MICHELE GRECO, u Papa

 

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore  Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF


 

Michele Greco, soprannominato U Papa, nomignolo che gli deriva dalla sua abilità nel mediare le dispute tra le varie famiglie rivali




L’ARRESTO DI MICHELE GRECONel mese di dicembre del 1985 gli uomini del 1° Battaglione Carabinieri Paracadutisti Tuscania portarono a compimento una vasta operazione antimafia nell’hinterland della provincia di Palermo (nei Comuni di Cinisi, Carini, Terrasini, Alcamo e Partinico). L’arresto più importante ebbe luogo a Partinico, dove i Carabinieri bloccarono Antonino Geraci, latitante di 68 anni, considerato uno dei capi della cupola mafiosa. Il bilancio dell’operazione fu di 12 persone arrestate, 15 denunciate a piede libero, 1.400 identificate. Vennero effettuate 719 perquisizioni domiciliari e furono controllate 940 autovetture. A metà febbraio del 1986 i Carabinieri ottennero, nella lotta alla mafia, un risultato ancor più clamoroso con l’arresto di Michele Greco (detto ’U Papa e il Capo dei capi). Greco era il presidente della “commissione” di Cosa Nostra. Fu assicurato alla giustizia mentre si era rifugiato in un casolare nelle campagne di Caccamo, a 50 chilometri da Palermo. L’operazione che condusse i militi ad arrestare il pericolosissimo latitante fu il frutto di una lotta capillare contro la criminalità organizzata siciliana; lotta che, nei mesi precedenti, aveva prodotto molti altri successi importanti. Erano stati assicurati alla giustizia il capo mandamento della cosca di Caccamo, Francesco Intile; Antonino Duca, in primo piano nel traffico di droga; Angelo Noto, della cosca dei corleonesi; il capo cosca di Partanna Mondello, Antonino Porcelli, e l’“imprendibile” Bernardo Brusca, boss di San Giuseppe Jato. Eccellenti risultati erano stati ottenuti anche nella Sicilia Orientale, con l’arresto di Giuseppe Alleruzzo, boss di Paternò, di Carmelo De Leo e Pietro Bonsignore (cosca Costa), di Antonino Barbera (Ingeni), Mario Ieni, Santo Fichera e Ignazio Bonac­corsi, e di Sebastiano Laudani (Catania) e Alfredo Parisio (Messina). Dal 1983 ai primi mesi del 1985, i Carabinieri eseguirono 5.794 arresti di mafiosi. 

Michele Greco, nato e cresciuto tra Croceverde e Ciaculli, frazioni rurali della città di Palermo, figlio di Giuseppe Greco, detto “Piddu ‘u tenente”, e Caterina Ferrara, fu il terzo di cinque figli: Francesco, nato il 18 gennaio 1921 e di professione medico chirurgo; Giuseppe, nato il 24 agosto 1922 e ucciso a Ciaculli il 1º ottobre 1939; Salvatore, detto “il Senatore”, nato il 7 luglio 1927, possidente, sposato con la figlia di Antonino Cottone, capo della cosca di Villabate; e Rosa, nata il 16 novembre 1930.[2] La sua famiglia fu protagonista di una faida con dei lontani parenti che portavano lo stesso cognome; il loro capofamiglia, che pure si chiamava Giuseppe, era a capo della famiglia mafiosa di Ciaculli e padre di Salvatore “Cicchiteddu” GrecoIl padre di Michele, prima di divenire capomafia della zona di Croceverde, era stato gabellotto dei conti Tagliavia, che possedevano un terreno di trecento ettari coltivato a mandarini. Il suo forte ascendente verso le persone di quella zona era dovuto alle sue conoscenze con personaggi di rilievo di Villabate, oltre che alla sua grande personalità. La sua famiglia aveva sempre vissuto in pace con quella di Salvatore “Cicchiteddu”, fino a quando, nel settembre del 1939, durante la festa del Crocifisso a Ciaculli, Giuseppe e Francesco Greco (fratelli di Michele), Francesco Buffa, Domenico Bonaccorso, Salvatore Lamantia e Antonino Chiofalo portarono fuori dalla Chiesa una panca per sedersi e s’allontanarono. Il loro posto venne preso da altri partecipanti, fra cui un cugino dei Greco, anch’egli di nome Francesco. Giuseppe li avvertì di alzarsi, ma proprio Francesco non volle e, dopo numerose sollecitazioni, colpì con un pugno Domenico Bonaccorso al viso. Seguì una breve colluttazione tra i due che venne subito sedata. La questione non si interruppe qui in quanto i due gruppi si trovarono a fronteggiarsi lungo la strada per Croceverde. Francesco Greco (cugino di Michele) uscì all’improvviso armato di pistola e coltello sfidando Bonaccorso a farsi avanti; insieme a lui si trovavano anche il fratello Paolo, Salvatore Pace e Giovanni Spuches. Francesco Greco rimase ferito lievemente, mentre dalla parte opposta perse la vita Giuseppe, fratello di Michele. Per questo fatto la corte d’Assise di Palermo condannò i colpevoli a trent’anni di reclusione (ridotti a 16 e 18 anni in seguito al ricorso degli imputati con sentenza del 6 gennaio 1946). Nello stesso anno, il padre di Michele si vendicò del torto subito facendo uccidere Pietro e Giuseppe Greco, rispettivamente padre e zio degli autori del precedente omicidio. La reazione dei Greco di Ciaculli non si fece attendere e poco dopo vennero uccisi due uomini di Piddu. S’arrivò al culmine della vicenda il 17 settembre 1947, quando i due clan si affrontarono con bombe a mano e mitra nella piazza di Ciaculli; ci furono cinque morti, uno dei quali venne finito a coltellate dalla vedova e dalla figlia del Giuseppe Greco di Ciaculli (rispettivamente madre e sorella di Cicchiteddu)Tutti questi avvenimenti costarono al padre di Michele la convocazione da parte degli altri boss della mafia che lo obbligarono a riportare la situazione di pace fra i due clan. La pace era fortemente voluta anche da Antonino Cottone, capo della cosca di Villabate che fece intervenire il boss Joe Profaci: egli andò a a Palermo da Brooklyn per porre fine allo scontro; Giuseppe Greco divenne così il nuovo capo della cosca di Ciaculli-Croceverde. Nel frattempo, Michele e suo fratello Salvatore erano entrati a far parte di Cosa nostra.[3]Nonostante si definisse un uomo “tutto casa e chiesa”, Michele assume una posizione determinante all’interno della seconda guerra di mafia. Nei primi tempi, intorno al 1974 circa, era conosciuto come un signorotto di campagna che amava circondarsi di conti, marchesi, prefetti e presidenti di corti d’appello.[4] Nel 1974 divenne capomandamento della zona Ciaculli-Croceverde-Brancaccio.[5] Nel 1977 si associò a Totò Riina e Bernardo Provenzano, di cui appoggiò la decisione di uccidere il tenente colonnello Giuseppe Russo fornendo il suo uomo di fiducia Giuseppe Greco detto “Scarpuzzedda” per fare parte del commando di sicari che compirono l’uccisione del colonnello RussoFicuzza[6]Nella primavera/estate 1977 le riunioni di mafia si tenevano sempre presso la Favarella, una tenuta che si estendeva dalla chiesetta diroccata di Maredolce fino agli ultimi giardini di Ciaculli. Essa circondava la tenuta di Michele Greco. In quel periodo tutti i discorsi riguardavano i Corleonesi; nessuno sapeva che il padrone di casa Michele Greco, si era segretamente accordato proprio con i Corleonesi.[7] Il 10 aprile 1978, Riina durante una riunione della Commissione[8] chiese ed ottenne l’espulsione di Badalamenti per l’omicidio di Francesco Madonia[9], capo della cosca di Vallelunga Pratameno che era legato a lui. Michele Greco prese il suo posto e iniziò a fare da intermediario fra lo schieramento di Riina e quello di Stefano Bontate.[10]Questa guerra iniziò in sordina nel 1978-1980; nella Commissione vennero inseriti Giovanni Scaduto e Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, che sostituiva Michele Greco nella “Commissione” come capomandamento di Ciaculli. Questo provvedimento relegò Michele Greco in una posizione marginale a causa della sua scarsa personalità e della sua sottomissione al dominio dei Corleonesi. Il 30 maggio 1978 venne assassinato a Palermo dai soldati di Riina Giuseppe di Cristina, capo della famiglia di Riesi. Ciò venne visto da Inzerillo come un’offesa nei suoi riguardi in quanto il delitto avvenne nel suo territorio. Successivamente, a giustificare il fatto, venne fatta girare la voce che di Cristina stava collaborando con i carabinieri. Il 9 settembre venne ucciso a Catania Pippo Calderone.

Nel 1981 Stefano Bontate decise di eliminare Salvatore Riina e a quel proposito, il “papa” della mafia disse una cosa molto significativa: “Stefano si è messo dalla parte del torto”, in quanto chi uccideva un membro di Cosa nostra senza il permesso della Commissione aveva come pena prevista la morte.[11] Riina riuscì ad anticipare le sue mosse grazie a Greco che gli rivelò il complotto di Bontate e il 23 aprile 1981, nel giorno del suo quarantatreesimo compleanno, Bontate venne ucciso da Giuseppe Greco e Giuseppe Lucchese, uomini di Michele Greco “prestati” a Riina. L’11 maggio cadde anche Salvatore Inzerillo, tradito da uno dei suo fedelissimi. Nonostante viaggiasse in una macchina blindata, venne sorpreso sotto l’abitazione di un’amante.[12][13].

Il 30 novembre 1982, in piena seconda guerra di mafia, Michele Greco invitò i suoi associati Rosario RiccobonoSalvatore Scaglione, Giuseppe Lauricella, il figlio Salvatore, Francesco Cosenza, Carlo Savoca, Vincenzo Cannella, Francesco Gambino e Salvatore Micalizzi alla tenuta della Favarella per una grigliata all’aperto, facendogli credere di essere loro amico. Erano presenti anche Totò Riina e Bernardo Brusca, i quali dopo il pranzo attirarono gli altri invitati in una trappola con l’aiuto di Michele Greco e li strangolarono o li uccisero a colpi di pistola con l’aiuto di Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, Giovanni Brusca e Baldassare Di Maggio, buttando poi i cadaveri in recipienti pieni di acido: il massacro alla Favarella venne attuato perché Riina non poteva tenere sotto controllo Riccobono e gli altri, ed aveva bisogno di toglierli di mezzo per ricompensare altri suoi alleati palermitani, soprattutto Giuseppe Giacomo Gambino, con la spartizione del territorio già appartenuto a Riccobono e agli altri boss uccisi alla Favarella[14]In seguito al massacro delle Famiglie durante la seconda guerra di mafiaJohn Gambino, importante esponente della Famiglia Gambino di Brooklyn, giunse a Palermo per salvare i superstiti della Famiglia Inzerillo dalla furia dei Corleonesi[15][16] Anche in quest’occasione Michele Greco ebbe una grande importanza in quanto riuscì a mediare tra Riina e Gambino. L’incontro si risolse con una frase simbolica da parte di quest’ultimo: “adesso comanda Corleone” e si accordò con Riina affinché gli Inzerillo avessero avuta salva la vita a condizione di non tornare più in Sicilia.[17]Il nome di Michele Greco fu associato a Cosa nostra per la prima volta dal rapporto del vice capo della mobile Ninni Cassarà chiamato “Michele Greco +161”, stilato nel giugno 1982. Questo rapporto si basava sulle confidenze dell’informatore Salvatore Contorno e divenne parte integrante del primo maxiprocesso. In seguito, grazie alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, il 29 settembre 1984 avvenne il grande blitz di San Michele che portò 475 mandati di cattura, fra cui quelli per l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino e quelli per i potenti esattori Nino e Ignazio Salvo.[18]

Michele Greco venne arrestato il 20 febbraio 1986[19] durante una vasta operazione dei carabinieri finalizzata alla ricerca dei latitanti.[20]Venne trovato in un casolare sperduto nelle campagne di Caccamo, a una cinquantina di chilometri da Palermo, dove si nascondeva sotto il nome di Giuseppe di Fresco nato il 22 gennaio 1926 a Palermo. Dopo aver rintracciato la moglie del Di Fresco, ormai vedova da alcuni anni, venne svelata la vera identità di Greco, latitante da quattro anni. L’arresto venne camuffato sotto “la grande operazione” per poter coprire la fonte che aveva permesso alle forze dell’ordine di entrare nel covo del latitante. Michele Greco fu infatti tradito da un giovane, Benedetto Galati, che oltre a curare il suo fondo, aveva vissuto con tutta la sua famiglia nella tenuta di Favarella. Tutto ciò si scoprì solo alcuni mesi dopo, quando Benedetto Galati venne assassinato a colpi di lupara. Il Galati avvisò inizialmente le forze dell’ordine con una lettera anonima con scritto “Se volete Michele Greco, seguite attentamente le mie istruzioni”. Successivamente avvenne un incontro tra il giovane e un ufficiale del carabinieri a Monreale, durante il quale Galati confessò. “Michele Greco si nasconde in una casa in campagna nelle campagne di Caccamo, alle spalle della diga sul fiume San Leonardo, andateci e lo troverete”L’operazione, che vide l’impiego di un centinaio di agenti, scattò all’alba. Dopo alcuni minuti che era stato fermato, Michele Greco confessò: “Bravi, siete stati bravi, io sono Michele Greco.[21]

L’11 giugno 1986 Michele Greco si presentò in aula e disse: “Io sono stato rovinato dalle lettere anonime. Mi ha rovinato l’omonimia con i Greco di Ciaculli, mentre io appartengo ai Greco di Croceverde-Giardini. La violenza non fa parte della mia dignità.”. Continuò dicendo: “È una vita ordinaria la mia, sia da scapolo che da sposato. Mi hanno descritto come un Nerone, come un Tiberio, solo perché il mio nome fa cartello, costruendo un mare, una montagna di calunnie attorno al mio nome”.[22]Ammise di aver conosciuto Stefano Bontate, in quanto quest’ultimo si recava spesso a caccia nella sua tenuta. Riguardo alle dichiarazioni dei pentiti: “Le accuse contro di me sono una valanga di fango. I pentiti usati dalla giustizia sono solo dei criminali falliti che per farla franca non esitano a dire falsità e calunnie. Non dico che i magistrati non li debbano prendere in considerazione perché fanno il loro lavoro nel modo migliore, ma se alle dichiarazioni dei pentiti non seguono fatti o prove, allora devono subire lo stesso trattamento delle lettere anonime”.

“Mi chiamano il “papa” ma io non posso paragonarmi a loro, neanche a quello attuale, anche se per la mia fede e la mia coscienza pulita posso essere uguale se non superiore a loro”“Della mafia so quello che sanno tutti. La droga mi fa schifo solo parlarne. Tutto quello che posseggo è frutto del mio lavoro e dell’eredità dei miei genitori. Non ho mai abbandonato la casa dove mi trovavo nella latitanza e dove mi hanno trovato i carabinieri, ho lavorato in campagna, comprato e venduto bestiame”.[23]

L’11 novembre 1987, nell’ultima udienza del primo maxiprocesso a Cosa nostra, poco prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio, Michele Greco chiese e ottenne la parola. “Io desidero fare un augurio. Vi auguro la pace signor presidente, a tutti voi auguro la pace perché la pace è la tranquillità e la serenità dello spirito e della coscienza e per il compito che vi aspetta la serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, sono parole di Nostro Signore che lo raccomandò a Mosè: quando devi giudicare, che ci sia la massima serenità, che è la base fondamentale. Vi auguro ancora, signor presidente, che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita”.[24]Con queste parole si chiuse il processo. Il 16 dicembre 1987, dopo 638 giorni di dibattito, 35 giorni di camera di consiglio, la Corte d’Assise di Palermo emise la sentenza: Michele Greco e altri diciotto capimafia vennero condannati all’ergastolo.[25]L’11 febbraio 1991 insieme ad altri trentanove boss vennero scarcerati per la scadenza dei termini di custodia cautelare dalla prima corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale. Fu una decisione che generò grande fragore all’interno dell’opinione pubblica. Michele Greco tornò così a Ciaculli e alle domande dei giornalisti rispose dicendo: “Cinque anni di carcere vissuti in assoluto isolamento mi hanno provato moltissimo e se mi chiedete anche solo le mie generalità non sarei in grado di rispondere”. Quando gli venne chiesto di dare la sua opinione sul giudice Carnevale rispose: “Siamo in quaresima e mi parlate di Carnevale. In questi anni di galera ho trovato conforto solo nella Bibbia che è la base fondamentale: ci sono stati anche dei porci che hanno osato fare dell’ironia al riguardo, ma io me ne fotto”. Il 18 settembre 1991 fu arrestato nuovamente. Michele Greco, detenuto all’Ucciardone sotto il regime del 41 bis, in seguito all’uccisione del giudice Paolo Borsellino, venne trasferito nel carcere di Pianosa insieme ad altri 55 componenti di Cosa nostra.[26] Successivamente venne portato nel carcere di Cuneo dove rimase fino al 1998 quando, per gravi motivi di salute, venne trasferito definitivamente nel carcere di Rebibbia, a Roma. Morì il 13 febbraio 2008 all’ospedale “Sandro Pertini” di Roma, nel quale si trovava da alcune settimane, stroncato da un tumore ai polmoni.[27][28][29] Non gli furono concessi funerali solenni a causa di un divieto della Questura. Le esequie vennero celebrate nella chiesa del camposanto di Sant’Orsola e vi parteciparono esclusivamente la moglie, il figlio Giuseppe e pochi altri conoscenti e familiari.[30]

 

  1. ^Mafia, morto il boss Michele Greco i Corleonesi lo fecero “Papa” – cronaca – Repubblica.it
  2. ^ Francesco Viviano, Michele Greco il memoriale, pag.23
  3. ^ Francesco Viviano,Michele Greco il memoriale, pag.25-28
  4. ^ Attilio Bolzoni, Il capo dei capi, pag.112
  5. ^ Attilio Bolzoni,Parole d’onore,pag.16
  6. ^E LEGGIO SPACCO’ IN DUE COSA NOSTRA – Repubblica.it » Ricerca
  7. ^ Attilio Bolzoni,Il capo dei capi,pag125-128
  8. ^Commissione (mafia)
  9. ^BossArchiviato il 26 novembre 2006 in Internet Archive.
  10. ^Michele Greco
  11. ^ Attilio Bolzoni, Il capo dei capi, pag.164-165
  12. ^ Francesco Viviano,Michele Greco il memoriale, pag.61-70
  13. ^ Attilio Bolzoni,Il capo dei capi, pag.170
  14. ^uccisi a tavola i nemici. i corpi sciolti nell’acido – archiviostorico.corriere.it
  15. ^ Francesco Viviano, Michele Greco il memoriale, pag.75
  16. ^ Incontro con Carlo Gambino
  17. ^ Attilio Bolzoni, Il capo dei capi, pag.173
  18. ^Michele Greco
  19. ^Preso il capomafia Greco tradito dai suoi uomini, La Stampa, 21 febbraio 1986
  20. ^ Francesco Viviano, Michele Greco il memoriale, pag.113-118
  21. ^ Saverio Lodato, Trent’anni di mafia: storia di una guerra infinita, pag.193
  22. ^ Attilio Bolzoni, Parole d’onore, pag.187-188
  23. ^ Saverio Lodato, Trent’anni di mafia: storia di una guerra infinita, pag.193-195
  24. ^ Attilio Bolzoni, Parole d’onore, pag.185-186
  25. ^ Francesco Viviano, Michele Greco il memoriale, pag.141
  26. ^Michele Greco
  27. ^Michele Greco
  28. ^Michele Greco
  29. ^ Saverio Lodato, Trent’anni di mafia: storia di una guerra infinita, pag.524-525
  30. ^ Francesco Viviano, Michele Greco il memoriale, pag. 142
  31. ^Sportello Scuola e Università della Commissione Parlamentare Antimafia
  32. ^Ecco chi uccise Terranova

«Così arrestai Michele Greco, il ‘papa’ di Cosa nostra che riceveva a casa la “Palermo bene”»  Nel giorno in cui finiscono in manette Leandro, il nipote dello storico boss e altri sette rampolli della Cupola, ricostruiamo con l’allora capitano dei carabinieri Sergio Pascali le fasi che portarono alla cattura del capomafia nel 1986. «Era la mafia degli anni Settanta. E a casa di Michele Greco si decidevano pure le campagne elettorali…»   Cognomi blasonati dell’araldica di Cosa nostra tornano a infoltire le cronache giudiziarie dell’antimafia siciliana. Da padre in figlio o da nonno a nipote sbucano le seconde e terze generazioni di capimafia in quella che voleva essere la nuova cupola. E così finisce in manette Leandro Greco, 23 anni, nipote del “papa” della mafia, Michele Greco. Questo ragazzo è descritto come uno che ha la mentalità di un vecchio nel corpo di un giovane, di cui si deve temere. Polizia e carabinieri lo hanno arrestato su ordine dei pm di Palermo dopo che hanno iniziato a collaborare nei mesi scorsi due mafiosi che hanno svelato i nuovi retroscena dei clan. Le loro dichiarazioni hanno portato all’arresto di sette persone accusate di far parte della ricostituita Cupola di Cosa nostra. Il progetto era stato scoperto a dicembre e aveva portato al fermo di 47 tra presunti boss e gregari. Tra i fermati oltre a Leandro Greco, c’è pure Calogero Lo Piccolo, figlio del boss ergastolano Salvatore Lo Piccolo: entrambi avrebbero partecipato alle riunioni della Commissione provinciale. I carabinieri del Reparto operativo hanno arrestato il nipote di Michele Greco, il “Papa” della mafia: si chiama Leandro e a 28 anni è già il reggente del mandamento di Ciaculli. All’uscita dal comando provinciale dei carabinieri manda baci ai parenti. Con lui in manette è finito anche Calogero Lo Piccolo, 47 anni, figlio di Salvatore, il signore del racket all’ergastolo dal 2007. Greco (incensurato) e Lo Piccolo (scarcerato dopo una condanna per mafia) avevano stretto una grande alleanza per provare a rilanciare Cosa nostra siciliana. di Giorgio Ruta Il giovane Greco si ispira al nonno, il capo della cupola condannato a diversi ergastoli, morto nel 2008. Il “papa” di Cosa nostra è stato arrestato il 20 febbraio 1986 durante la latitanza, e lo ha scoperto l’allora capitano dei carabinieri Sergio Pascali che comandava la compagnia di Termini Imerese in provincia di Palermo. Adesso Pascali ricostruisce per L’Espresso le fasi che portarono all’arresto del capomafia ricercato e le parole che Greco disse dopo la sua cattura. «Sono arrivato ad individuare il covo di Michele Greco grazie alle indicazioni di un ventenne, Benedetto Galati, che era il figlio del fattore del boss. In seguito ad una serie di arresti che avevo fatto nel palermitano di mafiosi e sicari di Cosa nostra il giovane Galati aveva scritto una lettera al giudice Giovanni Falcone con la quale chiedeva di incontrarlo perché era in grado di dare notizie su Michele Greco. Il giudice non riuscì a parlarci e passò tutto al colonnello Giuseppe De Gregorio che comandava i carabinieri di Palermo il quale mi incaricò di contattare Benedetto, e da quel momento iniziò la sua collaborazione che mi portò il 20 febbraio 1986 all’arresto del “papa”». L’ufficiale dei carabinieri analizza quell’evento e «a distanza di tanto tempo posso pensare che all’epoca ci sarà stata una regia dei corleonesi nel far ribellare Benedetto Galati e tradire Greco e quindi avvantaggiare Riina». Pascali ricorda che Galati gli aveva indicato i luoghi in cui si rifugiava il latitante, «mi ha indicato sette fattorie nel territorio fra Caccamo e Trabia in provincia di Palermo, ed ho iniziato a tenere sotto controllo queste case di campagna». «Con un visore notturno andavo a controllare ogni notte le zone che Galati mi aveva indicato. Non c’era un solo covo da individuare, perché Greco veniva spostato ogni giorno, cambiava abitazione e chi aveva il compito di fargli da autista era un allevatore, Salvatore Colletti, che lo portava da un posto all’altro a bordo della sua Fiat 131 di colore blu. Dopo alcuni giorni di indagine condotta prevalentemente di notte, ho avuto la certezza delle sette abitazioni in cui poteva essere nascosto Greco. E così abbiamo fatto scattare l’operazione. All’alba del 20 febbraio 1986 siamo intervenuti contemporaneamente con sette squadre di carabinieri facendo irruzione nei casolari. E così in uno di questi abbiamo arrestato “il papa”. Lo abbiamo trovato nell’abitazione di Salvatore Colletti, il suo autista». Michele Greco viene portato a Palermo nella caserma dei carabinieri in corso Calatafimi e qui Sergio Pascali ricorda una dura conversazione: «Greco aveva un documento falso, intestato ad un tale Giuseppe Di Fresco, che dopo un rapido controllo risultava morto due anni prima. Michele Greco però continuava a negare la sua vera identità, insisteva sul falso nome, fino a quando gli ho detto: “Senta signor Di Fresco, mi sembra strano che uno della sua levatura possa negare la sua paternità e la sua famiglia”. In più gli ho detto, “il signor Di Fresco è morto due anni fa”».

I ricordi di quella giornata sono scolpiti nella mente di Pascali: «Eravamo in una stanza della caserma dei carabinieri e Greco dopo aver ascoltato ciò che avevo da dirgli chiese al generale e al colonnello De Gregorio che erano presenti, di uscire dalla stanza perché voleva restare solo con me. La richiesta mi stupì, e si creò una forte tensione perché aveva chiesto ed ottenuto l’allontanamento dei miei superiori. E così quando restiamo soli, mi dice con tono deciso: “Capitano, mai nessuno si è permesso di dirmi queste cose che lei ha detto”, e subito dopo afferma: “bene, lei adesso diventerà famoso, perché ha preso il papa”, e scandisce questa definizione. Ma lui continuerà a non dirmi mai di chiamarsi Michele Greco. Ripete solo l’affermazione di essere “il papa”. Quando gli notifichiamo i nove provvedimenti giudiziari per i quali era ricercato, lui li sottoscrive tutti. E poi esclama: “capitano, mangiamoci qualcosa”. Io ho preso un panino al prosciutto e lui un brodino caldo che gli è stato fatto arrivare dalla mensa della caserma. Prima di essere portato in carcere, si rivolge ancora a me e mi chiese di andare a trovare a casa la moglie. E così ho fatto, dopo una settimana sono andato a Favarella a trovare la signora Greco. Sono andato insieme al colonnello De Gregorio e la donna ci accolse offrendoci un caffè. Era presente anche il figlio Giuseppe (il padre di Leandro arrestato adesso per mafia ndr), che all’epoca faceva teatro. Siamo rimasti in quella casa due ore a parlare. E la signora Greco ci disse che avevamo preso “il papa”, come se fosse una cosa enorme di cui tanti adesso prendevano le distanze, e puntava il dito contro tutti quelli che fino a poco tempo prima, racconta la signora Greco affermava che erano stati in quella casa, perché nella villa dei Greco “andava tutta Palermo”».
La signora Greco fece dei nomi? «Lei si sfogava dicendo che in quella casa si erano visti parlamentari, prefetti, colonnelli dei carabinieri, perché era il salotto buono di Palermo. Era la mafia degli anni Settanta. E a casa di Michele Greco si decidevano pure le campagne elettorali…»
E al magistrato avete riferito tutto ciò? «Credo di si, ma non so cosa è stato fatto dopo perché sono stato trasferito subito dopo che Benedetto Galati è stato ucciso. Dopo l’arresto di Greco lui continuava a raccontarmi dei segreti di Cosa nostra, dei personaggi che “il papa” incontrava. Lui li conosceva perché era colui che apriva la porta agli ospiti del boss. Galati di fatto dopo l’arresto del latitante conviveva con me in caserma a Termini Imerese. Quando gli hanno sparato era appena sceso dalla mia automobile, lo avevo accompagnato a Bagheria. La sera stessa dell’omicidio sono stato trasferito, e poco tempo dopo abbiamo saputo che Cosa nostra voleva uccidere anche me». 
DI LIRIO ABBATE 22 gennaio 2019 L’Espresso


Michele Greco Morto il papa re della mafia tra killer e salotti.La sua masseria era magnifica, in mezzo alla zagara delle ultime gole della Conca d’ Oro. Lui stava nella penombra, non era più abituato alla luce. Si copriva gli occhi con le mani e si lamentava: «Gli amici del diavolo per cinque anni non mi hanno fatto mai vedere il sole». In nome della legge – una sentenza della Cassazione – era appena tornato libero per settantadue ore. Fu quella l’ ultima volta, era il febbraio del 1991, che «il papa della mafia» riuscì a sentire i profumi della sua Palermo e a tornare in quella bella tenuta dove erano passati cardinali e ministri, conti, procuratori, principi, generali e assassini. Se n’ è andato il vecchio Michele Greco, quel signorotto con la faccia da prete di campagna che trent’ anni prima aveva consegnato la mafia siciliana nelle mani di Totò Riina, è morto di morte naturale come non capitava ormai da tanto tempo ai capi come lui. Per ventura o per sventura era stato in cima a quella Commissione provinciale che decideva della vita e della morte degli uomini, la Cupola, il governo di Cosa Nostra. Aveva ottantaquattro anni, a Rebibbia era sepolto vivo da ventidue. Gli ultimi ricordi felici che gli erano rimasti lo portavano a quei tre giorni che l’ eccellentissimo giudice Corrado Carnevale diciassette anni prima gli aveva regalato, una scarcerazione – per lui e per un’ altra quarantina di boss – per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Uscirono in massa dall’ Ucciardone gli imputati del primo maxi processo, tornarono dentro tutti con decreto governativo. Anche lui, anche lo «zio Michele». Era voluto andare là per l’ ultima volta, nella sua masseria sullo spigolo fra la via Croceverde e la via Giardina, la borgata prendeva il nome proprio dalle due strade che scendevano ripide dalla montagna di Gibilrossa. «Sono di qui, sono di Croceverde Giardina e non ho mai avuto niente a che fare con i Greco Ciaculli», raccontava risentito ai giornalisti che lo avevano inseguito fino alla Favarella. E finalmente iniziò a parlare. Non si fermò più. «E qui è venuto a mangiare Sua Eminenza il cardinale Ernesto Ruffini, qui sono passati uomini politici importantissimi, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo era di casa, aveva anche le chiavi della Favarella…». Per quei paradossi della giustizia italiana, in quel giorno di febbraio del 1991, «il papa della mafia» aveva un ergastolo e nove condanne in quattro Corti di Assise ma risultava ancora incensurato. L’ avevano anche accusato di 147 omicidi, per 143 volte era stato assolto. Sulle strade di Palermo già uccidevano poliziotti come Boris Giuliano e procuratori della Repubblica come Gaetano Costa ma Michele Greco aveva ancora il porto d’ armi. Con la doppietta in spalla se ne andava a sparare al tiro a segno dell’ Addaura, aveva il passaporto, frequentava senatori e onorevoli della Regione. Tutti invitati per la «mangiata» alla Favarella. Un giorno loro e un giorno quegli altri: Totò Riina, Rosario Riccobbono, Salvatore Inzerillo, Bernardo Provenzano, Totò Minore, Giuseppe Di Cristina, Tano Badalamenti, Leoluca Bagarella. Tre generazioni di boss sono sfilate nei giardini di limone di Michele Greco. «E’ un pupo nella mani dei Corleonesi», disse una notte Tommaso Buscetta al giudice Falcone. E quella notte fu l’ inizio della fine del «papa della mafia». Cominciò a indagare sui misteri della Favarella un ragazzo che non aveva neanche trent’ anni, Calogero Zucchetto, un poliziotto della Squadra mobile che sulla sua Vespa si spingeva fino a Croceverde Giardina per vedere da vicino chi entrava e usciva dai possedimenti del «papa». Lo uccisero. Cominciò a indagare il commissario Beppe Montana che alla Favarella cercava i latitanti. Lo uccisero. Cominciò a indagare anche Ninni Cassarà, il capo dell’ »investigativa». Uccisero pure lui. Aveva appena consegnato a Giovanni Falcone un rapporto che aveva come intestazione «Michele Greco + 161». Lì dentro c’ era il romanzo nero della Palermo degli Anni Ottanta, la trama della guerra di mafia che aveva appena fatto mille morti nell’ isola, la mappa delle «famiglie», i nomi di tutti gli affiliati a Cosa Nostra. Da quel rapporto Giovanni Falcone e gli altri giudici del pool costruirono il maxi processo. Il numero uno di quei 474 imputati era «il papa della mafia». La notte di San Michele – il 29 settembre dell’ 84 – la notte che la più grande retata antimafia della storia si portò all’ Ucciardone centinaia di capi e sottocapi e soldati della Cosa Nostra, i poliziotti non trovarono Michele Greco alla Favarella. Si era già buttato latitante. Aveva trovato riparo ai piedi delle Madonie, in un casolare alle spalle del paese di Caccamo, una cinquantina di chilometri da Palermo. Fu preso un paio di anni dopo dai carabinieri, il «giuda» che lo tradì per 200 miserabili milioni lo fecero fuori al tramonto. Nel casolare di Caccamo don Michele era solo, solo con un mulo. L’ aula bunker, quella mastodontica costruzione che sembrava un’ astronave attaccata al carcere dell’ Ucciardone, lo ricevette con riverente silenzio. Tutti gli imputati lo seguirono con lo sguardo quando uscì dalla gabbia numero 31 e cominciò a rispondere alle domande, prima del presidente Alfonso Giordano e poi del giudice a latere Piero Grasso. Signor Greco, lei è accusato di svariati omicidi… «Signor presidente, la violenza non fa parte della mia dignità». E subito dopo don Michele aggiunse: «Mi volete spiegare in che cosa avrei mafiato?». Le sue battute al maxi processo sono rimaste celebri, la sua «parlata» è diventata per anni uno slang delle borgate palermitane. A Falcone disse: «Giudice, lei è il Maradona del diritto, quando prende la palla non gliela toglie nessuno». All’ ultima udienza del maxi processo, i giudici si stavano ritirando in camera di consiglio, Michele Greco prese la parola: «Signor presidente, io vi auguro la pace eterna a tutti voi. La serenità è la base fondamentale per giudicare, non sono parole mie ma sono parole del nostro Signore». Una pausa e poi sibilò qualcosa che sembrò a tutti un avvertimento: «Vi auguro che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita». Fu condannato all’ ergastolo. Dopo neanche due anni qualcuno gli diede una nuova speranza. «Il giudice che mi ha assolto ha due palle grosse come il mio mulo di Caccamo», dirà quando una Corte di Assise lo assolse dall’ associazione mafiosa. Era il maxi-ter, uno dei tanti tronconi dei processi istruiti da Giovanni Falcone. Furono assolti anche Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò. Una sentenza scandalosa, in quel momento sembrò far crollare tutta l’ impalcatura delle inchieste su Cosa Nostra. Michele Greco era già stato condannato al carcere a vita in Corte di Assise a Caltanissetta come mandante dell’ omicidio del consigliere Rocco Chinnici e ad un altro ergastolo a Palermo al primo maxi processo, quel verdetto però rischiava di rimescolare tutte le carte, cancellare per sempre il cosiddetto «teorema Buscetta». L’ unicità di Cosa Nostra, la Cupola, le «famiglie». In sostanza l’ esistenza della mafia. ATTILIO BOLZONI 14 febbraio 2008LA REPUBBLICA

 

Morto il boss Michele Greco Il padrino, 83 anni, era detenuto a Rebibbia dove stava scontando alcuni ergastoliIl boss mafioso Michele Greco, detto «il Papa», è deceduto in una clinica di Roma dove era ricoverato da alcune settimane. Il capomafia era detenuto a Rebibbia dove stava scontando alcuni ergastoli definitivi. Greco, 83 anni, è una figura storica di Cosa nostra ed è ritenuto tra i mandanti di diversi delitti eccellenti, tra cui quelli dei capimafia Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo. Si era alleato con i corleonesi di Totò Riina, il quale gli ordina l’espulsione di Gaetano Badalamenti dalla Commissione di Cosa nostra.

ARRESTI – Michele Greco aveva 84 anni ed era malato da tempo. Soprannominato il «papa», per la sua abilità nel mediare le dispute tra le diverse famiglie, è fratello di Salvatore Greco, detto «il senatore», che aveva rapporti con politici e banchieri. Greco fu arrestato il 26 febbraio dell’86 dopo quattro anni di latitanza in un casolare nelle campagne di Caccamo, a una cinquantina di km da Palermo, dove si nascondeva sotto falso nome. La principale delle accuse nei suoi confronti è aver ordinato l’omicidio del procuratore capo di Palermo Rocco Chinnici. Nell’attentato con autobomba morirono anche le due guardie del corpo del magistrato e un civile.

LA STORIA – Dopo la morte del padre Giuseppe, detto «Piddu u tinenti», Michele Greco prese il comando del mandamento di Croceverde-Giardini. Il suo nome fu associato a Cosa Nostra per la prima volta dal cosiddetto rapporto dei «162», elaborato nel 1982 dal vice capo della mobile Ninni Cassarà e poi diventato parte integrante del primo maxiprocesso. Nominato nel 1978 capo della commissione di Cosa Nostra, dopo l’espulsione di Tano Badalamenti, non ostacolò l’avanzata dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, dei quali divenne anzi alleato. Insieme al fratello Salvatore, fu il mandante dell’omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici. Nel marzo del 1991, in attesa dell’appello del maxiprocesso, Greco e altri imputati furono scarcerati per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva da un provvedimento della Corte di cassazione. Un decreto del governo, ispirato da Giovanni Falcone, divenuto nel frattempo direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia, ripristinò la detenzione per i boss scarcerati, tra cui anche il vecchio «papa».

LA FAMIGLIA – Il figlio di Michele Greco, Giuseppe (condannato a quattro anni per associazione a delinquere) è noto nell’ambiente del cinema, con lo pseudonimo di Giorgio Castellani, per alcuni film come «Pane, cioccolato e paprika». Per girare una scena del film – con Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Barbara Bouchet – la famiglia Greco si fece prestare dall’esattore di Salemi Nino Salvo una lussuosa ‘Mercedes 500′, l’unico esemplare che esisteva in Sicilia. Durante l’ ultima udienza del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’aula bunker dell’Ucciardone, con decine di imputati accusati di mafia dietro le sbarre, Michele Greco prese la parola, e rivolgendosi al presidente della Corte Alfonso Giordano disse: «Auguro a tutti voi la pace, perchè la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, perchè per il compito che vi aspetta la serenità è la base per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che nostro signore disse a Mosè, le auguro ancora che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita». Alla fine del maxiprocesso, Michele Greco, fu condannato all’ergastolo. 14.2.2008 Corriere della Sera

 


<<Ditemi in che cosa avrei mafiato>>

Michele Greco
Sembra un signorotto di campagna. Ha maniere gentili, molto siciliane. Nella sua magnifica tenuta, la Favarella, invita conti principi e generali. Una volta al banchetto c’è pure Sua Eminenza, il cardinale Ernesto Ruffini. Ci vanno tutti laggiù, nella borgata di Croceverde Giardina, all’incrocio fra due strade che scendono ripide dalla montagna di Gibilrossa e finiscono proprio a sfiorare la sua masseria. E’ ammirato a Palermo, riverito. Quando gli altri sono già tutti latitanti da dieci anni, lui ha ancora il porto d’armi e il passaporto. E’ incensurato fino al 1982 <<il papa della mafia>> Michele Greco. Per una mangiata e una parlata si incontrano sempre alla Favarella anche i boss delle nove province siciliane. Rosario Riccobono della piana dei Colli, Giuseppe Di Cristina di Riesi, Gaetano Badalamenti di Cinisi, Vincenzo Rimi di Alcamo. Si riuniscono al fresco da don Michele, quando devono <<ragionare>> sulle loro cose, decidere se spegnere qualcuno o avvicinare qualcun altro. <<E’ il capo della Commissione ma è un pupo dei Corleonesi>> confessa Buscetta a Falcone. E’ il grande traditore, quello che pugnala alle spalle i suoi amici palermitani e consegna la Sicilia nelle mani di Totò Riina. Un poliziotto che non ha neanche trent’anni, Calogero Zucchetto, s’inoltra da solo verso Croceverde Giardina e una settimana dopo lo fanno fuori. Il capo della sezione Catturandi Beppe Montana cerca i latitanti intorno alla Favarella e lo fanno fuori. E poi fanno fuori pure Ninni Cassarà, il capo dell’investigativa che firma il rapporto Michele Greco+161, la prima pietra del maxiprocesso. Don Michele adesso è ricercato. Si nasconde in un casolare. E’ solo, lui e un mulo fra le campagne di Caccamo. Un giorno lo vedono. Il Giuda che lo consegna ai carabinieri per duecento milioni al tramonto è morto. Don Michele è in catene. Lo accusano di aver fatto saltare in aria il consigliere istruttore Rocco Chinnici, di avere <<ratificato>> in Commissione l’omicidio di un centinaio di uomini, di aver raffinato quintali di morfina base.
<<LA VIOLENZA NON FA PARTE DELLA MIA DIGNITA’>> fa sapere al primo interrogatorio in Corte d’assise. <<DITEMI IN CHE COSA AVREI MAFIATO>> grida al maxi ter, 122 imputati, uno dei tanti processi delle istruttorie di Giovanni Falcone. Il dibattimento finisce con una sorprendente sentenza che grazia tutti. Si esalta il <<papa della mafia>>. Del giudice che lo assolve dice: <<Ha due palle come il mio mulo di Caccamo>>. Ma resta in carcere. Gli piovono addosso altre condanne. Si dispera: <<Mi accusano tutti solo perché il mio nome fa cartellone>>. Si sfoga: <<Se anziché chiamarmi Michele Greco, mi chiamassi tanto per dire Michele Roccappinnuzza, io non mi troverei qui all’Ucciardone>>. Si tormenta: <<Gli amici del diavolo non mi faranno più vedere il sole>>. Una mattina Falcone lo interroga e lui si rifiuta di rispondere. Gli sussurra soltanto: <<Lei è il Maradona del diritto, quando prende la palla non gliela leva più nessuno>>. E’ sepolto in un braccio dell’Ucciardone quando nelle sale cinematografiche di Palermo proiettano un film, La saga dei Grimaldi. E’ dedicato a lui, a don Michele. E’ la storia di un vecchio padrino della <<mafia buona>>. Quella della droga. Il nome d’arte del regista è Giuseppe Castellana, all’anagrafe è registrato come Giuseppe Greco. E’ suo figlio.
(Attlio Bolzoni-PAROLE D’ONORE)