PENTITI, FALSI PENTITI, COLLABORANTI e TESTIMONI di GIUSTIZIA

 

 

Sono stato pesantemente attaccato sul tema dei pentiti. Mi hanno accusato di avere con loro rapporti “intimistici”, del tipo “conversazione accanto al caminetto”. Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevo le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo “nei cassetti” la “parte politica” delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del “corvo”, in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i “Corleonesi”!
Insomma, se qualche risultato avevo raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere, avevo calpestato il codice e commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.
Giovanni Falcone

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10.10.2023 COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA- AUDIZIONE del Ministro dell’interno, Matteo Piantedosi,

Ad oggi risultano gestiti 824 collaboratori di giustizia e 2.661 loro familiari, nonché 882 testimoni di giustizia e 2.861 loro familiari.
Nella medesima direzione è stato dato un rinnovato impulso al procedimento volto alla definizione dei regolamenti attuativi della legge n. 6 del 2018, proprio sui testimoni di giustizia, al fine di potenziarne ulteriormente il sistema di gestione.


«Pentitismo e garanzie» – Intervento di Giovanni Falcone al convegno del 22 aprile 1986 promosso dall’ANM a Torino


Secondo gli ultimi dati disponibili la popolazione protetta, in Italia, ammonta a un totale di 6246 persone, ma tra collaboratori e testimoni di giustizia, i destinatari diretti di protezione sono solo 1319. Di questi, 78 sono coinvolti in misure di tutela per aver testimoniato il malaffare, in qualità di semplici cittadini che hanno puntato il dito contro le mafie del proprio territorio. Sono i cosiddetti “testimoni di giustizia“, costretti a nascondersi – e a nascondere i propri cari, 255 persone in tutto – dalle organizzazioni che hanno contribuito a combattere, esuli dalla terra che hanno provato a migliorare con la propria denuncia.

  • Collaboratori protetti: 1,277 (di cui 63 donne);
  • Familiari dei collaboratori: 4915;
  • Testimoni protetti 78 (di cui 26 donne);
  • Familiari dei testimoni: 255;

 

 

STORIE  DI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA



 

 


TESTO COORDINATO NUOVE NORME IN MATERIA DI SEQUESTRI DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE E PER LA PROTEZIONE DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA, NONCHÉ PER LA PROTEZIONE E IL TRATTAMENTO SANZIONATORIO DI COLORO CHE COLLABORANO CON LA GIUSTIZIA

Decreto-Legge_15_gennaio_1991x_convertito_nella_L._15_marzo_1991x_n._82


COLLABORATORI E TESTIMONI DI GIUSTIZIA – REL. COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA


PENTITISMO E GARANZIE – RELAZIONE DI GIOVANNI FALCONE – AUDIO


SERVIZIO PROTEZIONE TESTIMONI e COLLABORATORI di GIUSTIZIA 


“Quanto accaduto con i processi Borsellino 1 e bis, deve indurre noi magistrati a riflettere sulla necessità che le indagini preliminari e i processi che ne conseguono siano sempre improntati a criteri di assoluto rigore nell’analisi degli elementi di prova, senza farsi condizionare dal logiche di tipo emergenziale, da convinzioni preconcette o ancora dalla incapacità di cambiare idea quando gli accertamenti processuali lo impongono sulla base di una analisi obiettiva e scevra da condizionamenti di sorta. Credo di potere affermare che Paolo Borsellino sarebbe pienamente d’accordo con questa affermazione sé è vero che in un discorso tenuto agli studenti di Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989, pur mettendo in rilievo l’importanza del ruolo dei pentiti, evidenziò il rischio dell’uso poco professionale di tale strumento di ricerca della prova, affermando : «Il pentito non deve essere la scorciatoia, il pentito deve dare la chiave di lettura di certe cose, il pentito deve dare l’indirizzo e poi il giudice deve andarsi a cercare, a riscontrare quelli che sono appunto i riscontri obiettivi alle dichiarazioni dei pentiti» Sergio Lari –  Procuratore della Repubblica  – 19/07/2021

 

MICHELE PRESTIPINO “pentiti” o “collaboratori di giustizia” ?

 

Collaboratori di Giustizia

 

 


 

PAOLO BORSELLINO: la gestione delle indagini e le problematiche connesse ai collaboratori di giustizia


L’evoluzione della normativa in materia di collaboratori di giustizia   

La prima disciplina sulla collaborazione con la giustizia degli appartenenti ad associazioni mafiose – su impulso di Giovanni Falcone, all’epoca direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia – è dettata dal decreto-legge n. 8 del 1991 (convertito dalla legge n. 82/1991Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia; viene infatti introdotto nel nostro ordinamento un sistema “premiale” per i collaboratori di giustizia per i delitti di stampo mafioso, in analogia a quanto disciplinato in passato con riferimento ai reati di terrorismo.  In particolare si prevede la possibilità di applicare uno speciale programma di protezione per coloro che risultano esposti a “grave e attuale pericolo” per effetto della loro collaborazione con la giustizia ed i loro familiari, ai quali si applicano attenuanti di pena. L’individuazione dei soggetti beneficiari e le modalità di ciascun trattamento sono affidate ad una Commissione di nuova istituzione. Con il decreto legislativo n. 119 del 1993 si stabiliscono le modalità del cambiamento di generalità dei collaboratori di giustizia.  Con la legge n. 45 del 2001 Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza si introduce una prima disciplina differenziata per i testimoni di giustizia, cioè di coloro che rendono dichiarazioni in qualità di persona offesa dal reato (cd. testimone vittima) o di persona informata sui fatti o di testimone (cd. testimone terzo), a condizione che nei loro confronti non sia stata disposta (o sia in corso di applicazione) una misura di prevenzione; la tutela è estesa ai loro familiari. Sono disciplinate in modo diverso anche le dichiarazioni rese dai testimoni di giustizia, che possono riferirsi a qualunque tipo di reato (mentre quelle dei collaboratori riguardano i reati di associazione mafiosa e altri gravi delitti) e non devono avere le caratteristiche previste per i collaboratori (attendibilità intrinseca, novità e completezza, nonché notevole importanza per le indagini o ai fini del giudizio).  Inoltre si definiscono nuove regole per i collaboratori di giustizia, al fine soprattutto di indurre il collaboratore a riferire prontamente tutte le informazioni in suo possesso: si stabilisce infatti un termine massimo di 180 giorni decorrenti dalla dichiarazione di volontà di collaborare (che non si applica invece ai testimoni di giustizia).  Con riferimento alle c.d. “dichiarazioni tardive” la Cassazione (vedi in particolare Sezioni unite, sentenza n. 1150 del 2008 e Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 18048 del 2018) ha precisato che restano comunque legittime ed utilizzabili le dichiarazioni del collaboratore rese al giudice in sede di interrogatorio di garanzia, di udienza preliminare e di dibattimento.  Con il decreto del ministro dell’interno n. 161 del 2004 viene emanato il regolamento sulle misure speciali di protezione Il decreto legge n. 101 del 2013 (art. 7) prevede la possibilità di assunzione in una pubblica amministrazione, con qualifica e funzioni corrispondenti al titolo di studio ed alle professionalità possedute, nei limiti dei posti vacanti nelle piante organiche delle Amministrazioni interessate, sulla base di intese fra il Ministero dell’Interno e le Amministrazioni interessate (per il regolamento attuativo cfr. il decreto del Ministro dell’Interno n. 204 del 2014).  La recente legge n. 6 del 2018 Disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia -che trae origine dal lavoro della Commissione Antimafia – è volta a rafforzare e personalizzare le misure di vigilanza, tutela fisica, assistenza, sostegno economico e reinserimento sociale e lavorativo dei testimoni di giustizia; inoltre la tutela viene estesa significativamente, fino a ricomprendere persone messe in pericolo per le relazioni intrattenute con i testimoni di giustizia (come dipendenti, amici etc). È prevista una relazione semestrale del Governo e la pubblicazione di dati aggiornati sul sito del Ministero dell’Interno (per approfondimenti leggi questa scheda).  Nel 2014 la Regione Sicilia ha approvato una legge per consentire l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni dei testimoni di giustizia.
Il pentitismo come fenomeno rilevante ai fini della lotta alla mafia inizia a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, in particolare con l’avvio del primo Maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra. Storicamente, se ne attribuisce la genesi a seguito della sanguinosa repressione che i Corleonesi intrapresero nei confronti degli esponenti delle famiglie perdenti della Seconda Guerra di Mafia.
La stagione dei grandi «pentiti», come vennero impropriamente definiti i collaboratori di giustizia, fu inaugurata da Tommaso Buscetta, che il 18 luglio 1984, tre giorni dopo la sua estradizione in Italia, decise di collaborare con Giovanni Falcone, già impegnato nella mastodontica istruttoria del Maxiprocesso. Per 45 giorni il “boss dei due mondi“, come lo aveva soprannominato la stampa, mise nero su bianco tutto quello che sapeva su Cosa Nostra. Fu talmente importante la testimonianza di Buscetta, che Falcone ebbe a dire, anni dopo:

Prima di lui, non avevo – non avevamo – che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare coi gesti.

Un collaboratore di giustizia, secondo la legge italiana, è un soggetto che trovandosi in particolari situazioni di conoscenza di un fenomeno criminale, decide di collaborare con la magistratura italiana. Alla loro tutela ed incolumità fisica provvede il servizio centrale di protezione. La figura si distingue dal testimone di giustizia.

Il codice Rocco conosceva solo istituti come quelli dell’articolo 56 commi terzo e quarto, per il colpevole che “volontariamente desiste dall’azione” o che “volontariamente impedisce l’evento” (cui si è aggiunto di recente, come novella, il ravvedimento operoso dell’articolo 452-decies); successivamente i magistrati impegnati nella lotta alla mafia in Italia furono però i primi a riconoscere l’importanza di comportamenti ulteriori, volti a scardinare il vincolo omertoso delle più pericolose associazioni a delinquere rivolgendosi ai loro componenti. Un importante avvenimento per il fenomeno del pentitismo nella sua forma più conosciuta si ebbe con la legge 6 febbraio 1980, n. 15 (la cosiddetta legge Cossiga)che diede un importante impulso alla lotta contro il terrorismo, sebbene sia stata criticata per il fatto di concedere privilegi ai criminali di primo piano, ovviamente in possesso di informazioni importanti, mentre chi commetteva crimini in un ruolo subalterno, spesso non aveva la possibilità di fornire informazioni utili alla Giustizia e quindi doveva rinunciare agli sconti di pena.
Giovanni Falcone, Ferdinando Imposimato ed Antonino Scopelliti furono tra i primi magistrati a intuire l’importanza del fenomeno dei collaboratori di giustizia per la lotta contro la criminalità organizzata. Alla riflessione da loro attivata si devono numerosi provvedimenti volti ad incoraggiare l’utilizzo dei cosiddetti “pentiti” per la risoluzione di importanti e delicate indagini nonché per la formazione della cosiddetta “prova orale” nel dibattimento processuale.
Negli anni 1990 furono emanate le prime norme a tutela di questi soggetti, in particolar modo riguardo alla figura del collaboratore e del testimone di giustizia. Grazie all’opera del magistrato palermitano simbolo dell’Antimafia venne poi emanato il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82 ricordata come una delle prime leggi emanate per disciplinare il fenomeno nell’ambito della repressione della mafia in Italia; il provvedimento fu modificato dalla legge 13 febbraio 2001, n. 45. wikipedia

 


COMMISSIONE GIUSTIZIA – Protezione testimoni di giustizia, audizioni – Commissione Giustizia, nell’ambito dell’indagine conoscitiva in merito all’esame della proposta di legge: Disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia, ha svolto l’audizione di Federico Cafiero de Raho, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria; Giovanni Colangelo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli; Francesco Greco, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano; Franco Lo Voi, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo; Giuseppe Pignatone, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.

 


 COLLABORATORI E TESTIMONI: UN SISTEMA CON MOLTE FALLE

Nell’ultima relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia, l’allarme risuona chiaro ed è riportato nero su bianco: mafia, ‘ndrangheta e camorra operano sempre più “secondo modelli imprenditoriali variabili”, che vengono calibrati su ogni realtà economica in cui le organizzazioni si infiltrano e che colpiscono “indistintamente” tutti i settori economici. Un modus operandi che funziona in Italia e all’estero, dove ormai le cosche – la ‘ndrangheta soprattutto, ma anche Cosa nostra – hanno impiantato strutture permanenti. La Dia sottolinea il ruolo delle mafie come sempre più permanente al Nord. Sin dagli anni ’70 del 900 in verità si sono radicate nel settentrione. Non sono solo le organizzazioni criminali autoctone a preoccupare: la mafia nigeriana, ad esempio, è ormai una realtà pericolosa tanto quanto alcuni clan, poiché ha una rete “in costante contatto con la madre Patria” che è necessario monitorare, anche perché in alcune zone, come in Sicilia, “ha trovato un proprio spazio, con il sostanziale placet di Cosa nostra”. In parallelo e in contrapposizione rispetto all’esercito delle mafie camminano altri due eserciti: quello dei collaboratori di giustizia (inclusi i collaboratori nigeriani, che hanno fornito alle autorità – si legge nella relazione – un valido contributo per comprendere un fenomeno relativamente nuovo nel suo insieme) e quello dei testimoni di giustiziaAl fianco di entrambi silenziosamente, ci sono i familiari, in numero naturalmente maggiore tanto dei collaboratori quanto dei testimoni stessi. Tutti sono inclusi nel programma di protezione la cui legge è stata modificata più volte, l’ultima con un intervento bipartisan nel febbraio 2018. Il sistema di protezione di collaboratori e testimoni è gestito da una commissione del Viminale, presieduta da Luigi Gaetti (M5S), ex vice presidente della commissione antimafia e ora sottosegretario al ministero dell’Interno.

 


In Italia sono oltre 6mila le persone nel programma di protezione (dati fermi al 2016)

Fino al 2017 era disponibile, perché inviata annualmente al Parlamento e quindi poi resa pubblica nel sito del Ministero dell’Interno, la relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione dei testimoni e collaboratori di giustizia.

I dati della relazione risalgono solo al 30 giugno 2016 e sono dunque da prendere con le molle perché, negli anni, sono necessariamente cambiati. Abbiamo chiesto alle sedi opportune di fornirci nuovi dati e, se disponibile la nuova relazione (2019), ma senza successo. Il Viminale non produce più questo tipo di servizio.

Ecco cosa dicono i numeri:

  • Sono oltre 6mila le persone sotto protezione;
  • Collaboratori protetti: 1,277 (di cui 63 donne);
  • Familiari dei collaboratori: 4915;
  • Testimoni protetti 78 (di cui 26 donne);
  • Familiari dei testimoni: 255;

Secondo la deputata Piera Aiello, i testimoni si sarebbero ridotti ad appena 51 unità a fine 2018: una riduzione “intepretata come sintomo della sfiducia nei confronti dello Stato di potenziali testimoni di giustizia”.

Una tabella a parte riguarda la fascia dei minori familiari fino ai 18 anni (popolazione totale 2.123)

  • 2036 i familiari minori dei collaboratori;
  • 86 i familiari minori dei testimoni;
  • Esiste poi 1 unico testimone diretto fra i minori di questa fascia;

Qui invece è possibile monitorare la situazione dei beni sequestrati.

Assistenza assente per i familiari, nessun programma di reinserimento lavorativo, burocrazia: i problemi della “mancanza d’identità”

A parlarci delle falle del sistema e del prezzo alto che pagano, soprattutto i familiari, è l’ex boss Luigi Bonaventura che da oltre 12 anni collabora con diverse procure, ritenuto da esse credibile e affidabile, Bonaventira ha contribuito in modo decisivo allo smantellamento di diverse operazioni criminali della ‘ndrangheta. Bonaventura ha anche terminato di scontare una pena scattata nel 2014 e scaturita dalle operazioni “Eracles” e “Perseus”. “Collaboro formalmente dal 2007 ma mi sono dissociato nel 2005, prendendo contatto con la magistratura e palesandole la mia volontà di collaborare con la giustizia. Non avevo ancora subito incriminazioni per reati gravi sino ad allora. Per me si è trattata sin da subito una conversione vera e propria, prima che di una collaborazione. Sono 12 anni che credo nella giustizia e continuo a crederci pur essendo ormai uscito dal programma di protezione”. In seguito all’intervento del Consiglio di Stato, della magistratura e della DDA di Catanzaro, i familiari di Bonaventura sono stati messi sotto protezione, ma non esiste vera assistenza per loro, lamenta l’ex collaboratore – e manca l’aiuto logistico per cercare d’inserirsi nella società. Soprattutto non esiste vera protezione fisica per la famiglia. A Bonaventura abbiamo chiesto qual è per lui e per i suoi familiari (ma è chiaramente un problema di tutti i familiari dei collaboratori) il significato della parolaidentità. “Per me la parola identità è un diretto riferimento alla questione pratica, ai documenti stessi di identità che – almeno per quanto mi riguarda, e contrariamente a quanto prevede il contratto di collaborazione – sono sempre mancati”, cioè non esistono per la famiglia Bonaventura documenti ufficiali di copertura. Gli effetti di questa “mancanza di identità”, per Bonaventura e la sua famiglia, sono diversi: “titoli di studio che non puoi dimostrare, non puoi trovare lavoro quindi per anni resti senza contributi, è difficile districarsi poi nei meandri burocratici per ottenere l’ok alle visite mediche”.

“Mi volevano trasferire in posti che sapevo pericolosi”

“Sono stato esautorato dal programma di protezione 4 anni fa – continua l’ex collaboratore – anche se avevo prima chiesto io di non rinnovarlo per 3 anni e anche se, come ho detto, continuo tuttora a collaborare. Il motivo addotto per questa decisione sono state le interviste non autorizzate (quando ormai il contratto in realtà era scaduto). Altri motivi addotti sono stati il mio rifiuto di trasferirmi nei posti dal servizio deputati. In realtà mi rifiutavo di andare in posti che sapevo essere pericolosi. Io infatti denunciavo i pericoli e i problemi del programma di protezione”. Quindi il problema è specifico: essere allocati in posti che sono un pericolo per i veri collaboratori di giustizia è il concetto contrario alla funzione del servizio di protezione.

Gli effetti di questi pericoli sono evidenti tutt’oggi come nel caso dell’omicidio del testimone di giustizia Marcello Bruzzese, fratello del collaboratore di giustizia Girolamo, ex braccio destro di Teodoro Crea a capo dell’omonima ‘ndrina reggina. È stato ammazzato a Pesaro nel garage sotto casa, nel dicembre del 2018. Era già scampato a un agguato nel 1995 a Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria, in cui morirono il padre Domenico e un cognato. Si tratta del primo tra le persone inserite nel programma, e quindi “protetto”, ad essere stato ammazzato per una vendetta di ‘ndrangheta. Un altro caso invece riguarda l’omicidio a Chiavari nell’aprile di quest’anno di un ex collaboratore di giustizia, Orazio Pino, siciliano, il cui cadavere è stato rinvenuto fuori dall’auto nel parcheggio di un supermercato del centro del genovese. Per l’omicidio è stato arrestato il 28 giugno scorso un imprenditore edile. Ma le cause dell’agguato sono tuttora avvolte nel mistero e spesso si tenta di allontanarle, nelle ricostruzioni ufficiali, dalla questione ‘ndrangheta. Anche Pino era sprovvisto di un nome di copertura, come si legge nella ultima intervista rialsciata a Estreme Conseguenze.

E Bonaventura – ex collaboratore (che ancora collabora) – spiega
“Non sono mai stato davvero protetto, [la protezione] esiste solo sulla carta: non c’è volontà (e non c’è mai stata) politica di voler davvero fare del servizio centrale di protezione uno strumento forte né la volontà di risolvere i problemi”.

Stesso concetto ce lo ha riferito la testimone Piera Aiello da noi intervistata:
“La piu grossa falla nel sistema di protezione è proprio la sicurezza: sono burocrati che portano avanti decisioni della Commissione centrale, ma per quanto riguarda la sicurezza non stanno facendo nulla. Il sistema è vecchio. La Commissione sta a Roma, principalmente al servizio centrale di protezione, un organo formato da Polizia, Carabinieri e Finanza. Spesso molti di loro ci confondono tra testimoni e collaboratori, non conoscono neanche la differenza: come si fa a farsi gestire da queste persone?”

Il problema dei falsi pentiti

Fra il 2011 e il 2012, Bonaventura aveva denunciato anche la questione dei falsi pentiti (l’esempio storico per antonomasia è certamente Vincenzo Scarantino,usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino, ma soltanto pochi altri i casi che sono stati resi pubblici; alcuni di essi sono coinvolti in un mistero ancora tutto da chiarire nella vicenda stessa della strage di Via d’Amelio:  
“Abbiamo visto come almeno in passato i falsi pentiti siano stati per lo più creati dallo Stato, è inutile nasconderci su questo”, ha detto Bonaventura che sottolinea: “Si è fatto dello strumento prezioso creato dal giudice Falcone carne da macello“.
Altra cosa che accomuna le falle per i testimoni e per i collaboratori è la mancanza di supporto psicologico: per Bonaventura non è mai esistito (“al solito esiste solo sulla carta, abbiamo necessità di essere rieducati e di ottenere supporto psicologico per noi e i nostri familiari”). La Aiello conferma:
“All’interno manca la figura dello psicologo, non ci sono persone specializzate o che abbiano a cuore il problema. Molti di loro pensano che siamo come un cancro, che non si estirpa mai. Invece siamo una risorsa, dobbiamo essere tutelati, accarezzati; a volte basta solo una parola di conforto. Ora invece i funzionari fanno una settimana di corso per essere abilitati: ma cosa possono mai capire di questo mondo in una settimana?”
Bonaventura ha fondato cinque anni fa il Comitato Sostenitori dei Collaboratori di Giustizia che fra settembre e ottobre diverrà una ONG, presidente Valeria Sgarlato, e che “contribuirà a valorizzare la lotta alla mafia e fare riconoscere i diritti dei familiari, persone che non hanno nessuna colpa: sono gli eroi nascosti, il sostegno vero sono loro perché pagano il prezzo più alto”.
“Da una parte le mafie ci considerano degli infami, dall’altra parte la società civile ci considera sempre dei mafiosi. La parola pentito è un modo elegante per chiamarci infami e questa cosa ricade sui nostri soprattutto sui nostri familiari.”
È l’ ultima cosa che ci riferisce Luigi, e rappresenta quasi la sintesi di tutto.


 


Differenza tra collaboratore di giustizia e testimone di giustizia   Cons. St., sez. III, 13 marzo 2019, n. 1678 – Pres. Frattini, Est. Noccelli

A differenza del collaboratore di giustizia, il testimone di giustizia è estraneo alle vicende, oggetto di propalazione il Consiglio di Stato ha chiarito che la distinzione tra testimone di giustizia e collaboratore di giustizia, per la consolidata giurisprudenza, risieda nella posizione di estraneità e di terzietà del primo rispetto alle vicende, oggetto di propalazione (Cons. St., sez. III, 29 gennaio 2018, n. 610), e ciò implica una ulteriore valutazione sulla effettiva estraneità del testimone al contesto criminale, come la stessa Commissione centrale di cui all’art. 10 della l. n. 82 del 1991 ha stabilito in via generale con la propria determinazione, in data 30 luglio 2009, nella quale ha dettato i criterî di massima per il riconoscimento dello status di testimone (Cons. St., sez. III, 25 gennaio 2016, n. 218). Ha ancora precisato la Sezione che nella vicenda in esame, però, al dichiarante era stata negata dalla Commissione centrale di cui all’art. 10,  l. n. 82 del 1991 la qualifica di testimone di giustizia perché egli era stato costretto, sotto pesante minaccia da parte delle associazioni camorristiche, a detenerne le armi nella propria carrozzeria. Il Consiglio di Stato, nell’annullare il provvedimento della Commissione per carenza di motivazione ed illogicità, ha ritenuto che sarebbe paradossale, e segno di un’intima contraddizione in seno all’ordinamento, che proprio la vittima delle intimidazioni mafiose, subite in un contesto di pesantissima vessazione, fisica e psicologica, e di altissimo rischio per sé e i suoi cari, debba scontare, in sede amministrativa, il “prezzo” di tali violenze con la qualificazione di mero collaboratore di giustizia, che presuppone una volontaria adesione e deliberata contiguità ad un mondo criminale al quale, invece, il testimone di giustizia ha mostrato di ribellarsi mettendo a rischio l’incolumità propria e dei propri familiari. L’affermata contiguità non occasionale del dichiarante al sodalizio mafioso, necessaria ad affermarne lo status di collaboratore anziché di testimone di giustizia, avrebbe dovuto trovare riscontro non già nelle sue semplici e spontanee dichiarazioni autoaccusatorie rese all’autorità giudiziaria, dalle quali trapela, al contrario, la pesante intimidazione subita da soggetti di notoria caratura delinquenziale, tanto che la sua posizione è stata poi archiviata dal g.i.p. in sede penale, ma da elementi ulteriori che lasciassero ragionevolmente apprezzare la sua consapevole, libera, deliberata, non episodica vicinanza al clan camorristico.
Mafia, il dossier del Viminale:in Puglia solo 167 pentiti La relazione semestrale sui collaboratori. Sono di più nella ‘ndrangheta – Paolo Lattanzio: «Il dato così basso risente della situazione foggiana» di Bapi Castellaneta La strada per contrastare e sconfiggere le cosche passa necessariamente per le rivelazioni dei pentiti, ma in Puglia sono appena 167. Addirittura meno di quanti sono fuoriusciti dalla ‘ndrangheta calabrese, da sempre ritenuta dagli investigatori un’organizzazione per certi versi oscura e particolarmente difficile da scardinare dall’interno. E invece proprio la Puglia è all’ultimo posto per numero di pentiti tra i territori colpiti dall’inquinamento mafioso in Italia: è quanto emerge dai dati contenuti nella “Relazione sulle misure di protezione per i collaboratori di giustizia, la loro efficacia e le modalità generali di applicazione”. Il dossier, curato dal ministero dell’Interno, è stato presentato in Parlamento il 28 ottobre. I numeri si riferiscono al secondo semestre del 2018 e tracciano un quadro ben preciso su una materia particolarmente delicata, visto che in ballo ci sono le sorti dell’attività di contrasto alla criminalità organizzata. Attualmente i pentiti di mafia in Italia sono 1.189: sono tutti inseriti in un programma di protezione insieme ai loro 4.586 familiari, un dato in calo rispetto al primo semestre del 2018 quando le persone sotto protezione – tra collaboratori e familiari – erano 6.246.
Adesso al primo posto tra le grandi organizzazioni criminali per numero di pentiti c’è la camorra campana con 504 affiliati che hanno deciso di intraprendere la strada della collaborazione con lo Stato; subito dopo c’è Cosa Nostra siciliana (258), quindi la ‘ndrangheta calabrese (176) e infine Sacra Corona Unita e altri clan pugliesi da cui provengono 167 collaboratori. La relazione elaborata dal ministero dell’Interno consente non soltanto di fare il punto sui numeri, ma anche di ricavare una fotografia accurata che riflette lo scenario complessivo della criminalità organizzata in Italia e può rivelarsi molto utile a livello investigativo per interpretare determinate dinamiche interne alle cosche. I dati che colpiscono maggiormente gli analisti sono due: l’aumento del numero dei collaboratori di giustizia tra i ranghi tradizionalmente blindati della ‘ndrangheta calabrese, che mantiene comunque una supremazia assoluta nel traffico di droga, e il basso numero dei pentiti tra i clan che si contendono e spartiscono gli affari criminali in Puglia, dove l’escalation della criminalità foggiana ha assunto i contorni di un’autentica emergenza.
«Il dato pugliese – spiega Paolo Lattanzio, deputato barese del Movimento Cinque Stelle e componente della commissione parlamentare antimafia – risente evidentemente della situazione che c’è in tutta la provincia di Foggia: in queste zone il numero dei pentiti è decisamente più basso rispetto a quello che riguarda ad esempio i clan baresi e quindi i numeri complessivi regionali risultano più bassi». «Sul Gargano – aggiunge Lattanzio – ma anche a Foggia e in altri centri della provincia – le organizzazioni criminali vertono prevalentemente su nuclei familiari; in uno scenario di questo genere – prosegue il parlamentare – quando un affiliato decide di collaborare con la giustizia si trova di fronte a una doppia dissociazione: quella dalla cosca a cui appartiene e quella dalla famiglia. La situazione – prosegue Lattanzio – è diversa in altre realtà come Bari, dove prevale una criminalità organizzata che può essere definita più commerciale».  29 novembre 2019 | CORRIERE DEL MEZZOGIORNO


2018 Chi sono e quanto costano i pentiti. Un esercito che inizia a far tremare persino la ‘Ndrangheta

9/10/2019   Poco più di 44 milioni. È quanto ha speso nel secondo semestre del 2018 lo stato italiano la protezione dei 1.189 collaboratori di giustizia attualmente riconosciuti e inseriti nel programma di protezione e dei loro 4.586 familiari, anch’essi sotto protezione. A dare i numeri, la “Relazione sulle misure di protezione per i collaboratori di giustizia, la loro efficacia e le modalità generali di applicazione” presentata lunedì in Parlamento. Rispetto al primo semestre 2018, i numeri sono in diminuzione: erano infatti 6.246 le persone sotto protezione, delle quali 1319 i collaboratori. Secondo il ministro dell’Interno, a guidare l’esercito dei pentiti è la camorra, con 504 pentititiseguita da Cosa Nostra con 258, dalla ‘ndrangheta con 176, 10 dei quali sono donne e 11 di origine straniera. Solo 167, invece, i collaboratori della Sacra Corona Unita pugliese. Un piccolo esercito sparso per il Paese che vive con nomi falsi e sotto l’occhio vigile di centinaia di agenti del Servizio Centrale di Protezione. Un popolo al quale lo Stato riconosce uno stipendio – un collaboratore riceve in media tra i 1.000 e i 1.500 euro al mese, più altri 500 per ogni familiare a carico -, paga l’affitto, i trasferimenti e le spese mediche. Secondo la relazione, nella seconda metà del 2018, in stipendi se ne sono andato 10.306.000 euro; circa 23 milioni sono stati usati per la locazione degli appartamenti5,3 milioni per spese varie; 2 milioni sono stati utilizzati per l’assistenza legale; 1,8 per gli alberghi; 781.000 per le spese mediche; 763.000 per i trasferimenti. Rispetto al semestre precedente, a colpire è l’aumento del pentitismo tra gli affiliati della ‘Ndrangheta. Se infatti non sorprende il primato della Camorra napoletana – un universo polverizzato, continuamente in guerra, dove alleanze e appartenenze vengono continuamente messe in crisi – la ‘Ndrangheta è tutta un’altra cosa: “Storicamente, è un’organizzazione a base fortemente familiare, pertanto poco incline al fenomeno della collaborazione di giustizia”, si legge nel documento. Uno dei punti di forza dell’organizzazione più potente del Paese, infatti, è sempre stato il fitto reticolo familiare che unisce i clan, frutto spesso di matrimoni combinati. Un muro di omertà che inizia a crollare. «Le dichiarazioni di stampo collaborativo hanno contribuito a far emergere la capacità di tale organizzazione criminale di coinvolgere negli affari esponenti della politica, delle istituzioni e delle professioni”, annotano gli investigatori. I quali sottolineano l’utilità dei collaboratori per comprendere le nuove dinamiche criminali di un’organizzazione assai adattabile, attenta a tutte le novità e capace di dominare i nuovi processi economici. Così la Dda ha potuto apprendere, per esempio, come affiliati delle cosche abbiamo proposto ai narcos colombiani di utilizzare i Bitcoin al posto del contante per l’acquisto di cocaina. Una proposta caduta nel vuoto per il rifiuto dei colombiani, incapaci di utilizzare la moneta virtuale. Sempre grazie ai pentiti, gli investigatori hanno anche scoperto del lancio di una startup “che attraverso il crowdfounding in Bitcoin ha raccolto 126 milioni di euro in 3 ore“. “Dal suo peculiare punto di osservazione” continuano gli inquirenti, “la Commissione centrale per le misure di protezione ha potuto verificare l’incidenza della ‘Ndrangheta nel traffico, anche internazionale, di stupefacenti (settore in cui mantiene una posizione di supremazia) e negli ambiti delle energie rinnovabili, della depurazione delle acque e dell’assistenza ai migranti (nei quali, di recente, ha allargato il proprio raggio di azione). Tale organizzazione si caratterizza, inoltre, per la conquista del monopolio di interi settori dell’economia legale e per l’espansione nelle regioni del Nord Italia e nei Paesi esteri (in Europa, Nord America e Australia)”.  BUSUNESS INSIDER


2017 QUANTI SONO E COME VIVONO I COLLABORATORI DI GIUSTIZIA  

Oltre 6 mila persone, tra “pentiti” e familiari”, vivono sotto la tutela dello Stato. E, come racconta uno di loro, dopo l’omicidio del fratello di un pentito di ‘ndrangheta Marcello Bruzzese, molti si considerano “morti che camminano”. E tra i collaboratori di giustizia c’è anche un bambino di 12 anni

Sono 6.246 persone che ogni giorno rischiano di essere uccise come Marcello Bruzzese, fratello di un pentito di ‘ndrangheta massacrato da un commando di killer a Pesaro. Di questi, 1.319 sono collaboratori e testimoni di giustizia e quasi 5 mila i loro familiari che li hanno seguiti: mogli, figli, fratelli, suoceri, cognati, nipoti, conviventi, secondo un report realizzato dall’agenzia AdnKronos. Sono sparsi in tutto il territorio nazionale, dal nord al sud, molti hanno un’ altra identità, si sono rifatti una nuova vita e vivono con i loro familiari. Molti altri sono usciti dal programma di protezione ottenendo una sorta di “liquidazione” dallo Stato, ma la maggioranza per la propria sicurezza e quella dei propri cari fa affidamento su centinaia di poliziotti del Servizio Centrale di Protezione che dà loro assistenza, procurandogli nuove identità, nuove abitazioni e adoperandosi anche per trovargli un lavoro.
Poche decine di collaboratori sono stati “espulsi” dal programma di protezione e ritornati in carcere perché non avevano perso il vizio di compiere reati. La gestione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia non è semplice e la loro valutazione viene periodicamente fatta da alcuni magistrati della Direzione Nazionale Antimafia che deve accettare o respingere le richieste di questo popolo di pentiti. 
In genere un “collaboratore di giustizia” ha uno stipendio di 1000-1.500 euro al mese, più altri 500 per ogni familiare a carico. A spese dello Stato ci sono anche gli affitti delle loro abitazioni, spese mediche ed altri benefit.
I pentiti di Cosa Nostra sono oltre 300 ma l’ organizzazione che registra più collaboratori di giustizia è la Camorra con oltre 600 pentiti seguita dalla ‘ndrangheta con poco meno di 200 e la Sacra Corona unita che supera il centinaio e poi una ottantina di collaboratori stranieri sudamericani, africani e dell’ est europeo.
Sono oltre 60 le collaboratrici di giustizia, madri, figli, sorelle di dei boss e killer delle organizzazioni mafiose che hanno deciso, per salvare loro stessi ed i loro figli, di passare dall’ altra parte della barricata. Una scelta difficilissima che ha provocato l’ allontanamento dal nucleo familiare, dalle loro città o paesi e che ha registrato anche vittime, come Maria Concetta Cacciola, figlia del boss della Ndrangheta Gregorio Bellocco, madre di tre figli, che decise di collaborare con la giustizia. Aveva vissuto per mesi in una località protetta ed in attesa del ricongiungimento con i propri figli, fu trovata morta. Suicidio, si disse in un primo momento poi si scopri che era stata uccisa dai suoi familiari. E tra i collaboratori e testimoni di giustizia c’ è anche un ‘baby pentito’, un bambino di 12 anni calabrese che andava in giro con il padre ndranghetista assistendo ad omicidi o traffici di droga.  Sempre l’Adnkronos ha intervistato un collaboratore di giustizia, ex mafioso di Bagheria (Palermo), che oggi vive con la sua famiglia in una località protetta del Centro Nord: “Diciamoci la verità, io sono un morto che cammina… Il fratello del collaboratore che è stato ammazzato a Pesaro è solo il primo. Temo un effetto domino. Oggi, domani, o tra un mese, potrei essere ucciso anche io. O un mio familiare. Perché non siamo protetti“. Anche lui, come Bruzzese, ha scelto di mantenere la sua vera identità: “Me lo hanno consigliato gli stessi funzionari del Servizio di protezione – dice – perché anche per avere i contributi lavorativi sarebbe stato un problema in futuro. O per l’iscrizione a scuola di mio figlio”.  28/12/2018 di Eugenio Arcidiacono Famiglia Cristiana
2016 I dati – Le statistiche sono molto chiare. Innanzitutto si conferma il trend crescente di persone che accedono al programma di protezione: se dal 2000 al 2006 c’è stata una graduale diminuzione, dagli iniziali circa 4000 tra collaboratori, testimoni e loro famigliari sino a quasi 2900, dal 2007 al 2016 sono aumentati gradualmente fino a quasi 5.200 individui.  Ma curiosamente ad aumentare è solamente il numero dei pentiti (e loro famigliari) mentre rimane pressoché basso e invariato il numero dei testimoni, segno che la legislazione su questi individui effettivamente aveva bisogno di qualche ritocco per essere realmente efficace.
Non solo, analizzando i dati dell’ultimo anno si scopre che la maggior parte delle richieste di accesso alla protezione si concentra a Napoli e in Puglia e stranamente solo in minima parte dalle altre due Regioni a forte incidenza mafiosa, la Calabria e la Sicilia: un chiaro segnale dell’impermeabilità di Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Salta all’occhio anche la presenza di richieste dal centro e dal nord Italia: Roma, Brescia, Torino, Ancona, Bologna, sintomo anche nel Centro-Nord, dove la mafia da anni ha consolidato la propria presenza, si stanno facendo avanti pentiti e testimoni.
I costi – Ma quanto ci costa questo sistema? Si tratta di quasi 32 milioni di euro nel primo semestre 2016, in controtendenza rispetto alla costante crescita degli ultimi anni: 76 milioni nel 2013, quasi 78 milioni nel 2014 e oltre 85,5 milioni nel 2015. La quasi totalità di queste spese viene assorbita dagli affitti per le abitazioni di testimoni e collaboratori e per i loro contributi mensili. Una spesa sicuramente consistente ma al tempo stesso necessaria per tenere in piedi un sistema dall’insostituibile valore investigativo, avendo consentito in questi anni di aggredire e smantellare importantissime organizzazioni criminali che, altrimenti, sarebbero state difficilmente individuabili. RISTRETTI ORIZZONTI 27.3.2017


2012Quanti sono: gli ultimi dati sui collaboratori di giustizia e testimoni sottoposti a programma di protezione, pubblicati nella relazione del Servizio Centrale al Parlamento e relativo al secondo semestre del 2012 indicano in 1140 i titolari di programma di protezione, ripartiti in 1059 collaboratori e 81 testimoni. A loro si aggiungono 4.189 familiari, di cui 3934 congiunti di collaboratori e 255 di testimoni: il totale è di 5.329 persone. Il maggior numero di pentiti arriva dalla camorra (456), a cui seguono i pentiti di mafia (279), la ‘ndrangheta (126), la Sacra Corona Unita (102) e 96 riconducibili ad altre organizzazioni criminali. Per i testimoni di giustizia il numero maggiore è legato alle ‘ndrine calabresi (25), 22 della camorra, 13 la mafia, 4 la criminalità pugliese e 17 di altre organizzazioni.


SENATO della REPUBBLICA – Chi sono i testimoni di giustizia?  Con il decreto-legge n. 8 del 1991 è stata introdotto nel nostro ordinamento un sistema “premiale” per i collaboratori di giustizia per i delitti di stampo mafioso, in analogia con la disciplina adottata in precedenza per i reati di terrorismo. La legge n. 45 del 2001 ha sostanzialmente esteso ai testimoni di giustizia le misure a favore dei “pentiti”. I testimoni sono identificati, dall’articolo 16-bis del decreto-legge n. 8 del 1991, come coloro che coloro che “assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le dichiarazioni esclusivamente la qualità di persona offesa dal reato (cd. testimone vittima), ovvero di persona informata sui fatti o di testimone” (cd. testimone terzo) a condizione che nei loro confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione ovvero sia in corso un procedimento di applicazione della stessa. Quest’ultima preclusione è stata interpretata estensivamente dalla Commissione centrale presso il Ministero dell’interno che, nelle cd. delibere di massima, l’ha riferita alla effettiva pericolosità sociale del soggetto dichiarante (in quanto autore di specifici reati o contiguo a contesti criminali), indipendentemente dall’applicazione o meno della misura di prevenzione o dal relativo iter in corso (tale più rigorosa impostazione è stata confermata dalla giurisprudenza amministrativa, si veda TAR Lazio, sentenza n. 667 del 2014).

Diversamente che per i collaboratori, le dichiarazioni rese dai testimoni di giustizia:

  • possono riferirsi a qualunque tipo di reato (l’articolo 9, comma 3, del decreto legge n. 8 del 1991, riguardo ai collaboratori, limita invece l’ambito di applicazione delle misure di protezione in relazione a dichiarazioni su reati di associazione mafiosa, terrorismo ed altri specifici, gravi delitti);
  • debbono essere attendibili: non è necessario, quindi, che abbiano le caratteristiche di quelle rilasciate dai collaboratori di giustizia (ovvero attendibilità intrinseca, novità e completezza, nonché notevole importanza per le indagini o ai fini del giudizio).
  • Ai testimoni, come detto, sono estese le misure di protezione previste per i collaboratori di giustizia (articolo 9 e 13, comma 5, del decreto legge n. 8 del 1991). E’ prevista peraltro la possibile estensione di tali misure anche a coloro che:
  • coabitano o convivono stabilmente con i testimoni di giustizia;
  • risultino esposti a grave, attuale e concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con i testimoni di giustizia.

 La necessità di una riforma: la relazione della Commissione antimafia La Commissione bicamerale sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, al termine di numerose audizioni – svolte sia in commissione plenaria che nell’ambito del V Comitato – ed un’attenta analisi della documentazione in materia, ha approvato il 21 ottobre 2014 una relazione sulla revisione del sistema di protezione dei testimoni di giustizia. (Doc XXIII, n. 4)(1) .

In tale documento la Commissione antimafia sottolinea la necessità di una revisione complessiva del sistema che, nonostante gli aggiustamenti apportati con i regolamenti di attuazione e l’impegno profuso sia in termini di personale che di risorse finanziarie, ha finito per determinare anche un notevole malcontento da parte degli stessi testimoni, confermato anche dal contenzioso amministrativo. Tra i limiti evidenziati nei primi 10 anni di attuazione si sottolineano in particolare:

  • il massiccio ricorso ai programmi di protezione in località protette, in situazioni spesso degradate e di completo isolamento dalla realtà sociale,
  • l’insufficienza delle risorse economiche per assicurare il pregresso tenore di vita ai testimoni e alle loro famiglie,
  • la disparità di trattamento economico tra testimoni di giustizia,
  • l’eccessiva farraginosità e rigidità delle procedure.

Il contenuto del disegno di legge  Il disegno di legge in titolo, già approvato dalla Camera dei deputati, recepisce sostanzialmente le proposte formulate dalla Commissione nella citata relazione sulla revisione del sistema di protezione dei testimoni di giustizia.

Il provvedimento si compone di 28 articoli ripartiti in 4 Capi:

  • Il Capo I (articoli 1-2) disciplina le condizioni di applicabilità delle speciali misure di protezione per i testimoni di giustizia.
  • Il Capo II (articoli 3-9) concerne le speciali misure di protezione per i testimoni di giustizia e per gli altri protetti.
  • Il Capo III (articoli 10-19) delinea il procedimento di applicazione, modifica, proroga e revoca delle speciali misure di protezione.
  • Il Capo IV (articoli 20-28) reca disposizioni finali e transitorie.

 Le condizioni di applicabilità delle speciali misure di protezione per i testimoni di giustizia  

L’articolo 1 precisa l’ambito di applicazione delle misure di protezione che sono applicate ai testimoni di giustizia e, se ritenute necessarie, salvo dissenso, anche agli “altri protetti”. Quest’ultima categoria viene introdotta ex novo e richiama sia le persone stabilmente conviventi col testimone (a qualsiasi titolo), sia coloro i quali, per le relazioni che intrattengono con quest’ultimo, sono esposti a grave, attuale e concreto pericolo.

L’articolo 2 detta una nuova definizione del testimone di giustizia ai fini delle condizioni di applicabilità delle misure di tutela.

In particolare, è testimone di giustizia colui che:

  • rende, nell’ambito di un procedimento penale, dichiarazioni dotate di fondata attendibilità intrinseca(attualmente basta la semplice attendibilità) e rilevanti per le indagini o il giudizio;
  • L’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni- requisito attualmente richiesto con riguardo ai collaboratori di giustizia dall’articolo 9, comma 3 del decreto legge n. 8 del 1991 – appare quella che non necessita di riscontri esterni e che sostanzialmente il giudice desume dalla presenza dei requisiti del disinteresse, della genuinità, della spontaneità, della costanza, della logica interna del racconto (tra le tante, Cassazione, sentenze n. 13279 del 1990; n. 2494 del 1994; n. 2014 del 1996; n. 5567 del 1997; n. 13272 del 1998).
  • assume rispetto al fatto delittuoso oggetto delle sue dichiarazioni la qualità di persona offesa ovvero informata sui fatti o di testimone;
  • non è stato condannato per delitti non colposi connessi a quelli per cui si procede e non ha tratto profitto dall’essere venuto in relazione con il contesto criminale su cui testimonia;
  • non è stato sottoposto a misura di prevenzione e non è in corso un procedimento di applicazione di detta misura (condizione già prevista dalla normativa vigente) da cui –quid novum – si desuma la persistente attualità della pericolosità sociale del soggetto e la ragionevole probabilità che possa commettere delitti di grave allarme sociale;
  • si trova in una situazione di pericolo grave, concreto ed attuale rispetto al quale appaiono inadeguate le misure ordinarie di tutela adottabili dalle autorità di pubblica sicurezza; la valutazione del pericolo viene messa in relazione alla qualità delle dichiarazioni rese, alla natura del reato, allo stato e grado del procedimento penale nonché alle caratteristiche di reazione dei singoli o dei gruppi criminali oggetto delle dichiarazioni.

Le speciali misure di protezione per i testimoni di giustizia e per gli altri protetti

L’articolo 3 – rinviando per le ulteriori misure di dettaglio alle previste norme attuative di cui all’articolo 26 – indica la tipologia delle speciali misure di protezione dei testimoni.

Le speciali misure di protezione si sostanziano in:

  • misure di tutela (fisica);
  • misure di sostegno economico;
  • misure di reinserimento sociale e lavorativo.

L’individuazione di ulteriori, apposite disposizioni per i minori oggetto delle misure è demandata ai citati regolamenti di attuazione (articolo 26).

Nel decreto legge n. 8 del 1991, la locuzione “speciali misure di protezione” (che non comprende quelle, di maggior tutela, adottate col programma speciale di protezione), è usata in relazione a tutte le misure adottabili nei confronti dei testimoni di giustizia.

L’articolo 4 del provvedimento detta i criteri di scelta delle misure di protezione, che vanno personalizzateed adeguate al caso specifico. Tali misure – se non in via temporanea ed eccezionale – non possono comportare diminuzione e perdita dei diritti goduti dal testimone prima delle dichiarazioni. Salvo motivate eccezioni di sicurezza, devono essere garantite al testimone la permanenza nella località di origine e la prosecuzione delle attività finora svolte. Il trasferimento in località protetta e il cambio d’identità del testimone restano, invece, ipotesi derogatorie ed eccezionali rispetto alle misure ordinarie, applicabili “quando le altre forme di tutela risultano assolutamente inadeguate rispetto alla gravità e attualità del pericolo” e devono, comunque, tendere a riprodurre le precedenti condizioni di vita, tenuto conto delle valutazioni espresse dalle competenti autorità giudiziarie e di pubblica sicurezza. In ogni caso deve essere assicurata al testimone e agli altri protetti “un’esistenza dignitosa”.

L’articolo 5 indica una serie di misure di tutela, volte a garantire la sicurezza dei testimoni di giustizia,degli altri protetti e dei loro beni, da graduare in base all’attualità e gravità del pericolo. L’articolo unifica in una sola disposizione le misure già previste dal decreto-legge del 1991(art. 13, commi 4 e 5, del decreto legge n. 8 del 1991) e dal DM 161/2004, eliminando la distinzione tra misure di protezione adottate nella località di origine e quelle adottate col trasferimento in località protetta (ovvero l’attuale speciale programma di protezione). Il sistema delle misure di tutela comprende:

  •  misure di vigilanza e protezione;
  •  misure di natura tecnica per la sicurezza di abitazioni, immobili ed aziende di pertinenza dei protetti;
  •  misure di sicurezza per gli spostamenti nel comune di residenza o in altro comune;
  •  il trasferimento in luogo protetto;
  •  speciali modalità di tenuta della documentazione e delle comunicazioni del sistema informatico;
  •  l’utilizzo di documenti di copertura;
  •  il cambiamento delle generalità, garantendone la riservatezza anche in atti della PA.
  • Il sistema delle misure di tutela è “chiuso”, infine, dalla previsione dell’utilizzo di “ ogni altra misura straordinaria, anche di carattere economico, eventualmente necessaria, nel rispetto delle direttive generali impartite dal Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza”.

L’articolo 6 disciplina le misure di sostegno economico spettanti a tutti i testimoni di giustizia e agli altri protetti.

Tali misure, attualmente – in base all’articolo 16-ter del decreto legge n. 8 del 1991– riguardano il solo testimone sottoposto al programma di protezionecon trasferimento in località protetta.

La disposizione elimina il riferimento all’obbligo di garantire un tenore di vita non inferiore a quello precedente alle dichiarazioni, prevedendo che ai testimoni di giustizia sia assicurata una condizione economica equivalente a quella preesistente.

Rispetto alla legislazione vigente sono introdotte le seguenti nuove misure di sostegno economico:

  • l’esplicita previsione di un rimborso delle spese occasionalmente sostenute dal testimone o dagli altri protetti come esclusiva conseguenza delle speciali misure di protezione;
  • il diritto ad un alloggio che si precisa debba essere idoneo a garantire la sicurezza e la dignità dei testimoni e degli altri protetti (nel caso sia impossibile usufruire della propria abitazione o si sia trasferiti in località protetta). Ulteriori novità rispetto alla disciplina vigente riguardano poi: la previsione che la categoria catastale dell’alloggio fornito debba possibilmente corrispondere a quella della dimora abituale; la possibilità per il testimone di alloggiare, anche con la famiglia, presso strutture comunitarie accreditate dove poter svolgere attività lavorativa;
  • l’estensione al testimone dell’assistenza legale nel processo penale in cui il testimone rende dichiarazioni ed è persona offesa dal reato o parte civile;
  • un indennizzo forfetario ed onnicomprensivo determinato in via regolamentare a titolo di ristoro per il pregiudizio subito con l’applicazione delle misure di protezione conseguenti alla testimonianza resa (a meno che il testimone o gli altri protetti chiedano, in giudizio, il risarcimento del danno biologico o esistenziale);
  • se le misure adottate comportano il definitivo trasferimento in altra località, l’acquisizione dei beni immobili dei quali sono proprietari il testimone o gli altri protetti al patrimonio dello Stato (dietro corresponsione dell’equivalente in denaro secondo il valore di mercato). L’acquisizione è condizionata – rispetto alle previsioni dell’articolo 16-ter decreto legge n. 8 del 1991– dall’accertata impossibilità di vendita dell’immobile sul libero mercato.

Permangono in capo al testimone e agli altri protetti:

  • il diritto a una somma a titolo di mancato guadagno per la cessazione dell’attività lavorativa del testimone;
  • il diritto alle spese sanitarie, ove sia impossibile usufruire di strutture pubbliche;
  • il diritto a un assegno periodico derivante dall’impossibilità di svolgere attività lavorativa o di percepirne i proventi a causa delle misure di tutela adottate o per effetto delle dichiarazioni rese.

L’articolo 7 è dedicato alle misure di reinserimento sociale e lavorativo del testimone di giustizia (e degli altri protetti) che, come quelle economiche, vedono attualmente una disparità di trattamento in favore del testimone sottoposto al programma speciale di protezioneLe misure previste, salvo eccezioni, sono adottate nei confronti di tutti i testimoni di giustizia.

Tra le nuove prerogative in tale ambito si segnala il diritto del testimone:

  • a svolgere, dopo il trasferimento in località protetta (nell’ambito, quindi, del programma speciale di protezione), un’attività lavorativa, anche non retribuita, in base alle proprie inclinazioni. La previsione mira allo sviluppo della persona e alla prosecuzione della sua partecipazione sociale;
  • a beneficiare di specifiche forme di sostegno alla propria impresa, da determinare in via di attuazione. Sono applicabili a tal fine, ove compatibili le disposizioni relative alle aziende confiscate alla criminalità organizzata di cui al cd. Codice antimafia;
  • ad un nuovo posto di lavoro, anche temporaneo, con mansioni e posizione equivalenti a quelle che il testimone di giustizia (o gli altri protetti) ha perso in conseguenza delle sue dichiarazioni (o che le misure adottate impediscono di svolgere).
  • a possibile assegnazione di beni da parte dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata;

Sono confermate le misure che prevedono:

  • il diritto alla conservazione del posto di lavoro o al trasferimento presso altre amministrazioni o sedi;
  • in alternativa alla capitalizzazione (e se il testimone non è economicamente autonomo) il diritto all’accesso a un programma di assunzioni presso la PA (fatte salvo quelle che richiedono particolari requisiti), con chiamata nominativa e con qualifica corrispondente ai titoli posseduti, nei limiti dei posti vacanti;
  • il diritto all’accesso a mutui agevolati, per i quali è specificata la possibilità di convenzioni tra Ministero dell’interno e banche.
  • L’articolo 8 introduce un termine massimo di durata di sei anni delle speciali misure di protezione(sia di tutela che di assistenza economica e reinserimento lavorativo) fissato dalla Commissione centrale, fatte salve le periodiche verifiche sulla gravità e attualità del pericolo e sull’idoneità delle misure. Le misure potranno, tuttavia, protrarsi oltre tale limite su richiesta motivata dell’autorità giudiziaria che le ha proposte.

Con riguardo alle misure di tutela di cui all’articolo 5si prevede che esse siano:

  • mantenute fino a che il pericolo per il testimone rimanga grave, concreto ed attuale;
  • gradualmente affievolite, ove possibile.

Nel caso in cui, al termine delle speciali misure di protezione, il testimone di giustizia e gli altri protetti non abbiano riacquistato l’autonomia lavorativa o il godimento di un reddito proprio, si prevede che il testimone e gli altri protetti accedano o alla capitalizzazione del costo dell’assegno periodico o a un programma di assunzioni nella pubblica amministrazione.

L’articolo 9,modificando l’articolo 10 del decreto legge n. 8 del 1991, innova la composizione della Commissione centrale presso il Ministero dell’internocui, su richiesta dell’autorità giudiziaria, compete decidere sull’adozione delle diverse misure di protezione nonché sulle eventuali vicende modificative. La composizione della Commissione è integrata da un avvocato dello Stato ed è prevista la nomina di un vicepresidente.

Attualmente, presidente della Commissione centrale (composta da otto membri) è un Sottosegretario di Stato all’interno. Ne fanno parte, poi, due magistrati e cinque funzionari e ufficiali preferibilmente scelti tra coloro che hanno maturato specifiche esperienze nel settore e che siano in possesso di cognizioni relative alle attuali tendenze della criminalità organizzata, ma che non sono addetti ad uffici che svolgono attività di investigazione, di indagine preliminare sui fatti o procedimenti relativi alla criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico-eversivo.

La disposizione demanda, poi, ai regolamenti di attuazione la dotazione di personale e mezzi della segreteria che coadiuva la Commissione (attualmente, i compiti di segreteria sono svolti da personale dell’Ufficio per il coordinamento e la pianificazione delle forze di polizia).

Il procedimento di applicazione, modifica, proroga e revoca delle speciali misure di protezione  L’articolo 10 rinvia, in quanto compatibili, a una serie di disposizioni del decreto legge n. 8 del 1991per il procedimento di applicazione, modifica, proroga e revoca delle speciali misure e l’attuazione dei programmi di protezione e per quanto non espressamente disciplinato dal disegno di legge. In via transitoria fino all’adozione del nuovo regolamento di attuazionedi cui all’articolo 26 si applicano le disposizioni dei regolamenti ministeriali attuativi dell’articolo 17-bis del decreto legge n. 8 del 1991 (sostanzialmente, il DM n. 161 del 2004 – essendo il DM n. 144 del 2006 riferito al trattamento penitenziario dei detenuti-collaboratori di giustizia – nonché il regolamento per l’assunzione dei testimoni di giustizia nella PA, DM n. 204 del 2014). L‘articolo 11 coordina la disciplina sulla proposta di ammissione alle speciali misure di protezione (prevista dall’articolo 13 del decreto legge n. 8 del 1991) al nuovo status del testimone. La proposta alla Commissione centrale, infatti, deve contenere anche l’attestazione della sussistenza dei requisiti del testimone di giustizia indicati dall’articolo 2 del disegno di legge. Sulla proposta di ammissione – ove la testimonianza riguardi delitti di mafia, terrorismo ed altri delitti di particolare allarme sociale (articolo 51, commi 3-bister e quater, c.p.p.) – è resa obbligatoria la richiesta di parere del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, attualmente solo eventuale (articolo 11, comma 5, del decreto legge n. 8 del 1991). Si prevede inoltre che la Commissione richieda informazioni, oltre che al Servizio centrale di protezione, anche al prefetto del luogo di dimora del testimone. Infine, la disposizione impone la trasmissione al tribunale dei minorenni, per le eventuali determinazioni di competenza, della proposta di misure di protezione che riguardi minori in condizioni di disagio familiare e/o sociale. Gli articoli 12 e 13 riguardano l’applicazione del programma di protezioneL’articolo 12 prevede modifiche all’attuale disciplina del piano provvisorio di protezione. Si prevede che:

  • la deliberazione della Commissione centrale avviene di regola senza formalità e, in ogni caso, entro la prima seduta successiva alla proposta dell’autorità giudiziaria proponente;
  • il piano provvisorio deve assicurare agli interessati le speciali misure di protezione e condizioni di vita congrue rispetto alle precedenti;
  • nel piano provvisorio, deve operare un referente del testimone di giustizia. Il referente (i cui compiti sono specificamente indicati dall’articolo 16), in sede di piano provvisorio, ha compiti sostanzialmente informativi del testimone sui contenuti delle misure e sui suoi diritti e doveri, deve poi trasmettere alla Commissione centrale entro 30 gg. tutte le informazioni (personali, familiari, patrimoniali) degli interessati nonché chiedere la nomina, ove richiesto, di una figura professionale di supporto psicologico;
  • è stabilito un termine di 90 gg. trascorsi i quali, il piano provvisorio perde efficacia (attualmente, il piano provvisorio decade se entro 180 gg. la proposta del programma definitivo non è stata trasmessa dall’autorità proponente e la commissione non ha deliberato in tal senso). Il presidente della commissione centrale può disporre la prosecuzione del piano provvisorio di protezione per il tempo strettamente necessario a consentire l’esame della proposta da parte della commissione medesima. Il termine di 90 gg. è prorogabile fino a 180 con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria e comunicato alla commissione centrale.
  • L’articolo 13 apporta modifiche alla disciplina relativa al Programma definitivo per la protezione.

Tra le novità si segnalano:

  • è espressamente prevista l’accettazione del programma; attualmente, le misure sono “sottoscritte” dagli interessati (articolo 12 del decreto legge n. 8 del 1991 e 12 del DM n. 161 del 2004) che contestualmente assumono l’impegno di:
  • riferire tempestivamente all’autorità giudiziaria quanto a loro conoscenza sui fatti di rilievo penale,
  • non rilasciare dichiarazioni su tali fatti a soggetti diversi dall’autorità giudiziaria, dalle forze di polizia e dal proprio difensore,
  • non rivelare o divulgare in qualsiasi modo elementi idonei a svelare la propria identità o il luogo di residenza qualora siano state applicate le misure di tutela.
  • la possibilità di modifica o revoca del programma definitivo (come di quello provvisorio) può avvenire in reazione all’attualità, concretezza e gravità del pericolo (rispetto a quanto previsto dall’articolo 13-ter del decreto legge n. 8 del 1991 è aggiunto il requisito della “concretezza”) nonché in relazione alle esigenze degli interessati;
  • l’introduzione di un termine di 20 gg. dalla richiesta per decidere sulla richiesta di modifica o revoca(attualmente non stabilito), nonché la necessaria acquisizione dei pareri dell’autorità giudiziaria (se non hanno chiesto loro la modifica-revoca) e, eventualmente, del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo;
  • l’introduzione di un termine semestrale per la verifica periodica del programma da parte della Commissione.

A legislazione vigente, l’articolo 13-quater del decreto legge n. 8 del 1991 prevede un termine non superiore a 5 anni e non inferiore a 6 mesi entro cui deve procedersi alle verifiche per la modifica o la revoca, fermo restando l’obbligo di procedere alle verifiche se lo chieda l’autorità giudiziaria che ha formulato la richiesta.

Viene, infine, precisato che la modifica o revoca del programma definitivo non ha effetto sull’applicabilità dell’articolo 147-bis delle norme di attuazione al c.p.p. dovendosi, comunque, prevedere la partecipazione al dibattimento a distanza da parte del testimone.

L‘articolo 14 conferma l’affidamento delle modalità esecutive delle misure di protezione al Servizio centrale di protezione, la cui disciplina sostanziale è contenuta nell’articolo 14 del decreto legge n. 8 del 1991.


Il Servizio centrale di protezione  E’ la struttura interforze deputata all’attuazione e alla specificazione delle modalità esecutive del programma speciale di protezione deliberato dalla Commissione centrale del Ministero dell’interno. Istituito nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza (con decreto del Ministro dell’interno, che ne stabilisce la dotazione di personale e di mezzi, anche in deroga alle norme vigenti) il Servizio provvede sostanzialmente alla tutela, all’assistenza e a tutte le esigenze di vita delle persone beneficiarie della protezione. Il Servizio è articolato in due sezioni, dotate ciascuna di personale e di strutture differenti e autonome, aventi competenza l’una sui collaboratori di giustizia e l’altra sui testimoni di giustizia. Sul territorio nazionale il Servizio di protezione è articolato in 19 nuclei periferici (i cd. NOP, nuclei operativi di protezione).


Le principali novità introdotte dalla riformasono sostanzialmente:

  • il coinvolgimento del Servizio centrale anche in relazione all’esecuzione del piano provvisorio di protezione (ora si occupa dell’esecuzione del solo programma speciale di protezione; le misure di protezione, provvisorie e definitive, nel luogo di residenza del testimone sono, invece eseguite dagli organi di polizia sul territorio);
  • l’individuazione, nell’ambito della sezione dell’ufficio che si occupa dei testimoni, del referente del testimone di giustizia.

L’articolo 15 prevede che le disposizioni di cui all’articolo 14, comma 1, terzo periodo, si applicano anche in materia di collaboratori di giustizia.

Il terzo periodo del comma 1 dell’articolo 14 prevede che il Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza coordina i rapporti tra prefetti e tra autorità di sicurezza nell’attuazione degli altri tipi di speciali misure di protezione, la cui determinazione spetta al prefetto del luogo di residenza attuale del testimone, anche mediante impieghi finanziari non ordinari autorizzati dallo stesso Capo della polizia – direttore generale della pubblica sicurezza.

L’istituzione, ai sensi dell’articolo 16, della figura del referente del testimone di giustizia che lo assiste per tutta la durata del programma di protezione e anche successivamente, fino al riacquisto dell’autonomia economica, costituisce le novità di maggior rilievo della riformain esame.

Al referente sono assegnati i seguenti compiti di assistenza:

  • informare il testimone (e gli altri protetti) sui diritti che la legge gli assicura e sulle conseguenze derivati dall’attuazione delle misure;
  • individuare e quantificare il patrimonio, attivo e passivo, e le obbligazioni del testimone di giustizia e degli altri protetti;
  • informare periodicamente la commissione centrale sull’andamento del programma di protezione, sull’eventuale necessità di adeguarlo alle sopravvenute esigenze dell’interessato, nonché sulla condotta e sull’osservanza degli impegni assunti;
  • assistere gli interessati, con il loro consenso, nella gestione del patrimonio e dei beni aziendali, delle situazioni creditorie e debitorie e di ogni altro interesse patrimoniale del testimone di giustizia e degli altri protetti se questi non possono provvedervi a causa delle dichiarazioni rese o dell’applicazione del programma di protezione;
  • assistere gli interessati nella presentazione dei progetti di reinserimento sociale e lavorativo e verificare la loro concreta realizzazione;
  • assistere gli interessati nella presentazione dei progetti di capitalizzazione, nella concreta realizzazione e nella rendicontazione periodica alla commissione centrale dell’utilizzazione delle somme attribuite;
  • collaborare tempestivamente per assicurare l’esercizio di diritti che potrebbero subire limitazione dall’applicazione delle speciali misure di protezione.

Si tratta a ben vedere di compiti di assistenza: come precisa la norma, infatti, la titolarità delle decisioni resta attribuita al testimone di giustizia e agli altri protetti.

L’articolo 17 prevede la possibilità in qualunque momento del programma, anche nel corso dell’esecuzione del piano provvisorio, di essere sentiti personalmente dalla Commissione centrale o dal Servizio centrale di protezione. Alla richiesta di audizione si deve dare corso entro il termine di trenta giorni.

L’articolo 18 ridelinea la disciplina della somma urgenza.

Quando risultano situazioni di particolari gravità e urgenza che non consentono di attendere la deliberazione della Commissione centrale e nelle more della decisione si prevede:

  • l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 13, comma 1, sesto e settimo periodo, le quali prevedono che in tali casi, su motivata richiesta della competente autorità provinciale di pubblica sicurezza, il Capo della polizia – direttore generale della pubblica sicurezza può autorizzare detta autorità ad avvalersi, per l’attuazione di misure provvisorie, degli stanziamenti “riservati” previsti dall’articolo 17 del decreto legge n. 8 del 1991 (per i quali sono dettati obblighi di relazione del Capo della polizia al Ministro dell’interno). Nei casi in cui è applicato il piano provvisorio di protezione, il presidente della commissione può richiedere al Servizio centrale di protezione una relazione riguardante la idoneità dei soggetti a sottostare agli impegni assunti;
  • la possibilità per l’autorità provinciale di pubblica sicurezza di accedere ai fondi avvalendosi del Servizio centrale di protezione.

L’articolo 19 integra il contenuto del comma 4 dell’articolo 17 del decreto legge n. 8 del 1991 precisando che gli interventi finanziari relativi alle misure di protezione non sono soggetti alle norme sulla tracciabilità dei pagamenti e sulla fatturazione elettronica.

Il comma 4 dell’articolo 17 del decreto-legge n. 8 del 1991 sancisce la natura riservata e non soggetta a rendicontazione degli interventi finanziari relativi alle misure di protezione.

Disposizioni finali e transitorie

L’articolo 20 dispone l’abrogazione:

  • dell’articolo 12, comma 3, del decreto legge n. 8 del 1991 che – in sede di assunzione degli impegni – esonera i testimoni di giustizia dall’obbligo di specificare tutti i beni posseduti e controllati;
  • del capo II-bis (articoli 16-bis e 16-ter) dello stesso decreto-legge recante norme per la protezione dei soli testimoni di giustizia.

L’articolo 21 modifica l’articolo 392 c.p.p. estendendo anche ai testimoni di giustizia la possibilità di essere ascoltati con incidente probatorio durante le indagini preliminari.

Attualmente, tale forma di assunzione della prova è prevista per i soli collaboratori di giustizia.

L’articolo 22 introduce nell’ordinamento un’ulteriore circostanza aggravante ad effetto speciale del reato di calunnia.

Il delitto in questione è punito dall’articolo 368 c.p. con la pena (base) della reclusione da 2 a 6 anni.

L’aggravante, che consiste nell’avere commesso il reato per usufruire o continuare a fruire delle speciali misure di protezione previste dalla legge in esame, comporta un aumento da un terzo alla metà della pena base. Se uno dei benefici è stato ottenuto, l’aumento è dalla metà ai due terzi.

L’articolo 23 detta una norma transitoria secondo cui è testimone di giustizia colui che, alla data di entrata in vigore della nuova legge, è sottoposto al programma o alle speciali misure di protezione.

L’articolo 24 modifica l’articolo 147-bis, comma 3, delle norme di attuazione del c.p.p. introducendovi una nuova lettera a-bis). La nuova disposizione aggiunge anche le persone ammesse al piano provvisorio o al programma definitivo per la protezione dei testimoni di giustizia tra i soggetti il cui esame in dibattimentoavviene, di regola, a distanza.

L’articolo 25 prevede l’istituzione nell’ambito del sito Internet del Ministero dell’interno di una sezione, di facile accesso e debitamente segnalata nella home page del sito, contenente tutte le informazioni:

  • sull’applicazione dei programmi di protezione per i testimoni di giustizia;
  • sui relativi diritti e doveri

L’articolo 26 demanda l’attuazione della legge in esame ad uno o più regolamenti adottati dal Ministro dell’interno, di concerto con quello della giustizia, sentita la Commissione centrale e previo parere delle Commissioni parlamentari competenti.

Per quanto riguarda l’attuazione delle disposizioni di cui all’articolo 3, comma 2, relative ai minori compresi nelle speciali misure di protezione il regolamento relativo è adottato con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia e con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Infine in riferimento all’attuazione delle disposizioni di cui all’articolo 6, comma 1, relative alle misure di sostegno economico i regolamenti relativi sono predisposti previo parere dell’Agenzia delle entrate.

L’articolo 27 del disegno di legge ribadisce l’obbligo delMinistro dell’interno di relazione semestrale al Parlamento (ex art. 16, del decreto legge n. 8 del 1991) sulle misure di protezione dei testimoni di giustizia, sulla loro efficacia e sulle modalità di applicazione senza riferimento nominativi. Oltre al numero dei testimoni e degli altri protetti, andranno in tale sede precisate, rispetto a quanto attualmente previsto, le spese di assistenza economica sostenute e le elargizioni straordinarie concesse ai testimoni.

L’articolo 28 reca infine la clausola di invarianza finanziaria.

a cura di: C. Andreuccioli

Il  decreto legge n. 8 del 1991 è stata introdotto nel nostro ordinamento un sistema ‘premiale’ per i ‘collaboratori di giustizia’ per i delitti di stampo mafioso riguarda coloro che ‘assumono rispetto al fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono le dichiarazioni esclusivamente la qualità  di persona offesa dal reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone‘ a condizione che non siano oggetto di misure di prevenzione.

Nella realtà  cosa avviene? Nella località  protetta (soltanto 17 testimoni di giustizia su 80 beneficiano attualmente delle speciali misure di protezione in località  di origine  e la stessa sorte la hanno anche i familiari) ci sono solo guai e perdite economiche nel caso di attività  esistenti e sarebbe logico assicurare loro aiuti per mantenere le loro attività  dando un messaggio di sicurezza per altri. Se ne parla dal 2014: al Senato, nelle sedute del 29 ottobre 2014 (clicca qui e qua), alla Camera ha discusso la relazione il 21 aprile 2015 ed il 22 aprile 2015, ma anche in Commissione Giustizia della Camera ha avviato il 7 settembre 2016 l’esame dell’ AC 3500, che recepisce gran parte delle indicazioni contenute nella relazione della Commissione antimafia, deliberando altresì di procedere ad una breve ciclo di audizioni (sulle quali leggi questa scheda). Su contenuti ed iter parlamentare della proposta di legge leggi questa scheda.

XVIII Legislatura: progetti di legge presentati e in discussione

ATTIVITA’ D’INCHIESTA

ATTI DI INDIRIZZO POLITICO E CONTROLLO

Archivio VARESE NEWS


DISPOSIZIONI PER LA PROTEZIONE DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA (AS 2740). SCHEDA DI SINTESI Premessa. La Camera ha approvato il 9 marzo 2017 il provvedimento, che successivamente è stato approvato all’unanimità dal senato il 21 dicembre 2017.

Finalità del provvedimento. La proposta di legge iniziale (AC 3500) è volta ad adeguare la disciplina (in particolare il decreto legge n. 8 del 1991 e la legge n. 45 del 2001) in materia, al fine di distinguere meglio la posizione dei testimoni di giustizia (di norma semplici cittadini – ad esempio imprenditori oggetto di racket o di usurai – che danno uno specifico apporto alle indagini della magistratura e che per questo possono essere perseguitati da gruppi criminali: in base ai dati forniti dal Governo nel corso dell’iter, essi attualmente sono 78, e 255 i loro familiari) da quella dei collaboratori di giustizia (che fanno invece parte di organizzazioni criminali e che proprio per questo sono in grado di fornire informazioni utili per lo svolgimento delle indagini, ottenendo in cambio benefici di varia natura: attualmente sono 1.277, con 4.915 familiari).

Contenuti della proposta di legge. La proposta di legge prevede in particolare:

  • la ridefinizione del testimone di giustizia (“colui che: rende, nell’ambito di un procedimento penale, dichiarazioni dotate di fondata attendibilità intrinseca e rilevanti per le indagini o il giudizio”) e il riconoscimento della protezione delle persone conviventi ai testimoni e ad altri “protetti” che siano esposti a grave, attuale e concreto pericolo (artt. 1 e 2);
  • l’ampliamento e la personalizzazione delle misure di vigilanza, tutela fisica e sostegno economico e di reinserimento sociale e lavorativo, privilegiando il mantenimento del testimone di giustizia nella località di origine (rispetto al programma di protezione in località protetta) (artt. 3-8);
  • la modifica della composizione della Commissione centrale presso il Ministero dell’Interno e la disciplina riguardante il piano di protezione provvisorio e definitivo (artt. 9-19)
  • l’introduzione della figura del referente del testimone di giustizia, volto ad assisterlo nei suoi rapporti con le istituzioni (art. 16);
  • la possibilità di utilizzo dell’incidente probatorio e della videoconferenza per ascoltare i testimoni di giustizia, al fine di evitarne la sovraesposizione (art. 21 e 24);
  • la previsione di un’ulteriore circostanza aggravante del reato di calunnia, se commessa per usufruire delle misure di protezione (art. 22);
  • la disponibilità sul sito internet del Ministero delle informazioni sull’applicazione dei programmi di protezione per i testimoni di giustizia e sui relativi diritti e doveri (art. 25).

Notizie dell’iter alla Camera. La Commissione Giustizia della Camera ha avviato il 7 settembre 2016 l’esame della proposta di legge, che recepisce gran parte delle indicazioni contenute nella relazione della Commissione antimafia per garantire una più efficace tutela dei testimoni di giustizia attraverso la definizione di una specifica disciplina: la relazione è stata discussa dall’Assemblea di Camera e Senato, con l’approvazione di atti di indirizzo.
Al fine di approfondire ulteriormente gli aspetti problematici del provvedimento, la Commissione Giustizia ha effettuato un breve ciclo di audizioni (seduta del 13 settembre 2016). In particolare, il 25 ottobre 2016 ed il 26 ottobre 2016 sono stati ascoltati i Procuratori della Repubblica presso i tribunali di Reggio Calabria, Napoli, Milano, Palermo, Roma e Torino, nonché il Presidente della Commissione centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione ed il Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo (per una sintesi di tali interventi leggi questa scheda).
L’esame degli emendamenti si è svolto nelle sedute del 16 novembre 201623 novembre 201611 gennaio 20171° febbraio 2017 e 23 febbraio 2017. La discussione in Aula è iniziata il 27 febbraio 2017, con gli interventi, tra gli altri, del relatore, On. Mattiello, e del Vice Ministro dell’Interno. A causa del mancato parere espresso dalla Commissione Bilancio, che ha chiesto una relazione tecnica sugli oneri derivanti dal provvedimento (clicca qui e qui), la discussione è stata rinviata al 7 marzo 2017. L’8 marzo 2017 la Commissione Bilancio ha espresso un parere favorevole con osservazioni.
Il 9 marzo 2017 l’Assemblea di Montecitorio ha approvato il testo con alcune modifiche (clicca qui).
L’iter al Senato. La Commissione Giustizia del Senato ha avviato la discussione del provvedimento (e di altre due proposte di legge in materia, AS 809 e AS 2176) il 4 luglio 2017  18 luglio 2017 e 25 luglio 2017: l’esame degli emendamenti è ripreso nella seduta del 19 settembre 2017. La Commissione Giustizia ha ultimato l’esame del provvedimento il 24 ottobre 2017 apportando una modifica all’articolo 1. È stato approvato anche un ordine del giorno di indirizzo al Governo volto a modificare la disciplina dei verbali illustrativi dei contenuti della collaborazione e della loro utilizzabilità entro determinati termini temporali.Il provvedimento è stato poi approvato definitivamente dal Senato il 21 dicembre 2017, ripristinando il testo licenziato dalla Camera. Per maggiori informazioni vedi il dossier del Servizio Studi del Senato.(ultimo aggiornamento 21 dicembre 2017)  AVVISO PUBBLICO


Giovanni Falcone: “Perché servono le leggi sui pentiti”    

Vorrei leggervi una lettera, da me ricevuta giorni addietro, che è stata redatta da terroristi dissociati; la stessa è stata indirizzata, oltre che a me, anche ad altri colleghi, quali Caselli, Vigna, Napolitano, Imposimato. Ve la leggo perché penso che racchiuda in sé proprio la tematica di questo nostro incontro, e soprattutto perché costituisce, a mio avviso, un’analisi molto lucida di tutti i problemi che stanno venendo fuori nel corso di questo dibattito.
Inizia (naturalmente vi leggerò solo i passi più essenziali) così: “Noi ex militanti di organizzazioni armate, ovvero detenuti con particolare posizione processuale, nel nostro iter giudiziario e carcerario abbiamo avuto modo di constatare che l’impegno, la perseveranza, l’intelligenza di alcuni magistrati sono stati determinanti e preponderanti nella lotta all’eversione. Serve ricordare sempre che taluni di essi hanno perso la vita per questo. Questi magistrati, che hanno attraversato momento per momento l’eversione con le loro indagini sviscerando e dipanando problematiche mai affrontate sino ad allora nella nostra Repubblica, hanno condizionato anche la legislazione d’emergenza determinando temporalmente gli strumenti adeguati per affrontare e risolvere il problema. La crisi politico-militare e organizzativa delle bande armate è frutto dell’opera investigativa degli inquirenti e della comprensione politica del problema da parte dello Stato che ha adeguatamente legiferato. Il terrorismo però nasce e si innesta su problematiche sociali rimaste in gran parte tuttora insolute e che sono ugualmente l’humus della nascita e della riproduzione della criminalità mafiosa e camorristica. I magistrati impegnati nella lotta all’eversione si sono trovati nelle loro inchieste di fronte ad episodi e sintomi di collusione del terrorismo con la criminalità organizzata”.
E si fanno alcuni esempi: le Unità combattenti comuniste ebbero rapporti delinquenziali, che sfociarono in una rapina al “Club Mediterranée” di Nicotera Marina nell’agosto del ’77, con elementi calabresi appartenenti a cosche operanti nella piana di Gioia Tauro; i collegamenti tra movimento politico Ordine nuovo e banda Vallanzasca; i rapporti fra Stefano Delle Chiaie e personaggi della mafia siculo-americana; i rapporti tra appartenenti ai Nar ed esponenti del clan Giuseppucci-Balducci-Abbruciati; la fornitura da parte di Frank Coppola e del suo clan ad appartenenti al movimento politico Ordine nuovo; i proficui rapporti intercorrenti fra Brigate rosse e organizzazioni criminali risalenti al sequestro-Cirillo; le notevoli connessioni fra Brigate rosse e non meglio identificati esponenti della ‘ndrangheta calabrese; il caso Ligas-Pittelli.
Perché si dice questo? “E proprio da tali considerazioni che sono scaturite le speculazioni su chi collabora con la giustizia, operate da personaggi aventi un marcato interesse alla omertà e tendenti quindi ad evitare nuove norme giuridiche che facilitino il chiarimento su connubio tra potere politico e mafia. Gli stessi giudici che operano durante gli anni più cruenti del terrorismo si ritrovano nella condizioni di solitudine ad istruire processi contro la criminalità organizzata”. E poi vi è un passo estremamente importante che condivido e sottoscrivo in pieno: “I problemi che vengono posti in luce sotto la dicitura “emergenza” sono invece dato strutturale della società italiana. In questo senso il richiamo alla emergenza si pone come tentativo di risanamento morale, politico ed economico del Paese e non come strumento di paralisi della dialettica politica, elemento essenziale fisiologico del corretto rapporto tra maggioranza e opposizione. Pertanto, discutere di emergenza sì emergenza no è una mera strumentalizzazione dei problemi del Paese. La necessità di moralizzare la vita pubblica italiana è sempre emergente e lo Stato deve stringersi attorno a quegli uomini che lavorano con abnegazione nel rispetto della legalità, della democrazia e della Carta costituzionale”.
Ed è proprio per rispettare la legalità che noi siamo qui riuniti e sottolineiamo da tempo la esigenza di norme che agevolino un rapporto più corretto con coloro che intendono collaborare con la giustizia. Non c’è affatto una volontà, una tendenza a indulgere in scorciatoie pericolose. Ed è assolutamente inesistente, per quanto mi risulta, una “cultura del pentitismo”, un voler credere ciecamente e acriticamente in quello che ci viene rivelato. E non mi si dica che negli Stati Uniti proprio perché vi sono soggetti che collaborano maggiormente con la giustizia non si fanno più indagini. Il tipo di indagini che personalmente ho potuto constatare e la qualificazione professionale e le attrezzature tecniche esistenti negli Stati Uniti sono veramente a un livello molto superiore rispetto a quello che abbiamo noi; e debbo dire che talora le indagini e le acquisizioni processuali che noi facciamo in Italia in ordine a gravi reati non sono altro che un riflesso di quello che apprendiamo altrove. Io non penso che ci sia qualcuno che possa seriamente e in buona fede pensare che un magistrato degno di questo nome possa adempiere in questa maniera il suo dovere.In realtà le norme premiali servono soprattutto a eliminare sacche di illegalità strisciante che noi ogni giorno siamo costretti a dover constatare. Quante volte abbiamo constatato l’esistenza di un rapporto poco chiaro fra polizia e confidente, che poi è sempre il rapporto tra il maresciallo Tizio o l’appuntato Caio e quel singolo confidente? Tante volte ci si dimentica che la facoltà dell’ufficiale di polizia di non rivelare il nome del confidente non significa affatto copertura del reato dallo stesso commesso, che si ha sempre l’obbligo giuridico di perseguire e denunziare. Quante volte ci siamo trovati sul nostro tavolo un processo per sequestro di eroina o di altro stupefacente senza riuscire a capire da dove è partita l’operazione, come si è sviluppata e chi ha fatto la soffiata? E chi ha fatto la soffiata non può essere altro che una persona stabilmente inserita nell’organizzazione. Il confidente, purtroppo, da noi in Italia non è come il confidente negli Stati Uniti, il quale si trova schedato, ha un proprio numero di codice, è il confidente del Governo americano, ha ben precisi obblighi e ben precisi diritti. Le norme premiali per chi collabora con la giustizia, dunque, servono per fare chiarezza, per stabilire che il rapporto fra chi collabora e il magistrato deve essere un rapporto regolamentato dalle leggi.
Pensavo che su questi principi ci fosse anche l’accordo del Ministero dell’interno, ove si consideri che più volte ci siamo incontrati con il ministro Scalfaro e abbiamo appreso che egli era totalmente d’accordo con le nostre considerazioni; mentre oggi dalla relazione di un qualificato esponente del Ministero dell’interno – che debbo ritenere che non parli a titolo personale – mi sembra di cogliere delle perplessità, dei ripensamenti. Da parte mia, credevo che ci si fosse riuniti non per discutere ancora sull’opportunità di queste norme premiali, bensì sui mezzi tecnici più adeguati per introdurre norme siffatte nell’ordinamento vigente”.
Vorrei accennare, poi, ad alcuni dei tanti e delicati problemi che chiunque svolge indagini istruttorie di respiro internazionale deve affrontare. Giorni addietro, per esempio, nell’interrogare un imputato di traffico di stupefacenti negli Stati Uniti, abbiamo appreso dai suoi avvocati che desideravano un nostro impegno scritto a non richiedere la estradizione; impegno che ovviamente non potevamo rilasciare e che in ogni caso non avrebbe avuto alcun valore giuridico. Altro problema riguarda (e questo lo ha ricordato egregiamente il collega Scotti) la possibilità di concessione dell’immunità che da non non esiste: pertanto, accade molto spesso che un soggetto collabori con la giustizia negli Usa, e in Italia si guardi bene dal fare qualsiasi ammissione, perché ciò significherebbe l’inizio dell’azione penale nei suoi confronti. Tutto ciò comporta degli attriti fra le polizie e la magistrature dei diversi Paesi; è evidente, infatti, che vi saranno sempre, ad esempio, delle resistenze a comunicare determinati fatti – ammessi da coloro che collaborano, previa concessione della impunità con la giustizia americana – fin quando ciò inevitabilmente produrrà un procedimento penale in Italia contro coloro che hanno collaborato. Senza dire di tanti altri problemi come, ad esempio, la possibilità di fare consegne controllate e di acquistare partite di stupefacenti, di non sequestrare la droga ma di farla proseguire fino all’estero per individuare altri anelli dell’organizzazione. Nessun procuratore della Repubblica attualmente si sognerebbe, ad esempio, di autorizzare che un corriere di eroina anziché essere arrestato in Italia venga fatto proseguire per l’estero al fine di individuare altri trafficanti, perché poi gli si addebiterebbe, quanto meno, una omissione di atti di ufficio. Ebbene, di fronte a problemi tanto complessi di armonizzazione di ordinamenti giuridici ispirati a principi diversi – armonizzazione resa necessaria dalle stesse dimensioni internazionali della criminalità organizzata – io ritengo che una saggia introduzione di norme generali di natura premiale per chi collabora con la giustizia, oltre a non ledere alcun principio costituzionale, consentirebbero, fra l’altro, di fare un notevole passo avanti nella collaborazione giudiziaria internazionale e, in definitiva, si risolverebbe in una maggiore incisività globale dell’azione della magistratura per la repressione del fenomeno della criminalità organizzata.
* Giovanni Falcone: “La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia”, presentazione di Giuseppe D’Avanzo, prefazione di Maria Falcone; Bur Biblioteca Universale Rizzoli e Fondazione Giovanni e Francesca Falcone; 2010, pp 379, euro 11,90; titolo originale dell’intervento: “Una legislazione premiale per i pentiti di mafia”22.5. 2018 BY FONDAZIONE NENNI

 


I falsi pentiti e la clamorosa revisione

Solo successivamente alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (avvenuta a decorrere dal giugno 2008), le cui dichiarazioni, puntualmente, concordamente e costantemente riscontrate (anche per il tramite di altro collaboratore, Fabio Tranchina), smentivano radicalmente le propalazioni accusatorie di Scarantino, Andriotta e Candura, il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta chiedeva, in data 13 ottobre 2011, alla Corte d’Appello di Catania la revisione delle sentenze di condanna inflitte in esito dei processi cosiddetti Borsellino1 e Borsellino bis. Il 13 luglio 2017, la Corte d’Assise d’Appello di Catania ha accolto tale richiesta di revisione, scagionando definitivamente tutti coloro che erano stati ingiustamente condannati sulla base delle dichiarazioni dei falsi pentiti. Sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, pertanto, la Procura di Caltanissetta ha svelato il clamoroso depistaggio operato dai collaboratori Scarantino, Candura e Andriotta, i quali, dopo un iniziale tentennamento, hanno confessato di aver dichiarato il falso nel corso dei procedimenti denominati Borsellino 1 e Borsellino bis su pressione di alcuni componenti del gruppo investigativo “Falcone- Borsellino”.
Con sentenza del 20 aprile 2017 la Corte d’Assise di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Per Scarantino, invece, e stata dichiarata la prescrizione del reato in considerazione del riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114, comma 3, c.p.p. per essere stato determinato da altri a commettere il reato. Segnatamente, quanto allo Scarantino, la Corte d’Assise ha riconosciuto la completa falsità di tutte le sue dichiarazioni, emergente con assoluta certezza:
“…non solo dalla dall’esplicita ammissione operata dallo stesso Scarantino, ma anche, e soprattutto, dalla loro inconciliabilità con le circostanze univocamente accertate nel presente processo, che hanno condotto alla ricostruzione della fase esecutiva dell’attentato in senso pienamente coerente con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza… Da tale ricostruzione emerge in modo inequivocabile, oltre alla inesistenza della più volte menzionata riunione presso la villa del Calascibetta, la mancanza di qualsiasi ruolo dello Scarantino nel furto della Fiat 126, la quale, per giunta, non venne mai custodita nei luoghi da lui indicati, né ricoverata all’interno della carrozzeria dell’Orofino per essere ivi imbottita di esplosivo”. La Corte, inoltre, cercando di dare una risposta sulle ragioni del falso pentimento di Scarantino, e giunta ad affermare che questo sarebbe stato determinato:
“…da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione. Al riguardo, va segnalato un primo dato di rilevante significato probatorio: come si è anticipato, le dichiarazioni dello Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili, contengono alcuni elementi di verità … È quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”. La citata sentenza non ha individuato gli autori di tali suggerimenti, limitandosi ad ascriverli, comunque, ad un’area istituzionale; né tanto meno ha chiarito quali siano state le ragioni che hanno determinato una simile condotta e le finalità che attraverso questa si intendevano realmente perseguire. Rimangono ancore occulte anche le richiamate fonti che avrebbero, per così dire, suggerito ai suggeritori di Scarantino quelle circostanze dimostratesi veritiere e, quindi, estranee al patrimonio cognitivo diretto del picciotto della Guadagna. La Procura di Caltanissetta e chiamata oggi a rispondere a questi interrogativi e con non poche difficoltà . Lo scorso 28 settembre 2018, il Gip di Caltanissetta ha disposto il rinvio a giudizio di tre dei componenti del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” guidato, all’epoca delle indagini, dal dottor Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002). Si tratta del dirigente della Polizia di Stato Mario Bo, dell’agente Michele Ribaudo e dell’ispettore, oggi in pensione, Fabrizio Mattei. Per loro l’accusa e di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra.  Fonte mafie blog autore repubblica

 


Collaboratori di giustizia. 

Il fenomeno della collaborazione di giustizia, c.d. pentitismo, si inserisce nel contesto delle fattispecie premiali fondate sul comportamento post delictum. In particolare, il legislatore riconosce valore attenuante alla collaborazione (tanto quella sostanziale, che consiste nell’adoperarsi per evitare che l’attività criminosa prosegua, quanto quella investigativa/processuale, che si estrinseca nel rendere dichiarazioni etero accusatorie o nel consentire il rinvenimento di materiale probatorio) fornita dal reo e finalizzata a contrastare determinati fenomeni criminosi che si caratterizzano per il particolare allarme sociale che suscitano, ovvero per la difficoltà di contrasto da parte delle forze dell’ordine, sia nella fase investigativa che in quella repressiva.

La ratio di una simile opzione politico-criminale va rintracciata nella opportunità di contrastare dall’interno determinati ambiti della criminalità plurisoggettiva ovvero associativa attraverso il contributo operativo ovvero informativo degli stessi correi. Il legislatore, dunque, stimola la dissociazione attuosa attraverso l’offerta di un trattamento penale differenziato e particolarmente favorevole.

L’esordio della premialità come modello di intervento si ebbe a partire dagli anni ’70 in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione. La l. 497/1974, modificando la struttura originaria dell’art. 630 c.p., riconosceva una circostanza attenuante speciale al correo che si fosse adoperato affinché il soggetto passivo riacquistasse la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del pagamento del prezzo della liberazione.

L’esperienza maturata in tema di sequestro di persona semplice fu rapidamente estesa anche al sequestro di persona connotato da finalità di terrorismo o di eversione (art. 289-bis c.p.) e, per questo tramite, garantì l’accesso della premialità anche in contesti criminali più estesi, quale il crimine organizzato di matrice eversiva (per effetto degli artt. 4 e 5 del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, è riconosciuta un’attenuante speciale ad effetto speciale per tutti coloro, avendo commesso delitti connotati dalla finalità di terrorismo o eversione, si adoperano per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiutano concretamente l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti).   

Medesima soluzione fu attuata negli anni ’90 anche in altri settori dell’associazionismo criminale qualificato. Il d.P.R. 309/1990 in materia di stupefacenti favorisce la collaborazione, lato sensu intesa, attraverso le attenuanti ad effetto speciale di cui ai commi 7 degli artt. 73 e 74.

L’ipotesi collaborativa certamente più nota resta però quella introdotta dall’art. 8 d.l. 152/1991 in materia di criminalità organizzata di tipo mafioso,sulla quale ci concentreremo più diffusamente.

Resta da notare come la tendenza alla premialità quale strategia di intervento penale abbia ormai travalicato il già ampio perimetro del crimine tipicamente organizzato, attestandosi quasi come caratteristica sistematica anche nella maggior parte delle fattispecie criminose che, benché costruite in chiave monosoggettiva, si connotano per la tendenziale plurisoggettività operativa (dalla criminalità predatoria all’immigrazione, alla contraffazione) (ampi riferimenti in AMARELLI).


 

«Se mi dicono perché l’hanno fatto, se confessano, se collaborano con la giustizia, perché si arrivi ad una verità vera, io li perdono. Devono avere il coraggio di dire chi glielo ha fatto fare, perché l’hanno fatto, se sono stati loro o altri, dirmi la verità, quello che sanno, con coraggio, con lo stesso coraggio con cui mio marito è andato a morire, di fronte al coraggio io mi inchino, da buona cristiana dire perdono, ma a chi? Io perdono coloro che mi dicono la verità ed allora avrò il massimo rispetto verso di loro, perché sono sicura che nella vita gli uomini si redimono, con il tempo, non tutti, ma alcuni si possono redimere è questo quello che mi ha insegnato mio marito». AGNESE BORSELLINO

 


Perché un figlio di collaboratore di giustizia è costretto a studiare all’estero. L’intervista all’ex presidente della Commissione centrale di protezione, Luigi Gaetti In Italia, ci sono 1.319 collaboratori e testimoni di giustizia con quasi 5 mila componenti familiari. Tra questi anche molti ragazzi che, ottenuta la maturità, hanno il desiderio di affacciarsi al mondo universitario. Ma la struttura del sistema di protezione sembra rendere tutto troppo complesso, forse impossibile. È il caso di Nemo (nome di fantasia), ragazzo di 19 anni, figlio di un ex boss della ‘Ndrangheta costretto a fare le valigie per andare a studiare all’estero. “Non posso frequentare l’università nella provincia dove abito. Dovrei spostarmi a mie spese senza più poter usufruire della protezione della località protetta. E non potendo nemmeno lavorare in questa provincia, non posso sostenere le spese aiutando la mia famiglia – racconta il giovane – ma queste sono solo alcune delle ingiustizie che, in questi anni, ho subito. All’estero sarò, comunque, più esposto ai pericoli che derivano dal mio cognome che non posso cambiare. Un cambio definitivo delle generalità che potrebbe risolvere molti problemi”. Una condizione di pericolo che Nemo ha vissuto nel suo nucleo familiare: “Mio padre ha fatto una scelta coraggiosa e di legalità per la quale rischia ogni giorno di essere ucciso. Non riesco a comprendere -continua- perché il passato di mio padre deve ricadere sul mio futuro”.

Difficoltà spesso insormontabili che potrebbero impedire anche nuove collaborazioni: essenziali per la lotta alla criminalità organizzata. “Esisterebbe una soluzione che è quella basata sull’Alias per quanto riguarda il cambio delle generalità all’università” afferma Luigi Gaetti, ex presidente della Commissione Centrale di Protezione e ex vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, intervistato da Interris.it. Dottor Luigi Gaetti, come funzione oggi il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia? “Sussiste una differenza tra un collaboratore di giustizia e un testimone di giustizia. Quest’ultimo non ha avuto contatti con la criminalità organizzata e riferisce solo di qualcosa che ha visto. Mentre il collaboratore racconta fatti dettagliati dall’interno. Sono persone che il più delle volte hanno commesso dei reati. I testimoni sembrano essere maggiormente agevolati dalla legislazione”.

In che modo? Sono risarciti in maniera più sostanziosa. Possono essere inseriti nel mondo del lavoro della pubblica amministrazione. I collaboratori sono numericamente di più e la loro gestione è molto complessa. Il sistema di protezione è basato esclusivamente sulla sicurezza. Ma in venti anni le necessità sono cambiate: pensiamo ai figli dei collaboratori che vogliono frequentare le università. Un’esigenza che deve essere ancora ben regolamentata per assicurare l’adeguata protezione. Il Sistema Centrale di Protezione deve aggiornarsi”.

Sono diversi i casi di collaboratori di giustizia o di loro famigliari vittime di omicidi di stampo mafioso. C’è un problema di sicurezza?
“L’Italia non è un paese particolarmente ampio e la ‘Ndrangheta si è radicata in territori diversi dalla Calabria. È molto complesso anche a causa della facilità di rintracciamento che, per esempio, i social permettono. Ci deve essere una grande relazione tra il collaboratore e lo Stato perché la ‘Ndrangheta è molto attenta. Per i casi di omicidio bisogna comprendere necessariamente quale è stato l’errore, va individuato tramite delle indagini approfondite”.

Per il collaboratore sarebbe fondamentale un inserimento nel mondo del lavoro? “Una cinquantina di testimoni sono stati assunti dallo Stato nelle varie amministrazioni. Per i collaboratori questa possibilità ancora non c’è perché è molto complesso. Io avevo cercato di stipulare un accordo con Invitalia che ha un suo budget e che può accedere ad altri fondi. Bisogna però riformulare le white list perché il collaboratore non ha questa possibilità di inserimento. Avevo, inoltre, presentato due emendamenti al Decreto sicurezza di Salvini che non sono passati: uno prevedeva di consegnare, quando idoneo, gli immobili sequestrati alla mafia ai testimoni e ai collaboratori di giustizia ma anche la gestione di alcune società come i ristoranti. Analizzando ogni singolo profilo. Il lavoro è qualità e dignità della vita. Inoltre, l’assegno che i collaboratori percepiscono è minimo”.

Molti figli dei collaboratori hanno difficoltà nell’accedere all’università a causa del mancato cambio delle generalità. C’è una soluzione?
“Nel mondo dell’università già esiste un metodo che si occupa della protezione di quegli individui che cambiano generalità: è denominato Alias. Se un ragazzo, figlio di un collaboratore, si trova a Firenze ed è garantito dal sistema di protezione, può trovare grandi difficoltà a spostarsi a Milano per frequentare l’università. Bisogna parlare con i Magnifici Rettori per definire tutti i dettagli tra cui anche quello economico per il sostentamento di questi studenti. Per i primi anni si potrebbe procedere con casi campione per poi implementare il progetto”.

Ai collaboratori di giustizia è assicurata un’assistenza psicologica?  “Il Servizio Centrale di Protezione ha una sua squadra di psicologi molto professionali e capaci che hanno sede a Roma. In diverse occasioni, hanno svolto corsi per i colleghi delle Asl per permettere di assistere i collaboratori in altre regioni. Ma una delle problematiche principali riguarda il fatto che, se un collaboratore sta riferendo all’autorità dei dettagli importanti mentre usufruisce di un’assistenza psicologica, gli avvocati della controparte possono chiedere l’infondatezza delle sue dichiarazioni. Questa assistenza deve però essere sviluppata ed incrementata”.

Lei ha provato anche a riformare il dialogo tra le istituzione e il collaboratore di giustizia, in che modo?  “C’è una difficoltà di comunicazione tra la Commissione Centrale e i collaboratori e i testimoni. Bisognava creare un sistema di relazione diverso: non mediato. Anche perché ci sono dei casi in cui un collaboratore ha denunciato personale delle forze dell’ordine. E magari agenti facenti parte della stessa arma (il NOP è un gruppo interforze) si dovranno prendere cura della sicurezza dello stesso collaboratore. Il NOP filtra tutto ciò che arriva alla Commissione Centrale e, in più occasioni, ho costatato come le informazioni che giungevano non corrispondevano perfettamente al vero oppure mancavano dei dettagli fondamentali. Pensavo ad un sistema molto più sottile e rapido: progetto sostenuto dal Viminale con un investimento di 300mila euro. Spero che questa riforma stia procedendo”.  Gianpaolo Plini – Novembre 20, 2020 INTERRIS


TESTIMONI DI GIUSTIZIA

29.12.202 LO STATO RISPARMIA SULLA PELLE DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA. ECCO PERCHÉ LA NUOVA LEGGE È VERGOGNOSA. di Piera Aiello

Oggi voglio spiegarvi perché la nuova legge sui testimoni di giustizia – voluta dall’ex sottosegretario all’Interno, Luigi Gaetti, con l’avallo dell’attuale viceministro dello stesso dicastero Vito Crimi – peggiorerà ancora di più la vita di chi ha scelto di resistere alla prepotenza mafiosa e aumenterà la sfiducia nella capacità protezione dello Stato.

La questione è complessa, ma cercherò di metterla nel modo più semplice possibile.

Prima della legge numero 6 del 2018, i testimoni di giustizia avevano diritto a una capitalizzazione, cioè una somma a rimborso degli anni in cui, impossibilitati a lavorare, hanno servito lo Stato mettendo a rischio la propria vita per testimoniare. Parliamo di una cifra irrisoria, qualcosa come 8mila euro per dieci anni di inattività. Per intenderci, un testimone di giustizia non può lavorare, va a vivere in un posto che non conosce, non modo di guadagnare e non paga contributi.

Oltre a ciò, sulla base di un’altra norma, il regolamento 204 del 2014, il testimone aveva anche il diritto di entrare in un programma di assunzione presso la pubblica amministrazione.

La legge del gennaio 2018, invece, ha reso alternative le due misure: o la capitalizzazione (una miseria come abbiamo detto) o l’assunzione. Anche ammesso che questo sia accettabile (e non lo è), la cosa grave è che Bonafede – cui attribuisco la piena ed esclusiva responsabilità politica – e il prefetto Lamorgese, ad agosto (e cioè mentre l’Italia era impegnata a dimenticare per qualche giorno l’incubo della pandemia) hanno firmato un decreto attuativo della legge emanata nel 2018, abrogando il regolamento del 2014 e negando anche a chi aveva richiesto la capitalizzazione prima di quella norma (cioè quando questo non escludeva l’accesso al lavoro), la possibilità di essere assunto. E così, chi aveva già accettato la capitalizzazione sapendo di poter lavorare, rimarrà adesso con un pugno di mosche. È chiaro, quindi, che il valore reatroattivo del decreto va a ledere un diritto acquisito del testimone di giustizia.

Va ricordato che sia la commissione giustizia del Senato sia quella di Montecitorio hanno espresso parere contrario alla possibilità di rendere alternative le due misure.

Questo provvedimento è l’ennesima dimostrazione di come il governo non abbia a cuore i testimoni di giustizia. Lo Stato sembra voler convincere ancora una volta i cittadini onesti che denunciare non è conveniente. Così si infanga la memoria di chi in questo strumento credeva e ha dato la propria vita perché su di esso si fondasse un nuovo modo di combattere la criminalità.


Riforma testimoni giustizia: cosa prevede la nuova legge – il testo

Approvato all’unanimità dal Senato il ddl sulla protezione dei testimoni di giustizia. Gentiloni: “più forza a chi rischia per difendere verità e legalità”. Le novità e il testo… LEGGI TUTTO

 

TESTIMONI E COLLABORATORI DI GIUSTIZIA: Relazione del Governo 2017

 2012 – Quanti sono: gli ultimi dati sui collaboratori di giustizia e testimoni sottoposti a programma di protezione, pubblicati nella relazione del Servizio Centrale al Parlamento e relativo al secondo semestre del 2012 indicano in 1140 i titolari di programma di protezione, ripartiti in 1059 collaboratori e 81 testimoni. A loro si aggiungono 4.189 familiari, di cui 3934 congiunti di collaboratori e 255 di testimoni: il totale è di 5.329 persone. Il maggior numero di pentiti arriva dalla camorra (456), a cui seguono i pentiti di mafia (279), la ‘ndrangheta (126), la Sacra Corona Unita (102) e 96 riconducibili ad altre organizzazioni criminali. Per i testimoni di giustizia il numero maggiore è legato alle ‘ndrine calabresi (25), 22 della camorra, 13 la mafia, 4 la criminalità pugliese e 17 di altre organizzazioni.

2017  I dati – Le statistiche sono molto chiare. Innanzitutto si conferma il trend crescente di persone che accedono al programma di protezione: se dal 2000 al 2006 c’è stata una graduale diminuzione, dagli iniziali circa 4000 tra collaboratori, testimoni e loro famigliari sino a quasi 2900, dal 2007 al 2016 sono aumentati gradualmente fino a quasi 5.200 individui. Ma curiosamente ad aumentare è solamente il numero dei pentiti (e loro famigliari) mentre rimane pressoché basso e invariato il numero dei testimoni, segno che la legislazione su questi individui effettivamente aveva bisogno di qualche ritocco per essere realmente efficace.
Non solo, analizzando i dati dell’ultimo anno si scopre che la maggior parte delle richieste di accesso alla protezione si concentra a Napoli e in Puglia e stranamente solo in minima parte dalle altre due Regioni a forte incidenza mafiosa, la Calabria e la Sicilia: un chiaro segnale dell’impermeabilità di Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Salta all’occhio anche la presenza di richieste dal centro e dal nord Italia: Roma, Brescia, Torino, Ancona, Bologna, sintomo anche nel Centro-Nord, dove la mafia da anni ha consolidato la propria presenza, si stanno facendo avanti pentiti e testimoni.
I costi – Ma quanto ci costa questo sistema? Si tratta di quasi 32 milioni di euro nel primo semestre 2016, in controtendenza rispetto alla costante crescita degli ultimi anni: 76 milioni nel 2013, quasi 78 milioni nel 2014 e oltre 85,5 milioni nel 2015. La quasi totalità di queste spese viene assorbita dagli affitti per le abitazioni di testimoni e collaboratori e per i loro contributi mensili. Una spesa sicuramente consistente ma al tempo stesso necessaria per tenere in piedi un sistema dall’insostituibile valore investigativo, avendo consentito in questi anni di aggredire e smantellare importantissime organizzazioni criminali che, altrimenti, sarebbero state difficilmente individuabili. RISTRETTI ORIZZONTI 27.3.2017

 

COLLABORATORI E TESTIMONI DI GIUSTIZIA – Quanti sono