SANTINO DI MATTEO, mezzanasca

 

SANTINO DI MATTEO  detto Mezzanasca  nato ad Altofonte il 7 dicembre 1954),   appartenente alla famiglia mafiosa di Altofonte, vicina ai Corleonesi. Di Matteo  fu uno dei primi affiliati ad abbandonare il clan controllato da Totò Riina. Fu arrestato il 4 giugno del 1993, incarcerato a Rebibbia e poi trasferito all’Asinara. Accusato di 10 omicidi mafiosi decise di collaborare con la giustizia e il 23 novembre dello stesso anno suo figlio Giuseppe venne rapito per le rivelazioni del padre sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo. Nell’ottobre del 1995 Santino sparisce per 36 ore dalla sua località segreta e prova a cercare personalmente suo figlio, senza trovarlo. Il ragazzo fu poi strangolato e disciolto nell’acido l’11 gennaio 1996 dopo 775 giorni di sequestro. Fu testimone al processo incentrato sui mandanti della strage di Capaci, di cui fu uno degli artefici anche se non partecipò attivamente all’esecuzione dell’attentato, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Inizialmente condannato a 20 anni di carcere, venne liberato nel marzo del 2002 e si trasferì nel paese natale di Altofonte.


Archivio Sole 24Ore


22.10.2023 GIANCARLO CASELLI: “La notte in cui Santino Di Matteo si pentì e mi parlò di Capaci: una confessione che pagò cara”



“Le riunioni a casa mia e le prove a Capaci. Così fu pianificata la morte di Falcone”

L’ex boss di Altofonte: “Penso che Messina Denaro dalla latitanza muova insospettabili, cercate i maxi patrimoni mai sequestrati di Madonia e Provenzano”

“Un giorno, mi dissero: “Prendi la tua auto e vai in autostrada che dobbiamo fare delle prove”. E iniziai a girare attorno allo svincolo di Capaci, ma non sapevo ancora chi era l’obiettivo”. Santino Di Matteo è il primo pentito che ha svelato i segreti della strage Falcone, un anno e mezzo dopo l’attentato: “Per quelle parole ho pagato un prezzo altissimo – sussurra – . Hanno rapito mio figlio Giuseppe, l’hanno ucciso. Ma ha vinto comunque lui, i mafiosi sono stati sommersi dagli ergastoli”. Trent’anni dopo quel cratere sull’autostrada, che segnò la storia del Paese, l’ex mafioso di Altofonte avverte: “Cosa nostra si riorganizza, lo Stato non deve abbassare la guardia. Mi preoccupa che Matteo Messina Denaro sia ancora latitante”.

 Quando seppe che quei giri in autostrada erano le prove generali dell’attentato al giudice Falcone?
“Qualcuno me lo disse poco dopo. Si fidavano, le prime riunioni le avevano fatte a casa mia, in campagna, ad inizio di maggio. Poi, non mi cercarono più. Il pomeriggio del 23 maggio, ero in piazza ad Altofonte, venne Gioacchino La Barbera dopo l’attentato, mi disse: “Vieni a casa di Gioè”. Trovai Giovanni Brusca e mi spiegò cos’era successo”.
Da cosa nasceva tanta fiducia dei vertici di Cosa nostra nei suoi confronti?
“Sono cresciuto in quel mondo. Mio padre faceva la raccolta del latte, da ragazzino andavo con lui a Corleone, alla fine degli anni Cinquanta: così ho conosciuto Luciano Liggio. E anche Salvatore Riina, all’epoca era ancora giovane e non era certo un capo, come poi lo diventò. Fra i mafiosi più autorevoli di Corleone, c’era invece il latitante Giuseppe Ruffino, un killer spietato. Riina diceva di lui: “Persone come queste non ne nasceranno mai più””.
Quando decise di rompere con quel mondo e di iniziare a collaborare con la giustizia?
“Sono stato l’ultimo a vedere in vita Antonino Gioè, uno dei principali autori della strage di Capaci. Quel giorno del luglio 1993, nel carcere romano di Rebibbia, mi sorpresero i suoi discorsi: diceva che faceva tanti colloqui con i familiari, che in cella mangiava tutto quello che voleva. Intanto, però, era trasandato, aveva la barba lunga. “Ma che stai combinando?”, gli chiesi. Avevo il sospetto che stesse iniziando a parlare con i magistrati. Quella notte, all’improvviso, mi trasferirono all’Asinara. Seppi che Gioè si era impiccato, evidentemente schiacciato dalla sua scelta di parlare, lasciò una lettera in cui c’era scritto: “Se volete scoprire la verità andate a chiedere a Di Matteo””.
Cosa le chiesero?
“Facevano tante domande, io avevo un grande logorio dentro. Sapevo che avevano ragione, ma resistevo. Fino a quando un giorno ho detto: “Vi do una mano”. E da quel momento non ho più smesso di riempire verbali. Mi hanno portato in elicottero a Roma e ho incontrato il procuratore di Palermo Caselli. Dopo di me, tanti altri mafiosi hanno parlato. A cominciare da La Barbera, che aveva vissuto in prima persona quel 23 maggio”.
La mafia delle stragi è stata smantellata, ma resta latitante Messina Denaro. Perché secondo lei?
“Bisogna fare molta attenzione, i mafiosi che vengono scarcerati provano sempre a riorganizzare Cosa nostra. E Messina Denaro, ricercato dal giugno 1993, continua ad essere un punto di riferimento. Sono convinto che si nasconda in Sicilia, dove gode ancora di tante protezioni e complicità, vecchie e nuove. Probabilmente, avrà messo avanti persone sconosciute, mentre lui se ne sta riservato, magari vive all’interno di una famiglia fidata che si prende cura di lui”.
Trent’anni dopo le stragi, cosa non sappiamo ancora?
“Ci sono mafiosi che hanno patrimoni immensi mai sequestrati. I Madonia, per esempio: negli anni Ottanta, incassavano un miliardo di euro al mese dal racket del pizzo nel centro città. Non è stato mai trovato neanche il tesoro di Bernardo Provenzano. E, poi, c’è il tesoro dei cosiddetti scappati della guerra di mafia, gli Inzerillo: dopo la morte di Riina, sono tornati dagli Stati Uniti e hanno tanta voglia di riprendersi Palermo”.
Intanto, fiumi di droga sono tornati a scorrere in città. Cosa determinerà negli equilibri interni dei clan?
“Come negli anni ’70, le famiglie stanno conducendo insieme grandi affari. Ma il rischio è che vada a finire come allora, quando qualcuno provò a fare il furbo, rubando una partita di droga, così cominciarono a sparare. Bisogna fare davvero molta attenzione. Ai mafiosi che ancora si ostinano a portare avanti disegni di morte, vorrei rivolgere un appello”.
Cosa vorrebbe dire?
“Questa strada vi porterà alla rovina, non l’avete ancora capito?”.
Chi è oggi Santino Di Matteo?
“Nel 1997, lo Stato mi ha espulso dal programma di protezione, avevo la colpa di essere tornato in Sicilia a cercare mio figlio. Ma quante vite ho salvato con le mie dichiarazioni? Oggi, vivo lontano dalla mia terra, aiuto un giovane sacerdote che si occupa di tossicodipendenti e immigrati. Intanto, continuo ad andare a deporre nei processi, fino alla settimana scorsa mi hanno chiamato. Non mi sono mai tirato indietro, nonostante la morte di mio figlio. Contro la mafia c’è una sola strada: andare avanti. Molto si è fatto, ma ancora tanto resta da fare: se lo Stato abbassa la guardia quelli torneranno forti”.  di Salvo Palazzolo 18 MAGGIO 2022 LA REPUBBLICA



DI MATTEO Mario Santo Militava nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Altofonte dal 1978 – 1979 ed all’interno della medesima rivestiva un ruolo di prestigio, essendo molto vicino a BRUSCA Giovanni, che reggeva il mandamento di S. Giuseppe Iato in cui la sua “famiglia” era inserita, nonché a BAGARELLA Leoluca, cognato del RIINA. Nel periodo 1991 –1992, dopo i dissapori che si erano registrati tra i BRUSCA e DI MAGGIO Baldassare, che aveva retto il mandamento durante la detenzione dei primi, gli era stata conferita dai BRUSCA una sorta di reggenza della “famiglia” di Altofonte, insieme al GIOE’. Tale posizione di prestigio del DI MATTEO e del GIOE’ determinò il loro coinvolgimento da parte di BRUSCA Giovanni, “leader” operativo del gruppo che doveva eseguire l’attentato, nella preparazione della strage di Capaci. Tratto in arresto nel corso del 1993 per il reato di associazione mafiosa, ha iniziato a collaborare con l’A.G. nell’ottobre del 1993, primo tra coloro che avevano preso parte ai delitti per cui è processo. Benché fosse indagato solo per il reato associativo, il DI MATTEO ha confessato, oltre alla strage di Capaci, la sua partecipazione a vari omicidi, mostrando così per i reati per cui è processo un atteggiamento collaborativo non reticente né animato dal solo proposito di migliorare la propria posizione giudiziaria. In particolare, merita particolare considerazione nella valutazione dell’attendibilità del collaborante, il fatto che lo stesso abbia superato la remora certamente assai forte che doveva nutrire nell’autoaccusarsi, senza che ancora sussistesse alcun elemento probatorio a suo carico, di un crimine così efferato ed odioso come quello per cui si procede, ben consapevole non solo delle conseguenze giudiziarie di tale confessione ma anche del notevole innalzamento dei rischi cui esponeva in questo modo se stesso ed i propri familiari. Ed in effetti il DI MATTEO ha dovuto pagare in termini affettivi il prezzo più elevato per la scelta intrapresa, avendo subito dapprima il sequestro del giovane figlio Giuseppe, tenuto in ostaggio per circa due anni per condizionarne il comportamento collaborativo ed indurlo a ritrattare quanto meno le accuse più gravi ( ed è emblematico di tale volontà il fatto che in un certo momento sia stata consegnata ai familiari del DI MATTEO e tramite la D.I.A. fatta pervenire al collaborante la prova che il figlio era ancora in vita) e poi barbaramente ucciso quando si era valutata l’inutilità di tale tentativo. Ma l’atrocità di questo crimine ai danni di una giovane ed innocente vita dimostra da un lato che la collaborazione del DI MATTEO non aveva colpito a vuoto e dall’altro la serietà e la fermezza della sua scelta, che seppure ebbe a subire – per ammissione dello stesso imputato – dei rallentamenti e delle incertezze nella fase delle indagini preliminari in conseguenza del sequestro del ragazzo, è stata, tuttavia, capace di superare questa prova così tremenda, sicché nella fase cruciale dell’istruttoria dibattimentale il DI MATTEO ha mantenuto inalterate nella sostanza le proprie dichiarazioni accusatorie per i fatti di cui è processo. Ovviamente il livello non particolarmente elevato ricoperto dal DI MATTEO nell’ambito di COSA NOSTRA ed il carattere settoriale dell’attività dallo stesso svolta per la preparazione dell’attentato fanno sì che le sue conoscenze dirette, cui va riconosciuta una particolare attendibilità, siano limitate soprattutto ad alcune fasi dell’esecuzione, mentre per le altre, di cui il DI MATTEO ha avuto conoscenza “de relato” e per il momento decisionale della strage le sue dichiarazioni devono essere valutate tenendo conto dei limiti sopra evidenziati. Corte assise Caltanissetta 26 settembre 1997  


1.6.2021 – “MIO FIGLIO SCIOLTO NELL’ACIDO, SE TROVO BRUSCA PER STRADA…” Torna in libertà Giovanni Brusca. La rabbia dei parenti delle vittime, in particolare di Santino Di Matteo, papà di Giuseppe, il bambino sciolto nell’acido L’11 gennaio di 25 anni fa veniva ucciso, sciolto nell’acido, Giuseppe di Matteo, bambino di soli 13 anni, figlio di Santino. La sua colpa, per chi ha commesso l’atrocità, è che il padre dopo aver fatto parte per tanti anni di Cosa Nostra si fosse finalmente pentito e soprattutto fosse disposto a parlare. Gli esecutori dell’omicidio, su ordine di Riina, sono stati i fratelli Brusca, Enzo ma soprattutto Giovanni che ieri ha lasciato il penitenziario di Rebibbia, con 45 giorni di anticipo rispetto alla fine della condanna. Giovanni Brusca, inoltre, è colui che ha azionato il telecomando nella strage di Capaci uccidendo il giudice Falcone, la moglie e gli agenti della scorta. Se tutto ciò non bastasse, è il responsabile di oltre 150 omicidi, talmente tanti che, come ha dichiarato più volte, non riesce neanche a ricordarli tutti. La sua libertà ha lasciato sbigottito l’Italia intera soprattutto perché arriva un anno e mezzo dopo la decisione della Corte di Cassazione di respingere la sua richiesta di domiciliari. Nelle motivazioni di quella sentenza è possibile leggere: “la gravità dei reati commessi da Brusca e la caratura criminale che lo stesso ha dimostrato nella sua vita di possedere portano a considerare non ancora acquisita la prova certa e definitiva del suo ravvedimento”. Tra i più indignati c’è Santino Di Matteo, il papà di Giuseppe, il bambino sciolto nell’acido per non far ritrovare sue tracce, il quale in un’intervista al Corriere.it dichiara: “Dopo trent’anni mi fanno ancora testimoniare ai processi. Io vado per dire quello che so. Ma a che cosa serve se poi lo stesso Stato si lascia fregare da un imbroglione, da un depistatore, da questa feccia dell’umanità?”. Interrogato sul funzionamento, o meno, della giustizia il collaboratore ha affermato di non trovare le parole per spiegare la sua amarezza. “È passato meno di un anno da quando avevano liberato un carceriere di mio figlio, a Ganci, il paesino delle Madonie, uno dei posti del calvario. Ma la verità è che tutti i sorveglianti e gli aguzzini della mia creatura sono liberi. Tutti a casa. E ora va a casa pure il capo che organizzò e decise tutto. Lo stesso boia di Capaci. Si può dire boia? Lo posso dire io?“. E ancora: “La legge non può essere uguale per questa gente. Brusca non merita niente. Oltre mio figlio, ha pure ucciso una ragazza incinta di 23 anni, Antonella Bonomo, dopo avere torturato il fidanzato. Strangolata, senza motivo, senza che sapesse niente di affari e cosacce loro. Questa gente non fa parte dell’umanità”. Brusca torna in libertà per una legge voluta dal giudice Falcone in quanto pentito, nonostante, per dirlo con le parole della sorella del giudice ucciso a Capaci, “un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso”. Santino, a differenza di qualche magistrato, non ritiene minimamente possibile che Brusca possa essere cambiato e anzi, afferma che la cosa più giusta sarebbe stata che la sua esistenza finisse come “suo ‘parrino’, Riina”, morto in carcere. “Giornali e Tv ne parleranno per due giorni, poi il silenzio trionferà e quel mascalzone si godrà la libertà. Ormai so come va l’Italia. E mi faccio il sangue amaro” continua Di Matteo che parla da una località segreta. La sua unica speranza è di “non incontrarlo mai, come chiedo al Signore” perché “se dovesse succedere, non so che cosa potrebbe accadere”“Si dimentica che ‘u verru, il maiale come chiamavano Brusca, conosceva Giuseppe, mio figlio, da bambino. Ci giocava insieme con la play station. Eppure, l’ha fatto sciogliere nell’acido. E questo orrore si paga in vent’anni? Io non posso piangere nemmeno su una tomba e lui lo immagino pronto a farsi una passeggiata. Magari ad Altofonte. O in un caffè davanti al Teatro Massimo di Palermo”IL GIORNALE


L’ex killer racconta la sua conversione  Parla l’ex mafioso, oggi collaboratore, Santino Di Matteo: «Prego per rendere più vero il cammino verso Gesù». La conversione, le notti a pregare e a pensare al figlio Giuseppe, sciolto nell’acido da Brusca nel 1996.«Giovanni Falcone diceva che ogni cosa ha un inizio e una fine. Il mio inizio è stato il buio. Ho ucciso guardando chi stavo uccidendo. Ho vissuto nel dolore e nella morte. Ma la mia fine sarà la luce. Prego perché sia la luce. Prego per rendere sempre più vero, profondo, maturo questo mio cammino verso Gesù Cristo». Wikipedia racconta Santino Di Matteo con sei parole: “criminale e ora collaboratore di giustizia”. Si sofferma sulle vicende di mafia. Sui dieci omicidi. Sui processi. Sul carcere. Ma non entra nella nuova vita di un uomo stanco, ma sereno. Lo incontriamo in una villa sulla Giustiniana alla periferia nord di Roma: ieri residenza dorata di un boss della Magliana, oggi rifugio per una ventina di uomini sfortunati a cui don Antonio Coluccia, un giovane sacerdote vocazionista, prova a restituire una vita. C’è un silenzio bello mentre camminiamo lungo il viale che porta alla casa. C’è un grande crocifisso in legno e una statua di Maria con le braccia aperte e con il volto sorridente. Sul portone è attaccata una foto di papa Francesco e sotto i dieci comandamenti scritti a penna su un foglio bianco da don Antonio. Santino (ma oggi è tornato per quasi tutti Mario, il suo nome di battesimo) ci guida nella visita. Ci parla di questa comunità, l’Opera di san Giustino e del coraggio di un sacerdote schivo. Attraversiamo il salone. In fondo c’è un dipinto: un bambino in tenuta da fantino. «Era sempre vestito così Giuseppe. Anche quel 23 novembre del 1993 quando venne sequestrato da mafiosi in divisa da poliziotti pronti a tutto pur di impedirmi di collaborare con lo Stato…». È una storia triste e nota. Giuseppe, il figlio di Santino, venne tenuto in ostaggio fino all’11 gennaio del 1996. Poi venne strangolato ed il corpo fu sciolto nell’acido.

Fu Giovanni Brusca a dare l’ordine: alliberativi du cagnuleddu Ogni notte penso al mio piccolo, a quando ci incontreremo di nuovo. Certo lui è in Paradiso, io devo lavorare sodo per raggiungerlo. Ma Dio sa perdonare. Mi parla. Mi dice: «Mario continua su questa strada, incontrerai Giuseppe».

E lei perdonerà mai Brusca?  No, non posso perdonare. Non ce la faccio. Brusca non è una persona, non ha nulla di umano. Io dico solo: «Padre buono perdonalo tu, io non ho questa forza». 

Lei è stato mafioso come Brusca, ha ucciso come Brusca.  Era una guerra di mafia: io uccido te o tu uccidi me. Terribile, terribile, terribile. Ma i bambini no. Mai. Anzi le racconto un episodio. Era una mattina di tanti anni fa e io e Brusca eravamo a Camporeale per uccidere. Io guidavo l’auto, lui era al mio fianco con un fucile tra le mani. Arriviamo. Brusca sta per scendere e io vedo che la persona da uccidere ha in braccio il nipotino… Ho guardato Brusca: «No, torniamo un’altra volta, oggi non si spara». Ci penso la notte. Penso a quella volta che ho fermato il male e alle troppe volte che il male l’ho fatto. Nelle mie preghiere così strampalate mi rivolgo direttamente a Lui: «Perché Tu che tutto puoi non mi hai fatto cadere la pistola dalle mani? Perché non mi hai fermato?»

Non mi convince l’idea che ci sia una mafia diversa da un’altra mafia. Una meno spietata di un’altra. Non voglio convincerla: ho sbagliato e ho pagato. Ma ora non mi basta più essere collaboratore di giustizia, non mi basta più raccontare e accusare. Voglio che altri si pentano come me, che collaborino come me. «Mafiosi collaborate, passate dal buio alla luce; fate come me, una volta e per sempre», è questa la mia preghiera laica. «Mafiosi fidatevi dello Stato». Avevo un peso che non mi faceva vivere, ora non c’è più.

Che vuol dire per lei fidarsi? Conosco da vent’anni gli attuali capi della procura di Roma Giuseppe Pignatone e di quella di Palermo Francesco Lo Voi. Fanno da sempre guerra alla mafia con la testa e con il cuore. Sono persone perbene, sono magistrati veri. Ma c’è un però. Bisogna fare tutti un salto in avanti per eliminare i pregiudizi: i collaboratori di giustizia devono essere aiutati a reinserirsi pienamente nella società. È uno sbaglio drammatico pensare di sfruttarli e di buttarli via. Il collaboratore deve vedere un percorso che porta a una piena riabilitazione. E tu, Stato, devi aiutarlo a sentirsi come un qualsiasi altro uomo. Né più né meno. Un uomo con i suoi terribili errori, ma anche con la sua voglia di riscatto.

Lei si sente riabilitato? Ho una mia vita. Una compagna. Ho un figlio che mi ha dato due nipotine. Sono la mia consolazione. Sogno per loro una vita bella. Lo studio, gli amici, una vacanza d’estate. La bellezza della normalità. Una si chiama Francesca, è la copia di Giuseppe. È Giuseppe in persona. Anche lei ama gli animali; chissà magari farà il veterinario.Lei ha paura?No, avevo paura prima, quando stavo dall’altra parte. Ora no. Ora non più. Ora provo a camminare verso la luce. Don Antonio spesso mi interroga come sa fare solo lui: «Mario come facevi a stare dall’altra parte?». Io sorrido e per qualche istante sono felice: «Non ne parliamo più, oggi voglio stare solo con Gesù Cristo».

La mafia è in ginocchio? Sì, è in ginocchio. Perché c’è un risveglio delle coscienze, perché non c’è più paura di denunciare. Ha visto cosa è successo a Bagheria? La società ha avuto coraggio, ha alzato la testa, ha detto no al pizzo, ha dato un colpo duro a “cosa nostra”. Lo Stato vincerà; prenderà Messina Denaro e prenderà la sua cerchia che continua a raccogliere soldi. Oggi la mafia vive solo perché fa soldi. Racket, droga, estorsioni, pizzo, edilizia, usano persino il mercato del pesce per fare soldi. Ma se lo Stato aggredisce la mafia attaccando le casseforti vince la partita.Sono passate due ore e c’è ancora sole. I ragazzi della comunità lavorano in silenzio. Un gruppo prepara uno striscione in vista della Marcia per la Terra di domenica mattina al Colosseo. Ci sarà don Antonio, ci saranno gli “invisibili” dell’Opera di San Giustino. Con la loro voglia di camminare insieme per un mondo capace di liberarsi dall’inquinamento del creato e delle anime. Porteranno uno striscione con una scritta che deve far pensare: «Fino a quando ci sarà corruzione non ci sarà mai pace». E ci sarà Mario Di Matteo. «Marcerò per Giuseppe. E per tutti i giovani che non devono farsi sedurre dalla mafia. La mafia non è potere, è solo morte». Lasciamo la comunità e passiamo davanti a un’altra foto di papa Francesco. Santino la guarda e noi guardiamo Santino guardarla. «Francesco ha saputo abbracciare un mondo disperato. Con umiltà. Con la forza del perdono. Voglio tanto abbracciarlo e piangere con lui». Arturo Celletti 5 novembre 2015 AVVENIRE


AVEVA 13 ANNI, DOPO 775 GIORNI DI PRIGIONIA L’HO STRANGOLATO E SCIOLTO NELL’ACIDO


«Ho pagato con la mia coscienza una scelta sbagliata. E quando ho cercato di porre rimedio, scegliendo la collaborazione con lo Stato ho dovuto subìre la più vigliacca delle vendette, perdendo un figlio bambino» SANTINO DI MATTEO  

COMO, drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta.

Di Matteo assale Brusca: ‘Animale, ti stacco la testa’

“Stu figghiu e’ buttana”, grida Santino Di Matteo contro Giovanni Brusca. Poi afferra il microfono che gli è davanti, lo strappa dal supporto e glielo lancia violentemente addosso. L’ira sale, Di Matteo si alza e gli si scaglia contro. Tenta di afferrarlo, ma è bloccato dagli agenti di polizia.  I due sono l’uno di fronte all’altro. A sinistra della corte Santino Di Matteo, pentito di vecchia data, uno dei primi ad abbandonare i corleonesi di Totò Riina. A destra Giovanni Brusca da San Giuseppe Jato, cresciuto anche lui sotto l’ala protettiva di Totò u’ curtu, anche lui controverso collaboratore di giustizia. Giovanni Brusca, che si è macchiato di uno dei crimini più terribili della storia di Cosa nostra: lo scioglimento nell’acido di un bambino di dodici anni, con la sola colpa di essere figlio di “uno che aveva cantato”. Quel bambino, morto per strangolamento e poi gettato nel liquido corrosivo nel gennaio 1996 si chiamava Giuseppe Di Matteo, e suo padre è proprio Santino. Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta. “Giocava con mio figlio”, urla Di Matteo. E ricorda i giorni della loro carriera nelle fila Cosa Nostra. Quando Brusca andava a casa sua e portava il figlio nel giardino di casa, per divertirlo. Le invettive diventano sempre più pesanti, la rabbia cresce. “Animale, non sei degno di stare in questa aula. Parliamo di fronte ad un animale”, fa Di Matteo. E poi: “Ci dovrei staccare la testa, uno che ha ucciso una donna incinta e un bambino”. Il tono diventa di sfida. “Perché non lo mettiamo a un’incrocio. All’ultimo magari, presidente, ci mette tutti e due in quella cella là…”. Brusca è impassibile, dice che Di Matteo è accecato dalla vendetta e che dice falsità. Santino non regge più, scoppia. Il presidente Pietro Falcone, dopo l’aggressione, sospende l’udienza. Che riprende dopo pochi minuti.  “Faccia uno sforzo e si calmi”, dice il presidente rivolto a Santino Di Matteo. Ma non c’è verso. Gli insulti continuano. “Lei è padre di figli”, dice Di Matteo rivolto al giudice. E aggiunge, di nuovo: “Ci dovrei staccare la testa a quello là”. Falcone cerca di mettere ordine: “Lei ha avviato una collaborazione con la giustizia”. “Garantisco che continuerò – risponde subito Di Matteo – ma almeno fatemelo guardare”. Brusca è ormai circondato da un cordone di poliziotti. Le parole per lui sono ferocissime: “Solo questo ha fatto nella vita. La sua carriera l’ha fatta con Salvatore Riina attraverso le tragedie, la sua carriera è stata solo di uccidere le persone buone. Lui è più animale di Salvatore Riina. Me lo deve far vedere. Mi ha cercato per cinque anni, invece ha trovato un bambino. Me lo mangio vivo. Ha ucciso solo una donna incinta, solo perchè poteva sapere qualche cosa”.  Odio, solo odio, fra i due. Appena placato il 20 maggio 1996 dalla notizia dell’arresto di Brusca. “Finalmente lu pigliaru a stu curnutu, e adesso mettetegli la testa nella merda”, disse in lacrime Santino Di Matteo. Più volte i due si sono incontrati nelle aule di tribunale. E sempre lo scontro ha avuto toni drammatici.  Giovanni Brusca ha sempre ammesso l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Del pentimento, quello morale, per il gesto compiuto, appena l’ombra, nelle sue parole: “Se avessi avuto un momento in più di riflessione, più calma per poter pensare, come ho fatto in altri crimini, forse ci sarebbe stata una speranza su mille, su un milione, che il bambino fosse vivo. Oggi qualsiasi giustificazione sarebbe inutile. In quel momento non ho ragionato”.  15 settembre 1998 La Repubblica 


IL PENTITO RIPUDIATO DALLA MOGLIE  Il suo nome in codice era “zeta”: Santino Di Matteo, 39 anni, detto “mezzanasca” (perché ha il naso schiacciato, ndr) ha assunto questo nome il 23 ottobre scorso, quando decise di “fare il salto”. Non sopportava più la carcerazione e quella notte chiamò gli agenti che lo sorvegliavano e chiese d’ incontrarsi “subito” con il procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli. Con un aereo il magistrato raggiunse il carcere dove Santino Mezzanasca era rinchiuso. Santino cominciò a parlare. Si accusò di alcuni delitti e quando riferì della strage di Capaci nella quale ebbe un ruolo nella fase preparatoria, Caselli avvertì subito il collega Giovanni Tinebra, titolare anche dell’ inchiesta di via D’ Amelio. “Mezzanasca” raccontò i particolari della strage, fece nomi e cognomi di quanti vi parteciparono, chi ordinò quell’ attentato, chi schiacciò il pulsante del radiocomando, chi trovò l’ esplosivo e tante altre storie. Ma già prima di quel 23 ottobre Santino Mezzanasca aveva dato segni di cedimento, proprio qualche giorno dopo il suo arresto avvenuto nel giugno scorso. Interrogato negli uffici della Procura di Palermo manifestò la sua disponibilità “ma prima – disse – debbo vedere e parlare con mia moglie”. I giudici lo accontentarono e quando la moglie di Santino giunse in tribunale accompagnata dai carabinieri lo insultò, gli disse che non poteva fare “l’ infame”, che lei ed i suoi figli lo avrebbero ripudiato. Santino non parlò e si rifiutò di rispondere alle domande dei giudici. Trasferito in un carcere sicuro del nord-Italia ha avuto tempo per “meditare” e quando decise che era giunto il momento di parlare chiese di incontrarsi con il giudice Caselli. Era finita quel giorno la “storia” di Santino Mezzanasca. Fino ad allora era stato un “valido” uomo d’ onore della famiglia di Altofonte (il padre è raffigurato nella foto che ha messo in imbarazzo il generale Canino). Era molto abile e preciso con le pistole e faceva parte del gruppo di fuoco del “mandamento” di San Giuseppe Jato, quello più vicino a Totò Riina. Il pentito Balduccio Di Maggio lo ha accusato di aver ucciso più di dieci persone a Palermo e a Trapani, e Mezzanasca, quando è diventato “zeta”, avrebbe confermato. La sua abilità nell’ uso delle armi è stata riferita anche da altri killer di Cosa nostra, Giuseppe Marchese e Giovanni Drago, due degli ultimi pentiti di mafia che hanno “tradito” i corleonesi. “Mezzanasca – disse Marchese – è un killer molto vicino a Leoluca Bagarella”. E proprio con Bagarella Santino Di Matteo compì il “sopralluogo” a Capaci qualche settimana prima della strage per scegliere il luogo dove piazzare l’ esplosivo. E sulla decisione di Mezzanasca di collaborare i giudici hanno scritto che è stata una decisione sofferta.   FRANCESCO VIVIANO 13 novembre 1993  LA REPUBBLICA


Santino Di Matteo: “Mio figlio ucciso nell’acido”

GIOVANNI BRUSCA : “Liberati dal canuzzu” Il bambino è prigioniero da settecentosettantanove giorni. E’ una larva, non pesa neanche trenta chili. Un uomo lo mette con la faccia al muro e lo solleva da terra, il bimbo non capisce, non fa resistenza, nemmeno quando sente la corda intorno al collo. Il suo è appena un sussurro: <>. Ci sono altri due uomini che lo tengono. Per le braccia e per le gambe. E poi il piccolo Giuseppe se ne va. Un mese e mezzo dopo, un mafioso si presenta davanti a un sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, che gli chiede: <>. Giuseppe Monticciolo risponde: <>. Comincia dalla fine Dall’ultimo. Comincia da Giuseppe Di Matteo, undici anni, il figlio di Santino Mezzanasca, uno dei sicari di Capaci. Il bambino lo rapiscono per far ritrattare il padre pentito. Mezzanasca non ritratta e suo figlio sparisce in un bidone di acido muriatico, i suoi resti sotterrati in una fossa dietro le montagne di Palermo. Giuseppe Di Matteo viene rapito il 23 novembre 1993 e ucciso l’11 gennaio 1996. Lo prendono al maneggio di Villabate, i macellai di Brancaccio. Lo legano e lo portano dopo la piana di Buonfornello, a Lascari. Poi lo consegnano a Giovanni Brusca, quello che a San Giuseppe Jato chiamano ù verru, il maiale. Lo nascondono nei bagagliai delle automobili, lo spostano da un covo all’altro per mezza Sicilia. A Misilmeri, vicino Palermo. A Villarosa, alle porte di Enna. In contrada Giambascio, alle spalle di San Giuseppe Jato. sempre legato e bendato, sempre incatenato. Giuseppe non piange mai. Non chiede mai niente ai suoi carcerieri. Per due anni lo tengono prigioniero. E aspettano un segnale da quell’ “infamone” di suo padre. A Giuseppe fanno scrivere lettere al nonno. Vogliono spingere Mezzanasca a rimangiarsi tutto. Passano le settimane, non succede nulla. E’ la sera dell’11 gennaio 1996. Giovanni Brusca guarda la tv, è l’ora del telegiornale. Sente una notizia: >.  Giuseppe Monticciolo è lì, accanto a Brusca, che ha uno scatto d’ira. Poi ù verru gli ordina: <>. Uccidi il cagnolino. Vincenzo Chiodo è quello che gli sbatte la faccia al muro e lo solleva. Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo lo tengono per le braccia e per le gambe. E’ Chiodo che stringe la corda. <> confessa Monticciolo. Gli chiede il magistrato: <>. Monticciolo abbassa gli occhi: <<No, niente, non era più un bambino come tutti gli altri, era debole, debole,…>>. I bidoni di acido sono già pronti. Dopo un pò si vedono solo i piedini di Giuseppe. I tre mafiosi si baciano. Racconterà qualche tempo dopo Brusca: < in una media di tre ore. Il corpo si scioglie lentamente, rimangono i denti della vittima, lo scheletro del volto si deforma. A quel punto si prendono i resti e si vanno a buttare nel torrente. Ai palermitani che ci sfottevano perché eravamo contadini, rozzi, noi rispondevamo: e voi allora, bella acqua bevete a Palermo…>>. L’acqua del torrente di San Giuseppe Jato finisce in una diga. Quella che disseta tutta Palermo.  Attilio Bolzoni -PAROLE D’ONORE


‘COSI’ UCCIDEVAMO IO, GINO E SANTINO’  “Questo è Santino, è Santino mezzanasca, Santino Di Matteo, uomo d’ onore della ‘ famiglia’ di Altofonte…”. Il pentito Balduccio Di Maggio stringeva nelle mani un album contenente 74 schede segnaletiche di mafiosi e sospetti fiancheggiatori. L’ uomo raffigurato nella foto d’ archivio numero 330, Balduccio la riconobbe subito. Era un pomeriggio di gennaio del 1993, giovedì 14, il giorno prima dell’ arresto di Totò Riina. Da ventiquattro ore Di Maggio stava svelando i segreti di Cosa Nostra ai magistrati di Palermo dentro uno stanzone della caserma dei carabinieri “Regione Sicilia”, in corso Vittorio, accanto a Porta Nuova. Un’ altra foto, anzi altre due foto, il pentito le prese in mano esattamente quindici giorni dopo. Alle dieci del mattino, a Roma, il 29 gennaio, negli uffici della caserma “Lazio”. “Questo è La Barbera Gioacchino detto Gino… della famiglia di Altofonte… e quest’ altro è Antonino Gioè, uomo d’ onore di Altofonte anche lui, presentatomi da Santino mezzanasca e da La Barbera Gino…”. I nomi dei mafiosi di Altofonte entrati nell’ indagine sull’ uccisione di Giovanni Falcone compaiono in quasi tutte le prime 280 pagine della “cantata” di Baldassare Balduccio Di Maggio, il mafioso di San Giuseppe Jato che ha tradito e fatto catturare Totò Riina (questa, almeno, è la versione ufficiale), raccontando ai giudici palermitani anche l’ incontro e il bacio tra Giulio Andreotti e il Capo dei Capi di Cosa Nostra. Balduccio Di Maggio parla dei tre mafiosi coinvolti nell’ inchiesta sulla strage di Capaci e ricorda nelle sue confessioni soprattutto gli omicidi compiuti insieme a due di loro: Santino Di Matteo, il Santino entrato nelle investigazioni sulla morte di Falcone (si dice anche che sia stato sottoposto all’ esame del Dna confrontandolo con le tracce di saliva trovate sui filtri delle sigarette lasciate sulla collina di Capaci); e Gioacchino Gino (e non Giuseppe come erroneamente tutti i giornali hanno riportato in questi mesi) La Barbera, il mafioso di vedetta a Punta Raisi il 23 maggio del 1992, l’ uomo d’ onore arrestato dalla Dia a Milano nel marzo scorso tre giorni dopo Antonino Gioè. Balduccio Di Maggio si è accusato di 27 omicidi, delitti che ha commesso nella zona del Corleonese, nei paesi di San Giuseppe Jato, Piana degli Albanesi, San Cipirrello, Roccamena, Altofonte. Suoi complici in queste missioni di morte sono stati proprio Gino La Barbera e Santino Di Matteo detto mezzanasca, letteralmente in siciliano mezzo naso. Ecco cosa ha svelato Balduccio al procuratore Caselli e ai sostituti Natoli, Pignatone e Lo Voi. Di numerosi omicidi Balduccio Di Maggio non conosce il movente. Il pentito non sa neanche il nome di molti uomini che ha ucciso insieme a Santino Di Matteo e a Gino la Barbera, mafiosi praticamente sconosciuti fino al pentimento di Balduccio e alle successive investigazioni sulle stragi palermitane. Omicidio di un pellicciaio e di un suo dipendente. “Quando io ero sostituto nel ruolo di capomandamento di San Giuseppe Jato, su designazione di Totò Riina ricevetti le lamentele di Giovanni Matranga circa una persona di Piana degli Albanesi che aveva una pellicceria e anche un’ azienda di campagna… costui si comportava in maniera arrogante, e nel bar del paese aveva detto più volte che comandava lui, disprezzando così il ruolo del Matranga e di Peppe u sicarru della ‘ famiglia’ di Piana… Bernardo Brusca decise che doveva essere soppresso e io detti al Matranga l’ incarico di studiare le abitudini della vittima designata… Ci organizzammo una mattina… io mi recai nella campagna di Giuseppe Agrigento (capo della ‘ famiglia’ di San Cipirrello n.d.r.)… La Barbera Gino e Santino mezzanasca giunsero dopo… tutti e tre andammo nella campagna del pellicciaio… lui non si insopettì e, così, il mezzanasca poté avvicinarsi e gli sparò con un’ arma corta, forse una calibro 357. Subito dopo lo raggiunse il La Barbera, il quale sparò con un fucile a canne mozze… Il La Barbera e il mezzanasca spararono anche, non so se entrambi o uno solo, ad un giovane che era sul posto e che tentò di scappare… noi tre eravamo a viso scoperto”. Omicidio di Di Carlo detto Soluzzo. “In un periodo avvennero tanti furti nelle campagne tra San Giuseppe Jato e Corleone… la convinzione di tutti noi era che, responsabile, fosse un certo Di Carlo detto Soluzzo… io personalmente ricevetti anche delle lamentele da Giovanni Grizzafi (un nipote di Riina n.d.r.), il quale aveva subito il furto di chiavi di un suo trattore… un giorno Riina mi ordinò di eliminare il Di Carlo… Mi organizzai con Santino mezzanasca… il mezzanasca chiamò il Di Carlo con il suo soprannome Soluzzo, così come poi mi riferì, e mentre Di Carlo si avvicinava gli sparò un primo colpo… il mezzanasca mi raccontò pure che notò un’ altra persona, un tunisino o un marocchino, sparò un colpo di fucile ma non per colpirlo bensì solo per farlo scappare…”. Omicidio di certo Sciortino. “Quando ero capomandamento ricevetti le lamentele di Giuseppe Agrigento nei confronti di certo Sciortino, accusato di essere un ladro… Io, il La Barbera e il mezzanasca cercammo lo Sciortino in un giorno d’ estate in una campagna ma non lo trovammo. Il giorno dopo io dovevo accompagnare a Palermo il mio bambino più grande, Andrea, per una visita medica. Dissi all’ Agrigento che doveva sbrigarsela da solo con l’ aiuto del La Barbera e del mezzanasca… l’ indomani seppi dall’ Agrigento stesso che aveva compiuto l’ omicidio dello Sciortino insieme a suo nipote Romualdo, al La Barbera e al mezzanasca… seppi che era stato quest’ ultimo a sparare mentre lo Sciortino lavorava il latte…”. Omicidio di Luigi Ajovalasit. “Quando Bernardo Brusca era latitante, subì alcuni furti nella sua casa in paese… dalle indagini che noi facemmo i sospetti si accentrarono su un giovane drogato, certo Ajovalasit… Una sera lo seguimmo e lo vedemmo entrare in una pizzeria… qui fu raggiunto dal… e da mezzanasca, i quali mi dissero che avevano sparato al giovane”. Omicidio di certo Dragotta. “Un’ altra delle persone che vennero, da noi della famiglia, sospettati di avere avuto un ruolo nell’ arresto di Bernardo Brusca, fu un uomo di circa 50 anni che si chiamava Dragotta… non ne ricordo il nome… io ero davanti con la mia macchina… il La Barbera, l’ Agrigento Romualdo e il mezzanasca lo raggiunsero e fu il Santino a sparare, non ricordo se con armi corte o lunghe, dato che avevamo disponibilità di entrambi i tipi”. Omicidio all’ ospedale di Alcamo. “In un periodo che non so bene precisare venne da me Francesco Caradonna che reggeva la ‘ famiglia’ di Alcamo, mi disse che all’ ospedale di Alcamo era ricoverato un parente dei Rimi (mafiosi della vecchia guardia legati ai Badalamenti n.d.r.) di cui non ricordo il nome né il soprannome particolare che pure aveva… mi organizzai con il La Barbera Gino e Santino mezzanasca… il Caradonna e il La Barbera andarono all’ ospedale a trovare un infermiere che doveva indicare al La Barbera la vittima designata. Il mezzanasca rimase dietro, il La Barbera sparò due colpi di pistola…”. Omicidio del dottore Montalbano. “Il dottore Montalbano, credo, medico di Camporeale, era ritenuto confidente o comunque molto vicino ai carabinieri… io, Brusca Giovanni e Santino mezzanasca andammo nella campagna di sua proprietà… il Brusca sparò un colpo di fucile ma l’ arma si inceppò, subentrò Santino che sparò vari colpi di revolver ferendo il medico”. ATTILIO BOLZONI 04 agosto 1993 LA REPUBBLICA


A CASA DI SANTINO DI MATTEO COMINCIANO A PREPARARE LA BOMBA PER FALCONE  Dieci giorni prima della strage, Santino Di Matteo riceve l’incarico da Giovanni Brusca di recarsi nella casa di contrada Rebottone perché lì doveva arrivare Giovanni Agrigento, “capo famiglia” di San Cipirello, per portargli delle cose. «…L’indomani mi reco in campagna e viene Agrigento con la Tipo bianca, e dentro la macchina sia dentro il cofano che dietro il sedile, c’aveva quattro sacchi di esplosivo…»

Nel 1992 Di Matteo era proprietario di due appartamenti, uno nel paese di Altofonte, in Via del Fante, l’altro un po’ fuori dall’abitato, in contrada Rebottone. Proprio in quest’ultima abitazione, luogo di incontro e riunione degli appartenenti alla sua “famiglia”, i quali tutti sapevano dove era nascosta la chiave di ingresso (sotto un mattone), Di Matteo aveva appreso, verso la fine di aprile o gli inizi di maggio, che doveva essere fatto un attentato.

Le riunioni nella casa in in quel periodo si tenevano giornalmente, ma egli non sapeva ancora a quell’epoca che sarebbe stato personalmente coinvolto nell’esecuzione del progetto criminoso. Le persone che frequentavano l’abitazione erano per lo più Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Gioacchino La Barbera e Leoluca Bagarella (soldato della “famiglia” di Corleone). In quel periodo aveva visto che Brusca aveva fatto venire una persona non appartenente alle famiglie palermitane, Pietro Rampulla da Catania, e che era è Gioè ad accompagnarlo dato che non era della zona (successivamente lo aveva visto usare un’Alfetta scura 1800 o 2000) e quel giorno c’erano anche Salvatore Biondo e Biondino, che erano venuti insieme su una Fiat Uno verde, ma egli non aveva assistito alla conversazione che Brusca e Bagarella avevano avuto con il personaggio catanese, aveva notato però che quest’ultimo era tornato due giorni dopo con due telecomandi in una scatola di polistirolo: «Per me erano due macchine… due cose di questi che fanno partire le macchine… di modellismo,.. un telecomando lungo che so un trenta centimetri metallizzato, con due levette una a sinistra e una a destra, tanto è vero che mi pare che quella di destra l’aveva… c’era messo il… nastro- isolante come si chiama quello… comunque uno la fermata… uno l’ho neutralizzato, e una ci funzionava, e ho visto che so… c’è un’antenna un venticinque trenta centimetri».

L’ORDINE DI BRUSCA  Dopo quest’episodio, in una data che l’imputato ha collocato più o meno a circa dieci giorni prima della strage (quindi intorno al 10-13 maggio), mentre si trovava nella sua abitazione in paese, in via Del Fante, aveva ricevuto incarico da Giovanni Brusca di recarsi nella casa di contrada Rebottone perché lì doveva arrivare Giovanni Agrigento, uomo che lui sapeva essere molto vicino a Brusca nonché “capo famiglia” di San Cipirello, per portargli delle cose.
Nella sostanza l’Agrigento in quell’occasione – era di mattina intorno alle 10.30 11 e lui si era allontanato di nascosto dal suo posto di lavoro, il mattatoio di Altofonte – aveva portato con la sua Fiat Tipo bianca quattro sacchi da 50 kg di un materiale che a prima vista il Di Matteo aveva creduto fosse fertilizzante: «La sera mi pare GIOVANNI BRUSCA o la mattina, abbia detto dice: “domani mattina alle dieci devi andare in campagna che deve venire GIUSEPPE AGRIGENTO che ti deve portare delle cose”, “va bene”, l’indomani mi reco in campagna e viene AGRIGENTO con la TIPO BIANCA, e dentro la macchina sia dentro il cofano che dietro il sedile, c’aveva quattro sacchi di esplosivo, diciamo che erano quattro sacchi che per me era sale… dei sacchi verdi dove vendono il sale, questi sacchi da cinquanta chili… e allora li abbiamo presi e li abbiamo travasati in due bidoni di plastica, tanto è vero che quando lo abbiamo travasato mi faceva… mi bruciava il naso, dico: “ma che cosa è questa…” ci siamo messi fuori la casa, davanti dice…Siamo al magazzino…i sacchi erano legati con i lacci». Il travaso era stato fatto dai sacchi a due bidoni da cento kg, senza usare guanti di gomma. A giudizio dell’imputato quel travaso aveva un senso perché inizialmente si era pensato di collocare quei bidoni in una galleria, perché altrimenti , per il trasporto fino a Capaci, non ci sarebbe stato alcun bisogno di trasbordare l’esplosivo dai sacchi ai bidoni, anzi, nei sacchi del fertilizzante, in caso di fermo delle forze dell’ordine durante il tragitto, si sarebbero potuti meglio giustificare.
In effetti successivamente Di Matteo ha confermato il valore di tale intuizione, perché ha rilevato di aver appreso che l’attentato doveva avere luogo in una galleria subito dopo Capaci, ma che tale progetto era sfumato perché non era possibile vedere la posizione delle macchine per premere il telecomando. Di Matteo aveva notato che l’operazione di travaso, in esito alla quale si erano riempiti a pieno i due bidoni, faceva alzare della polvere: […]. I bidoni erano stati procurati entrambe da Gino La Barbera, che, sempre su incarico di Giovanni Brusca, li aveva portati in contrada Rebottone due giorni prima della venuta di Agrigento: trattavasi di bidoni di plastica appena comprati, di colore bianco con tappo a vite nero e manici bianchi.
Dopo il travaso i bidoni erano rimasti per uno o due giorni nel magazzino della casa di campagna, dopodichè erano stati caricati sul fuoristrada di La Barbera da lui, La Barbera e Gioè, che li avevano portati in via Del Fante, dove si trovavano ad aspettare Bagarella, Brusca e Rampulla.
Era seguito quindi un nuovo spostamento, nel pomeriggio, verso le 16-17, a Capaci, dove i presenti erano arrivati dopo 3/4 d’ora, a bordo di tre macchine: in particolare Bagarella e Gioè si erano mossi con la Renault Clio della sorella di Gioè; Di Matteo e La Barbera con la Jeep di quest’ultimo; Brusca e Rampulla sulla Y10.
E’ in quest’occasione che l’imputato aveva appreso che l’esplosivo doveva essere trasportato a Capaci. Il percorso effettuato si snodava da via del Fante e, attraverso lo scorrimento veloce fino a Sciacca, il gruppo si era diretto verso Palermo, ove aveva percorso il viale delle Scienze in direzione Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci.
Lì era già arrivato Brusca, che era partito un po’ prima per fare da battistrada, che aveva guidato il corteo ad un casolare dove l’imputato non era mai stato e che aveva appreso essere di Troia: si trattava di un casolare tipo capanna, circondato sia a destra che a sinistra da ville, sia pur non limitrofe, e c’era, secondo il ricordo del Di Matteo, una giumenta rinchiusa in un recinto, distante circa 300 metri dal luogo della strage.
Avevano parcheggiato le auto non vicino alla casa, ma dal lato del recinto, per evitare che potessero essere notate, solo la Jeep Patrol era entrata nel cortile per agevolare l’operazione di scarico. In occasione dello scaricamento dei bidoni Di Matteo aveva avuto modo di conoscere Troia, che ha descritto con una persona alta, di carnagione scura, con il viso grosso; aveva notato altresì un altro uomo che non conosceva, “bassino magro e bruttino“, che però era in confidenza con Troia, e a loro volta con Brusca e Bagarella.
Durante le operazioni di scarico, aveva notato che Gioè e Bagarella portavano dentro casa dei detonatori, che avevano in macchina, avvolti in un foglio di giornale: «Io questi detonatori li ho visti quando siamo arrivati là sul casolare… che li avevano nella macchina GIOE’ e BAGARELLA, avvolti in un foglio di giornale. e poi li hanno appoggiati sul tavolo. i fili sono… ce n’è gialli, rossi, verdi. sono met… specie di metallo. placati in argento, così. Per… come un bossolo, che le posso dire… di un Kalshinikov, così, però metallizzato, di un bossolo parliamo lungo venti, venticinque centimetri, non lo so. , i fili partivano da una sola parte ..ed erano collegati al detonatore. ..li abbiamo appoggiati sopra il tavolo. GIOE’ l’aveva appoggiati. Tanto è vero che gli ha detto che c’erano due signori là che io ho conosciuto, questa era la prima volta che li vedevo, ha detto: “state attenti perché se qualcuno ne casca salta tutto per aria”. .. sono di metallo, sono come bossoletti, come quelli su per giù del Kalashinicov, più grandetti, non lo so. E ogni bossoletto di questi ci ha messo un filo».
Finito di scaricare i bidoni Di Matteo era tornato ad Altofonte. A questo punto, per quanto riguarda Di Matteo, può dirsi esaurita quella parte della narrazione relativa a quanto era accaduto in Altofonte. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


TRAVESTITI DA POLIZIOTTI I MAFIOSI RAPISCONO IL PICCOLO GIUSEPPE DI MATTEO «Sei tu il figlio di Di Matteo? Siamo della protezione e dobbiamo portarti da tuo padre». Il ragazzino sa che suo padre da qualche giorno parla con la polizia. Non si stupisce che quegli uomini con le pistole lo portino via e lo facciano salire su una Fiat Croma con il lampeggiante. Ma quei poliziotti sono in realtà sei uomini di Giuseppe Graviano: Fifetto Cannella detto Castagna, Gaspare Spatuzza ‘U tignusu, Luigi Giacalone Barbanera, Salvatore Grigoli Il cacciatore, Cosimo Lo Nigro Bingo e Francesco Giuliano Olivetti .Il piano viene eseguito il 23 novembre 1993, guarda caso proprio il giorno in cui inizio a lavorare alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Sono passati dieci giorni dalla riunione di Misilmeri. È un martedì pomeriggio, giorno di maneggio.
Giuseppe è nella sua stanzetta. Fa le prove con la tastiera a fiato che sta imparando a suonare nell’ora di musica, a scuola. La madre lo chiama: «È ora!». Il ragazzino lascia lo strumento sul letto e si prepara per la lezione di equitazione. Non gli fanno mancare proprio niente. Da quando suo padre, poi, è stato arrestato, la madre e il nonno lo riempiono di coccole e di attenzioni. È sempre un po’ chiuso e taciturno, raramente sorride. Gli piace, però, andare a cavallo: è la sua passione. Gli hanno regalato un puledro, un bel sauro bruno che adesso è cresciuto e risponde a tutti i suoi comandi. Salta gli ostacoli come se avesse le ali.
Al galoppatoio lo conoscono tutti. Ha già vinto alcune gare e tantissimi premi: è il più piccolo ed è molto promettente. È la mascotte del maneggio di Villabate. Quel pomeriggio Giuseppe, anche se non ha ancora quattordici anni, esce di casa con il suo motorino e, finita la lezione, va a cambiarsi negli spogliatoi. Si è già tolto gli stivali, il caschetto e il completo da fantino. Si sta mettendo i pantaloni quando arrivano alcuni uomini armati. Hanno le pettorine con la scritta «polizia di Stato».
«Sei tu il figlio di Di Matteo? Siamo della protezione e dobbiamo portarti da tuo padre.»
«Me patri! Sangu’ mio» urla il ragazzino emozionato all’idea di incontrare suo padre, il suo stesso sangue. Sa che suo padre da qualche giorno parla con la polizia: ha sentito i discorsi della madre con il nonno e non si stupisce che quegli uomini con le pistole lo portino via e lo facciano salire su una Fiat Croma con il lampeggiante.
I poliziotti del Servizio centrale di protezione sono in realtà sei uomini di Giuseppe Graviano, di Madre natura, come lo chiamano i suoi «adulatori»: Fifetto Cannella detto Castagna, Gaspare Spatuzza ‘U tignusu, Luigi Giacalone Barbanera, Salvatore Grigoli Il cacciatore, Cosimo Lo Nigro Bingo e Francesco Giuliano Olivetti. Si sono tutti camuffati con barbe e parrucche finte e portano occhiali scuri.
Giuseppe non conosce nessuno di loro a eccezione, forse, di Fifetto Cannella che è un frequentatore del maneggio e che, proprio per questa ragione, è rimasto in macchina. La precauzione del travestimento è comunque necessaria anche per gli altri, per non farsi riconoscere da addetti e clienti della scuola di equitazione che si trova nel «loro» territorio. E poi che figura avrebbero fatto quegli uomini d’onore se qualcuno della zona li avesse riconosciuti con i giubbotti e su una macchina da sbirri?
I sei vanno a colpo sicuro. Non ci sono rischi. I gestori del maneggio sono, per loro, due persone affidabili: i fratelli Nicolò e Salvatore Vitale. Il primo morirà suicida qualche tempo dopo e il secondo è un uomo d’onore della famiglia della Roccella. Riuscirò poi a farlo condannare all’ergastolo per concorso nel sequestro.
Il ragazzino adesso è in mezzo a due di loro, sul sedile posteriore della Croma. Davanti, a fare da battistrada lungo la strada a scorrimento veloce per Agrigento, c’è un’anonima Fiat Uno con Barbanera e Bingo. Se c’è un posto di blocco daranno l’allarme alla macchina che li segue. E, per l’emergenza, hanno anche un kalashnikov, un Pocket coffee, come lo chiamavano sarcasticamente quei mafiosi che avevano difficoltà a pronunciarne il nome. Al fucile mitragliatore hanno anche fissato, con il nastro isolante, un secondo caricatore supplementare da quaranta colpi. Non si sa mai.
Giuseppe è ansioso di vedere il padre. I finti poliziotti che sono con lui, per tenerlo tranquillo, gli parlano della decisione del genitore di collaborare con la giustizia, della bella scelta che ha fatto. E Giuseppe condivide: «Sì, ha fatto proprio bene il mio papà». Non ha capito ancora nulla; e nulla capirà ancora per qualche ora.
Le due macchine escono al primo svincolo e, verso le sei di sera, giungono in un villino a Misilmeri dove li attende Salvatore Benigno, ‘U picciriddu. Fanno entrare il ragazzino in una stanzetta e gli dicono di stare lì buono buono ad aspettare che lo portino dal padre. Deve stare calmo e non deve preoccuparsi per quei passamontagna che adesso indossano tutti: «È una precauzione per noi della protezione. Nessuno ci deve riconoscere».
Passano due ore e Giuseppe è sempre lì, chiuso in quella stanza. È solo un po’ affamato ma è sereno e non vede l’ora di incontrare suo padre. Fuori Fifetto Cannella è impegnato al telefono. Qualcuno doveva venire a prendersi il ragazzino. Loro dovevano solo portarlo lì, a Misilmeri. Ma nessuno arriva. Adesso parla con il suo capo, con Giuseppe Graviano: «Dice iddu che non ne sapeva niente, che lo dovevamo tenere noi. Dice che iddu non è pronto. Ma non se lo doveva venire a pigliare? Che minchia me ne faccio io di ‘sto coso?». «Tu portaglielo che se la fotte iddu!» ordina senza indugio Graviano. Iddu è Giovanni Brusca. Si trova a Lascari, un paesino a pochi chilometri da Cefalù arrampicato su un costone di roccia a forma di schiena d’asino. È ospite di Samuele Schittino, il locale capo della famiglia mafiosa.

Salvatore Benigno non ha difficoltà a reperire immediatamente un Fiorino Fiat rubato. Gli uomini d’onore di Misilmeri sono noti per la loro organizzazione: un mezzo anonimo e capiente a disposizione per ogni evenienza non manca mai. Fifetto Cannella fa salire Giuseppe sul furgoncino: «Vieni che andiamo da tuo padre».

Nel cassone del Fiorino, con Giuseppe, entra solo Gaspare Spatuzza. Gli altri si tolgono il passamontagna e, tutti insieme, cominciano un nuovo viaggio. Il piccolo furgone, preceduto dalla Fiat Uno e seguito dalla Renault Clio di Benigno, imbocca

l’autostrada per Catania, esce allo svincolo di Buonfornello e prende la Ss 113 in direzione Messina. Il convoglio si ferma subito dopo. Ai margini della carreggiata c’è una piccola Peugeot con due uomini a bordo. Fifetto Cannella scende dalla Uno e sale sull’utilitaria francese che, adesso, fa strada. Ancora qualche chilometro di statale, un paio di stradine secondarie e, quindi, trazzere sterrate e polverose fino a una casa di campagna con un capannone, un magazzino di fianco.

Solo la Peugeot si avvicina alla casa. Il resto della colonna si ferma a un centinaio di metri. Fifetto Cannella salta giù dall’auto e si accosta a un uomo che gli viene incontro: è Giovanni Brusca. I due parlottano per qualche istante e Fifetto torna indietro verso le altre macchine, verso il furgone con il ragazzino.

Un passamontagna viene calato al rovescio sulla testa di Giuseppe con i buchi per gli occhi in corrispondenza della nuca. Due uomini lo fanno scendere con cura dal Fiorino e, tenendolo per mano, lo guidano fino al capannone. Lo fanno entrare e gli dicono di non togliersi il passamontagna e di aspettare; quindi tornano alle macchine. Solo a questo punto le due persone che erano a bordo della Peugeot escono dall’auto ed entrano nel magazzino.

La commedia adesso è finita. I due, appena entrati, legano Giuseppe con le mani dietro la schiena e assicurano la corda a una rastrelliera fissata nel muro. «Tuo padre è un pezzu di crastu ed è per questo che sei qui» dice uno di loro. Giuseppe adesso capisce la verità e scoppia a piangere. Capisce di essere caduto in una trappola. Una trappola per topi.

Giuseppe non lo sa, ma i due che lo hanno legato sono uomini di Giovanni Brusca: Benedetto Capizzi, uomo d’onore latitante di Villagrazia di Palermo, e quel Michelino Traina, factotum del capomafia di San Giuseppe Jato. Nessuno dell’altro gruppo, tranne Fifetto Cannella, li ha visti in faccia. Nessuno deve poter riconoscere nessuno. Brusca e Cannella sono i due garanti dell’operazione. Uno per parte. Sarà Salvatore Grigoli, quando deciderà di collaborare con la giustizia, a raccontarmi nei dettagli le prime fasi del sequestro e la sua ricostruzione mi è sembrata sostanzialmente corretta e conforme a quanto avevamo già accertato.

Graviano ha dunque messo Brusca con le spalle al muro. Il capomafia latitante non è assolutamente pronto a gestire la custodia del piccolo Di Matteo. Non ha predisposto nulla, non ha un luogo dove tenerlo, non ha alcuno che possa fargli da vivandiere e da custode.

Il boss di San Giuseppe Jato cercherà di giustificare la sua impreparazione sostenendo che, secondo gli accordi presi nel corso della riunione alla fabbrica di calce, Giuseppe Graviano doveva eseguire il sequestro e gestire tutta l’operazione. Gli uomini di Brancaccio avrebbero dovuto utilizzare per la custodia del ragazzino un bunker nella zona di Misilmeri che era stato preparato un anno prima per il sequestro a scopo di estorsione di Antonio Ardizzone, editore del «Giornale di Sicilia», progetto per fortuna mai portato a termine.

Graviano, però, una volta eseguito materialmente il rapimento, si sarebbe reso conto di non essere in grado di custodire l’ostaggio e glielo aveva portato fino a Lascari.

BRUSCA CON LE “SPALLE AL MURO”  Non ho mai creduto a Brusca su questo punto. La sua versione del fatto era illogica e, oggettivamente, poco plausibile. Mi sono convinto che la verità fosse totalmente diversa: Giuseppe Graviano, quasi certamente d’intesa con Bagarella e Messina Denaro, voleva mettere il boss di San Giuseppe Jato di fronte al fatto compiuto per fargli, finalmente, assumere le sue responsabilità di fronte a tutta Cosa nostra.

Non so se veramente Graviano, nella riunione di Misilmeri, si fosse preso l’onere del rapimento – cosa effettivamente probabile secondo le dinamiche mafiose, dato che il territorio dove eseguire il delitto era di sua competenza – o se dovesse, invece, provvedervi direttamente Brusca con i suoi uomini. Sono però sicuro che, in un caso o nell’altro, la custodia del ragazzino dovesse essere, fin dall’inizio, assicurata dal boss di San Giuseppe Jato. Com’era naturale e logico che fosse.

Conseguentemente solo a Brusca spettava il compito di dare il via alle operazioni. Solo lui poteva dire a Graviano quando era pronto per ricevere il ragazzino. Ma Madre natura conosce bene «i suoi polli». Sa perfettamente che Brusca, per sua indole, è solito temporeggiare come ha già fatto quando si è trattato di ammazzare Di Maggio. Sa che Brusca, dopo la strage di Capaci, si è un po’ defilato: più o meno volontariamente non ha partecipato alla strage di via d’Amelio e si è tenuto lontano da quelle del 1993 di Firenze, Roma e Milano. Giuseppe Graviano sa, soprattutto, che Brusca ha preso quella decisione suo malgrado, perché costretto dagli eventi e che, forse, non ne vuole proprio sapere di uccidere il piccolo Di Matteo, come, inevitabilmente, dovrà fare. Prima o poi.

Allora rompe gli indugi e manda i suoi uomini a rapire il ragazzino e, visto che Brusca non se lo viene a prendere, glielo fa consegnare a domicilio. Giovanni Brusca non può confermare quella verità, verità che emerge inequivocabilmente dalle dinamiche del rapimento. Nemmeno con noi, nemmeno da collaboratore di giustizia. Collaboratore sì, ma pur sempre mafioso e orgoglioso. Geneticamente, fino al midollo. Avrebbe fatto una figuraccia. Avrebbe dovuto ammettere di esser venuto meno ai suoi «doveri» di capomafia e, soprattutto, avrebbe dovuto riconoscere che «contava» meno di Giuseppe Graviano e che i suoi «colleghi» della Commissione di Cosa nostra lo consideravano un pusillanime, un irresponsabile, uno che lasciava prevalere sentimenti personali sull’interesse generale dell’associazione.

La prima notte, quella del 23 novembre, Giuseppe la passa in quel capannone a Lascari. Dopo un paio d’ore lo slegano e gli tolgono il passamontagna. Soltanto l’indomani, però, si ricordano che è un ragazzino e che deve mangiare, così gli procurano un paio di panini. Il posto, però, non è idoneo a tenere un ostaggio. Non c’è un bagno e le aperture del magazzino non danno sicurezza: bisogna sorvegliarlo quasi a vista.

Anche in Cosa nostra, non si può chiedere a chiunque il favore di custodire una persona rapita. A dare una mano a Brusca ci pensa il dottor Antonio Di Caro, laureato in Agraria e capomafia di Canicattì, popolosa cittadina dell’Agrigentino, che si offre di occuparsi del piccolo Giuseppe. In quel momento Di Caro è molto amico di Giovanni. Lo sarà certamente molto meno qualche tempo dopo, quando il boss di San Giuseppe Jato lo attirerà in una trappola, lo farà strangolare e ne farà dissolvere il cadavere nell’acido. Nella vita, si sa, i rapporti personali si evolvono nel tempo! Due giorni dopo, l’agronomo di Canicattì va a prendersi Giuseppe. L’appuntamento è fissato allo svincolo di Ponte Cinque Archi, lungo l’autostrada Palermo-Catania. Lo scambio dell’ostaggio avviene tra uomini incappucciati che si tengono a distanza. La regola è sempre la stessa: nessuno deve conoscere nessuno. Il piccolo Giuseppe, legato e imbavagliato, viene messo nel cofano di una macchina e portato via.

Sarà custodito per otto o nove mesi dagli uomini d’onore della provincia di Agrigento che lo spostano da un covo a un altro. Mesi di celle umide, pareti scrostate, latrine improvvisate, giacigli sporchi e puzzolenti. Mesi di corde, catene, cappucci. Di giorno qualcuno, con il viso coperto dal passamontagna, gli porta da mangiare. Non lo tengono digiuno, ma gli danno sempre le stesse cose, pizza fredda e panini.

I CONTATTI CON IL NONNO PATERNO   Panini e pizza. Ogni tanto gli fanno una foto, un filmino o gli fanno scrivere sotto dettatura qualche biglietto. Fanno avere tutto a Giovanni Brusca: messaggi da mandare ai familiari. Fin dalle prime ore dal sequestro, infatti, Brusca si fa vivo con il nonno di Giuseppe, il padre di Santino. Il primo messaggio lo fa consegnare nella stessa nottata. Un biglietto sotto la porta di casa dei Di Matteo, ad Altofonte: «Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie. Non avvisare i carabinieri». Il 1° dicembre 1993, una settimana dopo, un altro avvertimento dello stesso tenore, sempre diretto al nonno: «Tappaci la bocca». Con il biglietto vengono anche recapitate due polaroid del ragazzino che tiene in mano un quotidiano del 29 novembre.

E noi ancora non sappiamo niente; e niente sa ancora il padre di Giuseppe che continua regolarmente a raccontarci fatti di mafia nel corso di vari interrogatori. Però Santino è un po’ preoccupato: sono giorni che non sente la voce del figlio al telefono e capisce che c’è qualcosa che non va. La moglie non gli vuole parlare. Si è dissociata pubblicamente dalla scelta di quell’infame di suo marito.

Santino chiede aiuto alla Dia, che convoca la signora e la fa incontrare con lui. Messa alle strette, la donna confida a Santino la terribile verità e, quindi, non può far altro che sporgere la denuncia. Ma è già il 14 dicembre e sono passate tre settimane esatte dal sequestro.

I miei colleghi che, con Gian Carlo Caselli, seguono quelle prime indagini, non possono che partire dal maneggio, dai fratelli Vitale e dalle loro omissioni, reticenze e bugie. A cominciare dalla frottola raccontata alla madre del ragazzino cui avevano detto che, nel pomeriggio del 23 novembre, il figlio, dopo la cavalcata, si era allontanato con il suo motorino, motorino che, invece, qualcuno di loro si era occupato di portare via dal galoppatoio dopo il rapimento.

Prima il gip e poi anche il Tribunale della libertà rigetteranno le richieste di arresto per i fratelli Nicolò e Salvatore Vitale. Solo la Cassazione accoglierà il ricorso della procura di Palermo e disporrà il carcere per Salvatore Vitale (il fratello si era nel frattempo tolto la vita). Questo accadrà però l’8 marzo 1996, due anni e quattro mesi dopo il sequestro e, soprattutto, due mesi dopo l’omicidio del piccolo Giuseppe.

Tutti abbiamo capito che il rapimento è da ricondurre a Giovanni Brusca, ma più che intensificare le ricerche del latitante non possiamo fare. La grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


IL SEQUESTRO DEL BAMBINO, I SILENZI, LE FAIDE FRA I GRANDI BOSS I familiari del piccolo Di Matteo fin dall’inizio scelgono decisamente la via mafiosa e, persino cinque anni dopo, nel corso del processo in cui si costituiranno parte civile, manterranno un atteggiamento omertoso e reticente. Un comportamento così fastidioso da indurre spesso Alfonso Sabella e il collega Peppe Salvo a non porre loro domande e a pensare, addirittura, di chiedere la trasmissione degli atti per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza e favoreggiamento

La collaborazione dei Di Matteo, Santino compreso, è praticamente nulla. Si viene solo genericamente a conoscenza di qualche altro biglietto e messaggio dei rapitori, ma sempre per sommi capi e sempre a distanza di giorni dalla consegna.

Il destinatario dei messaggi è solo il nonno del ragazzino, Giuseppe Di Matteo senior chiamato Piddu, anche lui uomo d’onore di Altofonte. L’emissario di Brusca è un altro soldato della stessa famiglia, un certo Pietro Romeo, solo omonimo del rapinatore di Brancaccio.

Romeo è il personaggio giusto per mantenere i contatti. È un uomo d’onore, è legato a Giovanni Brusca ed è sufficientemente amico di Santino Di Matteo che, infatti, lo aveva «scansato» dalle sue dichiarazioni accusatorie e non lo aveva indicato tra i mafiosi di Altofonte; soprattutto Santino mezzanasca non aveva raccontato che proprio a casa di Romeo era stato occultato l’esplosivo utilizzato a Capaci la sera prima che lo collocassero sotto l’autostrada.

Nessuno dei Di Matteo ci ha mai parlato di Romeo, di cui apprenderemo l’esistenza solo a fine 1996, dopo la collaborazione di Brusca. Non faremo nemmeno in tempo ad arrestarlo perché, mentre stiamo raccogliendo i necessari riscontri, Romeo scompare misteriosamente, vittima di lupara bianca. Il periodo è proprio quello in cui, come accerteremo solo nel settembre del 1997, Santino Di Matteo, insieme a Di Maggio e La Barbera, è tornato in Sicilia a commettere delitti. Inutile dire che ho sempre sospettato di lui come responsabile della scomparsa di Romeo, ma, a quel punto, all’inizio del 1998, non seguo più le indagini sul mandamento di San Giuseppe Jato.

Senza nemmeno un nome su cui lavorare, le ricerche di Dia, polizia e carabinieri non portano a risultati concreti e del resto, anche se avessimo ottenuto l’arresto dei fratelli Vitale, ben poco avremmo potuto fare per individuare la prigione del piccolo Giuseppe.

I suoi familiari, peraltro, fin dall’inizio scelgono decisamente la via mafiosa e, persino cinque anni dopo, nel corso del processo in cui si costituiranno parte civile, manterranno un atteggiamento omertoso e reticente. Un comportamento così fastidioso da indurre spesso me e il mio collega e amico Peppe Salvo, che mi stava dando una mano nella gestione di quel dibattimento, a non porre loro domande e a pensare, addirittura, di chiedere la trasmissione degli atti per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza e favoreggiamento. A vantaggio degli assassini del loro figlio o nipote.

Il nonno del ragazzino riesce a contattare, tramite Benedetto Spera, capomandamento latitante di Belmonte Mezzagno, lo stesso Bernardo Provenzano chiedendogli di intercedere presso Bagarella e Brusca per ottenere il rilascio di Giuseppe: la richiesta del vecchio capomafia di Corleone, ovviamente, cade nel vuoto.

Dal canto suo Santino Di Matteo la bocca «se l’è tappata». Per alcuni mesi si rifiuta di rendere interrogatori e di partecipare ai processi. All’improvviso, addirittura, sparisce misteriosamente dalla località segreta dov’era sotto protezione allo scopo di provare a rintracciare il ragazzino. Ma è tutto inutile, Giuseppe, come era prevedibile, malgrado il «silenzio» del padre non viene rilasciato.

Santino, però, è più tranquillo e torna persino a deporre nelle aule di giustizia. Ha capito che il figlio è in mano a Giovanni Brusca e conta sul fatto che il boss di San Giuseppe Jato, che conosce bene il bambino, non avrà il coraggio di torcergli un capello. Ma purtroppo si sbaglia.

TRASFERITO PIÙ VOLTE TRA AGRIGENTO, TRAPANI E PALERMO Dopo la lunga parentesi agrigentina il piccolo Di Matteo, alla fine del periodo estivo del 1994, viene riconsegnato dal dottore di Canicattì a Brusca che adesso ha un luogo dove tenere prigioniero Giuseppe.

Lo scambio avviene sempre allo svincolo di Ponte Cinque Archi e sempre tra uomini con il passamontagna. Il ragazzino è nel cofano di una station wagon, legato e incappucciato, come al solito. Insieme a Brusca stavolta, c’è Giuseppe Monticciolo che, da quel momento in poi, si occuperà della gestione dell’ostaggio.

Giuseppe Di Matteo viene condotto in una masseria nelle campagne di Gangi, un suggestivo borgo madonita a più di mille metri sul livello del mare, e, per qualche ora, assicurato a un anello di ferro infisso nel muro.

La masseria è di Cataldo Franco, un uomo d’onore del posto, che, da qualche anno, l’ha adibita a deposito di olive. In quella specie di palmento Monticciolo aveva già fatto realizzare un bagno e una doccia e aveva fatto murare nel pavimento i piedi di una vecchia branda. Giuseppe resta nelle Madonie per qualche mese, fino a ottobre quando ‘U zu Cataldu, giustamente, ha necessità del locale perché deve cominciare la raccolta delle olive.

Brusca è ancora una volta in difficoltà. Si lamenta di essere stato lasciato solo a gestire il sequestro. Non ha tutti i torti e Matteo Messina Denaro lo autorizza a rivolgersi agli uomini d’onore del Trapanese, il suo territorio.

Da Gangi, Giuseppe viene così portato in una villetta a Castellammare del Golfo e rinchiuso in un bagno dove c’è appena lo spazio per appoggiare a terra un materasso. Nella porta gli uomini d’onore hanno realizzato uno sportellino in basso. Come una gattaiola. E da lì gli passano il cibo.

Tra i carcerieri che si alternano in quel periodo ci sono un paio di latitanti che avevano frequentato la casa dei Di Matteo. Temono che Giuseppe possa riconoscere le loro voci e per questo non gli parlano mai e comunicano con il piccolo ostaggio solo per mezzo di bigliettini scritti. Anche questi passati dalla gattaiola. Peppe Ferro, capofamiglia di Castellammare, viene però a conoscenza del fatto che Giuseppe è nella sua zona e va su tutte le furie. Non ne vuole sapere niente di quella storia: il ragazzino va portato via di là.

Sono molti in Cosa nostra a non approvare quell’operazione. Lo stesso Cataldo Franco si era messo a disposizione di Brusca solo a titolo personale e non aveva nemmeno avvisato, violando le regole dell’associazione mafiosa, Mico Farinella, reggente del suo mandamento: il padre Peppino sicuramente non sarebbe stato d’accordo.

Monticciolo è costretto allora a portar via l’ostaggio da Castellammare. Alla vigilia di Natale del 1994, Giuseppe, come un pacco postale, viene «appoggiato», per pochi giorni, nella casa di contrada Giambascio, a San Giuseppe Jato, dove non è stato ancora costruito il bunker sotterraneo. Dopo le feste il ragazzino viene trasferito ancora. Sempre legato e incappucciato. Sempre trasportato nel cofano di una macchina. Peggio di un cane.

Fino a Pasqua del 1995 il figlio di Mezzanasca viene tenuto nel magazzino di un limoneto, a Campobello di Mazara. Un locale zeppo di casse, con una stanzetta e un séparé dove è stata ricavata una sorta di latrina.

In zona c’è un certo movimento di sbirri. E allora un’altra corda, un altro cappuccio, un altro cofano di macchina, un altro calvario. Fino a Custonaci, alle pendici di monte Erice, in una contrada denominata Purgatorio. Ma che peccati aveva da espiare il piccolo Giuseppe?

Lo spostano sempre durante le feste, quando i posti di blocco sono più rari. L’ennesimo trasferimento del ragazzino avviene il 14 agosto, alla vigilia dell’Assunta. È il suo ultimo viaggio. Giuseppe viene riportato a Giambascio dove, ormai, i solerti uomini di Giovanni Brusca hanno finito di realizzare il bunker sotterraneo con l’ascensore, la piattaforma «magica».

Il ragazzino è ormai una sorta di larva umana. Ha perso peso e forze. Non ha mai più visto la luce del sole. Non ha più respirato all’aria aperta. Nemmeno per un istante. Non oppone più alcuna resistenza. Da mesi si lascia trasportare da un posto all’altro. Si lascia legare e slegare i polsi. Si lascia incappucciare e agganciare alla catena. La grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


I tormenti del pentito Santino Di Matteo Anche la tormentata vicenda relativa alla collaborazione di Mario Santo Di Matteo, avviata ad ottobre 1993 e seguita, a stretto giro, dal sequestro del figlio Giuseppe Di Matteo, rapito il 23 novembre 1993, in un maneggio di Piana degli Albanesi, da un gruppo di mafiosi, travestiti da poliziotti della DIA, facendo credere al ragazzino di poter rivedere il padre (che, in quel periodo, era sotto protezione, lontano dalla Sicilia), contribuisce ulteriormente a rendere il quadro complessivo, se possibile, ancor più inquietante.
Infatti, il collaboratore di giustizia, a fine ottobre 1993, rendeva dichiarazioni sulla strage di Capaci e preannunciava agli inquirenti della Procura della Repubblica di Caltanissetta (all’epoca, come è noto, diretta da Giovanni Tinebra) di averne anche sulla strage di via D’Amelio.
Poche settimane dopo (come detto), il figlio del collaboratore di giustizia veniva rapito e pervenivano, a casa del padre di Mario Santo Di Matteo, alcuni messaggi minatori, come uno (il 1° dicembre 1993) con la fotografia del ragazzino con i giornali di fine novembre e la scritta “tappaci la bocca” ed un altro (il 14 dicembre 1993) dove si leggeva: “Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie”. Il collegamento fra il rapimento del figlio del collaboratore di giustizia e le sue conoscenze (specifiche) sulla strage di via D’Amelio (mai completamente disvelate), emergeva con lampante evidenza proprio nel corso di un colloquio del giorno 14 dicembre 1993, fra il medesimo Mario Santo Di Matteo e sua moglie Francesca Castellese, oggetto di intercettazione ambientale presso i locali della DIA, nel corso del quale si parlava di ‘‘infiltrati” nella strage del 19 luglio 1992, con la donna che invitava il marito a “ritrattare” ed a non ricordarsi più della strage di Borsellino.   Cosa VOSTRA


QUELLA MISTERIOSA CONVERSAZIONE TRA SANTINO DI MATTEO E SUA MOGLIE – borsellino quaterIl collegamento fra il rapimento del figlio del collaboratore di giustizia e le sue conoscenze sui fatti di via D’Amelio, mai completamente disvelati, emergeva nel corso di un colloquio del 14 dicembre 1993. Francesca Castellese, sua moglie, invitava il marito a “ritrattare” e a non ricordarsi più della strage Borsellino Anche la tormentata vicenda relativa alla collaborazione di Mario Santo Di Matteo, avviata ad ottobre 1993 e seguita, a stretto giro, dal sequestro del figlio Giuseppe Di Matteo, rapito il 23 novembre 1993, in un maneggio di Piana degli Albanesi, da un gruppo di mafiosi, travestiti da poliziotti della DIA, facendo credere al ragazzino di poter rivedere il padre (che, in quel periodo, era sotto protezione, lontano dalla Sicilia), contribuisce ulteriormente a rendere il quadro complessivo, se possibile, ancor più inquietante. Infatti, il collaboratore di giustizia, a fine ottobre 1993, rendeva dichiarazioni sulla strage di Capaci e preannunciava agli inquirenti della Procura della Repubblica di Caltanissetta (all’epoca, come è noto, diretta da Giovanni Tinebra) di averne anche sulla strage di via D’Amelio. Poche settimane dopo (come detto), il figlio del collaboratore di giustizia veniva rapito e pervenivano, a casa del padre di Mario Santo Di Matteo, alcuni messaggi minatori, come uno (il 1° dicembre 1993) con la fotografia del ragazzino con i giornali di fine novembre e la scritta “tappaci la bocca” ed un altro (il 14 dicembre 1993) dove si leggeva: “Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie”. Il collegamento fra il rapimento del figlio del collaboratore di giustizia e le sue conoscenze (specifiche) sulla strage di via D’Amelio (mai completamente disvelate), emergeva con lampante evidenza proprio nel corso di un colloquio del giorno 14 dicembre 1993, fra il medesimo Mario Santo Di Matteo e sua moglie Francesca Castellese, oggetto di intercettazione ambientale presso i locali della DIA, nel corso del quale si parlava di ‘‘infiltrati” nella strage del 19 luglio 1992, con la donna che invitava il marito a “ritrattare” ed a non ricordarsi più della strage di Borsellino. Il testo del colloquio è di seguito trascritto:

  • D = Donna
  • U = Uomo
  • […]
  • Le voci sono basse e coperte da fruscio. Spesso parlano sottovoce.
  • U = (?) perche’ noi dobbiamo prendere le persone che hai contattato.
  • D = No (?)
  • U = (?) hama capiri cu e’, cu nun e’.
  • Incomprensibile.
  • U = Tu mi devi dire come era combinato, buttana della Madonna. Ti l’ha fari diri, io (?)
  • D = (?) 1,65 (?) (66, 67, 68) ..
  • U = Uhm.
  • D = ? ) tu ritratta (?)
  • Incomprensibile.
  • U = Tu mi devi dire perche’.
  • D= Ah?
  • U = Perche’?
  • D = Pirchi’? (?)
  • Incomprensibile. Voci basse che rimbombano.
  • U = (?) senti, pirchi’ chiddu ti vinni a diri (?)
  • D = (?)
  • U = Cu e’ chiddu ca vinni? Cu e’ chiddu ca vinni ha diri.
  • D = Ti l’haiu dittu, Sa’.
  • U = Insomma, io t’haiu dittu a tia: “Franca, dicci a me’ patri ca (?)” e tu nun ci cridi. (?) Gesu’Bambino. (?) di pigliari `u picciriddu (?) tu dici Giovanni BRUSCA, BAGARELLA, avete fatto la chiave di cioccolata e poi non l’arrestano.
  • Incomprensibile.
  • D = L’ha finiri, la devi smettere (?) e non ti guardo piu’ (?)
  • U = (?) aspetta e statti calma.
  • D = A me’ figliu mi l’hata dari (?)
  • U = Pero’ mi devi dire (?) Franca pigliati ‘i cosi (?) e poi sapemu cumu hama cuminciari.
  • D = ‘I cosi chisti sunnu, Sa’; ‘i cosi sunnu chisti.
  • U = Uhm, nuatri `u sapemu soccu hama fari (?)
  • Incomprensibile.
  • U = Va’ camina! Cu si l’avia a pigliari di dintra! Au paisi nun ci vinivano pirchi’ ci sunu ‘i sbirri (?)
  • U = Io lu sacciu cu c’e’ dda (?) (hanna) arrestari a (Ciro), chiddu cu i cavaddi.
  • D = No, nun c’e’ cchiu’ al (lido) albanese; nun e’ cchiu’ al (lido) albanese (=) `u picciriddu dda si ni iu, a .., a cosa … aspe’ (?)
  • U = (?) ma cumu fannu? (?)
  • D = A Villabate, ma chistu iddu fu ca … e’ stato lui, e’ stato lui.
  • U = (?)
  • D = Io? Io no.
  • U = tutti `sti cosi nun e’ ca ci vidu chiaru. Ora mi l’haia ghiri a circari iu a me’ figliu. Mi dispiaci, ci lu po’ diri a me’ (matri)
  • D = No, Sa’ (?)
  • Incomprensibile.
  • […]
  • D = Ah, `u picciriddu ava essiri vivu prima.
  • U = Si, ma `u picciriddu va cercalu, nsa’ urani minchia si ni i’, spiri’ (?) diccillu a me’ patri: “E’ inutili, a to’ figliu nun ci lu leva nuddu di `ntesta”.
  • Incomprensibile.
  • D = (?) no ca iddu, cioe’ io se tu (?) tappaci la bocca. Che significa “tappaci la bocca”? Tu lo sai? (?)
  • Incomprensibile. La donna parla singhiozzando.
  • […]
  • D = (?) tu a to’ figliu accussi’ l’ha fari nesciri, si fa questo discorso.
  • U = Ma che discorso? Ma che fa (?)
  • D = (?) parlare della mafia (?)
  • U = Ah, nun ha caputu un cazzu!
  • D = Come “nun ha caputu un cazzu?”
  • Parlano sottovoce.
  • D = Oh, senti a mia, qualcuno e’ infiltrato (?) per conto della mafia.
  • U = (?)
  • D = Aspe’, fammi parlare (?)
  • Incomprensibile.
  • D = (?) tu questo stai facendo, pirchi’ tu ha pinsari alla strage di BORSELLINO, a BORSELLINO c’e’ stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)
  • U = (?)
  • D = Io chistu ti dico, io questo ti dico.
  • D = Forse non hai capito (?)
  • D = (?)
  • U = (?) tu fa’ finta, ora parlamu cu
  • D = Io haia fari finta, io quannu (?) cu papa’ (?) ci dissi ca dda vota vinni ni ti’ (?) capito (?) parlare cu to’ figlio (?)
  • Parlano sottovoce e velocemente. Incomprensibile.
  • U = No, tu dici se `u sannu , lu sta dicinni tu …
  • D = (?) capire se c’e’ qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti (?)
  • U = Cu?
  • D = (?) mi devi aiutare su tutti i punti di vista (?) pirchi’ io mi scantu, mi scantu.
  • U = (?) intanto pensa a to’ (figliu).
  • La donna piange.
  • D = Pirchi’ tu certi voti quannu parlo .
  • U = Mi la fai vidiri la fotografia (?) i fotografie (?) ‘i fotografie nun li puzzu taliari.
  • Incomprensibile.
  • D = Si cummoglianu ‘i cosi, Sa’ (?) capisci? (?) ma cca (?) Ah?
  • U = Cchi ni sacciu! (?)
  • Le voci si fanno piu’ lontane. Incomprensibile.
  • D = (?) `u Signuri mi deve aiutare, mi deve proprio aiutare, m’avissi cuntintatu di moriri, no tutti `sti disgrazie …
  • La donna piange. Incomprensibile.
  • […]
  • D = Pero’, Sa’, `u discursu e’ chistu, nuantri hamma fari (?)
  • Incomprensibile. Parlano a bassa voce.
  • U = (?) iddu mi dissi, dice, to’ muglieri (?) suo marito ava ritrattari (?)
  • Incomprensibile.
  • U = (?) iddu, BAGARELLA e Toto’ (?) sanno pure che c’hanno (?)
  • Incomprensibile.
  • […]
  • U = (?) il bambino non torna piu’, pero’ fara’ piu’ danno da morto che da vivo (?) iddu `u sapiva.
  • Incomprensibile.
  • U = Senza nessun motivo mi staiu innu a livari la dignita’.
  • Incomprensibile.
  • U = Chi ce l’ha mandato? Chi e’ che ce l’e’ andato a scrivere, cu ci lu purto’?
  • D = Ah? (?)
  • U = (?) ce l’ha fatto scrivere tuo suocero a `stu bambino.
  • D = No, no, perche’ tuo padre non voleva.
  • U = E allora perche’ sta storia che il bambino l’ha fatto scrivere …
  • D = La storia … ti la dicu io, il bambino (?) `u canusci a.
  • Incomprensibile.

IL PM GOZZO INTERROGA DI MATTEO MA NON OTTIENE CHIARIMENTI  […] Si reputa utile, a questo punto, riportare uno stralcio dell’esame dibattimentale di Mario Santo Di Matteo, con il Pubblico Ministero che cercava di spronarlo a rivelare tutto quanto a sua conoscenza sulla strage del 19 luglio 1992, anche dando lettura della trascrizione della predetta conversazione: […]

  • P.M. GOZZO – Lei si limiti a rispondere alle domande. Facciamo quindi un passo indietro. Lei ha detto lei ha perso un foglio, ed è vero ed è una cosa che qualunque padre comprende profondamente. Dico, ma lei ha detto di avere iniziato a collaborare nell’Ottobre del ’93.
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Sì.
  • P.M. GOZZO – Suo figlio viene rapito il 23 novembre del ’93, giusto?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Sì.
  • P.M. GOZZO – Aveva 12 anni?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Sì, 12 anni.
  • P.M. GOZZO – Cosa avete fatto lei, sua moglie, suo padre, dopo la sparizione di suo figlio?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Come che cosa abbiamo fatto?
  • P.M. GOZZO – Avete cercato?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Abbiamo cercato, l’hanno cercato le Forze dell’ordine il bambino. Come no, non abbiamo cercato?!
  • P.M. GOZZO – Avete ricevuto un messaggio?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Sì, ci hanno mandato un messaggio col bambino e mi ricordo con una foto “attoppaci la bocca” in siciliano, fallo stare zitto.
  • P.M. GOZZO – “Tappaci la bocca”.
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Tappaci la bocca, esatto.
  • P.M. GOZZO – 1 dicembre del 1993. Che conteneva anche due foto di suo figlio con i giornali del 29 novembre, se lo ricorda questo?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Sì, sì.
  • P.M. GOZZO – Mi dispiace ricordarle queste cose spiacevoli ma purtroppo fanno parte anche di questo processo. Lei poi ha ricevuto altri messaggi?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Il messaggio mio era questo, cioè le foto che avevano mandato loro “attappaci la bocca” per fare stare zitto a me. Quando me l’hanno detto gli inquirenti, mi hanno portato le foto, ci dissi: “Non è che… Se hanno rapito il bambino è inutile che io mi attappo la bocca, anzi andiamo avanti perché è tutto perso (pare dica), che quando una persona viene sequestrato, un bambino o un adulto, non torna più indietro. Cioè è tutta una falsa”. Infatti io sono andato sempre avanti, ho fatto il processo…
  • P.M. GOZZO – Sì, questo l’ho capito. Ma ricorda che ha ricevuto, che suo padre ricevette un altro messaggio?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Guardi, io in questo momento non mi ricordo.
  • P.M. GOZZO – Allora, il 14 dicembre dello stesso anno, questo glielo dico io, del ’93 suo padre riceve un altro messaggio: “Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie”, tuo figlio sarebbe lei.
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Sì, sì, questo è vero.
  • P.M. GOZZO – Se lo ricorda?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Sì, sì, questo sì.
  • P.M. GOZZO – Ecco. Proprio il 14 dicembre del ’93 lo stesso giorno viene intercettato un colloquio tra lei e sua moglie Castellese Francesca presso i locali della Dia. 14 dicembre del 1993. E voi parlate di tutte queste cose. Lo ricorda?
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Guardi, io… Cioè questa cosa, questa dichiarazione da un po’ di anni che dicono sempre questa storia ma guardi che io non c’ho avuto… Cioè, un colloquio con mia moglie l’abbiamo avuto nel senso di salutarci come stai, come non stai, tutte queste cose, perché mi davano l’autorizzazione di parlare con mia moglie la sera. Ma non è che… Che potevamo dire per telefono? Il bambino, cioè parlavamo del bam…
  • P.M. GOZZO – No, no, no, questo è un colloquio di presenza.
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Di presenza?
  • P.M. GOZZO – Registrato.
  • PRESIDENTE – Se non abbiamo capito male di un colloquio fra presenti fatto presso la sede della Dia.
  • P.M. GOZZO – Alla Dia.
  • COLLABORANTE DI MATTEO – Sì, sì. Sì, l’abbiamo avuto questo, quando all’inizio sì era sparito il bambino sì, come no.
  • P.M. GOZZO – Guardi, siccome è acquisito agli atti io gliene posso dare lettura. Sua moglie le dice: «Tu a tò figliu accussì l’ha fari nesciri, si fa questo discorso» e lei dice: «Ma che discorso? Ma che fa?» E sua moglie: «Parlare della Mafia» e lei: «Nun ha caputu un cazzo» chiedo scusa Presidente ma leggo – e sua moglie: «Come nun ha caputu un cazzo?» – parlano sottovoce – «Oh, senti a mia – dice sua moglie – qualcuno è infiltrato per conto della Mafia» e sempre continua sua moglie: «Aspe’, fammi parlare – perché lei forse aveva tentato di interromperla – tu questo stai facendo, pirchì tu nun ha pinsari alla strage di Borsellino. A Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso. Io chistu ti dicu…, forse non hai capito. Tu fa finta, ora parramu». E più avanti: «Bisogna capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella Mafia» e poi lei dice: «Iddu mi dissi, dice, tò muglieri suo marito ava a ritrattari. Iddu, Bagarella e Totò sanno pure che c’hanno…»

Sebbene l’esame di Mario Santo Di Matteo non abbia apportato i chiarimenti sperati in ordine a detto tassello, molto oscuro e problematico della vicenda, rimane il dato oggettivo che il collaboratore di giustizia e la moglie, in costanza del sequestro del loro figlio di 12 anni, parlavano di una ritrattazione del primo, non generica (cioè riferita all’intera collaborazione), bensì specificatamente riferita alla strage di Borsellino («pirchì tu nun ha pinsari alla strage di Borsellino»), nella quale qualcuno operava come “infiltrato”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 13 luglio 2021


Brusca libero, Santino Di Matteo: «Sciolse mio figlio nell’acido, se lo trovo per strada non so che succede»

Il pentito di mafia parla dopo la liberazione dell’ex boss che gli uccise il figlio Giuseppe: «Non trovo le parole per spiegare l’amarezza, lo Stato si è fatto fregare. Ha strangolato anche una ragazza incinta, non appartiene all’umanità»

PALERMO Gliel’ha fatto sciogliere nell’acido suo figlio Giuseppe, 13 anni, la faccia di un bambino felice nella foto mentre cavalca al maneggio. E Santino Di Matteo, il pentito vittima dell’atroce vendetta, non può tollerare che lo Stato rimetta in libertà «questa feccia dell’umanità». Parla da una località segreta l’ex mafioso di Altofonte che Giovanni Brusca, con il fratello Enzo, per conto del padrino di un tempo, Totò Riina, voleva zittire. Nel peggiore dei modi. Sequestrando per quasi due anni quel ragazzino trasferito da casolare in casolare con una catena al collo fino a quando Brusca, vinto dalla resistenza di un padre deciso a collaborare con lo Stato, non diede l’ordine di fare sparire ogni traccia del piccolo aspirante fantino. È questa la storia che tormenta Santino Di Matteo, stanco di zompare da un tribunale all’altro: «Dopo trent’anni mi fanno ancora testimoniare ai processi. Io vado per dire quello che so. Ma a che cosa serve se poi lo stesso Stato si lascia fregare da un imbroglione, da un depistatore?».

Da collaboratore di giustizia, sostiene che la giustizia non funziona?
«Non trovo le parole per spiegare la mia amarezza. A chi devo dirlo? È passato meno di un anno da quando avevano liberato un carceriere di mio figlio, a Ganci, il paesino delle Madonie, uno dei posti del calvario. Ma la verità è che tutti i sorveglianti e gli aguzzini della mia creatura sono liberi. Tutti a casa. E ora va a casa pure il capo che organizzò e decise tutto. Lo stesso boia di Capaci. Si può dire boia? Lo posso dire io?».

La norma consente la liberazione. Diciamo che la legge è uguale per tutti…
«La legge non può essere uguale per questa gente. Brusca non merita niente. Oltre mio figlio, ha pure ucciso una ragazza incinta di 23 anni, Antonella Bonomo, dopo avere torturato il fidanzato. Strangolata, senza motivo, senza che sapesse niente di affari e cosacce loro. Questa gente non fa parte dell’umanità».

Dopo 29 anni qualche magistrato forse sostiene che può essere cambiato.
«Si fanno prendere per i fondelli. Suo ‘parrino’, Riina, è morto in carcere. E così doveva andare per Brusca. Tu hai fatto cose atroci. Statti tranquillo, dentro. Ti diamo qualcosa, ma non puoi uscire. Perché se esce, che giustizia è? Se lo dico io, forse vale poco, ma dovrebbero essere tanti a ribellarsi. Invece, so come finirà».

Come finirà?
«Giornali e Tv ne parleranno per due giorni, poi il silenzio trionferà e quel mascalzone si godrà la libertà. Ormai so come va l’Italia. E mi faccio il sangue amaro».

Era una notizia annunciata da tempo.
«Due anni fa il presidente della Cassazione bloccò tutto. Gli disse: stati dentro. E Tina Montinaro, la vedova del caposcorta di Falcone, tuonò che non doveva accadere. Come invece ora regolarmente accade. Che cavolo di Stato è questo?».

Che cosa si dimentica in questa storia?
«Si dimentica che ‘u verru, cioè il maiale, come chiamavano Brusca, conosceva Giuseppe, mio figlio, da bambino. Ci giocava insieme con la play station. Eppure l’ha fatto sciogliere nell’acido. E questo orrore si paga in vent’anni? Io non posso piangere nemmeno su una tomba e lui lo immagino pronto a farsi una passeggiata. Magari ad Altofonte. O in un caffè davanti al Teatro Massimo di Palermo. Mi auguro di non incontrarlo mai, come chiedo al Signore. Se dovesse succedere, non so che cosa potrebbe accadere».

31 maggio 2021  CORRIERE DELLA SERA