul confine jugoslavo, erano gli anni ’72-’75. Erano anni in cui si addensavano con maggior frequenza nubi minacciose sul panorama nazionale e l’instabilità delle nazioni ad Est era sempre più crescente con frequenti problematiche ai confini. Da quella prima conoscenza non ebbi una grande impressione di efficienza, tutt’altro. Giudizio che ho confermato anche in seguito nei tantissimi contatti e le tante conoscenze avute, specialmente a partire dall’ottobre 1978 quando entrai a far parte dei Nuclei speciali Lotta al Terrorismo del gen. dalla Chiesa mio superiore dal 1975 e per il quale avevo già svolto più incarichi investigativi. Da quegli ambienti non ho mai ricevuto una informazione degna di nota, il loro compito era evidentemente altro. Parlare di inquinamenti, depistaggi, delegittimazione non basterebbe un libro, credo che la migliore e sintetica risposta sia nelle parole di un mio vecchio amico: “Quantunque incapaci, i servizi segreti italiani si presentarono per quello che volevano essere: ladroni, ladri, ladruncoli. Certamente non erano al servizio dello Stato”.

Per restare in tema di servizi segreti, Faccia da mostro, è morto di morte naturale? “Faccia da mostro, come lo definì sinteticamente Ilardo era. secondo le sue descrizioni, una persona alta, magra e di brutto aspetto. Questi faceva parte o era al soldo dei Servizi Segreti ed ebbe un ruolo nelle morti di Claudio Domino il bambino ucciso a Palermo nell’ottobre del 1986, così negli omicidi sempre avvenuti a Palermo dell’agente di PS Agostino Antonino, della moglie Castelluccio Giovanna nell’agosto 1989 e poi dell’altro agente di PS e collaboratore del SISDE Piazza Emanuele del marzo 1990. Giovanni Aiello ritenuto faccia da mostro nell’agosto 2017 è morto d’infarto. Le morti sospette nei servizi segreti e negli ambienti collaterali non sono state affatto una rarità e sono state sempre provvidenziali per il Potere”

Cosa pensa delle incredibili carriere che accomunano uomini dell’arma “distratti” – nella migliore delle ipotesi definiti “negligenti” – e come se le spiega? “Senza affrontare lunghi discorsi, desidero solo riportare alcuni avvenimenti. Nel 1986 Mario Mori assume il comando del gruppo centro dei carabinieri di Palermo e l’allora colonnello Antonio Subranni quello della legione carabinieri di Palermo. Incarichi che ricopriranno fino ad ottobre del 1989. Capo della squadra mobile di quella città in quegli anni è Arnaldo La Barbera a doppio servizio tra la PS e il SISDE (nome in codice Rutilius). Bruno Contrada è tra i vertici di comando al SISDE. Nella mia informativa Grande Oriente verrà indicato secondo le dichiarazioni di Ilardo ‘l’uomo dei misteri’ e trait-d’union fra Cosa nostra e istituzioni. Mori sarà teste della sua difesa dopo la consegna del mio rapporto alle AG siciliane. Il 7 ottobre 1986 un killer tuttora sconosciuto uccise con un colpo di pistola nel quartiere San Lorenzo un bambino Claudio Domino. Nel maggio 1989 il vice questore Arnaldo La Barbera arresta Salvatore Contorno nei pressi di Palermo. Nei primi dell’estate 1989 giunsero le lettere del “corvo” con le quali iniziò la delegittimazione del giudice Falcone accusato di aver organizzato in combutta con Gianni De Gennaro il rientro in Sicilia di Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi di Cosa nostra. Il 20 giugno 1989 il fallito attentato all’Addaura; viene rinvenuto un ordigno esplosivo composto da un timer e 58 candelotti di dinamite, che doveva colpire Falcone e alcuni magistrati svizzeri riunitisi per esaminare i canali del riciclaggio dei proventi illeciti di Cosa nostra. L’artificiere dei carabinieri il maresciallo Tumino, distrugge maldestramente il timer dell’ordigno esplosivo, limitando l’opera di verifica dei periti che dimostrano ugualmente la pericolosità distruttiva della bomba. Iniziarono presto a circolare voci che si trattava di un finto attentato e che addirittura fosse stato organizzato dalla stessa vittima. Nel processo poi celebratosi a Caltanissetta emerse che vi fu una colpevole operazione indirizzata a sminuire l’enorme gravità dell’attentato, riportando un semplice atto minatorio, ciò anche a seguito delle deposizioni del l dott. Domenico Sica, capo dell’Alto commissariato antimafia, del dott. Francesco Misiani altro magistrato e collaboratore di Sica e del ten col. Mori Mario al tempo comandate del gruppo di Palermo. La sentenza emessa dalla Corte di Cassazione del 19 ottobre 2004 riporta: “Resta il dato sconcertante che autorevoli personaggi pubblici investiti di alte cariche e di elevate responsabilità, si siano lasciati andare in una vicenda che, per la sua eccezionale gravità, imponeva la massima cautela, a così imprudenti dichiarazioni tali da fornire lo spunto ai molteplici nemici di inventare la tesi del falso attentato”. Nell’agosto 1989 in Palermo avveniva l’omicidio dell’agente di PS Agostino Antonino, e della moglie Castelluccio Giovanna. Seguito poi nel marzo 1990 dall’omicidio avvenuto sempre nel medesimo capoluogo dell’agente di PS e collaboratore del SISDE Piazza Emanuele. Questi omicidi collegati al fallito attentato dell’Addaura, furono oggetto da parte di numerosi depistaggi posti in essere, in parte, anche dagli stessi organi investigativi. Ilardo nel corso della sua collaborazione mi rappresenterà che avrebbe fatto luce su tutti questi avvenimenti nel corso della sua collaborazione ufficiale con l’AG, notizia che riportai ai miei superiori documentandola anche per iscritto. Mai nessuno di loro, visto che riguardavano avvenimenti accaduti nel corso del loro comando in Sicilia, mi chiese solo per curiosità notizie in merito. Certo è che prima di incontrare i magistrati di Palermo e Caltanissetta a Roma presso il comando ROS, nel presentare Ilardo a Mori alle dure e improvvise parole del collaboratore dirette frontalmente al collega: ‘Molti attentati che erano stati addebitati esclusivamente a Cosa nostra, in realtà erano stati commissionati dallo Stato…’, questi preferì non rispondere, come mi sarei aspettato che facesse, ma preferì, contrariato, allontanarsi precipitosamente dall’ufficio. Tempo dopo Mori quale direttore del Sisde, nominato nel 2001 dal governo Berlusconi, si occupò della posizione di Dell’Utri e Previti, con due informative del Sisde, anticipate da La Repubblica del 7 settembre 2002, che rivelava che un’informativa del Sisde indirizzata alla presidenza del consiglio aveva segnalato che Dell’Utri e Previti (già ministro della difesa) si trovavano a rischio di attentati da parte di Cosa nostra, in considerazione del fatto che essi erano stati “mascariati”, ovvero ne era stata infangata l’immagine. Il dott. Tinebra nello stesso periodo e dallo stesso governo fu nominato al vertice del D.a.p.. Il gen. Subranni è stato consulente del presidente della Regione Siciliana Provenzano (Forza Italia). Prof. Provenzano che, in qualità di commercialista della famiglia dell’allora latitante Provenzano, fu arrestato dall’Ufficio istruzione di Palermo negli anni Ottanta e successivamente prosciolto. In quel procedimento emerse, comunque, pacificamente che il prof. Provenzano era stato fiduciario di Saveria Benedetta Palazzolo, notoriamente compagna di Bernardo Provenzano.”

Cosa sente di dire pubblicamente al magistrato Nino Di Matteo dopo quel processo e dopo quella sentenza? “Ancora oggi chi cerca effettivamente la libertà, chi tenta di farlo viene duramente combattuto, osteggiato, messo all’angolo per poi essere calunniato, a secondo il momento e le convenienze. Si accorgerà di essere sempre più solo, con il supporto di pochi, non farà parte di alcuna squadra e la sua voce avrà sempre meno eco, per lui niente sconti, nessun favore e tutto ciò accadrà nell’indifferenza più totale. Quando molti conoscono la verità e tacciono o per viltà o nella convinzione di trarne un vantaggio. Ambiguità, ipocrisia, rinuncia alla propria identità ed al proprio dovere sono compromessi per la costruzione di una comoda e finta democrazia. Un male che ha radici antiche. Parlare, ricercare la verità, comprendere la storia è un atto di libertà”.   1.10.2018 ANTIMAFIA DUEMILA

 

Processo Ilardo, parla il colonnello Riccio: “Fuga di notizie sull’inizio della collaborazione di Ilardo”  Inefficienze e mancati interventi da parte dell’Autorità Giudiziaria e dei suoi superiori nell’Arma, ma anche i legami di Cosa Nostra con la politica: è questo il bilancio della deposizione di oggi di Michele Riccio, il colonnello dei Carabinieri cui Ilardo faceva riferimento come informatore. Cosa Nostra lo voleva morto, ma forse anche qualcun altroParla per quasi cinque ore Michele Riccio ed è come un fiume in piena: il suo unico intento è che rimanga traccia dell’attività che ha svolto per anni sotto copertura a fianco di Luigi Ilardo.Lo dice subito, in premessa, prima che il Pubblico Ministero inizi a condurre l’esame: “Volevo lavorare con Ilardo con l’intento di far emergere i mandanti esterni alle cosche mafiose. Così, dopo aver letto una sua lettera nella quale si diceva disponibile a collaborare per far emergere i legami tra Cosa Nostra, la Massoneria e il potere di certe aree dell’estrema destra ho accettato di buon grado”.Colonnello dei Carabinieri, membro dei corpi speciali, Michele Riccio aveva lavorato con il generale Dalla Chiesa. Poi, dal ’93 al ’96, diventa il collante tra l’Autorità Giudiziaria e Luigi Ilardo: sarà tra le ultime persone ad averlo visto vivo quel 10 maggio del 1996.Referente diretto di Riccio era il dott. De Gennaro, a capo della Dia di Roma. Fu proprio De Gennaro a farlo incontrare con Ilardo, quando questi si trovava ancora in carcere a Lecce.“Ilardo non voleva diventare collaboratore di giustizia – racconta Riccio – ma si era mostrato propenso a diventare informatore”.Ottenuta una sospensione della pena per motivi di salute, Ilardo rientra a Catania nell’estate del ’93: iniziano, per Michele Riccio, tre anni di fitti dialoghi e confidenze con Luigi Ilardo.“Aveva ripreso subito tutti i suoi contatti con Cosa Nostra, era ben voluto e si fidavano di lui” dichiara Riccio nel corso della sua deposizione.“Mi chiamava dalle cabine telefoniche ogni volta che pensava di avere qualche novità di rilievo e concordavamo un incontro: in quegli anni ho imparato a conoscere tutte le trazzere di Lentini” racconta ancora.Si incontravano nelle campagne: Ilardo raccontava a Riccio dei suoi incontri con Madonia, dello scambio di pizzini con il boss Provenzano, all’epoca latitante, dei suoi continui contatti con i Santapaola, con Aiello, con Galea.Il nome in codice di Ilardo era “Oriente”: nessuno conosceva la sua vera identità, fatta eccezione per Riccio, De Gennaro e il capo dell’autorità giudiziaria di Palermo il dott. Caselli.Grazie alle soffiate di Ilardo avvengono gli arresti di Vincenzo Aiello, Lucio Tusa, Salvatore Fragapane, Giuseppe Nicotra e di altri nomi noti di Cosa Nostra. “Ci dava descrizioni molto dettagliate dei luoghi degli incontri, ci riferiva numeri di telefono e targhe dei veicoli, così che le operazioni di pedinamento erano semplici: molte operazioni le seguivo e coordinavo io in prima persona solo per garantire la copertura ad Ilardo”.Alla fine di ogni incontro o di ogni operazione, Riccio relazionava alla Dia di Roma e all’Autorità Giudiziaria Palermitana.“L’arresto di Domenico Vaccaro, a fine ’94 aveva dato una svolta all’operazione Oriente” continua Riccio. “Aver eliminato Vaccaro ci avevano consentito di avvicinare sempre di più Ilardo a Provenzano, tanto da pensare che presto sarebbe avvenuto un incontro fra i due. Lo stesso Ilardo, che aveva ricevuto alcune lettere di Provenzano dal postino Simone Castello, me lo confermava”.Riccio ha la squadra pronta, le attrezzature idonee alla localizzazione gps e ha anche fatto alcune prove in esterna per verificarne l’efficacia: “L’ambasciata americana ci aveva messo a disposizione un localizzatore che avevamo posizionato in una cintura. Un semplice cambio di passante faceva diventare il segnale da intermittente a continuo: in questo modo Ilardo avrebbe potuto sengalarci l’arrivo di Provenzano e solo allora saremmo intervenuti”.Il cambio al vertice alla Dia di Roma sconvolge le cose: “Dopo il trasferimento di De Gennaro – prosegue Riccio nel suo racconto – mi sentivo sempre più solo. Sia la Dia di Palermo e che quella catanese erano visibilmente irritati dal fatto che fossi io a gestire una fonte così importante e trovavo difficile tenere i rapporti. Così chiedo il rientro”.Quella stessa estate del 1995, però, viene contattato dal Colonnello Mori che gli chiede di rientrare nei Ros. “Lavoravo nei corpi speciali da 30 anni, ero stanco, ma sapevo dell’importanza dell’incontro tra Ilardo e Provenzano per l’arresto di quest’ultimo così chiesi a Mori di poter lavorare come aggregato solo ai fini dell’arresto del boss Bernardo”. Da questo momento le cose cambiano, c’è qualcosa nella gestione delle indagini, delle operazioni, che lasciano Riccio perplesso.“A fine ottobre, rientrato ai Ros ricevo una chiamata da Ilardo il quale mi comunica dell’imminente incontro con Provenzano. Quando lo comunico a Mori lui non sembra avere nessun entusiasmo. Gli dico che ho la squadra pronta e perfettamente equipaggiata, ma lui mi dice che non vuole coinvolgere altri e che comunque non vorrebbe procedere subito all’arresto ma aspettare, avviare un pedinamento e attendere una situazione più gestibile. Detto ciò mi invia a Catania dandomi come referente il capitano Damiano”.“Arrivato a Catania – continua Riccio – mi accorgo che Damiano non ha nessuna idea dell’operazione che stiamo andando a svolgere e anche quando gli spiego l’importanza dell’operazione mi rendo conto che non saranno in grado di avviare un pedinamento senza mettere in pericolo la copertura di Ilardo”. La cosa innervosisce Riccio e lo comunica a Mori che però cerca solo di tranquillizzarlo.L’incontro, come noto alla cronaca, avvenne al bivio di Mezzojuso e Mori avrebbe avuto la possibilità di arrestare il super latitante Bernardo Provenzano e non lo fece. “Ilardo mi raccontò dell’incontro e mi diede tutti i dettagli come suo solito: io girai tutte le informazioni a Damiano e al dott. Caselli che era a capo dell’Autorità Giudiziaria di Palermo. Feci anche un sopralluogo seguendo le indicazioni di Ilardo e una volta ricostruito il luogo dove era avvenuto l’incontro tra i due diedi indicazioni a Damiano così da poter effettuarre gli appostamenti”.“Lo contattai diverse volte: non erano riusciti a trovare il posto e mi sembrò assurdo, era semplice, in una zona piana, il casolare si vedeva addirittura dal bivio. allora proposi a Mori di fare io l’osservazione, tanto ero abituato, ma Mori si rifiutò, mi disse che non era compito mio”.E non fu l’unico episodio che lo insospettì. Quando si capì che il secondo incontro con Provenzano non sarebbe arrivato a breve, si prospettò la possibilità di far costituire Ilardo. “Cominciarono ad arrivare lettere anonime che definivano Ilardo come un mafioso che aveva ripreso la sua attività e che stava espandendosi con arroganza. Si avvicinava anche il tempo della fine della sospensione della pena ed era chiaro che non gliel’avrebbero rinnovata”. Ma non è Cosa Nostra che non vuole più tra i piedi Ilardo: “Lui continuava tranquillamente a sbrigare le faccende dell’organizzazione e la corrispondenza con Provenzano non si era mai interrotta, quindi non avevo motivo di sospettare per la sua incolumità”. Avviata la procedura per farlo diventare collaboratore di giustizia però qualcosa non torna: “Mori mi disse che per competenza territoriale sarebbe stato giusto far collaborare Ilardo con Caltanissetta, ma io sapevo bene che Ilardo aveva grande fiducia in Palermo e che stimava particolarmente il dott. Caselli. Però non dissi di no: sapevo che Ilardo avrebbe trovato il modo di porre le sue condizioni. Contattai il dott. Tinebra a Caltanissetta, comunicandogli la volontà di Ilardo a diventare collaboratore: lui in un primo momento mi disse che non ci sarebbero stati problemi a collaborare con Palermo, ma poi ci ripensò”. In quello stesso periodo Ilardo parlando con Riccio, fece capire al Colonnello che avrebbe raccontato fatti particolari e delicati: “Un giorno mi chiese se mi fidassi dei miei vertici: c’era un nome che non voleva farmi perché se io l’avessi riferito si sarebbe capito che lui stava collaborando. Voleva parlare con Palermo perché si sentiva più sicuro, aveva certezza di un presidente del Tribunale di Caltanissetta che era legato a Cosa Nostra ed era pronto a raccontare dei legami delle cosche con i Tribunali di Catania e Caltanissetta”. Fu allora che ci fu una fuga di notizie: mentre preparano tutto per la trasferta di Ilardo a Roma per incontrare i magistrati di Palermo e Caltanissetta, qualche funzionario del Tribunale di Caltanissetta lascia capire che è ormai noto che Ilardo vuole collaborare. “Questa notizia mi turbò parecchio” riferisce Riccio. Qualcuno sapeva e aveva parlato. Ilardo non era preoccupato, perché la sua vita all’interno di Cosa Nostra proseguiva come sempre, “ma sapeva che le cose sarebbero cambiate non appena fosse iniziata la sua collaborazione“. Ilardo sapeva di non essere un pentito qualsiasi, faceva parte della “vecchia scuola” di Cosa Nostra, quella dei legami con i politici e con gli imprenditori. “Più volte, ricostruendo la spaccatura interna a Cosa Nostra, mi aveva parlato di come a Provenzano non piacesse Riina: Provenzano preferiva i vecchi metodi di dialogo ee stava tentando di ricucire la ferita aperta con la politica che per colpa di Riina si era allontanata da Cosa Nostra”. In particolare, Ilardo parla dell’avvocato Minniti, esponente della nascente Forza Italia: “Minniti aveva assicurato a Provenzano che con l’elezione di Berlusconi sarebbero arrivati atti che avrebbero favorito Cosa Nostra”. L’incontro con i magistrati si fece: i primi di maggio del 1996 fu proprio Riccio ad accompagnare Ilardo. “Prima dell’incontro con Tinebra e Caselli, lo presentai a Mori. La scena mi colpì: Ilardo si avvicinò di getto a Mori e gli disse ‘Guardi che molti attentati attribuiti a Cosa Nostra sono stati voluti dallo Stato’. Mori si irrigidì, strinse i pugni, abbasso lo sguardo e se ne andò. Non lo rividi più”. Nel corso dell’incontro con i magistrati Ilardo si rivolge solo a Caselli, ignorando Tinebra: “prima di sedersi spostò la sedia che era posta davanti a Tinebra e la mise davanti al dott. Caselli. Vidi subito che Tinebra non era soddisfatto. Nell’incontro Ilardo fu un fiume i piena: raccontò del suo ingresso in Cosa Nostra, di Rampulla e dei nuovi ordigni preparati. Fu Tinebra a bloccarlo, dicendo che si sarebbero rivisti a breve”. E l’incontro fu fissato per il 15 maggio del 1996: Ilardo a quell’incontro non arrivò mai. “Su richiesta di Caselli scesi a Catania e feci una decina di giorni di incontri con lui nei quali registrai le nostre conversazioni: Caselli voleva avere già materiale sul quale lavorare. Tinebra mi disse che non c’era bisogno di registrare, ma io non lo ascoltai e mi feci dare da Damiano il registratore e le cassette, quelle che si usano per le deposizioni giudiziarie. Ilardo mi parlò degli attentati di Firenze e Roma, dei legami di Cosa Nostra con Forza Italia, con Dell’Utri, ma anche dei senatori Sudano e Grippaldi, delle ombre sull’arresto di Riina, di Bruno Contrada “l’uomo dei misteri” (ex capo della mobile e numero 3 del Sisde, ndr)”. I colloqui vanno avanti fino alla mattina del 10 maggio, quando Ilardo  accompagna Riccio all’aeroporto di Catania, dove lo aspetta Damiano.  “Era sereno, sarebbe venuto a Roma con la famiglia e io dovevo occuparmi di sistemarli al sicuro. Ci salutammo e fu l’ultima volta che lo vidi”. Riccio incontra Damiano prima di partire per Genova: “Era cadaverico in viso, visibilmente preoccupato: a Caltanissetta si sapeva ormai che Ilardo voleva collaborare. Prontamente accesi il registratore che avevo in mano e di nascosto registrai quello che mi stava dicendo. Dei funzionari del Tribunale lo avevano riferito alla moglie di Madonia. Chiamai subito Mori, era inaccettabile”. Ilardo venne ucciso quella stessa sera: “Fu un accelerazione, avevano timore di quello che avrebbe potuto dire”. “Nonostante mi dissero che non fosse necessario io feci lo stesso la mia relazione: mi avevano chiesto un rapporto asettico, solo i nomi degli affiliati e le date, senza fare riferimento al contesto politico che invece Ilardo descriveva minuziosamente. Io non lo feci, scrissi tutto: feci il resoconto dei miei appunti e dei racconti di Ilardo e consegnai tutto a Di Matteo e Ingroia dell’Autorità Giudiziaria di Palermo”.  13.3.2015 PRESS SUD

 

“SVELO VI SVELO I RETROSCENA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA”

Conosce tanti retroscena della Trattativa Stato-mafia. Li ha vissuti direttamente come investigatore. Col ruolo di ispettore e di commissario della Polizia di Stato. Prima nella Criminalpol della Squadra mobile di Catania (Antiterrorismo), poi nella Direzione investigativa antimafia (Dia), nel cuore delle indagini su Cosa nostra e sulla Trattativa seguita alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Si chiama Mario Ravidà e dice: “Dopo trentacinque anni ho preferito andarmene per quello che ho visto e per quello che ho vissuto”. In questa intervista spiega perché.

“La storia è lunga. Tutto parte dal maxiprocesso istruito da Falcone dopo le dichiarazioni di Buscetta, con condanne esemplari in primo e in secondo grado. In terzo grado la mafia tenta di inficiare il verdetto della Cassazione con l’omicidio del giudice Scopelliti (un omicidio passato in secondo piano, però secondo me quest’uomo è un eroe dell’antimafia). Per quelle condanne, Cosa nostra si sente tradita e improvvisamente saltano gli accordi fra i boss e la politica. Riina decide si sferrare un attacco senza precedenti allo Stato. Prima con i delitti politici di Salvo Lima e di uno dei cugini Salvo di Salemi (entrambi legati alla mafia), poi con le stragi. Lo Stato cerca un accordo. Il primo, come dice Massimo Ciancimino, viene stipulato fra l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino (padre di Massimo) e Totò Riina, attraverso la consegna del famoso papello, nel quale si fanno delle richieste che non possono essere rispettate per intero. Alcune di queste, tuttavia, vengono accettate, a cominciare dall’abolizione del 41 bis (il carcere duro, ndr.)per più di trecento mafiosi. Oltre non si può andare. Riina non accetta e qualcuno (individuati dai magistrati negli ufficiali del Ros, Mori, Subbranni e Obinu) cerca un’altra via tramite un accordo con Provenzano, ma forse (forse…) anche con Matteo Messina Denaro. A un certo punto spunta il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che ha un confidente straordinario: Luigi Ilardo”.

Chi è il colonnello Michele Riccio?

“Il comandante della Direzione investigativa antimafia di Genova. Nell’ambito dell’antiterrorismo e dell’antidroga aveva maturato una grossa esperienza anche con la mitica quadra del Generale Dalla Chiesa”.

E chi è Luigi Ilardo?l

“Un mafioso di grande spessore, il capo della Famiglia mafiosa di Caltanissetta, colui che aveva preso le redini della Famiglia Madonia, con cui Ilardo era imparentato. Riccio lo intercetta per un traffico di stupefacenti e Ilardo, dopo essersi fatto quindici anni di galera, non vuole rientrare in carcere. E si affida all’ufficiale: la sua compagna ha da poco partorito due gemelli e lui vuole cambiare vita”

E che succede?

“Riccio e Ilardo fanno un accordo, assieme a Gianni De Gennaro (a quel tempo responsabile nazionale della Dia). Ilardo non vive a Caltanissetta, ma a Catania, quindi Riccio si vede con Ilardo nel capoluogo etneo e chiede l’ausilio di personale della Dia di Catania per condurre le sue indagini. Conosco tutti questi particolari direttamente, poiché allora ero alla Dia di Catania”.

Lei dunque ha conosciuto il colonnello Riccio?

“Certo, ci ho lavorato. Io e altri due colleghi gli davamo gli appoggi logistici necessari, lo accompagnavamo, assieme a lui facevamo i sopralluoghi per catturare i latitanti. Ilardo dava notizie incredibili a Riccio, Riccio veniva in ufficio, ci diceva qual era l’appartamento dove si nascondevano latitanti come Aiello, Fragapane, Lucio Tusa ed altri, e noi li catturavamo. Contemporaneamente Ilardo ci dice che il reggente di quel momento a Catania è tale Aurelio Quattroluni (riferimento del clan Santapaola), arrestato fra il 1994 e il 1995, quando, con l’operazione ‘Chiaraluni’, con una cinquantina di arresti, abbiamo quasi azzerato Cosa nostra catanese”.

Perché Ilardo è importante?

“Perché ci avrebbe portato a catturare Provenzano. Ilardo era in contatto con Provenzano attraverso i pizzini: il boss corleonese gli chiedeva delle cose e Ilardo, come rappresentante provinciale di Caltanissetta, le faceva. L’opportunità di incontrare Provenzano non era facile, si doveva costruire, ed era quello che si stava facendo, mentre a Catania, grazie al colonnello Riccio (su confidenze di Ilardo) catturavamo dei latitanti importanti della mafia etnea”.

Quindi che succede?

“Ilardo incontrò Provenzano a Mezzojuso, in provincia di Palermo e riferì questa circostanza a Riccio”.

Cosa gli riferì precisamente?

“Che doveva esserci un summit, sempre a Mezzojuso, di tutto il gotha di Cosa nostra, al quale avrebbe partecipato Provenzano”.

A quel punto che fa Riccio?

“Informa immediatamente il generale Mario Mori, il quale gli dice di rivolgersi a due ufficiali dei carabinieri di Caltanissetta e di coordinarsi con loro per le eventuali operazioni. Riccio arriva a Caltanissetta, incontra questi due ufficiali, ma questi dicono di non sapere niente dell’operazione. Riccio chiede mezzi, uomini, supporti di elicotteri. Stiamo parlando di una cosa importantissima, che avrebbe portato alla sconfitta Cosa nostra”.

E quindi che succede?

“A Riccio non viene dato alcun supporto. Alla fine l’ufficiale chiede un semplice Gps da piazzare nella macchina o in una cintura di Ilardo, in modo da individuare il luogo del summit (dato che la riunione si sarebbe svolta in aperta campagna), scendere con gli elicotteri, circondare la zona ed arrestare tutti. Di questo, non viene fatto niente, perché non arrivano ordini. Mori dispone di fare delle foto e basta. Questa cosa sconvolge Riccio”.

E cosa dimostra?

“E’ l’ulteriore conferma che Provenzano non si è voluto prendere. E siamo fra il 1995 e il 1996”.

Dopodiché?

“Di colpo la Dia rompe con Riccio senza un motivo plausibile. Questa cosa ci sconvolge. Malgrado questo, continuiamo a mantenere i contatti con l’ufficiale dei carabinieri: con lui, oltre ai rapporti di lavoro, era rimasta un’amicizia consolidata”.

Che tipo è il colonnello Riccio?

“Uno che crede fermamente nello Stato e nel lavoro, una persona leale, onesta, pulita, insomma un ufficiale tutto d’un pezzo”.

Com’è che la Dia rompe con Riccio?

“Un giorno Tuccio Pappalardo, alto dirigente della Dia (che conoscevo perché precedentemente era stato mio dirigente alla Criminalpol di Catania), ci chiude in una stanza e ci dice: ‘Dovete rompere  con Riccio. È un criminale, merita di essere arrestato: quando era all’antiterrorismo ha ucciso quattro terroristi nel sonno’. Noi lo contrastiamo: Riccio ci ha fatto fare un sacco di brillanti operazioni, ci ha fatto arrestare Quattroluni e diversi mafiosi, era arrivato alla cattura di Provenzano e non gli è stato consentito. Quando sente questa cosa, Pappalardo si irrigidisce e dice: ‘Questo Mori non me l’ha detto”.

Dunque, secondo questa testimonianza, da un lato Mori è al corrente della localizzazione di Provenzano, dall’altro non informa i vertici della Dia – che però rompono con Riccio – con cui sta collaborando per la cattura dei latitanti.

“Esattamente, ma dopo succede anche di peggio”.

Commissario Mario Ravidà, nel corso della prima puntata di questa inchiesta, lei ha raccontato il retroscena gravissimo dell’estromissione dalle indagini sulla cattura di Bernardo Provenzano del Colonnello dei carabinieri Michele Riccio, col quale ha collaborato per diverso tempo. In pratica, lei, poliziotto, che ha vissuto questa vicenda dall’interno della Dia di Catania, accusa pezzi delle istituzioni di non avere voluto catturare il boss corleonese già nella metà degli anni Novanta, quando un mafioso del calibro di Luigi Ilardo, capo della Famiglia di Caltanissetta, confida a Riccio dove si nasconde Provenzano.

“Esattamente. Ma non è tutto, perché il Colonnello Riccio, già estromesso dalle indagini con i pretesti più assurdi, subito dopo viene pure arrestato”.

Perché?

“Perché dieci anni prima, quando era uno dei responsabili dei Ros di Genova, aveva conosciuto, assieme ad altri investigatori dell’Antidroga, un chimico che riusciva a trasformare la morfina-base in eroina: un personaggio utilizzato dagli investigatori genovesi per sgominare i trafficanti di droga. Questa operazione (con l’avallo dei superiori di Riccio) veniva effettuata, credo, all’interno della caserma. Poi, tramite lo stesso chimico, veniva organizzata la vendita dell’eroina che consentiva di arrestare un sacco di gente. Un escamotage, forse poco legale, ma comunque efficace, per debellare il traffico di droga. Qualche sottufficiale approfittò della cosa e, a insaputa di Riccio e degli altri ufficiali, riuscì a trarre profitto guadagnando un sacco di soldi portati in Svizzera”.

Qual è l’accusa mossa nei confronti di Riccio?

“Credo solo quella di avere consentito la trasformazione della morfina base in eroina dentro la caserma. Allora arrestarono tutti. Ma il fatto singolare è che gli arresti avvennero dieci anni dopo rispetto alle confessioni di Ilardo. Ci fu un’improvvisa accelerazione delle indagini per arrestare Riccio. Che viene messo fuori gioco. Il colonnello, tuttavia, prima dell’arresto, stila un rapporto esplosivo, il rapporto Grande Oriente, dove denuncia la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso”.

Ok. Ma è importante chiarire cosa avviene prima dell’arresto di Riccio.

“Ilardo (fino ad allora confidente di Riccio) viene convinto a collaborare con la giustizia attraverso una dichiarazione d’intenti; sale a Roma, dove in un ufficio si incontra con lo stesso Riccio, col Generale Mori e con i magistrati Caselli, Tinebra e Principato. In questo incontro, Ilardo ha un comportamento strano: gira la sedia verso Caselli e parla solo con lui, dicendo di essere un appartenente a Cosa nostra e di avere commesso diversi omicidi. ‘Una delle cose più importanti della mia carriera criminale – dice Ilardo a Caselli – l’ho fatta negli anni Settanta, quando ho conosciuto un tale di nome Ghisena, un personaggio calabrese legato ai servizi segreti e alla massoneria, con cui andavo a prelevare dell’esplosivo in una caserma di militari vicino Trapani Birgi; esplosivo servito e utilizzato per commettere diversi attentati in Italia in quel periodo’. A un certo punto Tinebra si alza, ‘si certo, queste cose avremo modo di metterle per iscritto e di chiarirle…”.

E cosa succede?

“Ilardo, che fa capire di essere depositario di inconfessabili segreti di Stato, viene fatto rientrare a Catania. Dopo qualche giorno viene ucciso. Siamo nel 1996”.

E poco dopo arrestano Riccio, giusto?

“Esatto. E così questa situazione viene neutralizzata. Riccio aveva registrato Ilardo e consegna le bobine ai magistrati palermitani che istruiscono il processo Trattativa”.

Chi uccide Ilardo?

“Nel 2001 conosco un mafioso dopo una perquisizione. Entriamo in confidenza, dato che avevo avuto una disposizione di acquisire notizie confidenziali in quell’ambito. Costui si chiama Eugenio Sturiale, attualmente collaboratore di giustizia. La prima cosa che Sturiale mi dice è che ad uccidere Ilardo sono stati Maurizio Zuccaro e la sua squadra del clan Santapaola. Sturiale – che abitava nei pressi dell’abitazione di Ilardo – era stato testimone oculare del delitto. Successivamente si seppe che in un primo momento l’incarico di uccidere Ilardo l’aveva avuto Aurelio Quattroluni, il nuovo reggente di Cosa nostra a Catania. Quattroluni si oppone: ‘Scusate, ma perché dobbiamo ammazzare ‘u zu Gino?’. Quattroluni aveva delle preoccupazioni, poiché doveva ammazzare il capo di Cosa nostra di Caltanissetta. Improvvisamente viene scavalcato da Maurizio Zuccaro, che nel 1996 esegue l’omicidio”.

Che succede quando lei acquisisce queste notizie da Sturiale?

“Faccio una relazione di servizio in cui indico nomi, cognomi, i partecipanti all’omicidio, perfino le moto e le auto usate. La consegno alla dirigente della Dia di Catania dell’epoca. Quella relazione resta lettera morta per otto mesi, malgrado le mie pressioni (‘Scusate, quello di Ilardo non è un omicidio di mafia, è un omicidio che non si capisce da dove arriva, quindi indaghiamo’). Non fa alcuna indagine d’iniziativa, si limita a mandare in Procura la mia relazione, e la Procura non dà alcuna delega per indagare su questo omicidio”.

Che succede dopo che Sturiale le confida questi retroscena?

“Nel 2011 (dopo dieci anni in cui, da confidente, mi rivela particolari importantissimi su Cosa nostra catanese, puntualmente ignorate dai vertici della Dia, che tengono nel cassetto determinate relazioni), Sturiale passa allo status di pentito. A quel punto lo porto dal magistrato per formalizzare il suo nuovo status”.

Luigi Ilardo. una fonte preziosa sui segreti più inconfessabili di Cosa nostra. Nel 1996 fu ucciso a Catania e contemporaneamente l’ufficiale che aveva raccolto le sue preziose confidenze, il Colonnello dei carabinieri Michele Riccio, fu estromesso dalle indagini e arrestato

Poi si fa il processo agli autori dell’omicidio Ilardo.

“Sì. Vengono condannati pesantemente, ma sono gli appartenenti all’ala militare di Cosa nostra”.

Lei, però, in questa intervista, fa capire che esisterebbero altre responsabilità.

“Sono tutte domande che pongo al magistrato quando porto Sturiale al suo cospetto: e le connessioni istituzionali? Le omissioni? La relazione mandata con otto mesi di ritardo? Le deleghe che non abbiamo avuto dalla Procura? Il magistrato mi tranquillizza dicendo che è stato aperto un fascicolo per accertare eventuali responsabilità istituzionali. Il fascicolo si è chiuso con un nulla di fatto. Ancor oggi mi chiedo: per quale motivo la Dia estromise Riccio dalle indagini? Non c’è una motivazione vera. Lo dimostra il dottore Tuccio Pappalardo, quando, messo alle strette dai magistrati del processo Trattativa (‘Perché avete mandato via Riccio che vi ha fatto fare un sacco di operazioni clamorose?’), risponde: ‘Secondo me, Riccio non era una persona onesta’. Un argomento debole per una storia così grossa”.

Riccio che fa oggi?

“E’ in pensione. Lo sento spesso, ci incontriamo, è rimasta una grande stima reciproca”.

2-4 ottobre, 2018. L’INFORMAZIONE. Luciano Mirone

 

 

 

Corte Appello di Palermo conferma l’assoluzione del generale Mori  ADNKRONOS 19/05/2016 16:20  La Corte d’Appello di Palermo ha confermato l’assoluzione di primo grado del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995. La sentenza è stata emessa dopo tre giorni di camera di consiglio. L’accusa aveva chiesto la condanna a quattro anni e mezzo per Mori e a tre anni e mezzo per Obinu. Il Procuratore generale Roberto Scarpinato e il Pg Luigi Patrinaggio non hanno voluto commentare la sentenza emessa dal collegio presieduto da Salvatore Di Vitale. Il generale Mario Mori ha appreso dell’assoluzione mentre teneva una lezione all’Università di Chieti, in Abruzzo. Il suo legale, Basilio Milio, non è ancora riuscito a parlare con l’ex ufficiale del Ros ma ha annunciato la sentenza al colonnello Giuseppe De Donno, co-imputato di Mori nel processo trattativa, che ha riferito l’esito del processo al generale Mori.

Nel processo di primo grado erano bastate poco meno di otto ore di camera di consiglio per emettere la sentenza di assoluzione per il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu perché “il fatto non costituisce reato“. Questa volta, nel processo d’appello, ce ne sono volute quasi ottanta di ore. E il verdetto è lo stesso. Anche questa volta i due imputati, che hanno sempre respinto l’accusa di avere favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano, sono stati assolti. Ci sono voluti due anni e più di venti udienze per decidere che i due ex ufficiali del Ros non hanno favorito il capomafia nel 1995. La Procura generale, rappresentata da Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio, ha accusato i due imputati di avere per mesi trascurato volutamente, nel 1995, le indicazioni fornite al colonnello Michele Riccio dal suo confidente Luigi Ilardo. E di avere taciuto alla Procura gli elementi che avrebbero potuto portare all’identificazione dei favoreggiatori del boss. Nella lunga requisitoria dell’accusa, i due pg hanno più volte ribadito che la carriera di Mori sarebbe stata caratterizzata da una “deviazione costante dai doveri istituzionali e dalle procedure legali” volta ad assecondare inconfessabili interessi extraistituzionali. Anche in questo processo è stata protagonista la mancata perquisizione del covo del boss Totò Riina, per la quale Mori venne assolto definitivamente. “Se Mori avesse avvertito la Procura che stava per sospendere il servizio di osservazione al covo – hanno detto i magistrati dell’accusa – la Procura avrebbe immediatamente perquisito il nascondiglio scoprendo documenti scottanti che avrebbero potuto svelare i segreti di un potere che, declinando i volti di uomini dello Stato come Andreotti, per decenni avevano avuto rapporti con Riina”.

Scarpinato vede nelle condotte di Mori “una omogeneità e il fine di assecondare interessi extraistituzionali”. Il pg arriva a definire Mori un “soggetto dalla doppia personalità e dalla natura anfibia”. Ma Mori non ci sta e nelle dichiarazioni spontanee rese poco prima che i giudici entrassero in Camera i consiglio, ha spiegato a gran voce: “Il mio comportamento è stato sempre lineare”. Ha spiegato che “nella cattura di Rina tutto fu lineare”, e ha anche tirato in ballo il suo accusatore, il pg Luigi Patronaggio, spiegando: “Il ritardato blitz a casa sua fu una scelta presa d’intesa fra magistratura e carabinieri, e all’epoca il dottor Patronaggio era il pm di turno”. “Sono stato accusato dalla procura generale di fare parte della massoneria e di avere rapporti con la destra eversiva, ma non sono state portate prove. Ho avuto la stima di un magistrato al di sopra di ogni sospetto che ha fatto un’indagine importante sulla massoneria, il dottore Cordova”, ha anche detto Mori.

La sua difesa, rappresentata dagli avvocati Enzo Musco e Basilio Milio, durante l’arringa difensiva aveva sostenuto: “Questo è un processo ‘teorematico’. La Procura generale ha portato elementi funzionali a sostenere un teorema precostituito con poca, o per meglio nulla, attenzione alle prove che confutano e smontano inequivocabilmente il teorema accusatorio”. Contrariamente a quanto accadde nel primo processo, nell’appello l’accusa ha deciso di rinunciare a due importanti aggravanti che erano stati contestati in precedenza: quello disciplinato dall’articolo 7, e cioè aver avvantaggiato Cosa nostra, e quello previsto dall’articolo 61, comma 2, del codice di penale, che invece sanziona l’aver commesso il reato per assicurare a sé o ad altri il prodotto o l’impunità di un altro reato.

PROCURA – Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpianto e il sostituto procuratore Luigi Patronaggio, subito dopo la lettura della sentenza, hanno lasciato l’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo senza parlare con i giornalisti. Al momento, quindi, c’è un no comment dalla Procura generale sulla nuova assoluzione dei due ex ufficiali dei carabinieri. L’accusa aveva chiesto la condanna a 4 anni e mezzo per Mori e a 3 anni e mezzo per Obinu.

Attilio Manca suicidato per salvare Bernardo Provenzano

 Parla la signora Angela Manca: «Attilio era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo. Fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante».

Ci sono avvenimenti e circostanze che  condizionano per sempre l’esistenza di alcune persone. Nel caso  della famiglia Manca il loro vivere è stato segnato da ciò che non è avvenuto, cioè la cattura del boss di mafia Bernardo Provenzano che per lunghi anni è stato latitante.

Inchieste e testimonianze stanno svelando verità spaventose riguardo la mancata cattura di uno dei più sanguinosi boss di mafia, come Bernardo Provenzano il cui nome torna predominante nella vicenda di Attilio Manca.

Abbiamo parlato con Angela Manca, madre del medico trovato morto a Viterbo nel 2004. Una morte archiviata dalla Procura di Viterbo come suicido. L’autopsia effettuata sul cadavere di Attilio parla di overdose e certifica la presenza di eroina ed alcool nel corpo del medico siciliano. Ma chi vuole negare la verità?

«Il depistaggio è iniziato da subito, già da quella autopsia effettuata velocemente e senza tenere conto di molti fattori: lividi diffusi, ecchimosi, sangue e quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente un mancino. Mio figlio era un medico molto apprezzato, non avrebbe mai fatto uso di droghe. Passano gli anni ma nessuno vuole scoprire la verità nonostante contraddizioni e depistaggi che sono sotto gli occhi di tutti

Depistaggi, insabbiamenti, ricostruzioni falsate e, soprattutto, le dichiarazioni di vari pentiti di mafia portano ad un’altra verità almeno per voi della famiglia, per gli avvocati, per chi conosceva Attilio e per chi presta un po’ di attenzione a questa assurda e dolorosa vicenda. 

«Certo. Attilio è stato ucciso, era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo e fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia Bernardo Provenzano, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone, dopo anni di latitanza. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». 

In questi anni non avete mai smesso di cercare la verità sulla morte di Attilio e, affiancati dagli avvocati Fabio Repici e Antonio Ingroia, chiedete da tempo la riesumazione del cadavere, finora sempre negata.

«È un morto che potrebbe “raccontare” tanto: Attilio ritrovato riverso sul letto, semi nudo e con il viso sfregiato. Eppure la riesumazione viene ripetutamente negata».

Le Istituzioni vi sono state accanto per arrivare a scoprire ciò che realmente è successo ad Attilio?

«No, non siamo mai stati ascoltati da nessuno. Siamo stati ricevuti solo dal ministro della Giustizia Bonafede che ci ha dimostrato la sua vicinanza umana e promesso un comunicato sulla vicenda di mio figlio, ma per ora non abbiamo letto nulla».

Parlare con la signora Angela è importante anche per conoscere particolari e circostanze che sono in netta contraddizione con la ricostruzione fatta al momento del ritrovamento del cadavere di Attilio.

Cosa c’era di strano nella camera di Attilio?

«Un corpo martoriato, il setto nasale rotto (per la caduta sul letto, si è detto), seminudo, con evidenti ecchimosi. Fra le tante cose occorre dire che Attilio era solito togliere il portafogli e le chiavi appena rientrava in casa per riporli in un cassetto. Non lasciava nulla nelle tasche dei pantaloni che sfilava e lasciava in maniera disordinata da qualche parte nella stanza. Quando lo hanno ritrovato indossava soltanto una maglia arrotolata sulla schiena, mentre i pantaloni con le chiavi e il portafogli ancora nelle tasche, sono stati trovati ripiegati e riposti ordinatamente sopra una sedia.

Nnessuno indumento intimo, invece, è stato mai ritrovato nella camera. Poi quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente mancino e quella siringa senza impronte digitali. Tanti elementi che non sono stati considerati». 

Ci racconta dettagli non trascurabili Angela Manca. Anche se la ricostruzione ufficiale, sino ad oggi, ha archiviato la storia del medico siciliano come un tossicodipendente. Nulla di più lontano dalla realtà. 

Un incontro, quello di Attilio Manca, con la mafia violenta e sanguinaria di Bernardo Provenzano, che si sarebbe potuto evitare se non ci fosse stata quella parte di Stato deviato che ha portato ad una Trattativa (infinita) con i vertici dell’organizzazione mafiosa e che, ancora oggi, dopo decenni, non permette di far luce sulle stragi e sui troppi morti che gravano pesantemente sulla coscienza di tutti noi.

La parte malata delle istituzioni ha proibito, ad alcuni dei suoi uomini, di catturare Riina prima e Provenzano poi, e Matteo Messina Denaro ancora oggi,  lasciandoli vivere tranquillamente nei propri paesi di origine. In quelle terre dove scorre il sangue dei morti ammazzati, nella assoluta certezza di restare intoccabili, come testimoniano molte persone. 

Una rete di protezione fatta di boss e picciotti, di uomini in divisa e politici corrotti che ha garantito latitanze eccellenti e coperture anche oltre frontiera come nel caso di Attilio, massacrato per aver riconosciuto a Marsiglia il paziente scomodo. Si arriverà alla verità secondo lei?

«Stanno trascorrendo troppi anni – dice la signora Angela con la voce rotta dal dolore -. Temo di non vivere abbastanza per vedere finalmente riaffermata la verità per mio figlio e nessuno della politica si sta muovendo in tal senso. Riesumare il cadavere di Attilio potrebbe finalmente chiarire molte cose». 

Oltre a rendere giustizia alla famiglia di Attilio Manca, la verità – sino ad ora negata – potrebbe dare fiducia a chi, ogni giorno, si adopera nella ricerca della verità e nel combattere non solo la mafia con la  lupara ma, soprattutto, per debellare quel malaffare che si mostra con la faccia pulita di funzionari e appartenenti alle istituzioni che, invece, con il proprio operato tradiscono il ruolo ricoperto, la Costituzione, ed un Paese intero. WORDNEWS.IT 6.8.2020


 QUANDO LO STATO TRATTO’ CON COSA NOSTRA 


COLONNELLO RICCIO: “ISTITUZIONI DEVIATE MANDANTI DI DELITTI ECCELLENTI E DI STRAGI”  1 Ottobre 2018 T&M DI FRANCESCA SCOLERI  Intervista al Colonnello Michele Riccio, importante testimone del processo trattativa Stato-mafia

Colonnello Riccio, ad un certo punto della sua attività investigativa, Luigi Ilardo, suo confidente, Le riferì notizie sullo scenario politico che andava delineandosi. Lei le ha rese note deponendo al processo trattativa: “Nel ’94, nel corso di una riunione a Caltanissetta, fu comunicata ai capimafia locali la strategia di Bernardo Provenzano: tornare a un vertice unitario di Cosa nostra, far cessare la violenza e appoggiare Forza Italia con cui si era stabilito un contatto tramite un personaggio insospettabile che era nell’entourage di Berlusconi. In cambio Cosa nostra avrebbe avuto dei vantaggi anche normativi”.
Ritenne subito attendibili quelle parole? E in seguito, si ritrovò a riflettere sull’incredibile risultato elettorale riportato da quel partito e da quel leader di partito proprio in Sicilia e sulla promozione di determinate leggi palesemente d’ostacolo per la lotta alla mafia ?

“Giudicai attendibile Ilardo sin dal nostro primo incontro. Mi parlò subito di Rampulla, amico dai tempi dell’università di Messina frequentata assieme ai vari Romeo Paolo, Aldo Pardo e Rosario Cattafi. Rampulla dopo aver militato per un certo tempo nella destra extra parlamentare, sviluppò una vera e propria passione per gli esplosivi che in breve tempo lo condusse ad essere un esperto nel realizzare sofisticati ordigni esplosivi con attivazione anche a distanza.
Era certo che lui fosse uno degli artificieri della strage di Capaci. Lo aveva presentato tempo prima ai vertici di Cosa nostra a Palermo, dove aveva dato dimostrazioni delle sue capacità. Ma quando fece un accenno all’esistenza di quel connubio di ambienti politico – istituzionali deviati che con il supporto dei servizi segreti, della massoneria e della destra eversiva aveva negli anni Settanta promosso le stagioni dei golpe e ora con l’apporto della criminalità organizzata di tipo mafioso le stragi e gli attentati degli anni novanta, destò ancora di più la mia attenzione. Fece un nome, quello del gran maestro Savona Luigi, quale anello di congiunzione tra questi mondi, ed allora ebbi la certezza di trovarmi di fronte a qualcosa di veramente importante che stentai a credere si fosse davvero materializzato. Savona Luigi, il potente massone torinese, era già stato oggetto di mie indagini condotte con l’allora ten. col. Bozzo Nicolò mio superiore nei nuclei speciali anticrimine che avevamo avviato su incarico particolare del gen. Carlo Aberto dalla Chiesa. Indagini nei confronti di quegli ambienti deviati istituzionali ed alle loro strategie criminali di cui lo stesso Generale ne parlò in seguito ai magistrati di Milano, Turone e Colombo nel maggio 1981. Dopo aver informato dei risultati di quel primo incontro Gianni de Gennaro, mio direttore alla DIA che, mi aveva dato l’incarico di gestire Ilardo, nei parlai successivamente anche con Bozzo il quale disse: “comandante finalmente ci siamo”. Quando alle elezioni politiche del 2001 Forza Italia con i suoi alleati, realizzò una vittoria senza precedenti, 60 seggi a zero, ebbi l’ulteriore conferma che Provenzano era riuscito nel suo compito di compattare Cosa nostra e indirizzarla ad appoggiare quel nuovo soggetto politico, ma solo nell’apparenza, con il quale aveva stretto un patto di reciproco sostegno. Provenzano ormai libero dell’ingombrante figura di Riina, Bagarella e compagni aveva finalmente condotto l’organizzazione, verso acque più tranquille, un ritorno all’antico, più colloquiante con quei settori amici, propri di quell’apparato istituzionale deviato. Ambienti politici di riferimento, come mi confidò Ilardo, che sin dagli inizi degli anni Novanta gli avevano consigliato di aspettare con pazienza tempi migliori vista l’incertezza politica di quei tempi e di non seguire la strategia, sempre più antagonista con lo Stato, che stava prendendo Riina che poi lo avrebbe condotto a compiere le stragi e gli attentati degli anni Novanta. In realtà era stato proprio Provenzano a strumentalizzare con abilità la parte violenta dell’azione di comando del compagno, in modo da far rinascere come la fenice dalle sue ceneri una nuova Cosa nostra più moderna, più colloquiante con le Istituzioni, più affaristica e meno nota agli inquirenti”.

Di pochi mesi fa, la sentenza del processo che l’ha vista protagonista fra i testimoni; Mario Mori condannato a 12 anni e con lui Antonio Subranni, l’uomo che Luigi Ilardo avrebbe indicato fra i collusi semmai fosse arrivato a formalizzare la sua collaborazione con le forze dell’ordine. Non ci arrivò. Forse per l’Italia non ci sarà mai una vera giustizia riguardo questi fatti che raccontano molto più di quel che viene colto dall’opinione pubblica, ma almeno per lei che vide vanificare e minimizzare le sue fatiche investigative proprio da questi individui, c’è la dovuta giustizia in queste condanne ?

“Questa prima sentenza, anche se è un primo passo importante, è ancora lontana per rendere giustizia a quanti hanno creduto e dato tutto, alcuni anche la vita a questo Stato ancora ostaggio di poteri oscuri. E i loro servi prima millantando visioni risorgimentali ed interessi atlantici hanno dato vita ad un unico piano criminale reiterato negli anni con un sistematico innalzamento del livello di “tensione” per assicurare il potere agli ambienti politici di riferimento e poi dopo stretto intese famigerate con Cosa nostra. Intese e patti che avevano poi visto quelle istituzioni deviate essere, in alcuni casi, i mandanti di delitti eccellenti e di stragi di cui la Mafia era stata indotta ad esserne l’autore ed a pagarne poi le conseguenze”.

Il mancato arresto di Provenzano a Mezzojuso è qualcosa di sconcertante; l’Italia intera attendeva quel momento; le bombe e il sangue delle stragi di tre anni prima erano ancora nell’aria e per quanto fosse ovvio come le lunghe latitanze dei boss corleonesi fossero frutto di patti sporchi, nessuno poteva davvero immaginare cosa stesse accadendo. Lei fu il primo a vivere lo sconcerto dinanzi alle scuse pretestuose dei suoi superiori che impedirono quell’arresto. Provi a raccontare come visse quei momenti. Ricordiamo che oltre a non intervenire, le fu chiesto di non fare relazioni di servizio in merito alle confidenze di Ilardo sul casolare occupato da Provenzano…

“Non potrò mai dimenticare il senso di frustrazione e di amarezza che seguì dopo che avevo individuato il casolare di Mezzo Juso dove Provenzano organizzava gli incontri con gli affiliati a lui più vicini. L’imbarazzo e il disagio che provavo ad ogni incontro con Ilardo nel dover affrontare le sue domande se avevamo già visto Provenzano nel luogo che ci aveva indicato e se era stata già programmata la sua cattura, mentre io dovevo chiedergli invece di ripercorrere ancora il tragitto fatto nei giorni precedenti per recarsi a Mezzo Juso. Ciò perché gli ‘specialisti’ del ROS di Mori non avevano nemmeno individuato la strada che conduceva al casolare, che era di una facilità sconcertante, e nonostante avessi riconfermato più volte le indicazioni date. E con Ilardo fummo costretti a ripetere ben due volte il tragitto con il timore di essere scoperti. La situazione non cambiò nemmeno quando provai a propormi nell’eseguire io quel lavoro e i successivi appostamenti ricordando che già in altre occasioni e con i medesimi scenari operativi con l’ausilio di pochi uomini della DIA, avevo sviluppato con successo le indicazioni di Ilardo giungendo all’arresto di più latitanti di livello dell’organizzazione. La risposta fu sempre la stessa da parte di Mori, quello non era un mio compito, ma dei suoi ‘specialisti’. Gli “specialisti”, ovvero De Caprio che non faceva altro che lamentarsi del superiore che non gli dava a suo dire né i mezzi né il personale per questo lavoro. Ero sconcertato, allibito ad assistere a queste scene. Che dire: Maschere. Silenzio assoluto era la risposta che avevo quando chiedevo l’esito dello sviluppo delle indagini in merito alle indicazioni precise date sempre da Ilardo nei confronti dei favoreggiatori del boss latitante, come targhe, nomi, numeri di telefono da porre sotto controllo. Questo stato di inefficienza e di omissione proseguì per tutta l’indagine. Gli esempi sarebbero tanti, molti riportati nel mio rapporto Grande Oriente. Avrei voluto che qualcuno avesse chiesto spiegazioni punto su punto su quanto era stato fatto in merito alle informazioni riportate nel referto. Input investigativi nessuno. Invece ebbi la richiesta di non fare relazioni scritte, disposizione che ovviamente non esegui e produssi 20 relazioni a Mori lungo tutta l’indagine che come al tempo della DIA erano poi inoltrate all’AG di Palermo referente dell’indagine. Nonostante l’evidenza dei riscontri, come l’esistenza di altri referti in cui si faceva menzione e riferimento a queste relazioni, Mori ha negato l’esistenza di questi importanti documenti. E come quel detto popolare che dice: “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi” il collega non si ricordò che altro suo dipendente fortunatamente mi aveva dato copia su floppy disk delle relazioni, su mia richiesta con la scusa che mi sarebbero servite quando un domani sarei stato chiamato in qualche aula di tribunale a testimoniare sul lavoro svolto. Fatto grave non solo nei confronti dell’AG, ma ancor più del dipendente che, quale fiducia potrà mai avere del superiore quando si troverà ad affrontare contesti investigativi delicati e le relazioni di servizio costituiscono tutela e testimonianza del lavoro svolto? La vicenda che considero ancor più inaccettabile fu poi la richiesta di pilotare la collaborazione formale di Ilardo solo nei confronti dell’AG di Caltanissetta dott. Tinebra escludendo l’AG di Palermo con la quale era stata sin dall’inizio avviata l’indagine. Ovviamente non eseguii la disposizione, lasciando che Ilardo incontrasse le due AG e facesse autonomamente le sue scelte.Pochi giorno dopo quell’incontro Ilardo a Catania veniva ucciso a colpi di arma da fuoco da killers di Cosa nostra”. 

L”ombra dei servizi segreti aleggia su tutti i casi relegati alla voce “misteri italiani”. Il rapimento di Moro, i legami con la banda della Magliana, Cosa nostra, le telefonate della Falange armata dagli uffici del Sismi, sono solo alcune delle vicende che hanno interessato la presenza dei servizi in posizioni tutt’altro che chiare. Come immaginava questo apparato dello Stato quando decise di diventarne servitore e cosa pensa oggi?

“Pur provenendo da una famiglia di ufficiali dell’esercito, negli anni trascorsi all’accademia militare e poi alla scuola di applicazione, non mi posi mai domande sulla esistenza dei Servizi Segreti. Le mie conoscenze si fermavano ai libri di avventure e quanto visto al cinema. La prima conoscenza l’ho fatta quando ero al comando della tenenza di Muggia un cittadina attigua a Trieste e posta proprio sul confine jugoslavo, erano gli anni ‘72 – ‘75. Erano anni in cui si addensavano con maggior frequenza nubi minacciose sul panorama nazionale e l’instabilità delle nazioni ad Est era sempre più crescente con frequenti problematiche ai confini. Da quella prima conoscenza non ebbi una grande impressione di efficienza, tutt’altro. Giudizio che ho confermato anche in seguito nei tantissimi contatti e le tante conoscenze avute, specialmente a partire dall’ottobre 1978 quando entrai a far parte dei Nuclei speciali Lotta al Terrorismo del gen. dalla Chiesa mio superiore dal 1975 e per il quale avevo già svolto più incarichi investigativi. Da quegli ambienti non ho mai ricevuto una informazione degna di nota, il loro compito era evidentemente altro. Parlare di inquinamenti, depistaggi, delegittimazione non basterebbe un libro, credo che la migliore e sintetica risposta sia nelle parole di un mio vecchio amico: – Quantunque incapaci, i servizi segreti italiani si presentarono per quello che volevano essere: ladroni, ladri, ladruncoli. Certamente non erano al servizio dello Stato”

Per restare in tema di servizi segreti, Faccia da mostro,è morto di morte naturale ?

“Faccia da mostro, come lo definì sinteticamente Ilardo era. secondo le sue descrizioni, una persona alta, magra e di brutto aspetto. Questi faceva parte o era al soldo dei Servizi Segreti ed ebbe un ruolo nelle morti di Claudio Domino il bambino ucciso a Palermo nell’ottobre del 1986, così negli omicidi sempre avvenuti a Palermo dell’agente di PS Agostino Antonino, della moglie Castelluccio Giovanna nell’agosto 1989 e poi dell’altro agente di PS e collaboratore del SISDE Piazza Emanuele del marzo 1990. Giovanni Aiello ritenuto faccia da mostro nell’agosto 2017 è morto d’infarto. Le morti sospette nei servizi segreti e negli ambienti collaterali non sono state affatto una rarità e sono state sempre provvidenziali per il Potere”

Cosa pensa delle incredibili carriere che accomunano uomini dell’arma “distratti” – nella migliore delle ipotesi definiti “negligenti” – e come se le spiega ?

“Senza affrontare lunghi discorsi, desidero solo riportare alcuni avvenimenti. Nel 1986 Mario Mori assume il comando del gruppo centro dei carabinieri di Palermo e l’allora colonnello Antonio Subranni quello della legione carabinieri di Palermo. Incarichi che ricopriranno fino ad ottobre del 1989. Capo della squadra mobile di quella città in quegli anni è Arnaldo la Barbera a doppio servizio tra la PS e il SISDE (nome in codice Catullo). Bruno Contrada è tra i vertici di comando al SISDE. Nella mia informativa Grande Oriente verrà indicato secondo le dichiarazioni di Ilardo ‘l’uomo dei misteri’ e trait-d’union fra Cosa nostra e istituzioni. Mori sarà teste della sua difesa dopo la consegna del mio rapporto alle AG siciliane. Il 7 ottobre 1986 un killer tuttora sconosciuto uccise con un colpo di pistola nel quartiere San Lorenzo un bambino Claudio Domino. Nel maggio 1989 il vice questore Arnaldo La Barbera arresta Salvatore Contorno nei pressi di Palermo. Nei primi dell’estate 1989 giunsero le lettere del “corvo” con le quali iniziò la delegittimazione del giudice Falcone accusato di aver organizzato in combutta con Gianni De Gennaro il rientro in Sicilia di Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi di Cosa nostra. Il 20 giugno 1989 il fallito attentato all’Addaura; viene rinvenuto un ordigno esplosivo composto da un timer e 58 candelotti di dinamite, che doveva colpire Falcone e alcuni magistrati svizzeri riunitisi per esaminare i canali del riciclaggio dei proventi illeciti di Cosa nostra. L’artificiere dei carabinieri il maresciallo Tumino, distrugge maldestramente il timer dell’ordigno esplosivo, limitando l’opera di verifica dei periti che dimostrano ugualmente la pericolosità distruttiva della bomba. Iniziarono presto a circolare voci che si trattava di un finto attentato e che addirittura fosse stato organizzato dalla stessa vittima. Nel processo poi celebratosi a Caltanissetta emerse che vi fu una colpevole operazione indirizzata a sminuire l’enorme gravità dell’attentato, riportando un semplice atto minatorio, ciò anche a seguito delle deposizioni del l dott. Domenico Sica, capo dell’Alto commissariato antimafia, del dott. Francesco Misiani altro magistrato e collaboratore di Sica e del ten col. Mori Mario al tempo comandate del gruppo di Palermo. La sentenza emessa dalla Corte di Cassazione del 19 ottobre 2004 riporta: “Resta il dato sconcertante che autorevoli personaggi pubblici investiti di alte cariche e di elevate responsabilità, si siano lasciati andare in una vicenda che, per la sua eccezionale gravità, imponeva la massima cautela, a così imprudenti dichiarazioni tali da fornire lo spunto ai molteplici nemici di inventare la tesi del falso attentato”. Nell’ agosto 1989 in Palermo avveniva l’omicidio dell’agente di PS Agostino Antonino, e della moglie Castelluccio Giovanna. Seguito poi nel marzo 1990 dall’omicidio avvenuto sempre nel medesimo capoluogo dell’agente di PS e collaboratore del SISDE Piazza Emanuele. Questi omicidi collegati al fallito attentato dell’Addaura, furono oggetto da parte di numerosi depistaggi posti in essere, in parte, anche dagli stessi organi investigativi. Ilardo nel corso della sua collaborazione mi rappresenterà che avrebbe fatto luce su tutti questi avvenimenti nel corso della sua collaborazione ufficiale con l’AG, notizia che riportai ai miei superiori documentandola anche per iscritto. Mai nessuno di loro, visto che riguardavano avvenimenti accaduti nel corso del loro comando in Sicilia, mi chiese solo per curiosità notizie in merito. Certo è che prima di incontrare i magistrati di Palermo e Caltanissetta a Roma presso il comando ROS, nel presentare Ilardo a Mori alle dure e improvvise parole del collaboratore dirette frontalmente al collega: ‘Molti attentati che erano stati addebitati esclusivamente a Cosa nostra, in realtà erano stati commissionati dallo Stato..”’, questi preferì non rispondere, come mi sarei aspettato che facesse, ma preferì, contrariato, allontanarsi precipitosamente dall’ufficio. Tempo dopo Mori quale direttore del Sisde, nominato nel 2001 dal governo Berlusconi, si occupò della posizione di Dell’Utri e Previti, con due informative del Sisde, anticipate da La Repubblica del 7 settembre 2002, , che rivelava che un’informativa del Sisde indirizzata alla presidenza del consiglio aveva segnalato che Dell’Utri e Previti (già ministro della difesa) si trovavano a rischio di attentati da parte di Cosa nostra, in considerazione del fatto che essi erano stati “mascariati” , ovvero ne era stata infangata l’immagine. Il dott. Tinebra nello stesso periodo e dallo stesso governo fu nominato al vertice del D.a.p.. Il gen. Subranni è stato consulente del presidente della Regione Siciliana Provenzano (Forza Italia) .Prof. Provenzano che, in qualità di commercialista della famiglia dell’allora latitante Provenzano, fu arrestato dall’Ufficio istruzione di Palermo negli anni Ottanta e successivamente prosciolto. In quel procedimento emerse, comunque, pacificamente che il prof. Provenzano era stato fiduciario di Saveria Benedetta Palazzolo, notoriamente compagna di Bernardo Provenzano.”

Cosa sente di dire pubblicamente al magistrato Nino Di Matteo dopo quel processo e dopo quella sentenza ?

“Ancora oggi chi cerca effettivamente la libertà, chi tenta di farlo viene duramente combattuto, osteggiato, messo all’angolo per poi essere calunniato, a secondo il momento e le convenienze. Si accorgerà di essere sempre più solo, con il supporto di pochi, non farà parte di alcuna squadra e la sua voce avrà sempre meno eco, per lui niente sconti, nessun favore e tutto ciò accadrà nell’indifferenza più totale. Quando molti conoscono la verità e tacciono o per viltà o nella convinzione di trarne un vantaggio. Ambiguità, ipocrisia, rinuncia alla propria identità ed al proprio dovere sono compromessi per la costruzione di una comoda e finta democrazia. Un male che ha radici antiche. Parlare, ricercare la verità, comprendere la storia è un atto di libertà.”

 

 

 a cura di Claudio Ramaccini – Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie Progetto San Francesco