ROBERTO CALVI, da bancario a banchiere

 

 Mafia, massoneria e finanza cattolica


Roberto Calvi: dal Banco Ambrosiano al ponte dei Frati NeriRoberto Calvi fu un banchiere di successo. Ma l’epoca che visse fu contraddistinta da incontestabili ombre. Dall’ascesa nei primi anni Settanta, alle truffe del Banco Ambrosiano, alle minacce di Michele Sindona, l’emersione della loggia massonica P2, tutto si intreccia in una storia terminata in modo quasi cinematografico.

Roberto Calvi: una breve biografia Roberto Calvi nasce a Milano il 13 aprile 1920. Figlio di un dirigente della Banca Commerciale Italiana, si diploma in ragioneria. Successivamente, nel 1939, si iscrive all’Università Bocconi, alla facoltà di Economia e Commercio. Negli anni da studente, Calvi non disdegna l’attività politica, dirigendo l’Ufficio Stampa e Propaganda dei Gruppi Universitari Fascisti. L’esperienza all’Università, comunque, durò poco. Incombeva la seconda guerra mondiale, e il giovane Roberto Calvi dovette abbandonare gli studi, venendo arruolato come sottotenenete di cavalleria nei lancieri di Novara. Combattè anche durante la drammatica campagna di RussiaNel 1946 Roberto Calvi fu assunto alla Banca Commerciale, ma per un periodo limitato: già nel 1947 ottenne il posto al Banco Ambrosiano, grazie alle amicizie di famiglia con Alessandro Canesi, uno degli elementi di spicco dell’istituto.

Roberto Calvi: l’ascesa  L’ascesa di Roberto Calvi nei quadri dirigenti del Banco Ambrosiano è forse lenta, ma inesorabile. In circa 12 anni, Calvi passa dal ruolo di assistente personale di Canesi, nel 1958, a responsabile delle operazioni di carattere finanziario nel 1960. In quell’anno l’istituto aveva completamente riorganizzato il settore esteri, interfacciandosi con il mondo della finanza internazionale.

Ma i ruoli di Roberto Calvi furono piuttosto numerosi, anche negli anni Sessanta, e difficili da inquadrare. Molti consigli di amministrazione di filiali o banche estere controllate direttamente dall’Ambrosiano finirono infatti sotto la sua dirigenza. Il Banco Ambrosiano, si sa, era un istituto legato allo IOR. Una “banca cattolica” per così dire, che si proponeva di offrire credito mantenendo formalmente i principi del cristianesimo, al punto che per diventarne soci era necessario il certificato di battesimo e di buona condotta firmato da un parroco.

Tutte le fonti storiche e le testimonianze su Roberto Calvi, però, ci ritraggono un uomo non certo legato a una vera e profonda fede, bensì un carattere spregiudicato che intuisce il potenziale di cui si trova a disporre. Nel 1968 conobbe Michele Sindona e in seguito entrò nella Loggia massonica P2L’ascesa di Calvi, lenta fino alla fine degli anni Sessanta, diviene fulminea nel giro di 4 anni: nel 1971 diventa direttore generale dell’Istituto, nel 1974 la nomina a vicepresidente, l’anno successivo presidente del Banco. Alla metà del decennio, il banchiere milanese è uno dei nomi di riferimento della finanza italiana e internazionale.

Calvi, il crack, e i tentativi di salvezza  Calvi era ormai un professionista stimato. E lo fu al punto da entrare anche nel consiglio di amministrazione della Bocconi, come vice. Verso la fine degli anni Settanta cominciarono ad arrivare generose donazioni di milioni di lire del Banco Ambrosiano o di società controllate (ad esempio il Credito Varesino).

La finanza spregiudicata di Roberto Calvi si allargò sul profilo internazionale, al punto di creare un insieme di cosiddette “società fantasma”, create nei cosiddetti paradisi fiscali. O di acquistare istituti di credito stranieri, come la Banca del Gottardo,  la fondazione della Banco Ambrosiano Holding o la Cisalpine Overseas con l’arcivescovo Paul Marcinkus.

Nel 1978 la Banca d’Italia decide di vederci chiaro: gli incaricati scoprono e denunciano molte irregolarità nei conti del Banco, che negli anni successivi avrebbe affrontato una enorme crisi di liquidi. A soccorrerlo, sarebbero intervenuti i finanziamenti della Banca Nazionale del Lavoro e dell’ENI, che versarono qualcosa come 150 milioni di dollari.  Un secondo crack, del 1980, sarebbe stato ripianato con altri 50 milioni di dollari da parte di ENI.

Ma ormai la situazione era incandescente. Roberto Calvi, che nel frattempo era tallonato anche da campagne diffamatorie ordite da Michele Sindona, al quale aveva rifiutato un prestito, si trovo anche sprovvisto dalla protezione della loggia P2, la cui appartenenza gli aveva garantito un certo tipo di sostegno e di riparo dalle azioni della magistratura. Quando nel 1981 fu scoperta la loggia, Roberto Calvi non aveva più nessuno che lo avrebbe potuto aiutare. Chiese aiuto allo IOR, ma poco dopo fu arrestato e condannato per reati valutari.

Attendendo l’appello, tornò al vertice del Banco Ambrosiano, tentando per l’ennesima volta di trovare il denaro per un salvataggio. Per riuscire in un’operazione ormai disperata, prima entra in contatto con il finanziere Flavio Carboni, poi addirittura con la banda dellaMagliana e il boss mafioso Pippo Calò. Finì così per venire coinvolto in operazioni di riciclaggio, che gli causarono la definitiva perdita di ogni possibile appoggio dallo IOR.

La morte e il dibattito successivo  Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi venne trovato morto, impiccato, sotto il ponte dei Frati Neri sul fiume Tamigi, a Londra. Alcune stranezze sul luogo del decesso (come alcuni mattoni in tasca e circa 15mila dollari) non impedirono di archiviare il fatto come suicidio. Tra le sue tasche, fu trovato anche un passaporto falsificato, a nome di tale “Gian Roberto Calvini”. Sei mesi dopo la prima archiviazione dei magistrati inglesi, la Corte Suprema del Regno Unito annullò la sentenza, ritenendola parca di vizi e priva di elementi sostanziali. Il secondo dibattimento aprì anche all’ipotesi di un’omicidioIl dibattito sulla morte di Roberto Calvi fu parecchio intenso, tanto da non potersi dire concluso neanche oggi. Lo scrittore Leonardo Sciascia, ad esempio, riteneva certa l’ipotesi del suicidio, mentre nel 1988 in Italia nacque una causa civile che richiedeva il riconoscimento dell’omicidio e predisponeva un risarcimento di 3 milioni di dollari alla famiglia. Nel 2003, a Londra, si sarebbe riaperto il caso per l’ennesima volta. L’ultima suggestione, però, è mafiosa. Alcuni inquirenti arrivarono a sospettare del pentito Francesco Di Carlo. Quest’ultimo, negli anni Novanta, ammise di essere stato assoldato da Pippo Calò per uccidere Roberto Calvi, ma di non aver potuto eseguire l’ordine perché “la questione era stata risolta con i napoletani”. A volere morto il banchiere milanese erano infatti anche alcuni esponenti della camorra legati al clan dei Corleonesi, che gli avevano affidato del denaro poi andato in fumo.

La “pista Calò”, comunque, è stata testimoniata anche da Antonio Mancini, membro della banda della Magliana. OLTRE LA LINEA 25.3.2020


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Processo Calvi

Deposizioni al  processo Calvi

 RIFERIMENTI


 Roberto Calvi  da bancario a banchiere (Milano13 aprile 1920 – Londra18 giugno 1982)  Suo padre era un dirigente della Banca Commerciale Italiana, dove poi verrà assunto anche lui[1]. Dopo il diploma in ragioneria si iscrisse nel 1939 alla facoltà di Economia e commercio dell’Università Bocconi dedicandosi nel contempo ad attività politiche, dirigendo l’Ufficio Stampa e Propaganda dei Gruppi Universitari Fascisti. Non riuscì a concludere gli studi universitari a causa della guerra e, nel 1940, venne arruolato come sottotenente di cavalleria nei lancieri di Novara e mobilitato sul fronte russo, dove affrontò anche la ritirata; al termine del conflitto ottenne un posto alla Banca Commerciale ma vi rimase brevemente fino al 1947 quando venne assunto come impiegato dal Banco Ambrosiano grazie ai buoni rapporti del padre con uno dei dirigenti della banca, Alessandro Canesi (futuro direttore generale nel 1959 e dal 1965 presidente).

Carriera nel mondo finanziario Il Banco era una banca privata strettamente legata allo IOR, la banca vaticana. Lavorando nel settore esteri della banca acquisì una notevole esperienza nell’ambito dei paradisi fiscali. Nel 1958 divenne assistente personale di Canesi. Nel 1960, con la riorganizzazione del settore esteri, venne nominato responsabile per le operazioni di carattere finanziario; ottenne anche molti incarichi in consigli di amministrazione di diverse controllate estere del Banco Ambrosiano. Nel 1971 divenne direttore generale, vicepresidente nel 1974 e presidente nel 1975, carica grazie alla quale riuscì ad avviare una serie di speculazioni finanziarie per lanciare il Banco Ambrosiano nella finanza internazionale. Fondamentali, a questo scopo, le amicizie con membri della loggia massonica deviata P2, di cui in seguito fece parte, e i rapporti con esponenti del mondo degli affari, della mafia e della politica, sia italiana sia di diversi paesi latino-americani. Nel 1968 conobbe Michele Sindona, divenendone socio in affari; nel 1975 Sindona gli presentò Licio Gelli e Calvi entrò nella loggia P2 il 23 agosto di quell’anno e fu registrato col numero di serie 519.

La consacrazione come membro del cosiddetto “salotto buono della finanza italiana” si concretizzò con il suo ingresso nel consiglio di amministrazione della Bocconi, in qualità di vicepresidente di Giovanni Spadolini, il quale era molto insofferente della sua presenza. Risalgono a questo periodo (1979-1982) donazioni di centinaia di milioni di lire del Banco Ambrosiano, per mezzo di sue controllate (Banca Cattolica del Veneto e Credito Varesino), all’università[2]. Tali rapporti con l’ateneo italiano suscitarono polemiche e un’interrogazione parlamentare da parte dei Radicali nel 1982[3].

In poco tempo divenne uno dei finanzieri più aggressivi, intrecciando una fitta rete di società fantasma create in paradisi fiscali con lo IOR: acquistò la svizzera Banca del Gottardo, fondò una finanziaria in Lussemburgo, la Banco Ambrosiano Holding, con l’arcivescovo Paul Marcinkus fondò la Cisalpine Overseas nelle Bahamas e, insieme al tecnico informatico Gerard Soisson ideò un meccanismo di compensazione dei conti fra istituzioni bancarie; gli obblighi internazionali di riserva frazionaria vennero in questo modo applicati solo al saldo dei crediti tra due banche, a quella delle due che aveva il saldo positivo (saldo creditore). Su richiesta del Vaticano, finanziò «paesi e associazioni politico-religiose», soprattutto nell’Europa orientale. Nel 1978 alcuni ispettori della Banca d’Italia analizzarono la situazione del Banco Ambrosiano e ne denunciarono molte irregolarità, segnalate al giudice Emilio Alessandrini, il quale venne ucciso il 29 gennaio 1979 da un commando di terroristi di Prima Linea. Il 24 marzo il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e il vice direttore generale Mario Sarcinelli, artefici dell’ispezione, vennero accusati dai magistrati Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi di alcune irregolarità e arrestati ma poi vennero completamente prosciolti nel 1983, in seguito all’accertamento dell’assoluta infondatezza delle accuse mosse a loro carico.

Crisi del Banco Ambrosiano  In seguito il Banco si trovò ad affrontare una prima crisi di liquidità che si risolse grazie a finanziamenti della BNL e dell’ENI per circa 150 milioni di dollari; una seconda crisi di liquidità nel 1980 fu risolta grazie a un nuovo finanziamento dell’ENI di 50 milioni di dollari, per ottenere i quali Calvi, come risulta dagli atti processuali, pagò tangenti a Claudio Martelli[4] e Bettino Craxi[5]. Nel 1981 con la scoperta della loggia P2 Calvi rimase senza protezioni e cercò l’aiuto del Vaticano e dello IOR, ma poco meno di due mesi dopo, il 21 maggio, venne arrestato per reati valutari, processato e condannato.

In attesa del processo di appello, Calvi fu messo in libertà tornando a presiedere il Banco. Nel tentativo di trovare fondi per il salvataggio, strinse rapporti con Flavio Carboni, un finanziere legato a Licio Gelli, al boss mafioso Pippo Calò e alla banda della Magliana, con il quale entrò in operazioni di riciclaggio di denaro sporco[6]; Carboni venne poi condannato e infine assolto con altri come mandante del tentato omicidio di Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano, al quale era passata la gestione della banca dopo l’arresto di Calvi[7].

Rosone fu vittima di un attentato da parte di Danilo Abbruciati, un boss della banda della Magliana, perché aveva cominciato a tenere ordine nei conti della banca, anche vietando ulteriori crediti senza garanzia concessi a Flavio Carboni[8]. Lo stesso Carboni, durante il processo, dichiarò:Non capisco che interesse potevo avere a fare del male a Calvi. Al contrario, potevo avere l’interesseopposto, visto che mi aspettavo da lui un premio piuttosto consistente»

Il 18 giugno Calvi venne trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri sul Tamigi  in circostanze che vennero ritenute sospette, con dei mattoni nelle tasche, le mani legate dietro la schiena e 15.000 dollari addosso. Fu trovato anche un passaporto con le generalità modificate in “Gian Roberto Calvini”. Nelle sue tasche venne ritrovato anche un foglio con alcuni nominativi: quello dell’industriale Filippo Fratalocchi (noto produttore di apparati di guerra elettronica e presidente di Elettronica S.p.A.), del politico democristiano Mario Ferrari Aggradi, del piduista Giovanni Fabbri, di Cecilia Fanfani, dell’amico di Sindona ed ex consigliere del Banco di Roma Fortunato Federici, del piduista e dirigente della BNL Alberto Ferrari, del piduista e dirigente del settore valute del Ministero del commercio con l’estero Ruggero Firrao e del Ministro delle finanze del PSI Rino Formica[10]Il giorno prima si era suicidata la sua segretaria personale, Graziella Corrocher, lanciandosi dal quarto piano dell’edificio sede del Banco Ambrosiano.

Il 9 giugno 1982 Calvi da Milano giunse a Roma in aereo, dove incontrò Carboni con il quale avrebbe organizzato la fuga verso l’estero. L’11 giugno si diresse a Venezia, per poi raggiungere Trieste e successivamente la Jugoslavia da dove proseguì per Klagenfurt in Austria; il 14 giugno incontrò Carboni al confine con la Svizzera, per poi partire il 15 giugno verso Londra dall’aeroporto di Innsbruck; il 16 giugno Carboni partì da Amsterdam per raggiungere Calvi a Londra[9].
Morte di Calvi  
La situazione comunque precipitò e Calvi e Carboni cercarono ancora l’intervento dello IOR, che rifiutò di fornire aiuto di fronte ai numerosi fatti criminosi che via via emergevano.

 

 

Indagini sulla morte  Per la magistratura inglese la morte di Calvi venne archiviata come suicidio, come affermato da una perizia medico-legale. Sei mesi dopo, la Corte Suprema del Regno Unito annullò la sentenza per vizi formali e sostanziali e il giudice che l’aveva emessa venne incriminato per irregolarità; il secondo processo britannico lasciò aperta sia la porta del suicidio, sia quella dell’omicidio. Le indagini caddero nella competenza territoriale della polizia City di Londra, indipendente da Scotland Yard, che rimase esclusa dalla vicenda.[11] Lo scrittore Leonardo Sciascia, in un articolo del 24 luglio 1982 comparso sul quotidiano Il Globo, sostenne che Calvi si fosse suicidato e giudicò assurda l’ipotesi dell’omicidio.[12][perché dovrebbe essere qui rilevante l’opinione di Sciascia?Calvi venne tumulato nel cimitero di Drezzo, frazione del comune di Colverde, in provincia di Como, dove aveva la sua villa[13][14][15][16].

 

ROBERTO CALVI

 

Nel 1988 iniziò in Italia una causa civile che stabilì che Roberto Calvi era stato ucciso e impose a un’assicurazione il risarcimento di 3 milioni di dollari alla famiglia. Il 2 febbraio 1989 Clara Canetti, vedova di Calvi, nel corso di una puntata della trasmissione televisiva Samarcanda affermò che il marito le avrebbe confidato che il vero capo della loggia P2 era l’onorevole Giulio Andreotti, il quale lo avrebbe minacciato indirettamente attraverso Giuseppe Ciarrapico in seguito al crack del Banco Ambrosiano e gli avrebbe fatto dei discorsi che lo turbarono[17][18]: di tali affermazioni però non sono mai stati raccolti riscontri attendibili, anche se è accertato che Calvi, prima di partire per Londra dove venne ritrovato morto, incontrò realmente Andreotti e Ciarrapico, che lo invitarono a cena per discutere di alcune divergenze che lui aveva avuto con Orazio Bagnasco, nuovo vicepresidente del Banco Ambrosiano[19][20]A dicembre del 1998 la salma di Calvi venne esumata per un esame medico-legale deciso dalla procura di Roma; cogliendo questa occasione, a fine esame la famiglia decise di portare Calvi a Tremenico, in provincia di Lecco, nel locale cimitero nella tomba di famiglia[21]In Inghilterra, nel settembre 2003, è stato aperto un nuovo procedimento legale sulla morte di Calvi.

Il processo in Italia Una prima indagine della procura di Milano archiviò la morte come suicidio. Nel momento in cui, nel 1992, la procura di Roma venne in possesso di nuovi elementi, la Cassazione decise il passaggio della competenza da Milano a Roma. Il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia infatti aveva dichiarato che Calvi e Licio Gelli avevano investito denaro sporco nello IOR e nel Banco Ambrosiano per conto del boss mafioso Pippo Calò, che curava gli interessi finanziari del clan dei Corleonesi[20][22]. A proposito, Marino Mannoia dichiarò:«Calvi fu strangolato da Francesco Di Carlo su ordine di Pippo Calò. Calvi si era impadronito di una grossa somma di danaro che apparteneva a Licio Gelli e a Pippo Calò. Prima di fare fuori Calvi, Calò e Gelli erano riusciti a recuperare decine di miliardi e, quel che più conta, Calò si era tolto una preoccupazione perché Calvi si era dimostrato inaffidabile[23]»

L’indagine proseguì con l’ordinanza di custodia cautelare emessa nel 1997 dal gip Mario Alberighi a carico di Pippo Calò e Flavio Carboni, accusati di essere i mandanti dell’omicidio. L’anno successivo, una nuova perizia sulla morte di Calvi, ordinata dal Gip Otello Lupacchini, stabilì l’infondatezza dell’ipotesi del suicidio. Il processo penale iniziò il 5 ottobre 2005 in una speciale aula approntata all’interno del carcere di Rebibbia, a Roma con imputati Pippo Calò e Flavio Carboni, accusati di omicidio, Ernesto Diotallevi, esponente della banda della Magliana, Silvano Vittor (contrabbandiere) e la compagna di Carboni, Manuela Kleinszig.Nel 1996 Francesco Di Carlo, diventato collaboratore di giustizia, negò di essere l’assassino di Calvi, ma ammise che Pippo Calò gli aveva chiesto di ucciderlo, ma che poi si organizzò diversamente e gli venne detto che «la questione era stata risolta con i napoletani»[24]: infatti, secondo il collaboratore Nino Giuffrè, i camorristi legati ai Corleonesi (Michele Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardellino) si erano affidati a Calvi per i loro investimenti e quindi avevano perso denaro anche loro[25]; inoltre, secondo il collaboratore Pasquale Galasso, l’esecutore dell’omicidio di Calvi fu Vincenzo Casillo, membro della Nuova Camorra Organizzata, che era passato segretamente dalla parte del clan Nuvoletta e per questo doveva fare un favore a Pippo Calò[26]Antonio Mancini, esponente della banda della Magliana, divenuto collaboratore di giustizia, dichiarò che Calvi venne ucciso su ordine di Pippo Calò e del faccendiere Flavio Carboni, che costituiva un anello di raccordo tra la banda della Magliana, la mafia di Pippo Calò e gli esponenti della loggia P2 di Licio Gelli[27].

L’accusa fece leva sulle circostanze della morte di Calvi per dimostrare la colpevolezza degli imputati (tra cui una telefonata effettuata dalla camera dove alloggiava il banchiere, i tempi morti nella ricostruzione, ecc.), sulle difficoltà di accesso per un uomo di 60 anni al luogo in cui era stata legata la corda, e su una serie di perizie sul livello del Tamigi. Dall’altro lato, la difesa puntò sulla sostanziale assenza di prove contro gli imputati e sull’assenza di un movente forte per scagionare Carboni e Calò. La frase “Il Banco Ambrosiano non è mio, io sono soltanto il servitore di qualcuno“, pronunciata da Roberto Calvi durante il processo per reati valutari, ha lasciato molti dubbi sugli eventi. Successive affermazioni della famiglia Calvi vorrebbero legare quella frase ad alcuni esponenti del Vaticano e alla scomparsa mai chiarita di Emanuela Orlandi nel 1983. Nel marzo 2007 il pm Luca Tescaroli aveva chiesto l’ergastolo per Pippo Calò, per Flavio Carboni, per Ernesto Diotallevi e per Silvano Vittor, accusato di essere stato uno degli esecutori materiali del delitto; assoluzione piena era stata invece richiesta per Manuela Kleinszig. Per l’accusa tre motivi principali sarebbero stati alla base del delitto: gli organizzatori dell’omicidio ritenevano che il banchiere avesse male amministrato il denaro di Cosa Nostra, sospettavano potesse rivelare i segreti del sistema di riciclaggio messo in piedi attraverso il Banco Ambrosiano e ritenevano, compiuto il delitto, di poter avere maggiore peso negoziale nei confronti di coloro che erano coinvolti con Calvi.

Il capo d’imputazione recitava:«Gli imputati, avvalendosi delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa nostra e camorra, cagionavano la morte di Roberto Calvi al fine di: punirlo per essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle predette organizzazioni; conseguire l’impunità, ottenere e conservare il profitto dei crimini commessi all’impiego e alla sostituzione di denaro di provenienza delittuosa; impedire a Calvi di esercitare il potere ricattatorio nei confronti dei referenti politico-istituzionali della massoneria, della Loggia P2 e dello IOR, con i quali avevano gestito investimenti e finanziamenti di cospicue somme di denaro»

Restava aperto invece il secondo filone dell’inchiesta romana, a proposito dei mandanti dell’omicidio, tra i cui indagati figurava anche Licio Gelli.  Il 6 giugno 2007 la seconda Corte d’assise di Roma, presieduta da Mario Lucio d’Andria, emise una sentenza di assoluzione per tutti gli imputati per il processo Calvi. Flavio Carboni, Pippo Calò, Ernesto Diotallevi e Silvano Vittor furono assolti ai sensi dell’articolo 530 c.p.p., 2º comma, ossia per insufficienza di prove. Assolta con formula piena invece Manuela Kleinszig, come chiesto dallo stesso PM. Tuttavia, secondo i giudici, la tesi del suicidio “è impossibile e assurda”. Risulta però provato che Cosa nostra utilizzava “il Banco Ambrosiano e lo IOR come tramite per massicce operazioni di riciclaggio”.

Il 7 maggio 2010 la Corte d’assise d’appello di Roma confermò le assoluzioni di Carboni, Calò e Diotallevi per l’omicidio del banchiere. Nelle motivazioni della sentenza si legge: “Roberto Calvi è stato ammazzato, non si è ucciso[28]

A novembre 2016, su richiesta del pm Tescaroli, il giudice romano Simonetta D’Alessandro archiviò il procedimento che vedeva coinvolti, fra gli altri, Gelli, Carboni e Pazienza. Nella sentenza si legge che lo sforzo della pubblica accusa consegna comunque un’ipotesi storica dell’assassinio difficilmente sormontabile: una parte del Vaticano, ma non tutto il Vaticano; una parte di Cosa Nostra, ma non tutta Cosa Nostra; una parte della massoneria, ma non tutta la massoneria, e in una parola, la contiguità tra i soli livelli apicali in una fase strategica di politica estera, che ha bruciato capitali, che secondo i pentiti, erano di provenienza mafiosa. Il Banco Ambrosiano riciclava denaro mafioso e al contempo finanziava segretamente, in chiave anticomunista, “nel quadro di una più ampia strategia del Vaticano”, il sindacato polacco Solidarnosc e i regimi totalitari sudamericani, spiegava Tescaroli. Dunque né Calò né Marcinkus “potevano accettare il rischio” che Calvi, ormai alle strette, fallito e inseguito da un mandato di cattura, rivelasse agli inquirenti “quella tipologia di attività illecita, volta a far convogliare denari mafiosi in quelle direzioni, e l’attività di riciclaggio che attraverso il Banco veniva espletata”. Tra gli altri possibili moventi, emersi durante i lunghi anni di indagini, l’impossibilità da parte di Calvi di restituire un’ingente somma di denaro ai mafiosi. “Le rogatorie avviate verso lo Stato della Città del Vaticano hanno avuto esiti pressoché inutili”, scrive il giudice nel decreto d’archiviazione. Per questo non è stato possibile ricostruire il ruolo esatto di Marcinkus e soprattutto i flussi finanziari che legavano il Banco Ambrosiano allo IOR.

Il giornalista Ferruccio Pinotti nel libro Poteri forti (BUR, 2005) ha indagato sulla morte di Calvi, dopo avere ripetutamente ascoltato il figlio di Calvi, che per anni ha ricostruito le vicende legate alla carriera e alla misteriosa morte del padre. Pinotti descrive le operazioni finanziarie con le quali Calvi riuscì a rendere il Banco Ambrosiano padrone di se stesso, così da poterlo gestire in piena autonomia. Operazioni tuttavia che rendono Calvi ricattabile e lo costringono a erogare cospicui finanziamenti a società dipendenti dallo IOR guidato dal vescovo Paul Marcinkus.

Quando si manifestano difficoltà finanziarie, l’Ambrosiano cerca di recuperare il denaro prestato all’Istituto vaticano senza riuscirvi. Calvi allora proverebbe a rivolgersi ad ambienti religiosi vicini all’Opus Dei, che sarebbero stati disponibili a coprire i debiti dello IOR per ottenere maggior peso in Vaticano. Tentativo senza successo, perché ostacolato da quanti, in Vaticano, temono che il potere dell’Opus Dei possa crescere e per impedirlo sono disposti a lasciare fallire il Banco Ambrosiano.

In una lettera del 5 giugno 1982 rilasciata dal figlio diversi anni dopo e pubblicata nel libro di Pinotti, Calvi scrive anche a papa Giovanni Paolo II cercando aiuto:«Santità sono stato io ad addossarmi il pesante fardello degli errori nonché delle colpe commesse dagli attuali e precedenti rappresentanti dello IOR, comprese le malefatte di Sindona…; sono stato io che, su preciso incarico dei Suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti Paesi e associazioni politico-religiose dell’Est e dell’Ovest…; sono stato io in tutto il Centro-Sudamerica che ho coordinato la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l’espandersi di ideologie filomarxiste; e sono io infine che oggi vengo tradito e abbandonato…»

 

GIUFFRÉ: CALVI FU UCCISO PER ORDINE DI PIPPO CALÒ

Chi e perché uccise il presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi? «Fu Cosa nostra, Pippo Calò». Sicuro, l´ultimo pentito di mafia, il boss Antonino Giuffrè ha risposto così ai pm romani, Maria Monteleone e Luca Tescaroli, titolari dell´inchiesta sul «suicidio» di Roberto Calvi. Parole pronunciate da Giuffrè negli ultimi giorni “utili” per la sua collaborazione. Alla mezzanotte di ieri sono infatti scaduti i termini per la raccolta delle sue dichiarazioni senza che il governo concedesse una proroga così come era stato più volte chiesto dai magistrati. Ma ieri a Siracusa il ministro di Grazia e giustizia Castelli ha gelato le attese: «Il governo non interverrà. Mi sembra che sei mesi siano un termine di tempo assolutamente ampio per rendere dichiarazioni». Se ritiene, dice Castelli, lo faccia il Parlamento. Rassegnati i pm di Palermo, voci di dissenso si levano dal centrosinistra ma anche dalla maggioranza con il presidente dell´Antimafia Centaro che conferma l´indirizzo dato dalla commissione al governo per una modifica della legge sui pentiti. Mentre martedì arriva al voto a Montecitorio il disegno di legge che rende definitivo il 41 bis. Sul caso Calvi, Giuffrè non ha dubbi, perché lui, «quel fatto» lo apprese dalla viva voce di Pippo Calò che commentava con altri capimafia. Giuffrè ha spiegato il movente dell´eliminazione di Roberto Calvi e fornito ai magistrati elementi definiti utili per l´idenficazione dei killer spediti da Calò a Londra per uccidere simulando poi il sucidio del banchiere. Il boss pentito ha anche tirato in ballo partiti e politici che in quel periodo, attraverso Calvi, avrebbero ricevuto «donazioni» dai boss di Cosa nostra, facendo il nome del senatore a vita Giulio Andreotti e della Democrazia Cristiana. «Regali» in cambio dei «favori» che la Dc ed Andreotti avrebbero fatto a Cosa nostra. I verbali di Giuffè saranno depositati agli atti della lunghissima inchiesta che dura da oltre dieci anni e che negli ultimi tempi ha ripreso nuovo impulso e vigore dopo il ritrovamento della cassetta di sicurezza di Calvi, scoperta 20 anni dopo la sua morte. «Roberto Calvi – racconta Giuffrè – fu ucciso perché aveva gestito male i soldi di Cosa nostra, in particolare i miliardi dei capi di Cosa nostra, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Francesco Madonia». La verità sul caso Calvi Giuffrè ha detto di averla appresa durante un incontro con Pippo Calò che in quel periodo (metà degli anni ’80) era latitante e «protetto» a Caccamo, il paese di Giuffrè. Con Calò c´erano Francesco Intile, Lorenzo Di Gesù e Giuseppe Panseca ed insieme commentavano una notizia del telegiornale che parlava del «suicidio» di Calvi. «Calò sorrideva e raccontò di avere fatto uccidere Calvi perché aveva gestito male i soldi che Cosa nostra gli aveva affidato per riciclarli». FRANCESCO VIVIANO13 dicembre 2002 LA REPUBBLICA


L’ex presidente del vecchio Ambrosiano fu trovato impiccato sotto un ponte a Londra Concluso in Corte d’assise il primo atto di una vicenda dai contorni ancora oscuri Processo Calvi, la sentenza dopo 25 anni assolti Pippo Calò e gli altri imputati Tutti assolti al processo sulla morte di Roberto Calvi. Venticinque anni dopo il ritrovamento sotto il ponte dei Frati Neri a Londra del corpo dell’ex presidente del vecchio Banco Ambrosiano, la corte d’Assise di Roma ha assolto l’ex cassiere della Cosa nostra Pippo Calò; il faccendiere Flavio Carboni, la sua ex fidanzata Manuela Kleinszig, l’ex boss della banda della Magliana Ernesto Diotallevi e Silvano Vittor.

Assolti per “insufficienza di prova”. Appellandosi all’articolo del codice penale equivalente alla vecchia formula dell’insufficienza di prove, la Corte ha pronunciato l’assoluzione di quattro dei cinque imputati accusati di concorso in omicidio volontario premeditato. Per Manuela Kleinszig, ex fidanzata del faccendiere Flavio Carboni, la Corte ha accolto la richiesta del pm formulando un’assoluzione con formula piena.
Il processo iniziato nel 2005. Il processo era cominciato nell’ottobre del 2005. Dopo decine di udienze e centinaia di testimonianze, il pm aveva chiesto l’ergastolo per quattro degli imputati. E oggi nell’aula bunker del carcere di Rebibbia la corte d’Assise si è pronunciata su una vicenda dai contorni ancora oscuri.
I ruoli dei cinque imputati. Nessuno degli imputati era in aula ad ascoltare la sentenza: solo Calò era collegato in videoconferenza dal carcere di Ascoli Piceno. Secondo l’accusa, il mandante dell’omicidio sarebbe stato proprio lui, il “cassiere” di Cosa nostra, mentre Carboni, Diotallevi, Vittor e la Kleinzig avrebbero collaborato alla fase organizzativa ed esecutiva del piano.

Impiccato sotto il ponte dei Frati Neri. Roberto Calvi fu trovato impiccato il 18 giugno 1982 sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra. Per anni, quella morte fu ritenuta un suicidio; fino a quando alcune perizie parlarono apertamente di “morte provocata”, cioè di omicidio. A conclusione delle indagini, il pm andò addirittura oltre. Dietro la morte del banchiere – sostenne il magistrato – ci sarebbero stati una serie di intrecci torbidi: dalla cattiva amministrazione del denaro di Cosa nostra affidato al banchiere milanese, al pericolo che fossero rivelati segreti di operazioni sporche effettuate attraverso il vecchio Banco Ambrosiano.
Il capo d’imputazione. Si legge nel capo d’imputazione della Procura: “Gli imputati, avvalendosi delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa nostra e camorra, cagionavano la morte di Roberto Calvi al fine di punirlo per essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle predette organizzazioni ed impedire a Calvi di esercitare il potere ricattatorio nei confronti dei referenti politico-istituzionali della massoneria, della loggia P2 e dello Ior, con i quali avevano gestito investimenti e finanziamenti di cospicue somme di denaro”.
Gli avvocati: “Crollano tutte le accuse”. I difensori degli imputati fin da subito si erano detti convinti che l’ex presidente del Banco Ambrosiano si fosse suicidato: “Da 25 anni si dava Carboni per colpevole: il risultato di oggi schianta un teorema accusatorio fondato sul nulla”, ha detto l’avvocato Renato Borzone, difensore dell’ex imprenditore. “Resta amarezza – ha aggiunto il penalista – perché un cittadino ha dovuto aspettare 25 anni per avere giustizia in un processo di primo grado”.
Aperto un secondo fascicolo. Ma la sentenza di oggi è destinata a rimanere solo una pagina di questa intricata vicenda: sulla morte di Calvi, in procura a Roma, c’é un secondo fascicolo aperto, un’indagine-stralcio sui mandanti che vede indagate una decina di persone tra cui Licio Gelli, l’ex capo della P2. (6 giugno 2007 LA REPUBBLICA )


 

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Filmografia

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco