STIDDA, la quinta mafia

 

 
Territorio Agrigento , Caltanissetta , Gela , Vittoria , Niscemi
Attività criminali Racket
frode
gioco d’azzardo
estorsioni
omicidio
Alleati ‘Ndrangheta
Camorra

 

La Stidda ( pronunciato  [stiɖːa] ; siciliano per ‘ ‘ stella ”) è una mafia di tipo organizzazione criminale centrato nella parte centro-meridionale della Sicilia in Italia . I membri sono noti come stiddari o stiddaroli . È più attivo nelle zone rurali della Sicilia meridionale ed è in parte rivale di Cosa Nostra . Alcuni membri hanno una stella tatuata sui loro corpi. [1] Poco si sa delle origini dell’organizzazione, anche se si ritiene che sia avvenuta in modo simile alla mafia, nello stesso ambiente rurale della Sicilia. A differenza della mafia, però, la Stidda era per lo più rurale e di basso profilo fino agli anni ’80, quando divenne un po ‘più espansionistica e iniziò a trasferirsi nelle città, mettendo in competizione tra loro i due gruppi siciliani. Si differenzia dalla mafia per il fatto che non si basa su un sistema d’ onore ma è interessata solo alle attività criminali e ai conseguenti profitti. [1] La Stidda divenne pubblica quando nel 1989 ne parlò il pentito di Cosa Nostra Francesco Marino Mannoia . Successivamente un altro mafioso Leonardo Messina [2] disse la sua opinione. Secondo le loro testimonianze, Stidda è un’organizzazione fondata da ex membri di Cosa Nostra durante la seconda guerra di mafia dei primi anni ’80. Erano stati espulsi per disobbedienza o, in un paio di casi, anche per aver sposato un parente di un poliziotto. Molti degli stiddari originali erano seguaci del boss mafioso assassinato Giuseppe Di Cristina . [1] La Stidda era particolarmente forte nella Sicilia meridionale intorno ai comuni di Agrigento , Caltanissetta , Gela , Vittoria , Niscemi e altri minori. [1] I capi originali della Stidda erano Giuseppe Croce Benvenuto e Salvatore Calafato. Una bomba alla dinamite ha poi ucciso il boss di Stidda Calogero Lauria. Sono stati coinvolti in una guerra più diretta con la mafia nei primi anni ’90. La guerra feroce ha portato a oltre 300 morti. [3] Uno di questi era il giudice Rosario Livatino .

Stidda non è un’organizzazione rigida e molte bande (“clan”) operano in modo relativamente indipendente. Si alleano tra loro o addirittura con il capitolo locale di Cosa Nostra. Hanno rituali e regole simili. C’è anche un tatuaggio di appartenenza. I membri più anziani usano un ago e inchiostro nero e blu per scolpire una stella a cinque punte sulla mano destra dell’iniziato tra il pollice e l’indice. Questo tatuaggio è noto come stiddari .

 

  1. d Stille, Excellent Cadavers , p. 365.
  2. ^ (in italiano) Testimony of Leonardo MessinaArchiviato il 30 settembre 2007 in Internet dinanzi alla Commissione Antimafia .
  3. ^ Dickie, Cosa Nostra , p.

STIDDA – Voce siciliana (pron. ‹stìḍḍa›, con d retroflessa) corrispondente all’ital. stella, e con i sign. di questa. Con sign. specifico, denominazione assunta da un’organizzazione mafiosa della Sicilia occidentale e meridionale, derivata dalla mafia, ma per lo più in contrasto o in netta opposizione con questa, e con una rete che si estende anche in altre parti della Sicilia e fuori della stessa. I suoi affiliati (detti stiddari) usano farsi tatuare la mano destra, tra l’indice e il pollice, con cinque puntini disposti in figura di stella. TRECCANI


Che cos’è la stidda, la quinta mafia dei “ribelli” La ‘stidda’, nata nella Sicilia meridionale negli anni Ottanta, è considerata la quinta mafia. Violenta e spietata, si è sviluppata come una sorta di ribellione allo strapotere di Cosa Nostra La maxi operazionecontro la ‘stidda’ fra la Sicilia e la Lombardia ha riportato sotto i riflettori la cosiddetta ‘quinta mafia’, meno conosciuta delle grandi organizzazioni criminali come Cosa Nostra o la ‘ndrangheta. Ma che cos’è di preciso la ‘stidda’?

LA STORIA – Come spesso capita nella storia del crimine, anche nel caso della ‘stidda’ non è possibile definire chiaramente quando questa ha avuto inizio. Indicativamente la ‘quinta mafia’ (detta così perché arriva dopo Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta e la pugliese Sacra corona unita) si è affacciata alla cronaca intorno agli anni Settanta-Ottanta del XX secolo. Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina rivelò che a metà degli anni Ottanta molti mafiosi della provincia di Caltanissetta, alcuni dei quali “messi fuori confidenza” (cioè espulsi dalle cosche di Cosa Nostra), si sarebbero riorganizzati in nuovi gruppi criminali, autonomi e anzi ‘ribelli’ nei confronti del’organizzazione più grande e potente. Nel 1987, a Gela, la rivalità tra Cosa Nostra e stidda assunse i contorni della guerra armata, con agguati, faide e un centinaio di omicidi in un triennio.

LA DIFFUSIONE – La stidda nasce a Palma di Montechiaro, nell’Agrigentino, ma trova la sua maggiore diffusione nella provincia di Caltanissetta e nella parte più occidentale di quella di Ragusa, tra Vittoria e Comiso. Ancora oggi, il ministero dell’Interno identifica una zona geocriminale della Sicilia sud-orientale (Caltanissetta e Ragusa), contrassegnata proprio dalla presenza della stidda. Principalmente è diffusa dunque nella Sicilia meridionale, mentre gli ‘stiddari’ sono praticamente assenti nelle zone settentrionali (Palermo, Trapani, Messina). Ma, come le altre mafie, anche la stidda è ormai radicata in alcune aree del Nord Italia.

LA STRATEGIA – Gli stiddari sono organizzati in gruppi saldamente legati e consorziati, non in cosche prive di collegamenti. Uno degli elementi caratteristici è il ricorso alla violenza, che diventa decisivo nello sviluppo rapido delle carriere criminali e nell’affermazione di giovani emergenti. Nel 1990 quattro killer della stidda uccisero il giudice Rosario Livatino. Tra gli episodi più cruenti, il 2 gennaio 1999, la cosiddetta strage di san Basilio a Vittoria (Ragusa): cinque persone assassinate all’interno del bar di un distributore di carburante, tra cui due ragazzi estranei alla criminalità. La presenza della stidda tra Gela e Vittoria avrebbe frenato e contrastato apparentemente la dilagante espansione di Cosa Nostra in quelle aree, ma in realtà la quinta mafia è stata in qualche modo funzionale alla mafia della Sicilia occidentale, perché l’impegno delle forze dell’ordine e della magistratura è stato rivolto prevalentemente alla sconfitta dei clan stiddari, lasciando invece a Cosa Nostra una certa libertà di agire sul territorio. A partire dagli anni Novanta, tuttavia, c’è stata una vera e propria spartizione delle attività criminali tra Cosa Nostra e la stidda. L’organizzazione principale si occupa dei grandi appalti e dei legami con il mondo della politica, della finanza e dell’imprenditoria; la ‘quinta mafia’, maggiormente ancorata alla realtà locale, si dedica invece alle attività classiche del crimine mafioso: traffico di droga finalizzato al fabbisogno locale, estorsioni e usura, gestione di bische clandestine, prostituzione, controllo armato del territorio.

IL SIGNIFICATO – Il termine ‘stidda’ in siciliano significa stella. Per spiegare il nome si sono fatte tre ipotesi:

– nel gergo mafioso il termine assumerebbe il senso di una costellazione di gruppi malavitosi che gravitano attorno all’organizzazione principale

– sarebbe il nome di un tatuaggio fatto in carcere che gli stiddari portano come segno di riconoscimento (cinque segni verdognoli disposti a cerchio fra il pollice e l’indice della mano destra, a formare una stella)

– il riferimento sarebbe alla ‘Madonna della Stella’, patrona del comune di Barrafranca, in provincia di Enna. La tesi nacque dalle rivelazioni di Antonino Calderone, il quale dichiarò per primo che in quel paese “a parte la Famiglia appartenente a Cosa Nostra, vi è un’altra Famiglia, composta in gran parte da espulsi da Cosa Nostra, detta la Famiglia degli ‘Stiddari'”. QUOTIDIANO.NET 26.9.2019

(Loes ten Den – Unsplash)

Stidda, storia della mafia dei ribelli A fine anni Ottanta alcuni giovani non vogliono più ordini dai vecchi boss. Comincia una lotta fra una nuova organizzazione e Cosa nostra. Dopo anni, sono in pace e si spartiscono affari. Figli di boss della stidda che si ubriacano, si drogano e uccidono due bambini di 11 e 12 anni: Simone e Alessio D’Antonio. Succede a Vittoria (Ragusa) l’11 luglio del 2019, dove da anni la stidda, che in siciliano significa “stella”, domina incontrastata. I rampolli in questione sono Rosario Greco e Angelo Ventura, figli di Elio Greco, capo della stidda, e di Titta Ventura, esponente di spicco dei clan criminali vittoriesi. Un episodio, quello dei bambini, che riporta alla memoria quello accaduto a Niscemi (Caltanissetta) il 27 agosto 1987 quando i killer di stidda e Cosa nostra, che si inseguivano sparandosi dalle auto lanciate a folle velocità per le strade della città, uccidono Giuseppe Cutruneo, 8 anni, e Rosario Montalto, 11 anni. Stavano giocando per strada vicino alle proprie abitazioni nel centro di Niscemi. Come Simone e Alessio. Due episodi che sembrano non avere nulla in comune. In realtà entrambi i crimini sono commessi da stiddari, ossia da esponenti di una nuova mafia che dall’inizio degli anni Ottanta domina incontrastata il palcoscenico criminale della fascia meridionale della Sicilia.

La guerra a Cosa nostra Tutto comincia intorno alla seconda metà degli anni Ottanta quando ragazzi minorenni che non vogliono più prendere ordini da nessuno decidono che è arrivato il momento di attaccare Totò Riina, capomafia tra i più spietati. Così la guerra scoppia violentissima. Un botta e risposta quasi giornaliero dove la rivolta è segnata dalla sistematica eliminazione fisica dei capimafia e dalla sempre più penetrante presa di potere da parte degli stiddari nelle varie province siciliane, esclusa Palermo. Qui la stidda non c’è. Negli anni Cosa nostra è stata oggetto di una vera strategia di sterminio da parte della stidda che con ferocia e determinazione ha tentato di sostituirsi alla mafia tradizionale nella gestione delle attività illecite, colpendo con cieca furia criminale i loro esponenti che facevano addirittura fatica a capire la provenienza dell’attacco. Fra il 1988 e il 1992 i giovani stiddari decapitano i vecchi capimafia, tutti ormai ultra sessantenni.

La paranza siciliana  C’è una paranza dei bambini, come quella raccontata da Roberto Saviano a Napoli, anche in Sicilia, molto tempo prima. Un’organizzazione di minorenni che in trenta mesi lascia sul terreno oltre 500 morti ammazzati. L’idea di arruolare bambini e addestrarli arriva dal capo della stidda di Vittoria, Claudio Carbonaro, che in una riunione con i clan di Gela, Niscemi, Riesi, Mazzarino, Butera, Porto Empedocle, Palma di Montechiaro e Agrigento sostiene che bisogna “fare una cosa che non era mai stata fatta prima di allora”. Prendere bambini di 11-12 anni, mettergli una pistola in una mano, 500 mila lire nell’altra, addestrarli a colpire i bersagli e sguinzagliarli in tutta la Sicilia. In un ambiente dove i tradimenti sono all’ordine del giorno, anche arruolare dei bambini e farli diventare assassini può fare la differenza tra vivere e morire. D’altra parte i mafiosi non si aspetterebbero mai un attacco da parte dei carusi. Li vedono giocare a calcio o rincorrersi per le strade e non sospettano che quegli stessi bambini che ridono e corrono sono assassini al servizio della stidda. Per vincere questa guerra gli stiddari sono disposti a tutto. Spietati, veloci e spettacolari nelle esecuzioni. Inizia così, in Sicilia, la guerra contro l’ala stragista dei corleonesi di Riina che in poco tempo trasforma la fascia meridionale dell’isola in un campo di battaglia con centinaia di morti ammazzati e feriti da ambo le parti. In gioco c’è molto più che il controllo del territorio o del traffico della droga. In ballo c’è la possibilità di sostituirsi ai vecchi capimafia e diventare i nuovi referenti di Cosa nostra. Per tutti è solo una questione di affari. Niente di più. Dopo la “strage di Gela” del 1990, la reazione dello Stato è durissima. Così stiddari e mafiosi di Cosa nostra siglano la pace, non solo dalla guerra, ma anche spartendosi la gestione dei principali settori criminali.

Nuovi disegni criminali Negli ultimi anni la stidda si è consolidata sostituendosi a Cosa nostra in alcuni casi e divenendone la referente in altri. A lanciare l’allarme sono gli investigatori con le operazioni di polizia Stella cadente e Plastic free, di settembre e ottobre 2019, compiute tra Gela (Caltanissetta) e Brescia, da un lato, e Vittoria (Ragusa) dall’altro. Dall’operazione Stella cadente emerge che gli stiddari erano pronti a scatenare un’altra guerra di mafia contro Cosa nostra, potendo contare su 500 “leoni”. Era pronto un esercito di uomini armati disposti a mettere di nuovo a ferro e fuoco Gela e la Sicilia. Gli arresti sono stati eseguiti in diverse città italiane, tra cui Brescia, dove si trovavano alcuni dei fiancheggiatori dei nuovi-vecchi stiddari. Qui lo scorso ottobre un’altra importante operazione antimafia, denominata Leonessa, ha individuato la presenza di una cosca mafiosa di matrice stiddara “che ha pesantemente inquinato diversi settori economici”. Tra gli arrestati dell’operazione Plastic free c’è, invece, Claudio Carbonaro, vecchio capo della stidda di Vittoria negli anni Ottanta, tornato, secondo gli inquirenti, a riorganizzare il clan. Collaboratore di giustizia dagli anni Novanta, reo confesso di vari omicidi, una volta tornato in libertà ha deciso di investire nel settore del riciclo della plastica garantendo al nuovo clan un volto diverso dalla precedente fama sanguinaria. Un affare milionario arrivato fino in Cina, dove imprese compiacenti avrebbero smaltito illecitamente i rifiuti plastici esportati dalla Sicilia, utilizzati per la fabbricazione di scarpe da importare e commercializzare poi in Italia. Mentre a Gela si pensava a scatenare una nuova guerra, a Vittoria si pensava agli affari. LAVIA LIBERA 30.1.2020


LA QUINTA MAFIA, LA STIDDA, UCCISE ROSARIO LIVATINO, IL GIUDICE RAGAZZINO DI CUI AVEVA PAURA Il giudice Rosario Livatino muore vittima di un agguato mafioso la mattina del 21 settembre ’90 su un viadotto lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta. Mentre si reca al Tribunale di Agrigento, la sua Ford Fiesta amaranto viene accostata da un Fiat Uno bianca da cui gli assalitori sparono con una mitraglietta. I colpi fanno sette buchi sulla fiancata sinistra della Festa, mentre una pallottola colpisce Livatino alla spalla. Una moto Honda con altri due killer armati segue da vicino le auto. Livatino esce dalla macchina, scavalca il guard rail e cerca di fuggire buttandosi giù dal burrone. Viene inseguito, raggiunto e ucciso spietatamente. I sicari lo circondano e gli sparano con una mitraglietta calibro 12, una pistola automatica calibro 9, un revolver. Infine un colpo di lupara in bocca.
Il giudice aveva scelto di rifiutare la scorta, per non impressionare la madre. Accorrono sul posto i colleghi del giudice assassinato, anche l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, da Palermo, e Paolo Borsellino, da Marsala.
L’omicidio è opera di criminali affiliati alla Stidda, la cosiddetta quinta mafia, organizzazione minore rispetto alla Sacra corona unita pugliese, la Camorra campana, la ‘Ndrangheta calabrese, Cosa nostra siciliana. La Stidda opera in alcuni capoluoghi siciliani, Agrigento, Caltanissetta, Enna e Ragusa ma principalmente in quello nisseno e agrigentino. Un’organizzazione che come le altre mafie si è evoluta e ben radicata, presente anche in molte province del nord Italia.

Un testimone oculare, Ivano Nava, agente di commercio che si trovava a passare sulla sua Lancia Thema, assiste all’omicidio e grazie a lui le indagini giungono a identificare i componenti del commando omicida e i mandanti. Vengono condannati all’ergastolo gli esecutori Paolo Amico, Domenico Pace, Gaetano Puzzangaro, Salvatore Calafato, Gianmarco Avarello e i mandanti Antonio Gallea e Salvatore Parla. Tredici anni sono inflitti a Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, entrambi collaboratori di giustizia.
Il supertestimone del delitto Livatino, Pietro Ivano Nava, all’epoca 40 anni, milanese di Sesto San Giovanni, diviene un simbolo del dovere civico di denuncia del crimine e di lotta all’omertà, ma paga molto caro il suo gesto. Per sfuggire alla vendetta della Stidda perde il lavoro, la casa, gli affetti è costretto a cambiare identità, anche ad emigrare all’estero.

La sentenza del processo sull’omicidio Livatino avalla la testimonianza dei collaboratori secondo la quale il giovane magistrato viene fatto ammazzare dagli ‘stiddari’ per punire un giudice severo e imparziale da cui non potevano aspettarsi atteggiamenti meno che inflessibili, ma anche per ”lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa Nostra’’.

Il giudice Rosario Livatino, ucciso ad Agrigento dalla Stidda, la quinta mafia  Il “giudice ragazzino” si era laureato a 22 anni cum laude all’Università di Palermo. Prestava servizio come vicedirettore dell’Ufficio del Registro di Agrigento, quando scelse di entrare in magistratura presso il Tribunale di Caltanissetta nel 1978, dopo essersi classificato tra i primi in graduatoria nel concorso per uditore giudiziario. Trasferito il 29 settembre ’79 al Tribunale di Agrigento come Sostituto Procuratore della Repubblica, per un decennio, fino al 20 agosto ’89, si occupò delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche (nell’85) di quella che dopo il ’92 sarebbe stata chiamata la “Tangentopoli siciliana“.

Una delle indagini riguardò l’allora ministro Calogero Mannino (UDC). Interrogato da Livatino, dopo la sua morte Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove. L’inchiesta sulla cosiddetta “Tangentopoli siciliana”, riguardava gli accordi tra mafia, politici e imprenditori locali, che permisero l’infiltrazione di Cosa Nostra negli appalti pubblici. Le indagini fecero emergere che Salvo Lima era la “mente” della Sirap, la società regionale costituita nel 1983 attraverso la quale un comitato d’affari di politici e imprenditori, d’accordo con la mafia di Totò Riina, riusciva a gestire centinaia di miliardi di appalti. Nel 1988 furono affidati alla Sirap duecento miliardi di lire per la realizzazione di aree artigianali in nove comuni siciliani. Dal 21 agosto ’89 Rosario Livatino prestava servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione Misure di prevenzione. Quel 21 settembre del 1990 Livatino avrebbe dovuto decidere se quindici capiclan di Palma di Montechiaro dovevano essere condannati al soggiorno obbligato fuori dalla Sicilia. Una ragione in più per far tacere per sempre quell’impavido giudice ragazzino. 21.9.2017 GAZZETTINO DI SICILIA


Quaranta: “A Favara comanda Cosa nostra, Stidda e ‘paraccara’ stanno sotto” “Non ho mai fatto uso di sostanze stupefacenti e mi sono occupato solo di 100 grammi. A Favara si occupa di droga principalmente la Stidda come nel resto della provincia. Ma se Cosa Nostra ha bisogno c’è disponibilità. Cosa nostra si occupa prevalentemente di appalti, estorsione e spazzatura. Il patto era, comanda Cosa nostra. Stidda, paraccara e clan devono stare sotto Cosa nostra. Cosa nostra si rivolgeva alla Stidda sole per piccole cose. La Stidda c’è a Favara, Palma, Porto Empedocle, si stanno riorganizzando a Canicattì. A Raffadali c’è solo Cosa nostra…”. Queste alcune delle dichiarazioni del pentito favarese Giuseppe Quaranta riferite ai giudice nell’udienza svolta nell’aula bunker del carcere di Rebibbia. Un’udienza tenutasi ben lontano dal paese natìo dell’ex operatore ecologico, sentito a Roma per motivi di sicurezza. Continuano dunque le dichiarazioni di Quaranta, pentito di spicco della mafia agrigentina, che con le sue rivelazioni ha dato un contributo determinante all’operazione antimafia “Montagna”. E proprio in occasione del troncone processo dell’inchiesta che vede alla sbarra, a vario titolo, l’ex sindaco di San Biagio Platani, Santo Sabella, Calogero Principato, 26 anni, di Agrigento, Antonio Scorsone, 53 anni di Favara, Domenico Lombardo, 25 anni, anche lui favarese, Giuseppe Scavetto, 49 anni, di Casteltermini e Salvatore Montalbano, 25 anni, di Favara, il pentito ha svelato quella che sarebbe la riorganizzazione della “Stidda”, l’altra organizzazione criminale presente in provincia, un tempo acerrima nemica di Cosa nostra. GRANDANGOLO 20.10.2019

 

 a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF