Il generale MARIO MORI

 

“Mafia appalti e Mani Pulite stesso filone”: l’intervista al Gen. Mario Mori

 

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IL GENERALE MORI – Docufilm 


27.3.2024 Stato-Mafia, appalti e gli attentati a Falcone e Borsellino. Mori: «I nemici ci hanno rovinati». De Donno: «Chiediamo totale verità» (Videointervista)


 


Il
Generale Mario Mori ha vissuto la storia dell’Italia contemporanea in posizioni chiave: ha diretto i i Servizi segreti, ha gestito i giorni caldi del sequestro di Aldo Moro, ha condotto l’operazione che ha portato all’arresto del boss di mafia Totò Riina, ha subito un processo ventennale da cui è stato, infine, pienamente assolto in Cassazione. Un uomo di stato finito in una persecuzione giudiziaria e mediatica che ne fanno il “caso Dreyfus” italiano. Per la prima volta, Mori ripercorre in prima persona i principali eventi di questo percorso, racconta la sua verità e svela molti segreti italiani. Dalle infiltrazioni nella colonna romana delle BR ai fondi neri del Sisde, la lotta alla Camorra e alla mafia, fino all’arresto di Matteo Messina Denaro e alle inchieste di Firenze nate dalle rivelazioni di Salvatore Baiardo. Prefazione di Giovanni Negri.

 

“Questo per me non è un libro, non lo sento come un libro, come una tesi, un punto di vista: per me è semplicemente la verità, tutta. C’è il rischio che la leggano in pochi, ma la verità è così, è quella che è, non è trattabile. Nessun giornalista avrebbe scritto un libro del genere, che è uno dei più minuziosi, completi, dettagliati ed esaustivi che abbia mai visto: più di tanti studi e sentenze che pure mi è capitato di leggere. È chiaramente il lavoro di un avvocato, anche se, perlomeno nel mio caso, dietro a un linguaggio talvolta inamidato, in ogni pagina e in ogni riga, ho percepito un brulicare di passioni e sofferenze che cercavano come di evadere dalle gabbie irregimentate della forma, della necessaria completezza, senza mai cedere tuttavia all’ambiguità e al trucco giornalistico della sintesi. Non è un libro, non racconta una storia: racconta la verità, pur inscatolata nella prolissità impietosa della vita intesa come un lungometraggio senza pause, un piano sequenza senza tagli, senza salti, senza filtri, vivida e talvolta disadorna come l’esistenza reale e ciò che è successo davvero.” (dalla prefazione di Filippo Facci)


“Il generale Gian Adelio Maletti aveva provato a distruggermi la carriera: un abbassamento delle note caratteristiche da “eccellente” a “superiore alla media” è una pietra tombale sugli avanzamenti di un ufficiale. Mi chiese un commento, risposi che quando lui e il capitano Labruna sarebbero andati in galera quel suo giudizio avrebbe assunto per la mia ascesa un significato estremamente positivo. Lui non si scompose: “Può darsi che tu abbia ragione, ma per ora te lo prendi nel culo.”
Con queste parole mi congedò e così cessarono i nostri rapporti. Erano gli anni in cui, giovane capitano, entrai al reparto D del SID, Servizio informazione difesa, cui spettavano i compiti del controspionaggio in particolare verso i paesi del patto di Varsavia e il sodalizio sino-albanese. Venni trasferito nell’estate del 1972, chiamato dal colonnello, poi generale, Federico Marzollo.
Forse ero troppo acerbo per “sopravvivere” alla vera e propria guerra che dilaniava il servizio con da una parte il vertice, il generale Vito Miceli, e dall’altra il capo del reparto D, Maletti. Il primo, insieme a Marzollo, che giustamente seguiva le indicazioni del ministro degli esteri Aldo Moro, il secondo che, a suo dire e per quanto mi riguarda solo a suo dire, rispondeva ad Andreotti.
Il clima era tale che il capitano Antonio Labruna, nelle due o tre volte che chiese udienza a Marzollo per conto di Maletti, venne fisicamente perquisito e dovette lasciare il borsello prima di entrare. Più conciliante e migliore del suo capo, accettava di buon grado. Ho sempre mal sopportato Maletti, fin da quando, appena arrivato, svolgevo servizio alla segreteria del reparto. Aveva un tono sussiegoso, sembrava a volte, questo per i meno giovani, il colonnello “Buttiglione” della trasmissione Alto gradimento.
Quando telefonava, a me che non ho mai avuto una voce forte, intimava di parlare in modo stentoreo; inutile dire che a quel punto abbassavo ulteriormente il tono provocando la sua stizza. Ma il punto era un altro. A Maletti, ma ero giovane, io non ho mai perdonato il fatto che perseguisse una politica contraria a quella del governo.
Tutti sapevamo del fattivo sostegno che concedeva al regime dei colonnelli in Grecia fin da quando era stato addetto militare ad Atene. Aldo Moro, il nostro ministro degli esteri, e il governo intero, sostenevano la dissidenza democratica e questa era l’indicazione operativa data al servizio.
Questo, da parte di uno dei più alti funzionari dello stato, l’ho sempre considerato un tradimento inaccettabile. Quando nel 1974 Miceli venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Rosa dei venti”, la fazione avversa ebbe il sopravvento e così Marzollo venne rimandato all’Arma e io restai con la strada segnata dal negativo giudizio di Maletti.
Una mattina di fine novembre 1974 mi venne ordinato di raggiungere Palazzo Barachini, sede del comando del servizio, e di presentarmi all’ammiraglio Casardi, che aveva sostituito Miceli. Fui introdotto in una stanza
dove, del tutto inaspettatamente, ad attendermi c’era il giudice istruttore di Padova Giovanni Tamburino, titolare dell’inchiesta sulla “Rosa dei venti”, che aveva coinvolto i miei superiori Federico Marzollo e Mauro Venturi, chiamati in causa dall’indagato chiave, il tenente colonnello dell’esercito Amos Spiazzi. Non avevo nulla da nascondere e, pur sorpreso dalle modalità, mi sottoposi senza alcun tentennamento al fuoco di fila delle domande. L’atto non ebbe alcun seguito, io non fui mai indagato, Marzollo e Venturi vennero prosciolti in istruttoria.
Tuttavia in quel momento stava crollando il mio mondo professionale, ero tranquillo che nulla potesse essermi rimproverato, ma non certo sereno e comunque molto irritato per come venivo trattato.
Chiesi quindi udienza a Casardi, che mi fece fare due ore di anticamera. Avrei anche aspettato tutto il giorno. Quando mi diede occasione di parlargli gli espressi tutto il mio disappunto sottolineando il mio disgusto per la china che aveva preso il servizio, per la convocazione irrituale, che definii un mezzuccio modesto. Lui mi chiese semplicemente se avevo finito, non sapeva cosa rispondere. Ma ero giovane e, forte delle mie ragioni, ci misi troppa passione. Dopo pochi giorni l’ammiraglio sollecitò la mia restituzione all’Arma. Sembrava tutto finito, invece Miceli venne totalmente scagionato e io feci carriera; mentre Maletti, insieme a Labruna come avevo pronosticato, venne indagato, processato e condannato e quel suo giudizio negativo è rimasto per sempre sul mio petto come una medaglia al valore.” MARIO MORI

 


🔴 Il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno sono stati protagonisti in prima fila nella lotta contro Cosa Nostra, e il loro impegno investigativo ha dato risultati straordinari. Eppure, sono noti al grande pubblico soprattutto per il processo sulla presunta “Trattativa Stato-mafia”, concluso con la loro completa e definitiva assoluzione.
Oggi, finalmente, possono raccontare cosa c’è dietro la persecuzione giudiziaria e mediatica che hanno subito: il “Dossier mafia-appalti”. Dopo intense indagini l’informativa fu preparata dai carabinieri del ROS guidati da Mori e De Donno e consegnata nelle mani di Giovanni Falcone, che le attribuì un’enorme importanza.
Ma nella magistratura siciliana ci fu qualcuno che frenò a più riprese e poi archiviò senza giustificazioni la pista, ancora tutta da percorrere, che stava svelando il vero volto della mafia.
Uno sconvolgente sistema corruttivo istituzionalizzato che, in tutta Italia, depredava le risorse pubbliche a vantaggio di selezionate cricche di politici e imprenditori, e di cui Cosa Nostra rappresentava il braccio armato.
Paolo Borsellino credeva che l’inchiesta Mafia-appalti fosse all’origine della morte di Giovanni Falcone, ed è molto probabile che anche la strage di via d’Amelio (con il relativo depistaggio) sia da attribuire al dossier del ROS dei carabinieri.
Antonio Di Pietro ha riconosciuto il suo stretto e inquietante legame con Mani Pulite.
Oggi, finalmente, il pubblico italiano può conoscere la verità su un’inchiesta che non doveva proseguire, nel racconto documentato e coinvolgente di due protagonisti che hanno pagato un prezzo altissimo.
Attese da anni, le testimonianze di Mori e De Donno sui fatti dei primi anni Novanta si leggono come un romanzo poliziesco. E faranno discutere, indignare, tremare: perché è tutto vero. LIBRERIA

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3 Giugno 2023
“Con Falcone e Borsellino non sarebbe avvenuto..  Mario Mori, un quarto di secolo imputato per la “Trattativa”: “Con Falcone e Borsellino non sarebbe avvenuto. Sarebbe stata più opportuna una Commissione d’inchiesta”.

 

Il generale dei Carabinieri, Mario Mori, commenta a freddo la sentenza definitiva assolutoria emessa dalla Cassazione al processo “Trattativa”. Oltre lui sono stati assolti anche i colleghi ufficiali del Ros, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, oltre a Marcello Dell’Utri. E Mori, sulle colonne de “Il dubbio”, afferma: “Io resto fermo sui principi che mi hanno consentito di andare avanti, e nei quali ho sempre creduto. E’ molto semplice: l’Arma dei Carabinieri, la Giustizia, lo Stato, sono sovrastrutture. Poi c’è chi ne fa parte. E certo, possono capitare gli incidenti di percorso: il mio è stato effettivamente un po’ prolungato. Come ho resistito? Ho bisogno di un avversario. Nel senso che nella mia vita il confronto con una posizione anche radicalmente avversa alla mia, peraltro infamante, mi ha sempre dato forza. Ho sempre avuto una controparte in questi 25 anni da imputato. Non sono stati pochi. Ma mi verrebbe da dire che potrei ricominciare tutto daccapo. E’ la mia vita, è stata la mia vita. Sono sempre stato in tensione, forte dei miei convincimenti, della consapevolezza di essere nel giusto. Soprattutto di aver avuto comportamenti consoni al mio incarico, alle mie funzioni, e di non essere mai andato fuori dal perimetro. Avevo bisogno di un avversario, tanto che subito dopo la sentenza della Cassazione mi sono detto: e ora che faccio? Io ho presente la Costituzione: e secondo la Costituzione il magistrato deve applicare la legge, non estenderne il significato. In ogni caso, l’idea di dover fare luce su una fase della storia italiana avrebbe dovuto riguardare le competenze non della magistratura, ma di una commissione parlamentare d’inchiesta. Ecco, quella sarebbe stata una strada corretta per provare a comprendere il senso di quanto avvenuto nella storia del nostro Paese in quegli anni. Non capisco invece un’attività giudiziaria che si proponga un obiettivo del genere. Se ci fossero stati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sarebbe avvenuto nulla di quanto è avvenuto. Sarebbe stata tutta un’altra storia. I giudici del processo ‘trattativa’ hanno dovuto fare i conti con una pressione ambientale notevole, si sono trovati davanti una Procura importantissima come quella di Palermo. Hanno esaminato le carte, ascoltato i testimoni e redatto in tutta onestà la loro sentenza. Dai giudici palermitani ho ottenuto tre assoluzioni. Sicuramente il filone ‘Mafia e appalti’ poteva essere valorizzato meglio. Adesso sono scomparsi quasi tutti coloro che avrebbero potuto essere un riferimento per esplorare quelle ipotesi. Io all’epoca dell’indagine ‘Mafia e appalti’, sulla quale lavorai, ero un giovincello, ora ho 83 anni. Vengono a mancare le testimonianze. La famiglia Borsellino svolge un’opera meritoria e nobilissima, ma le possibilità di arrivare a dei risultati si sono ridotte terribilmente. Anche su via D’Amelio mi auguro vi sia qualcuno in grado di trovare il bandolo, ma anche qui non vedo molte possibilità”. TELEACRAS

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Sarò esplicito sul punto: decisi di non avvisare la Procura di Palermo, in attesa della sostituzione prevista di lì a qualche mese del suo responsabile, dott. Pietro Giammanco, perché non mi fidavo della sua linearità di comportamento e ne spiego qui di seguito i motivi. Quando fui nominato, nel settembre 1986, comandante del Gruppo CC. di Palermo, provenivo dall’esperienza della lotta al terrorismo condotta dal Nucleo Speciale di PG del Generale Dalla Chiesa, dove si era capito che nelle indagini contro le maggiori espressioni di criminalità – terrorismo ma anche delinquenza organizzata di tipo mafioso – si doveva agire considerando il fenomeno nel suo complesso e non per singoli aspetti.
Mi resi conto che a Palermo le Forze di Polizia operavano di norma per eventi specifici – solo con Giovanni Falcone ed il pool antimafia si era cominciato ad affrontare analiticamente il fenomeno mafioso – ottenendo risultati complessivamente inadeguati.
Mancava la cultura dell’indagine di lungo respiro, preferendo il più facile risultato immediato ma senza prospettive, a un’azione che, portata in profondità, consentisse alla fine di raggiungere risultati realmente consistenti.
Questo concetto d’azione, cioè il differimento della perquisizione dell’abitazione, sarà alla base dell’indirizzo d’indagine prospettato ai magistrati subito dopo la cattura di Salvatore Riina.
Per tornare al mio arrivo a Palermo, mi parve presto chiaro che “cosa nostra” non si preoccupava tanto della cattura di qualche suo elemento, perché sempre sostituibile, ma temeva gli attacchi alle sue attività in campo economico, quelle cioè che le consentivano di sostenersi ed ampliare il proprio potere. Individuai non nelle estorsioni, il cosiddetto pizzo, ma nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici, il canale di finanziamento più importante dell’organizzazione.
Dalle prime indagini, da me assegnate al cap. Giuseppe De Donno, si evidenziò la figura di Angelo Siino quale uomo di “cosa nostra” incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti.…..
Dopo pochi giorni tutti, a cominciare da “cosa nostra”, seppero i risultati raggiunti dall’inchiesta e soprattutto dove questa poteva portare, perché alla scontata richiesta degli avvocati difensori di conoscere gli elementi di accusa relativi ai propri patrocinati, invece di stralciare e consegnare esclusivamente gli aspetti documentali relativi ai singoli inquisiti, così come previsto dalla norma, venne consegnata l’intera informativa: 878 pagine più gli allegati.
Il procuratore Giammanco, addirittura, ritenne d’inviare l’informativa al ministro della Giustizia Claudio Martelli, iniziativa presa nell’agosto del 1991, provocando la reazione del ministro che, consigliato da Giovanni Falcone, la rispedì al mittente, rilevando e sottolineando l’irritualità della trasmissione di un atto di indagine che, in quanto tale, non poteva essere di competenza dell’autorità politica.
Iniziò in quel periodo la crisi nei rapporti tra la Procura Palermo e il Ros.
Nel marzo 1992 rientrò a Palermo, proveniente dalla Procura della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, assumendo le funzioni di procuratore aggiunto.
Tra lo stupore generale, il procuratore Giammanco, non gli delegò la competenza delle indagini antimafia su Palermo e provincia. A riguardo appare oltremodo significativa l’affermazione, riportata nella recente sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta (Borsellino quater), attribuita a Giuseppe “Pino” Lipari che, alla notizia del rientro del magistrato a Palermo, aveva sostenuto come il fatto avrebbe portato problemi a “quel santo cristiano di Giammanco ”.
Il Lipari era un geometra palermitano che curava gli affari della “famiglia” corleonese. In quei primi mesi Paolo Borsellino divenne rapidamente il punto di riferimento di magistrati e investigatori impiegati nel contrasto alla mafia e continuò a mantenere costanti rapporti personali e professionali con Giovanni Falcone che il 23 maggio 1992, a Capaci, venne ucciso da una bomba che provocò anche la morte della moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e di tre addetti alla sua scorta. Da quel momento l’attività di Paolo Borsellino assunse un ritmo quasi frenetico e continuò sino alla sua fine, avvenuta il successivo 19 luglio 1992…”
 
Gen. Mario Mori:
“Mi ero convinto che la Mafia avrebbe potuto reggere tranquillamente anche alla cattura dei suoi capi più importanti, ma non all’interno dei suoi traffici illeciti. Colpendola nel suo punto nevralgico, cioè gli affari, il danno sarebbe stato più pesante e difficilmente rimediabile.
Avevo parlato di questa mia intuizione con il Tenente De Donno, chiedendogli di pianificare un’azione investigativa sulle attività economiche mafiose, e di creare un gruppo di lavoro che potesse occuparsi esclusivamente di quel fenomeno, senza essere distratto da altri tipi di indagini. Ero cosciente delle difficoltà e dei tempi necessariamente lunghi che avrebbe comportato un’inchiesta così complessa, e così lo avevo anche sollevato dall’obbligo di produrre risultati in tempi brevi……
Niente uovo oggi, né gallina domani, ma il pollaio appena possibile. Da quella premessa era nata l’inchiesta passata alla storia con il titoloda Ad Alto Rischio, di Giovanni Fasanella. I primi accertamenti sull’omicidio di Baucina evidenziarono quale probabile movente un contrasto nella spartizione dei lavori pubblici gestiti da quel comune. La conferma venne dall’indagine serrata del Nucleo operativo del mio comando, dove avevo fatto trasferire De Donno, nel frattempo promosso Capitano. E subito la nostra attenzione si concentrò sul sindaco del comune, il professore Giaccone, un docente di Biologia marina all’Università di Palermo e Catania. Messo alle strette, il sindaco decise di collaborare con l’autorità giudiziaria. Eravamo a cavallo tra il 1988 e il 1989. Nessuno, fino al quel momento, aveva mai messo a fuoco il problema degli appalti pubblici come fattore criminale….. Eppure, a Palermo, stava accadendo qualcosa di molto importante. Un giudice istruttore, Giovanni Falcone, e un Ufficiale dei Carabinieri, il Capitano De Donno, avevano raccolto le dichiarazioni del sindaco <>, Giuseppe Giaccone. E grazie a quelle erano riuscite a ricostruire un quadro in cui emergeva in tutta evidenza la sistematicità dell’illecita gestione degli appalti da parte di imprese, professionisti, amministratori pubblici e uomini politici………! La Procura di Palermo si mostrò meno entusiasta di Falcone sulla bontà di quell’indagine e sui suoi potenziali risultati. E accadde che il professor Giaccone, appena ammesso al programma di protezione per i collaboratori di giustizia e affidato all’ufficio dell’Alto commissario per il coordinamento della lotta alla criminalità mafiosa, si rimangiò tutto. Accusò persino Falcone, De Donno e l’avvocato che lo aveva assistito fino a quel momento, Pietro Milio, di avergli estorto le dichiarazioni. Rinnegò ogni parola. Di conseguenza, l’inchiesta si spense in brevissimo tempo………..! Voglio solo dire che da allora, dal giorno in cui fu consegnato quel preziosissimo documento a Falcone, cambiò tutto………! Ma la verità è che aver capito che esisteva una centrale unica degli appalti in Sicilia, averla individuata, aver compreso anche che c’era un tavolo di compensazione tra politica e mafia non è stata un’operazione gradita a tutti.
Probabilmente, come sostengono alcune sentenze giudiziarie, proprio quell’indagine fu all’origine della morte di Falcone e del suo collega Paolo Borsellino…………!
Da quella indagine, comunque, si sviluppò anche un filone catanese, grazie alla collaborazione con l’autorità giudiziaria di un professionista arrestato nella prima fase del nostro lavoro su Mafia e appalti. Era il geometra Giuseppe Li Pera che, oltre a completare il quadro investigativo, permise di accertare senza ombra di dubbio un particolare a dir poco inquietante……!
Ancora oggi non ne ho compreso i motivi………! A Catania, il gruppo di De Donno proseguì ancora con alcune indagini sempre nel settore degli appalti pubblici, che fra l’altro portarono all’arresto dei cavalieri del lavoro Domenico e Sebastiano Costanzo. “
Gen. Mario Mori 
 

Processo Mori-Ubinu (mancata cattura Provenzano):Sentenza di primo grado (15/10/2013) PDF

MARIO MORI Nato a Postumia Grotte il 16 maggio 1939 nell’allora Venezia Giulia italiana, oggi in Slovenia, si diploma a Roma, al liceo classico Virgilio, e, successivamente, presso l’Accademia Militare di Modena, completa gli studi e la formazione militare, fino a conseguire, nel 1965, la nomina al grado di tenente dei Carabinieri. Come primo incarico, nel 1965, assume il comando di una Compagnia del IV Battaglione carabinieri di Padova, per poi essere destinato, nel 1968, alla tenenza di Villafranca di Verona, sempre come comandante. Dal 1972, per tre anni, svolge servizio presso il SID (Servizio Informazioni Difesa), a Roma, quindi, nel 1975, con il grado di capitano, viene trasferito al Nucleo Radiomobile dei Carabinieri di Napoli, dove rimarrà per altri tre anni. Il 16 marzo del 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro, Mori viene nominato comandante della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo di Roma, cominciando un lungo periodo che lo vedrà protagonista nella lotta al terrorismo. Sulla scia dei gravissimi fatti di quell’anno, culminati con il ritrovamento del corpo dell’on. Moro il 9 maggio in via Caetani a Roma, il successivo 9 agosto, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. viene nominato dal governo “coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta al terrorismo”. Le Sezioni anticrimine – reparti creati dall’Arma dei carabinieri per il contrasto al terrorismo e dislocati nei centri più sensibili al fenomeno – vengono a costituire la componente operativa e investigativa più efficace e specialistica nel settore. Sono numerosi gli arresti effettuati in quel periodo dalla Sezione anticrimine guidata da Mori, tra questi spiccano quelli di Remo Pancelli, Francesco Piccioni, Walter Sordi, Pietro Mutti, Fabrizio Zani e altri estremisti di destra e sinistra. Nel1986, con il grado di tenente colonnello, dopo due anni di servizio presso lo Stato Maggiore dell’Arma dei carabinieri, Mori assume il comando del Gruppo carabinieri Palermo 1, incarico che manterrà fino al settembre 1990. Sono anni difficili in Sicilia, anni in cui la mafia, capeggiata da Salvatore Riina, non esita a eliminare chiunque venga considerato un ostacolo per “Cosa nostra” e per le sue numerose attività illecite. Proprio in questo periodo passato a Palermo, Mario Mori incomincia a conoscere la mafia, le origini e il suo radicamento sul territorio che deriva dalla forza dell’intimidazione prodotta dal vincolo associativo che la caratterizza e da cui scaturiscono condizioni di assoggettamento e omertà per chi è costretto a conviverci. Mori capisce che contro un fenomeno di questo tipo i metodi investigativi utilizzati per disarticolare altre organizzazioni criminali, da soli, non possono essere pienamente efficaci e comunque non risolutivi. Per combattere la mafia occorre uscire dal classico schema investigativo fino al momento adottato, mirando piuttosto e soprattutto a individuare e disarticolare le connessioni e le collusioni stabilmente intrecciate da “cosa nostra” con il mondo politico-imprenditoriale. In poche parole colpire la mafia nel suo principale centro d’interesse: quello economico. Negli anni passati a Palermo, oltre a sviluppare un’approfondita conoscenza del fenomeno mafioso, il tenente colonnello Mori incontra alcuni giovani ufficiali, in quel periodo alle sue dipendenze, che si distinguono per capacità e impegno, tanto da diventare, nel vicino futuro, l’asse portante del costituendo ROS dei carabinieri.

Il ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) nasce il 3 dicembre del 1990, e il tenente colonnello Mori ne è uno dei componenti fondativi. La struttura, individuata quale Servizio Centrale Investigativo, assume, per l’Arma dei carabinieri, la competenza a livello nazionale delle indagini nel settore della criminalità organizzata e terroristica. Affidato inizialmente al comando del generale Antonio Subranni, è Mori a curarne la definizione della struttura ordinativa e della dottrina d’impiego, assumendo anche il comando del “I Reparto”, quello con competenza investigativa sulla criminalità organizzata. Il periodo passato al ROS sarà lungo, impegnativo e ricco di soddisfazioni. L’esperienza maturata nei quattro anni passati a Palermo si rivela fondamentale e le indagini, per quanto riguarda il contrasto a “cosa nostra”, già avviate in passato, proseguono con nuovo impulso, sempre orientate, come indirizzo strategico, verso il settore economico-imprenditoriale. Ne deriva così anche un’articolata informativa che, curata dall’allora capitano Giuseppe De Donno, viene consegnata, il 20 febbraio del 1992, alla Procura di Palermo. La specifica indagine, divenuta nota come “mafia e appalti”, viene inizialmente sostenuta da Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, da Paolo Borsellino che la considera non solo un salto di qualità nella lotta a “Cosa nostra”, ma anche e soprattutto la causa scatenante della strage di Capaci, dove perdono la vita l’amico magistrato, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Tale indagine, tuttavia, non trova pari accoglienza nei responsabili della Procura della Repubblica di Palermo, tanto che si producono una serie di contrasti tra la Procura stessa e il Comando del ROS in merito alla conduzione delle indagini, contrasti destinati a perdurare nel tempo. In particolare le incomprensioni iniziali si riferiscono a quell’aspetto dell’indagine che prende in esame le connivenze tra “uomini d’onore” da una parte e politici dall’altra, per i quali la Procura di Palermo chiederà e otterrà l’archiviazione dell’inchiesta il 20 luglio 1992, il giorno dopo la morte di Paolo Borsellino nella strage di via D’Amelio. Da quella parte dell’informativa “mafia e appalti” sopravvissuta, scaturiscono diverse vicende investigative che portano all’arresto di una serie di imprenditori considerati molto vicini ai vertici di “cosa nostra”, come Angelo Siino, Giuseppe Li Pera, Giuseppe Lipari, Antonio Buscemi, Filippo Salamone e altri, tutti coinvolti in attività imprenditoriali illecite riconducibili a interessi mafiosi. Questa tipologia d’indagine, riproposta, d’intesa con le Direzioni Distrettuali Antimafia competenti, anche nel contrasto alle altre forme di delinquenza mafiosa, quali la ‘ndrangheta, la camorra e la criminalità pugliese, confermerà la sua validità ottenendo eccellenti risultati pratici con lo smantellamento di pericolosi e agguerriti sodalizi criminali.

Mori diventò poi vice comandante del ROS nell’agosto 1992, con il grado di Colonnello. L’attività di contrasto a Cosa nostra sviluppata da parte del ROS è ovviamente consistita anche nella ricerca dei latitanti dell’organizzazione, che ne costituiscono la vera e propria spina dorsale. Il 15 gennaio 1993 il capitano Sergio De Caprio, noto anche come capitano “Ultimo”, a capo di una squadra di pochi carabinieri, grazie a un’accurata attività investigativa, opera l’arresto di Salvatore Riina, capo indiscusso della mafia siciliana. Per tale episodio Mori e De Caprio verranno processati con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra, non per la mancata perquisizione dell’abitazione del Riina dopo il suo l’arresto, come i più ritengono, ma per avere omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di osservazione alla casa era stato sospeso. Il dibattimento si concluderà con l’assoluzione sancita dal Tribunale di Palermo perché “il fatto non costituisce reato”, con sentenza del 20 febbraio 2006, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo – che peraltro aveva anch’essa richiesto l’assoluzione – divenuta irrevocabile l’11 luglio 2006[1]. Nel dettato della sentenza i giudici, prese in considerazioni tutte le testimonianze e i verbali disponibili, oltre ad assolvere Mori e De Caprio per i reati imputati, ribadiranno che “l’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare che il latitante (Riina, ndr) non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio”. Sono numerose le indagini sviluppate, anche a livello internazionale, che hanno consentito l’arresto di pericolosi latitanti e l’eliminazione di temibili organizzazioni criminali transnazionali. Fra le numerose operazioni vanno sicuramente citate quelle conclusesi con la cattura del boss Salvatore Cancemi, di Angelo Siino, indicato quale Ministro dei Lavori Pubblici di “cosa nostra”, dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, lo smantellamento del clan dei Cuntrera-Caruana e quello di Gaetano Fidanzati e i suoi figli, veri snodi del traffico della droga tra l’Europa e le Americhe.

Nel 1998, promosso Generale di Brigata, diviene comandante del ROS. Lo resterà circa un anno. Nel 1999, il Comando generale dell’Arma dei carabinieri decide di sostituire Mori al comando del ROS, destinandolo a comandare la “Scuola ufficiali carabinieri” di Roma. Il trasferimento del generale, seppur in un reparto non operativo, viene definita una “promozione”. Dura due anni il periodo alla Scuola ufficiali e nel gennaio del 2001 il generale Mori diventa comandante della “Legione carabinieri Lombardia” da generale di divisione, incarico che manterrà fino al 1º ottobre 2001, quando è posto in congedo dall’Arma dei Carabinieri.

Il 1º ottobre del 2001 infatti Mario Mori viene nominato prefetto e direttore del Sisde, il Servizio Informazioni per la Sicurezza Democratica, che verrà da lui diretto sino al 16 dicembre 2006. Questo periodo è caratterizzato dalla crisi originata dall’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 e dal conseguente accentuarsi del contrasto alle iniziative terroristiche portate essenzialmente dal fondamentalismo islamico. Il Sisde contribuisce in quel periodo e in maniera significativa a evitare che l’Italia diventi oggetto di clamorose azioni stragiste che invece colpiscono altre nazioni occidentali, individuando soggetti e organizzazioni operanti in Italia collegati con i gruppi rifacentesi ad al-Qāʿida, sventandone le iniziative illegali. Contemporaneamente il Servizio controlla il panorama criminale italiano e contribuisce in maniera determinante a frustrare, con l’operazione “Tramonto” i cui esiti vengono messi a disposizione dell’Autorità giudiziaria milanese, un tentativo di ricostituzione delle Brigate Rosse. Significativa anche la cattura all’estero, dopo una difficoltosa ricerca in diversi paesi del Nord-Africa, di Rita Algranati, esponente delle Brigate Rosse, uno degli ultimi responsabili dell’omicidio dell’on. Moro ancora in libertà. Terminata l’esperienza al servizio segreto civile, nall’estate del 2008 fino al giugno del 2013, Mori ha svolto attività di consulenza nel settore della sicurezza pubblica per conto del Sindaco di Roma Gianni Alemanno. Nel 2015 e nel 2016 ha pubblicato due libri “Servizi e Segreti: introduzione allo studio dell’intelligence” e “Oltre il terrorismo: soluzioni alla minaccia del secolo” entrambi tramite editore G-Risk. Nel settembre 2017 aderisce al movimento di centrodestra Energie per l’Italia di Stefano Parisi in vista delle Elezioni politiche di marzo.[2]


L’assoluzione per favoreggiamento per ritardata perquisizione del covo di Riina Mori è stato rinviato a giudizio dalla procura di Palermo insieme con Sergio De Caprio, ed entrambi furono poi prosciolti dall’accusa di favoreggiamento nei confronti di “Cosa nostra”. L’indagine era stata avviata dalla procura per accertare gli eventi che avevano portato alla ritardata perquisizione del “covo” di Salvatore Riina. Infatti, dopo l’arresto del boss, i carabinieri della territoriale di Palermo erano pronti a perquisire l’edificio, ma Ultimo e il ROS, ritenendo di poter proseguire l’indagine in corso e individuare le attività criminali dei fiancheggiatori del boss arrestato per disarticolare completamente l’organizzazione, chiesero la sospensione della procedura per “esigenze investigative” che fu concessa dalla procura – stando a quanto afferma l’allora procuratore Caselli – «in tanto in quanto fosse garantito il controllo e l’osservazione dell’obiettivo».[3]Diciotto giorni dopo si scoprì che quell’osservazione era stata sospesa prematuramente dai Carabinieri, all’insaputa della Procura e senza che fosse stata effettuata alcuna perquisizione. Nel frattempo il “covo” era stato ormai abbandonato dalla famiglia di Riina e completamente svuotato. De Caprio e Mori sostennero che c’era stato un equivoco nella comunicazione con la procura poiché non avevano espresso l’intenzione di sorvegliare il covo in modo continuativo. Peraltro, come riportato nelle motivazioni della sentenza del processo[1], era ben chiaro dall’inizio, sia ai carabinieri sia alla procura, che decidendo di non procedere alla perquisizione, si assumeva un rischio, un rischio investigativo motivato dal raggiungimento di un obiettivo superiore. Lo stesso Tribunale di Palermo sentenzia:«Questa opzione investigativa [la ritardata perquisizione, NdR] comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie di Riina, ndr), che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al solo cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata, e le frequentazioni del sito.»«Io non specificai se l’attività di osservazione sul complesso di via Bernini sarebbe o meno proseguita nei giorni successivi… Io non volevo fare sorveglianza… Quella lì era la casa di Riina. Per me, forse ho sbagliato le valutazioni, rimane la casa, l’abitazione del sangue di Riina, non la base logistica della latitanza di Riina. Per me non aveva valore investigativo come non lo ha oggi l’abitazione di Provenzano a Corleone dove ha la moglie e i figli» I Carabinieri definirono la sospensione dell’osservazione una «iniziativa autonoma della quale la Procura non era stata informata». Secondo i sostenitori dell’accusa di favoreggiamento sarebbero esistiti elementi indiziari per ritenere che i capi del ROS avessero mentito alla procura facendole credere che il covo sarebbe stato sorvegliato in modo continuativo. De Caprio ha sostenuto in sua difesa: Secondo la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia un gruppo di affiliati alla mafia entrò indisturbato portando in salvo i parenti del boss, svuotando la cassaforte e verniciando le pareti per cancellare le impronte. Tuttavia, tali dichiarazioni, giudicate “frutto di una ricostruzione certamente autorevole, ma insufficiente per trarne definitive conclusioni” dallo stesso dr. Ingroia[4] – il PM che ha sostenuto l’accusa nel relativo procedimento -, non sono mai state riscontrate nel corso di un vero e proprio dibattimento. Inoltre, nessuno di detti collaboratori ha mai dimostrato di aver personalmente verificato il contenuto della cassaforte o, quantomeno, di conoscere esattamente quanto conservato all’interno della stessa. Il processo si concluse con l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”: infatti la corte, pur ritenendo la sussistenza di una erronea valutazione dei propri spazi di intervento da parte degli imputati, di gravi responsabilità disciplinari per non aver comunicato alla Procura la propria intenzione di sospendere la sorveglianza, pur ritenendo che “l’omessa perquisizione della casa” in cui il boss mafioso Riina aveva vissuto gli ultimi anni della sua latitanza, insieme con la sua famiglia, e “l’abbandono del sito sino ad allora sorvegliato hanno comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera”[3][4] [5] [6], ha stabilito la totale estraneità di Ultimo e Mori dai fatti contestati, giungendo a un’assoluzione con formula piena. La sentenza, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo – che peraltro aveva anch’essa richiesto l’assoluzione – è divenuta irrevocabile l’11 luglio 2006.


Favoreggiamento a Provenzano: assolto in via definitiva  

 

Mori il 17 luglio 2013, è stato assolto dal Tribunale di Palermo[7], insieme con il colonnello Mauro Obinu (assolto in Cassazione[8] dal procedimento a suo carico per traffico di droga, assieme al generale Giampaolo Ganzer, succeduto a Mori alla guida del ROS[9], in quanto la Suprema Corte ha definitivamente sentenziato i fatti imputati agli stessi come di lieve entità, dichiarandoli, pertanto, prescritti), dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, impedendone la cattura nel 1995. Secondo il testimone d’accusa, il colonnello Michele Riccio, smentito e querelato dai denunciati, furono Mori e Obinu ad avergli impedito di catturare Provenzano in un casolare di Mezzojuso (PA), indicato dal mafioso suo confidente Luigi Ilardo, poi assassinato da “cosa nostra” subito dopo aver accettato di collaborare con la giustizia. Nel processo si è poi aggiunta la testimonianza di Massimo Ciancimino, il quale riferisce di contatti, peraltro già confermati in più sedi giudiziarie da Mori e da un altro ufficiale dei Carabinieri, con il padre Vito Ciancimino. Secondo il Ciancimino, per instaurare una trattativa con “cosa nostra” così da giungere a una sospensione della strategia stragista attuata all’epoca, secondo Mori e il suo dipendente, per acquisire notizie sull’organizzazione mafiosa e realizzare la cattura dei grandi capi mafia. Il 20 aprile 2012 i giudici del processo celebrato a Palermo contro il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello dell’Arma Mauro Obinu per favoreggiamento alla mafia, hanno ammesso a deporre su richiesta dell’accusa la vedova del giudice Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto, e Alessandra Camassa e Massimo Russo, due ex colleghi del magistrato assassinato dalla mafia[10]. Il 24 maggio 2013 il PM di Palermo Antonino Di Matteo ha chiesto 9 anni di reclusione per il generale Mori e 6 anni per il Colonnello Mauro Obinu, riguardo al processo sul presunto favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, nell’ottobre 1995.[11]Il 17 luglio 2013 la IV Sezione Penale del Tribunale di Palermo ha pronunciato la seguente sentenza: Il Tribunale di Palermo, visti gli articoli 378 e 530 del Codice di procedura penale, assolve Mori Mario e Obinu Mauro dell’imputazione ai medesimi ascritta perché il fatto non costituisce reato. Visto l’articolo 207 del Codice di procedura penale ordina la trasmissione di copia della presente sentenza delle deposizioni rese da Ciancimino Massimo e da Riccio Michele all’ufficio del Procuratore della Repubblica in sede per quanto di sua competenza[7]. Il Tribunale ha quindi assolto con formula piena Mori e Obinu dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano e ha ravvisato, a carico dei due principali testi dell’accusa, Massimo Ciancimino e Michele Riccio, ai sensi dell’art. 207[12] del Codice di Procedura Penale, indizi del reato previsto dall’articolo 372[13] del Codice Penale (falsa testimonianza)[14]. Immediatamente dopo la sentenza, intervistato dai numerosi giornalisti presenti, il PM Vittorio Teresi si è detto amareggiato per l’esito del processo, annunciando che la Procura proporrà appello verso una sentenza che non condivide ma che rispetta[7][15]. Il 19 maggio 2016 è assolto anche in secondo grado dalla corte d’appello di Palermo[16]. L’8 giugno 2017 la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla procura generale di Palermo avverso la sentenza di appello, confermando di fatto la sentenza di assoluzione di primo grado (perché il fatto non costituisce reato), rendendola così definitiva[17].

La trattativa Stato-Mafia: condannato in primo grado a 12 anni [Il 27 ottobre 2010 gli ambienti investigativi confermarono la notizia dell’iscrizione del generale nel registro degli indagati della Procura di Palermo per l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa[18]. Il 24 luglio 2012 il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, in riferimento all’indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, firmano la richiesta del rinvio a giudizio nei confronti di Mori e di altri undici indagati, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa e violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri, gli ufficiali Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (indagato anche per calunnia) e l’ex ministro Nicola Mancino (solo per falsa testimonianza, poi assolto dalla Corte il 20 aprile 2018)[19]. Il 7 marzo 2013 il GUP Piergiorgio Morosini rinvia a giudizio dieci imputati, tra i quali il generale Mario Mori. Il 4 novembre 2015 il tribunale di Palermo ha assolto Calogero Mannino, coimputato nello stesso procedimento, dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa e violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, perché il fatto non sussiste. Mannino aveva scelto, diversamente dagli altri imputati, il rito abbreviato, giungendo anticipatamente alla sentenza di primo grado. Il 20 aprile 2018 la Corte d’Assise di Palermo, presieduta dal giudice Alfredo Montalto, ha condannato in primo grado Mario Mori a 12 anni di reclusione per il capo d’imputazione: “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti” (art. 338 c.p.)[20][21][22][23][24][25][26][27].


Dalla MEMORIA DIFENSIVA GEN. MARIO MORI Al PROCESSO MORI 07/06/2013

Il dott. Paolo Borsellino.

In merito ai fatti che precedettero la strage di via D’Amelio, ed in relazione a quelle che furono le connesse attività dei militari appartenenti al ROS, intanto sottolineo che si deve proprio al mio Reparto l’unica ufficiale segnalazione del concreto pericolo che correva il dott. Borsellino in quel periodo.

Fu infatti il comando del ROS, sulla base delle notizie acquisite da una fonte informativa, a sensibilizzare le autorità competenti circa gli intendimenti di “cosa nostra” nei confronti del magistrato.

Si veda l’informativa n. 54/1 “R” del 19 giugno 1992, originata dal Comando del ROS, la cui copia è agli atti del dibattimento perché allegata alle mie dichiarazioni spontanee dell’ 8 febbraio 2011.

In questo processo, e sull’argomento, rilevano le dichiarazioni rese dai testi Felice Ierfone e Umberto Sinico, all’epoca ufficiali del ROS che, al di là dell’iter burocratico della pratica d’ufficio, provvidero ad informare personalmente ed immediatamente il dott. Borsellino di quanto direttamente acquisito fiduciariamente da un altro appartenente al ROS, il maresciallo Antonino Lombardo.

Il magistrato, come si ricava dalle deposizioni e dalle sommarie informazioni rese dalla moglie, signora Agnese Piraino Leto, poche ore prima di morire, si lamentò in maniera vibrata con il procuratore della Repubblica di Palermo, dott. Pietro Giammanco, che non aveva ritenuto di doverlo avvertire dei contenuti dell’informativa del ROS, a lui nota, non solo per l’iniziativa dei due ufficiali sopra citati, ma per averne ricevuto anche conferma nell’incontro fortuito con l’on. Salvo Andò, ministro della Difesa in carica, il 28 giugno 1992, all’aereoporto di Fiumicino.

  1. Il dott. Paolo Borsellino ed il ROS.

Dell’Arma dei Carabinieri e del ROS Paolo Borsellino aveva una particolare considerazione, come ha sostenuto più di un teste in questo dibattimento e, per quanto personalmente mi riguarda, tra me ed il magistrato c’era, notoriamente, sintonia.

La riprova della fiducia che il dott. Borsellino nutriva nei confronti del ROS e dei suoi ufficiali, si ricava peraltro dall’incontro, da me già ricordato in altre dichiarazione, che a sua richiesta avvenne il 25 giugno 1992 all’interno degli uffici della Sezione Anticrimine di Palermo. Si vedano a proposito anche le dichiarazioni qui rese dal tenente colonnello Carmelo Canale.

Nella circostanza il dott. Borsellino mi chiese la disponibilità del cap. De Donno per sviluppare l’attività investigativa sul condizionamento degli appalti pubblici da parte di “cosa nostra”.

Il magistrato riteneva, infatti, che potesse esserci un legame diretto tra l’attentato di Capaci con la più recente attività del dott. Falcone e pensava che la continuazione dell’indagine, che noi avevamo iniziato con l’amico, avrebbe comunque rappresentato un salto di qualità nel contrasto a “cosa nostra“.

Io ovviamente assicurai la disponibilità di De Donno e della Sezione da lui comandata, anche perché dopo i contrasti che si erano manifestati con i responsabili della Procura di Palermo, questa apertura ci avrebbe consentito di riprendere e sviluppare, con un sostegno altamente qualificato, la nostra indagine.

Il magistrato, scambiate alcune considerazioni tecniche con De Donno, ci diede appuntamento a dopo una serie di urgenti atti giudiziari che doveva svolgere nel corso del mese successivo anche all’estero.

Nel lasciarci egli ci chiese di mantenere il più stretto riserbo sull’incontro e sulla futura progressione delle indagini di cui non dovevamo parlare nemmeno con gli altri magistrati del Tribunale di Palermo.

Da parte di alcuni, in ambito giudiziario e conseguentemente in ambienti politici e giornalistici, si sostiene che l’omicidio del dr. Borsellino, sia stato anticipato perché il magistrato aveva manifestato apertamente la sua contrarietà a qualsiasi ipotesi di trattativa di cui era venuto a conoscenza a seguito del suo incontro all’aereoporto di Roma Fiumicino con la dottoressa Liliana Ferraro che gli aveva anche parlato del suo colloquio con il cap. De Donno e del tentativo ipotizzato di contattare Vito Ciancimino.

A proposito del quale, tengo nuovamente a precisare che non ne avevo fatto cenno negli incontri col dott. Borsellino tra la fine di giugno ed i primi di luglio, perché ritenevo assolutamente prematuro informare il magistrato, preso da una pressante serie di gravosi ma concreti impegni e con cui avevo un dialogo continuo, dell’idea di contattare Vito Ciancimino per farne una fonte informativa; allo stato una mera ipotesi di lavoro, ancora tutta da realizzare e dall’esito assolutamente aleatorio.

Su questa nostra intenzione ha riferito, in questa ed in altre sedi, la dott.ssa Ferraro, e non pare, dalle stesse sue affermazioni, che Paolo Borsellino avesse dato molto peso a quanto gli era stato riferito. Tanto è vero che, negli incontri del luglio successivo al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, ma anche nelle sue consuetudinarie frequentazioni con il tenente colonnello Canale, egli non ne fece cenno.

E se il magistrato avesse acquisito qualche dato significativo o nutrisse dei sospetti su di una trattativa e su di una partecipazione ad essa da parte mia o di altri ufficiali del ROS, quale migliore occasione quella di

rappresentarla al Comando Generale dell’Arma perché intervenisse immediatamente nella sua competenza.

A meno che qualcuno non pensi che tutta l’Arma fosse coinvolta nel complotto, in tal caso però ritengo che costui dovrebbe farsi curare molto seriamente.

Circa i tempi dell’esecuzione della strage di via D’Amelio, così come in tutte le sedi in cui è stato sentito, anche in questo processo, Gaspare Spatuzza ha confermato che la preparazione dell’attentato al dott. Borsellino era già in atto quando si verificò quello di Capaci. E Gaspare Spatuzza è stato colui che, avendo partecipato alla strage, con le sue documentate ammissioni in merito, ha consentito di effettuare una ricostruzione attendibile di quei fatti e rivedere le decisioni conseguenti alle precedenti fuorvianti dichiarazioni del falso collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino che inizialmente avevano trovato ampio credito.

  1. Le testimonianze dei magistrati Alessandra Camassa e Massimo Russo.

In questo processo sono stati anche intesi i magistrati Alessandra Camassa e Massimo Russo i quali hanno riferito circa un incontro che, nel corso del giugno 1992, ebbero con il dott. Borsellino e durante il quale, in un sofferto sfogo, il magistrato ebbe anche a profferire la frase: “ Un amico mi ha tradito. “ Paolo Borsellino non disse chi fosse questo amico e, peraltro, i due magistrati non sono riusciti a collocare nel tempo, in maniera precisa, la data dell’incontro.

Il Centro Operativo DIA di Palermo,delegato alle indagini per stabilire il giorno di quel colloquio, mentre non ha potuto ricavare elementi di riscontro dai componenti della scorta del dott. Russo, ha raccolto le testimonianze di quella della dott. sa Camassa che hanno consentito di collocare l’incontro dei due magistrati con il dott. Borsellino,testuale: “ … in un giorno antecedente il 21 giugno 1992 “.

Si veda l’informativa del Centro Operativo DIA di Palermo datato 26 luglio 2012 agli atti del processo.

Dal che si ricava, per diretta conseguenza, che “l’amico”, indicato come traditore, non potevamo certo essere né io e neppure Giuseppe De Donno

se è vero che, successivamente al 21 giugno 1992, il dott. Borsellino, il giorno 25 giugno di quel mese, a sua richiesta, ci incontrò nella caserma Carini di Palermo, presente anche il maresciallo Carmelo Canale, per stabilire intese circa la prosecuzione delle indagini relative all’inchiesta mafia ed appalti. Se avesse avuto notizie negative su di noi, il magistrato avrebbe assunto altre iniziative nei nostri confronti e comunque non avrebbe continuato a frequentarci e non ci avrebbe richiesto collaborazione nelle indagini.

Per quanto poi attiene alla cena “con alti ufficiali dei Carabinieri”, quella a cui fa riferimento il dott. De Donno, parlando con me nel colloquio intercettato dell’8 marzo 2012 e depositato in questi atti, osservo che la data del 13 giugno 1992, cioè l’ipotizzato onomastico del generale Antonio Subranni, indicato dal referto DIA, per mera deduzione, quale possibile giorno della sua effettuazione, non è ammissibile.

Infatti, bastava la semplice consultazione dell’agenda “grigia” del dott. Borsellino, anch’essa agli atti del processo perché allegata alle mie spontanee dichiarazioni del 20 ottobre 2009, per ricavare che:

. nel periodo 9 – 28 giugno 1992 egli era rimasto sempre a Palermo;

. in tale periodo ebbe luogo una cena con personale del ROS, in Sicilia, ma senza la presenza del gen. Subranni, che il dott. Borsellino indicò come “ la cena degli onesti “ e qui è stata ricordata dal teste Sinico;

. altre cene con Carabinieri ed appartenenti al ROS, a cui il magistrato partecipò in quel lasso di tempo, che va dai primi di giugno al 19 luglio, ed annotate anche nella sua agenda, si riferivano al 10 e 11 luglio 1992 e si svolsero a Roma.

Solo ad una di queste cene romane, quindi, note peraltro a tutti gli ufficiali del ROS centrale, si poteva esclusivamente riferire, a distanza di anni, Giuseppe De Donno.

A margine osservo, come estensore a suo tempo di un certo numero di rapporti giudiziari ed informative di reato, che l’ufficiale di pg, se deve fare necessariamente delle ipotesi di lavoro nella fase preliminare delle sue indagini per individuare l’indirizzo investigativo corretto su cui procedere, quando poi redige il referto conclusivo si deve limitare ad enunciare i fatti, lasciando ad altri le valutazioni conseguenti, deduzioni comprese.

Gli strani lapsus del generale Mori. Un faccia a faccia tra Giovanni Minoli e l’ex generale Mario Mori. Su La7 è andata in onda una lunga intervista a tutto campo molto interessante in cui Mori, condannato in primo grado dalla Corte d’Assise di Palermo al processo sulla trattativa fra Stato e Mafia a 12 anni per minaccia a corpo politico dello stato (art.338 c.p.), ha spiegato la sua posizione ed ha espresso il suo giudizio in merito alla sentenza.

“Se fossi stato io sarei un folle ad aver organizzato un affare simile, non dovrei andare in carcere ma in una clinica neuro-psichiatrica”, ha affermato l’ex generale. “Sono le stesse carte, le stesse vicende e gli stessi testimoni del processo di favoreggiamento a Provenzano in cui sono stato assolto – ha aggiunto – Mi sono innervosito e poi ho deciso di continuare a difendermi. Penso che sia un processo ormai debordato dal campo penale per entrare in quello storico-ideologico. Qui si fa l’analisi di un periodo storico più che esaminare le colpe di qualche imputato”.

Ma è ripercorrendo il suo passato che il Generale è incappato in un paio di “lapsus freudiani” molto interessanti che meritano di essere ascoltati e approfonditi.

Il primo riguarda quella che lo stesso Mori ha definito una volta la sua “grande sconfitta”, ossia la cattura di Riina il 15 gennaio 93. Perché sconfitta? Perché, ha spiegato, “quel giorno io avrei dovuto avere la forza di applicare il nostro sistema cioè perquisire…”. Si è fermato qui, per poi riprendere correggendo il tiro: “cioè proseguire il pedinamento”. Che la dichiarazione spontanea e alquanto improvvisa di Mori vada a centrare il nocciolo di quella torbida e misteriosa vicenda sulla mancata perquisizione del covo di Riina è un caso oppure no? Semplice errore? Ovvero a volte la verità esce prepotente, malgrado la volontà di chi ne viene travolto? E’ insomma l’inconscio che trapela contro la volontà di chi la vorrebbe negare?

Ma non è tutto. Alla domanda su quale fosse il carattere principale del fu capo dei capi, l’ex Generale è incorso nel secondo lapsus: “Un’assoluta moralità, un egocentrismo molto accentuato”. Moralità anziché amoralità. E infatti Minoli è intervenuto per correggere.

Non si può fare a meno di ricordare la prima deposizione in tribunale, quando l’ex comandante dei Ros raccontò in aula come si avviò la Trattativa Stato-mafia. Come ‘un muro contro muro’ tra lo Stato e la Mafia: “Ma non si può parlare con questa gente?”, chiese Mori a Vito Ciancimino in un incontro avvenuto a Roma nell’estate 1992. “La buttai lì, convinto che dicesse una cosa tipo ‘Cosa vuole da me’. Invece disse che si poteva fare”.

La domanda sorge spontanea: è normale che un uomo delle istituzioni, che dovrebbe avere a cuore il senso dello Stato, si meravigli del “muro contro muro”, cioè mafia da una parte e Stato dall’altra? E poi: è normale che l’ex capo dei Ros, condannato a 12 anni in primo grado per minaccia a corpo polito dello Stato, vada in televisione senza che vi sia un contraddittorio, una replica sul suo operato, definito nella requisitoria del pm Roberto Tartaglia al processo Stato-mafia, “da sempre oltre o contro le regole”?

Ma soprattutto: sono stati due lapsus freudiani quelli dell’ex generale? GIUSTIZIA 28.5.2018 di Francesco Bertelli


note

  1. ^Salta a:a b Tribunale di Palermo,  (PDF), su com.
  2. ^Il Supergenerale scende in campo: Mori entra nel movimento di Parisi
  3. ^Salta a:a b Covo di Riina, Caselli: «Il Ros decise da solo»
  4. ^Salta a:a b «Covo di Riina, bugie inspiegabili»
  5. ^Pietro Milio (legale generale Mori): “Motivazioni assoluzioni, positive ma con rammarico”, su it, 23 maggio 2006. URL consultato il 28 dicembre 2009(archiviato dall’url originale il 10 agosto 2009).
  6. ^Sentenza Mori, con omessa perquisizione covo Riina rischio devianza indagini, su Il Quotidiano Siciliano.it Mafia:, 22 maggio 2006 (archiviato dall’url originale l’11 agosto 2009).
  7. ^Salta a:a b c Mafia, assolti Mori e Obinu. Per i giudici non favorirono Provenzano – Il Sole 24 ORE
  8. ^Inchiesta Ros e droga, la Cassazione riqualifica le imputazioni: scatta la prescrizione per il generale Ganzer, in Corriere della Sera. URL consultato il 31 agosto 2017.
  9. ^fonte
  10. ^Mafia:Mori; ammesse deposizioni vedova e colleghi Borsellino, su it, 20 aprile 2012.
  11. ^Processo Mori-Obinu: Di Matteo chiede 9 e 6 anni di reclusione, su Ctstv Nb. URL consultato il 24 maggio 2013(archiviato dall’url originale il 28 gennaio 2015).
  12. ^
  13. ^https://www.testolegge.com/codice-penale/articolo-372
  14. ^Assolto l’ex generale del Ros Mario Mori “Non favorì la latitanza del boss Provenzano” – Palermo – Repubblica.it
  15. ^“Non favorì la latitanza di Provenzano”: Mori assolto, su Sicilia Informazioni. URL consultato il 1º agosto 2013(archiviato dall’url originale il 5 settembre 2013).
  16. ^Riccardo Lo Verso, Assoluzione per Mori e Obinu: “Restituita la mia onorabilità”, su it, 19 maggio 2016.
  17. ^Il generale Mori assolto: nessuna trattativa con i boss, in it. URL consultato il 31 agosto 2017.
  18. ^Trattativa Stato-mafia, il generale Mori indagato per «concorso esterno», in Corriere della Sera, 27 ottobre 2010. URL consultato il 27 ottobre 2010.
  19. ^Trattativa, la Procura chiede il rinvio a giudizio: processo per Riina, Provenzano e Mancino. Repubblica. Cronaca. 24 luglio 2012.
  20. ^338 CP
  21. ^Trattativa Stato-Mafia: Mario Mori condannato, ilfattoquotidiano, 20 aprile 2028
  22. ^Felice Cavallaro, Trattativa Stato-mafia: condannati Mori, Dell’Utri e Ciancimino. Assolto Mancino, su it, 20 aprile 2018.
  23. ^Mariateresa Conti, Tutti i conti che non tornano nella sentenza Stato-mafia, su it, 22 aprile 2018.
  24. ^Trattativa Stato-mafia, raffica di condanne: 12 anni a Dell’Utri e Mori. Mancino assolto, su it, 20 aprile 2018.
  25. ^Mariateresa Conti, Stato-mafia, sentenza choc: tutti colpevoli tranne Mancino, su it, 21 aprile 2018.
  26. ^Massimo Bordin, La sentenza tra politica, circo e populismo giudiziario, su it, 21 aprile 2018.
  27. ^Massimo Bordin, La Trattativa Stato-Mafia e “una sentenza che non convince per niente”. Parla Macaluso, su it, 24 aprile 2018.
  28. ^Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.

     

WIKIPEDIA


“Io mi curo per vivere a lungo, perché devo veder morire qualcheduno dei miei nemici”.  Parola del generale Mario Mori, 79 anni, invitato nei giorni scorsi a parlare di legalità con gli studenti dell’istituto comprensivo di Serino, un piccolo centro in provincia di Avellino.

Conversando con i giornalisti alla fine del suo intervento, inserito in un ciclo di cinque iniziative di educazione alla legalità patrocinate dal Comune e organizzate da Sante Massimo La Monaca, giudice onorario esperto del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, l’ex vicecapo del Ros dei carabinieri negli anni 90 e poi capo del Sisde (dal 2001 al 2006) condannato a 12 anni in primo grado per la trattativa Stato-mafia ha scagliato il lugubre anatema con le stesse parole già usate un anno fa a Roma durante la presentazione di un docufilm sulla sua vicenda giudiziaria. 

Con una sola precisazione: “Non fanno paura i nemici intelligenti, quanto i nemici cretini”.

A CHI SI RIFERIVA? Nessun nome è stato pronunciato dall’ex direttore del Sisde, che però non è riuscito a trattenersi dall’esprimere i propri sentimenti sui giudici e sui rappresentanti della pubblica accusa che nell’aula bunker di Palermo hanno chiesto e ottenuto la sua condanna per il reato di minaccia a corpo politico dello Stato. 

“Io – ha detto Mori – accetto il giudizio di una Corte e accetto anche che un pubblico ministero svolga pienamente il suo lavoro, anche se è contro di me.

Quello che non accetto da un pm, e cioè da un funzionario dello Stato, è che dopo il giudizio continui a parlare di questo argomento, perché allora il pm non è più qualcosa di impersonale, ma diventa qualche cosa di personale e questo a me non mi sta bene”. 

Mori non specifica il bersaglio, ma il pensiero non può che correre al pm Nino Di Matteo (già al centro di una sentenza di morte pronunciata da Cosa Nostra e per questo da anni sotto scorta), che subito dopo il verdetto di Palermo ha concesso alcune interviste televisive sul processo concluso e recentemente ha scritto, col giornalista Saverio Lodato, un libro dal titolo Il patto sporco (Chiarelettere) sulla trattativa Stato-mafia. 

Nessun imbarazzo da parte del sindaco di Serino, Vito Pelosi (eletto nel 2016 nella lista civica Serino Bene Comune e fresco di assoluzione “con formula piena” dall’accusa di peculato ad Avellino su una storia di regali offerti ad alcuni dipendenti storici del Comune per il loro pensionamento), per aver invitato a parlare di legalità agli studenti di terza media un ospite sicuramente illustre e competente, ma condannato per aver dialogato sottotraccia con il boss Vito Ciancimino a cavallo delle stragi del ’92. “Abbiamo riscontrato – ha dichiarato il sindaco con orgoglio – un notevole successo del nostro progetto all’interno delle scuole con relatori di una certa importanza’’. 

Senza imbarazzi anche la dirigente dell’istituto comprensivo che ha voluto fortemente l’incontro a scuola con il generale Mori, la professoressa Antonella De Donno, che è la sorella del l’ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno, condannato anche lui per la trattativa a 8 anni e presente a Serino. “Conosco gli uomini e la loro onestà – ha detto lei –, sono figlia, sorella e moglie dell’Arma dei carabinieri e penso che nessuno possa essere considerato colpevole prima di una sentenza definitiva”.

NEL CORSO del progetto, costato al Comune circa 2.000 euro (con un sostegno della Banca di Credito Cooperativo per la cena finale), Mori ha spiegato che “legalità è anche far fronte a soluzioni difficili rispettando le leggi e battendosi con le leggi per ottenere giustizia”, e ha aggiunto che “è difficile insegnare la legalità, ma dobbiamo arrenderci se non cominciamo dai ragazzi”. 

Ai quali, magari, andava raccontato anche che la Corte d’Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha definito il loro estemporaneo docente “mendace” e “depistatore”, demolendone il mito di detective infallibile e restituendo il ritratto di un investigatore al centro di numerosi episodi oscuri della storia occulta del Paese.

Nella sentenza sulla trattativa, i giudici descrivono Mori come “insofferente alle regole”. Un’insofferenza, si legge ancora, che “ha portato il generale a trattare con i mafiosi nello stesso interesse superiore dello Stato… senza informare alcuna autorità giudiziaria, senza incanalare dunque quella iniziativa nel rispetto delle regole dello Stato di diritto, e in definitiva senza valutarne le conseguenze, che infatti si sono rivelate devastanti, allorché i mafiosi, percependo il segnale di cedimento dello Stato, hanno incrementato il programma stragista. Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco sul Fatto del 06/12/2018

Trattativa Stato-mafia: i molteplici ”misteri” sul passato di Mori. Nelle parole dell’ex generale del Ros ravvisato il “mendacio” e il “tentativo di depistaggio”

Tra le carte acquisite al processo trattativa Stato-mafia riguardo il passato di Mario Mori (condannato a 12 anni nel processo Trattativa che lo vedeva imputato assieme ad altri ex ufficiali dell’Arma, ex politici e boss mafiosi) all’interno dei Servizi di Sicurezza negli anni Settanta, il suo eventuale coinvolgimento nelle trame nere della Rosa dei Venti ed i collegamenti con il Gran Maestro della P2 Licio Gelli ed il giornalista Mino Pecorelli negli anni della strategia della tensione, vi sono documenti che mettono in evidenza “il mendacio ed il tentativo di depistaggio posti in essere dal detto imputato (Mori, ndr) con le sue dichiarazioni spontanee”

E’ scritto anche questo nelle motivazioni della sentenza scritte dal giudice Alfredo Montalto (a latere Stefania Brembile) con un intero capitolo dedicato alla “valutazione delle risultanze sulla personalità ed il modus operandi di Mario Mori

Dopo aver ricostruito i clamorosi episodi della “mancata perquisizione del covo di Riina”, di “Terme Vigliatore” e di “Mezzojuso” (con le due mancate catture di boss latitanti, Nitto Santapaola nel ’93 e Bernardo Provenzano nel ’95) la Corte si dedica ad analizzare la testimonianza del colonnello Massimo Giraudo, pesantemente messa in discussione anche con gravissime accuse dalla difesa dello stesso Mori. Ma la Corte smonta ogni contestazione evidenziando come “tutte le dichiarazioni di Giraudo trovano fondamento inequivocabile nei documenti acquisiti nel corso delle indagini del predetto teste e riversati nel presente processo”.

Materiale in cui si racchiude una parte dell’attività di indagine sulla permanenza dell’ex capo del Ros Mario Mori al Sid (Servizio Informazioni difesa, ex Sismi, attuale Aise, ndr) nei primi anni ’70

Nel corso della requisitoria i pm avevano parlato di un “modus operandi che è stato, da sempre e per sempre, o ‘Oltre’ o ‘Contro’ le leggi e le regole”ed aveva evidenziato vari episodi che avevano visto protagonista l’ex generale del Ros come protagonista proprio negli anni in cui era inserito nei Servizi di sicurezza.

L’allontanamento dal Sid I giudici ripercorrono gli elementi emersi sul suo allontanamento nel 1975 dal Sid, dov’era entrato nel 1972 grazie al generale Vito Miceli su sollecitazione di Federico Marzollo. A differenza da quanto da lui stesso sostenuto non era dovuto a “questioni di cortile tra Maletti e Miceli”, come Mori aveva sostenuto in aula, ma al suo possibile coinvolgimento nella “Istruttoria sulle Trame Nere”, tanto che a Roma era stata aperta l’inchiesta sul golpe Borghese e vi erano confluite le indagini padovane sulla Rosa dei Venti. Nelle motivazioni della sentenza si legge che dalle carte acquisite “si ricava che Mori era ben a conoscenza delle ragioni del suo allontanamento da Roma… si evidenzia il mendacio e il tentativo di depistaggio (da lui, ndr) posti in essere”

Infatti Mori, nelle sue dichiarazioni spontanee, “ha tenuto ad affermare di non essere stato mai a nessun titolo coinvolto in indagini relative alle trame eversive degli anni settanta” ma questo non corrisponde al vero. “A smentire Mori – scrivono i giudici – vi sono risultanze documentali inequivocabili. Quanto al primo punto, quello del coinvolgimento (certo non formale ma sicuramente fattuale) nelle indagini relative alla ‘Rosa dei Venti’, vi sono, innanzitutto, la nota a firma del Giudice Istruttore del Tribunale di Padova, Dott. Tamburino, con la quale, in data 3 novembre 1974, si chiede all’Amm. Casardi di “inviare foto tipo tessera del capitano Cc. Mori Mario, in servizio presso il Raggruppamento Centri di Roma”

Una richiesta precisa in quanto, come aveva spiegato il pm Tartaglia nella requisitoria “A Padova uno degli arrestati dell’operazione Rosa dei Venti, Amos Piazzi, aveva iniziato a rendere dichiarazioni e Tamburino gli stava mostrando delle fotografie. Amos Piazzi ha detto che dal Sid gli era arrivato un comando di attivazione perché stava per iniziare il colpo di Stato”. “Quella foto di Mori non sarà mai mostrata ad Amos Piazzi– aggiunse poi il magistrato – Abbiamo mandato Giraudo a cercare negli archivi dei tribunali di Roma, l’ha trovata chiusa e sigillata. Tamburino chiede la foto, la Procura generale della Cassazione gli toglie l’indagine per competenza e la sposta a Roma. Tamburino manda gli atti a Roma e da quel momento l’indagine sulla Rosa dei Venti viene riunita con quella sul Golpe Borghese e a Roma nessuno mostra la foto di Mori ad Amos Piazzi. E questi sono i dati di fatto.

Il collegamento con Licio Gelli  Altro punto critico riguarda le relazioni tra Mori e il Venerabile Licio Gelli. In questo caso non esistono documenti che provano la sua affiliazione alla P2, tuttavia i giudici ritengono veritiere le dichiarazioni del colonnello Mauro Venturi. Quest’ultimo disse che Mori “da lui conosciuto nel 1972 al Sid, ebbe a dirgli che ‘molti colleghi avevano aderito alla P2’, chiedendogli ‘una sorta di consulto e di iscrizione condivisa’’’. E poi aggiunse che Gianfranco Ghiron, vicinissimo a Mori, e fratello di Giorgio (anni dopo sarà l’avvocato e il fiduciario di Vito Ciancimino), “era ben introdotto negli ambienti dell’intelligence statunitense” ed “era proprio di destra, ma della destra più nera, per questo si trovava bene con Mori, che era nero quanto lui, anche se cercava di non darlo a vedere”. La Corte osserva che “non vi sono ragioni per disattendere le dichiarazioni del Venturi”, e che se non c’è alcun riscontro dell’iscrizione di Mori alla P2, “non è tanto perché il suo nome non compare nelle liste di Castiglion Fibocchi (dal momento che è stata acclarata l’incompletezza delle liste), quanto perché a ben leggere le dichiarazioni di Venturi, non emerge che Mori si iscrisse effettivamente alla P2”.

L’amicizia con Pecorelli. Altro argomento affrontato nel corso dell’dibattimento e qui ricordato dai giudici riguarda l’amicizia con il giornalista Mino Pecorelli, ucciso a Roma nel ’79, che il generale ha negato di conoscere. I giudici parlano di “smentita” alla sua autodifesa, sostenendo che il timbro sulla richiesta di passaporto del giornalista venne apposto dal “capitano Mori dei carabinieri in servizio al Rud”. Dietro quella sigla, aveva spiegato il colonnello Giraudo, “non c’è dubbio che sia lui (Mori, ndr) perché… il Rud era il nome con cui… si poteva ufficialmente spendere l’appartenenza al Servizio”. Inoltre va tenuto conto che “la richiesta di rilascio del passaporto in favore di Pecorelli, come precisato da Giraudo, risale al 1973 e, dunque, proprio nel periodo in cui Mori ancora prestava servizio presso il Raggruppamento Centri e, come riconosciuto dallo stesso imputato, aveva, dunque, competenza, in assenza del titolare dell’Ufficio, il Magg. Venturi, a richiedere alla Questura di Roma il rilascio di passaporti con la procedura agevolata prevista per i Servizi”

Ma nel documento si ricorda come l’agenzia di stampa di Pecorelli (O.P), alimentata anche da fonti dei Servizi, spesso venne utilizzata strumentalmente per il raggiungimento di scopi diversi da quelli dell’informazione. Un modus operandi analogo a quel che venne effettuato da Mori con il giornalista Nicola Rao “per far trapelare sulle agenzie di stampa una notizia che serviva in quel momento a confermare l’individuazione di una possibile interlocuzione dello Stato soltanto con Provenzano ed a delimitare l’oggetto del potenziale dialogo”. L’agenzia, nello specifico, è quella del 10 dicembre 1993. Nei dispacci veniva evidenziato che “il gruppo Riina, guidato da Provenzano, Brusca e Bagarella ha ideato e realizzato gli attentati dell’estate del 1993” e che “il tentativo di Cosa Nostra sarebbe stato quello di intimidire lo Stato con una serie di azioni eclatanti, sperando che il 41 bis non fosse ripristinato”.

L’episodio dell’arresto del terrorista Lounici. Infine la Corte evidenzia come “rilevante ai fini del modus operandi di Mori”, la vicenda dell’arresto di un latitante internazionale, il terrorista algerino Djamel Lounici. Un episodio che è stato riferito in aula da Giraudo per conoscenza diretta e che nella sostanza è stato sostanzialmente confermato anche da Mori in sede di dichiarazioni spontanee.

Giraudo in particolare, ha raccontato che, a seguito del mandato di arresto internazionale veicolato dall’Interpol, egli aveva disposto alcune attività di pedinamento attraverso la competente Sezione Anticrimine di Milano, la quale, ad un certo momento, aveva così individuato il latitante. E Giraudo avvisò il suo superiore, per l’appunto Mori, il quale, “in un primo tempo, nulla aveva detto, ma poco dopo lo aveva raggiunto ordinandogli di non procedere all’arresto di Lounici senza dargli alcuna spiegazione”. Mori, nella sua difesa, “pur asserendo di non essersi, nei fatti, opposto all’arresto del Lounici (cosa che, d’altra parte, in concreto non gli fu possibile per la prontezza con la quale Giraudo gli rispose che ormai il dispositivo per l’arresto era stato attivato, pur se ciò non rispondeva al vero) ha dovuto ammettere di avere manifestato ‘disappunto’ per il detto arresto di Lounici”

“Qui – scrive la Corte – non rileva il merito della vicenda, ma il fatto che anche in quel caso Mori aveva ritenuto di potersi sottrarre all’obbligo, che gli derivava dalla funzione svolta, di arrestare il latitante nel momento in cui era stato individuato (obbligo, peraltro, riconosciuto come sussistente dallo stesso Mori che ha definito l’arresto ‘giuridicamente obbligato’) sulla scorta di valutazioni che non gli competevano e, soprattutto, senza informare la competente Autorità Giudiziaria”.

Un operato secondo la Corte “analogo” a quello posto in essere sia precedentemente all’episodio in questione a proposito dell’iniziativa intrapresa con Vito Ciancimino ed alla mancata perquisizione dell’abitazione di Riina, sia successivamente a proposito della mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso.

In conclusione la Corte, tenuto conto anche di questi elementi, dipinge l’immagine di un soggetto “insofferente alle regole, soprattutto ai doveri che connotano l’attività della polizia giudiziaria rispetto all’autorità giudiziaria che ne è referente”. Un’insofferenza, proseguono i giudici, elevata a modus operandi durante la fase della trattativa “che ha portato Mori a trattare con i mafiosi nello stesso interesse superiore dello Stato (da lui, in quel caso, identificato con alcuni soggetti ricoprenti cariche pubbliche che temevano di essere vittime della vendetta mafiosa) senza informare alcuna autorità giudiziaria, senza incanalare dunque quella iniziativa nel rispetto delle regole dello Stato di diritto, e in definitiva senza valutarne le conseguenze che infatti si sono rivelate devastanti, allorché i mafiosi, percependo il segnale di cedimento dello Stato, hanno incrementato il programma stragista”. ANTIMFIA DUEMILA 30 Luglio 2018 di Aaron Pettinari


I contatti fra don Vito e i carabinieri del Ros./Costituisce fatto accertato ed incontestato anche da parte degli imputati che, all’indomani della strage di Capaci, i Carabinieri del R.O.S., nella specie nelle persone degli odierni imputati Subranni, Mori e De Donno, abbiano deciso di “agganciare” Vito Ciancimino.

Ai fini della ricostruzione dei conseguenti contatti tra i predetti Carabinieri, la Corte, non intendendo in alcun modo utilizzare il racconto di Massimo Ciancimino per le ragioni sopra esposte nella Parte Seconda della presente sentenza, si avvarrà esclusivamente di quanto risulta dalle dichiarazioni, orali o scritte, dei protagonisti dei contatti medesimi comunque acquisite nel presente

processo ed esaminerà le stesse alla luce anche delle altre acquisizioni dibattimentali, iniziando dalle risultanze del primo processo che ha affrontato i temi qui in esame, quello tenutosi a Firenze per le stragi del 1993, peraltro, a sua volta, in gran parte fondate sulle testimonianze rese in quella sede dagli odierni imputati Mori e De Donno.

[…]  Nella sentenza n. 3/98 pronunziata dalla Corte di Assise di Firenze il 6 giugno 1998 (doc. 50 della produzione del P.M. all’udienza del 26 settembre 2013), per la parte che qui rileva, si legge:

“Mario Mori. Il gen. Mori ha riferito che nel 1992 era a capo del reparto Criminalità Organizzata del ROS. Fu nominato vice-comandante del ROS ai primi di agosto del 1992. Dopo la strage di Capaci colse lo sconcerto dell’opinione pubblica, degli organismi istituzionali e degli stessi investigatori per la realtà di un fenomeno, quello mafioso, che molti cominciavano a considerare “indebellabile “, perché insito nella cultura di una determinata zona del territorio nazionale. Ritenne perciò suo dovere morale e professionale fare qualcosa. La prima iniziativa che prese fu quella di costituire un gruppo speciale di operatori destinato alla ricerca del capo di “cosa nostra” (Riina).

Un ‘altra iniziativa di ricercare ”fonti, spunti, notizie” che potessero portare proficuamente gli investigatori all’interno della struttura mafiosa. Parlò di quest’idea col capitano Giuseppe De Donno, suo dipendente, al quale rappresentò la necessità di ricercare una fonte di alto livello con cui

interloquire. Il De Donno gli parlò della familiarità che aveva col figlio di Vito Ciancimino, a nome Massimo, nata nel corso del dibattimento di I grado svoltosi contro il padre. Infatti, ha precisato, Vito Ciancimino era stato prima arrestato e poi portato a giudizio al termine di un ‘indagine che riguardava la manutenzione strade ed edifici scolastici della città di Palermo, condotta dal Nucleo Operativo del Gruppo di Palermo, cui era addetto il sunnominato capitano De Donno. Ciancimino fu giudicato e condannato a otto anni di reclusione per associazione a delinquere semplice, abuso d’ufficio, falso e altro.

Il De Donno suggerì di sji-uttare la familiarità che aveva con Massimo Ciancimino per tentare un avvicinamento al padre, che era, all’epoca, libero e residente a Roma. Egli lo autorizzò a ricercare “il contatto “. In effetti, ha proseguito, nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio, ci fu un primo incontro tra De Donno e Massimo Ciancimino, all’esito del quale De Donno si incontrò con Vito Ciancimino. A quest’incontro ne seguirono altri successivi (due-tre in tutto), alcuni dei quali si svolsero anche a cavallo della strage di via D’Amelio. Lo scopo di questi incontri era quello di avere da Ciancimino qualche spunto di tipo investigativo che portasse alla cattura di latitanti o, comunque, alla migliore comprensione del fenomeno mafioso (“De Donno andò a contattare Ciancimino per vedere di capire e di avere qualche notizia, qualche informazione, qualche spunto, di tipo investigativo ”).

Il dialogo tra i due si allargò e investì la stessa “Tangentopoli” e le inchieste che li avevano visti protagonisti (De Donno come investigatore; Ciancimino come persona sottoposta ad indagini). In uno di questi incontri Ciancimino fece a De Donno una strana proposta, che il teste così riferisce: “lo vi potrei essere utile perché inserito nel mondo di Tangentopoli, sarei una mina vagante che vi potrebbe completamente illustrare tutto il mondo e tutto quello che avviene “. Questo fatto convinse De Donno che il Ciancimino fosse disponibile al dialogo.

Per questo fece in modo che si incontrassero lui (Mori) e Ciancimino. Egli entrò in campo, ha spiegato, perché, quando si manifestò, concretamente, la possibilità di avere un rapporto con Ciancimino, comprese che questi “non era la solita fonte informativa da quattro soldi”, ma un

personaggio che non avrebbe accettato di trattare con altri che non fossero dei capi. Per questo si rese visibile anche lui, oltre che per fornire sostegno psicologico e morale al De Donno. Invero, incontrò per la prima volta Vito Ciancimino nel pomeriggio del 5-8-92 a Roma, in via di Villa Massimo, dove il Ciancimino abitava (nota n. 1642: Il gen. Mori si è rivelato sicuro sulle date

perché, ha detto, conserva l’agenda del 1992, dove sono segnati appunti che l’hanno aiutato nella memoria. Copia delle pagine dell’agenda del 5 agosto, ma anche delle giornate successive (di cui si dirà) sono state prodotte all’udienza del 24-1-98 (vedi faldone n. 32 delle prod. dib.).

Parlarono, in generale, di molte cose, soprattutto della vita palermitana (Ciancimino era palermitano ed egli aveva comandato il Gruppo Carabinieri di Palermo per quattro anni).

Ciancimino gli chiese anche notizie sui suoi diretti superiori. Egli fece il nome del gen. Subranni. Ciancimino mostrò di ricordarsi di lui (il gen. Subranni aveva diretto il Nucleo Investigativo di Palermo) e manifestò ammirazione per la sua sagacia investigativa. Quando fece rientro in ufficio accennò al gen. Subranni di quest’incontro e lo commentarono insieme. Ebbe il secondo incontro con Ciancimino il 29-8-92, sempre a casa di quest ‘ultimo. A quell’epoca, ha precisato, sapeva che Vito Ciancimino aveva una posizione “non brillantissima” dal punto di vista giudiziario, giacché gli era stato ritirato il passaporto e prima o poi sarebbe dovuto rientrare in carcere (evidentemente, per scontare una condanna definitiva). Per questo sperava che il Ciancimino facesse delle aperture (”Noi speravamo che questo lo inducesse a qualche apertura e che ci desse qualche input ”). Perciò, riprendendo il filo del discorso avviato da De Donno (quello sugli appalti), disse a Ciancimino: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?” La buttai lì convinto che lui dicesse: ”cosa vuole da me colonnello?” Invece dice: ”ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”. E allora restammo … dissi: ”allora provi”. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. Nel corso di quest’incontro, o di quello precedente, fecero qualche accenno ai guai giudiziari di Ciancimino. Si rividero 1’1-10-92, ancora a casa di Ciancimino. In questo terzo incontro Ciancimino disse di aver preso contatto con i capi di “cosa nostra”, “tramite intermediario” (di cui non gli fece il nome). Ma ecco come l’incontro viene narrato dal teste: “Allora, dice: ‘io ho preso contatto, tramite intermediario, con questi signori qua, ma loro sono scettici perché voi che volete, che rappresentate?’ Noi non rappresentavamo nulla, se non gli ufficiali di Polizia Giudiziaria che eravamo, che cercavano di arrivare alla cattura di qualche latitante, come minimo. Ma certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso, oppure gli potevo dire: ‘beh, signor Ciancimino, lei si penta, collabori, che vedrà che l’aiutiamo’. Allora gli dissi: ‘lei non si preoccupi, lei vada avanti’. Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. Ciancimino gli fece anche capire che le persone da lui contattate non si fidavano. Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: “Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io’ – Ciancimino – ‘e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio? “. Egli sapeva che a Ciancimino era stato ritirato il passaporto e che, pertanto, la proposta di continuare la trattativa all’estero era un escamotage del Ciancimino per mettersi al sicuro. Aveva messo in conto, ma solo come ipotesi remota, fin dall’inizio del suo rapporto con Ciancimino, che questi gli chiedesse cosa aveva da offrire. Non si aspettava, però, uno “show down” così precoce, pensando che il Ciancimino avrebbe tirato la cosa per le lunghe. Era convinto che Ciancimino avrebbe fatto qualche apertura “a livello più basso “, ma non che offrisse una disponibilità totale a fare da intermediario, come invece avvenne. Per questo venne colto alla sprovvista dalla disponibilità di Ciancimino e dalla richiesta di mettere le carte sul tavolo. Perciò gli rispose: “Beh, noi offriamo questo. I vari Riina, Provenzano e soci si costituiscono e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. Prosegue: “A questo punto Ciancimino si imbestialì veramente. Mi ricordo era seduto, sbattè le mani sulle ginocchia, balzò in piedi e disse: ‘lei mi vuole morto, anzi, vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno “. Quindi, molto seccamente, lo accompagnò alla porta.

Si lasciarono con la prospettiva di chiudere la trattativa “senza ulteriori conseguenze”. Ebbe la sensazione, all’esito di questo incontro, che Ciancimino avesse realmente stabilito un contatto con i capi di “cosa nostra”. Suppose anche che il Ciancimino, pressato dalla sua posizione giudiziaria, si sarebbe fatto risentire. Infatti, ha aggiunto, ai primi di novembre di quello stesso anno,

Massimo Ciancimino richiamò il cap. De Donno e gli chiese di incontrare nuovamente il padre. De Donno, con la sua autorizzazione, si incontrò, in effetti, con Vito Ciancimino (non ricorda quando). Questi gli chiese nuovamente cosa volessero in concreto e De Donno gli rispose che volevano catturare Salvatore Riina. Ciancimino si mostrò, questa volta, disposto ad aiutarli. Chiese perciò a De Donno di fargli avere le mappe di due-tre servizi (luce, acqua, gas) relative ad alcune precise zone della città di Palermo: viale della Regione Siciliana, “verso Monreale”. De Donno se le procurò presso il Comune di Palermo e gliele portò il 18-12-92. Il Ciancimino non si mostrò però soddisfatto e diede alcune altre indicazioni su ciò che gli occorreva. Il giorno dopo (19-12-92), però, Ciancimino venne arrestato. Pensava che il rapporto con lui fosse concluso, quando, qualche giorno prima dell ‘arresto di Riina (quindi, agli inizi di gennaio del 1993), fu contattato dall’avv. Giorgio Ghiron, legale di Ciancimino, il quale gli disse che il suo cliente voleva parlargli. Egli contattò

allora il Procuratore della Repubblica di Palermo, dr. Caselli, al quale raccontò tutta la vicenda precorsa.

Il dr. Caselli autorizzò un colloquio investigativo col Ciancimino. Questo nuovo incontro si svolse nel carcere di Rebibbia il 22-1-93 e ad esso partecipò, come al solito, il cap. De Donno. Il

Ciancimino si mostrò aperto alla formale collaborazione con lo Stato. 1n effetti, ha aggiunto, a partire da febbraio del 1993 il Ciancimino fu escusso dalla Procura di Palermo, alla quale spiegò che l’intermediario tra lui e i vertici di “cosa nostra” era stato il dr. Cinà, medico personale di Riina. – Il teste ha precisato di aver reso le prime dichiarazioni su questa vicenda alla Procura di Firenze il giorno 1-8-97. Inoltre, di aver annotato le date dei vari incontri col Ciancimino sulla sua agenda personale (nota n. 1643: La copia di alcune pagine dell’agenda è stata acquisita dalla Corte, su richiesta del PM).

All’epoca degli incontri di Roma, in via Villa Massimo, Ciancimino era libero. Agli incontri  partecipò sempre il cap. De Donno. Ha detto di aver informato il gen. Subranni, suo diretto superiore, del rapporto con Ciancimino, per avere un consiglio da lui, ma non perché fosse obbligato a farlo, in quanto gli ufficiali di polizia giudiziaria possono trattare autonomamente le fonti informative. Gli rese noto l’esito della discussione del 18-10-92. Ha insistito sul fatto che la

presa di contatti con Ciancimino mirava ad avere il Ciancimino come fiduciario del ROS. Ad averlo, cioè, come un confidente che, avendo una posizione giudiziaria in sospeso, sarebbe potuto divenire un collaboratore. Quindi, richiesto di spiegare in che modo e ad iniziativa di chi Ciancimino venne ad assumere il ruolo di “interfaccia “, ha dichiarato: “Ma guardi, il problema …

Ciancimino non è il solito personaggio da quattro soldi. Cioè, bisognava gestirlo sviluppando con lui un dialogo che tenesse conto anche delle sue esigenze. Perché non gli potevamo dire brutalmente: senti, Ciancimino, la tua posizione giuridica e giudiziaria è quella che è, statti attento, se vuoi evitare la galera ti possiamo aiutare. Però tu dacci … Perché mi avrebbe accompagnato

alla porta immediatamente. Perché i tempi erano diversi. Oggigiorno, forse, questo discorso brutalmente si potrebbe anche fare; nel ’92 non si poteva assolutamente fare. E allora era una schermaglia continua tra me e lui, tra lui e De Donno, in tre, cercando di cogliere … E’ stato un bel duello, possiamo definirlo così, per cercare di capire i punti in cui noi ci potevamo spingere, dove

lui accettava. Dove lui ci voleva anche portare. Perché tutto sommato, ci ha l’intelligenza per gestire qualche… Quindi, inizialmente il problema era solo, dice: va be’, ci darà qualche notizia se ci va bene; sennò ci accompagna alla porta e finisce lì. Poi, il fatto che lui si presenta come addirittura disponibile ad inserirsi in un gioco sotto copertura, quasi nell’ambito dell’attività contro l’imprenditoria mafìosa. Il fatto che dovevamo, in qualche modo, allungare il brodo … lo che gli potevo dire? Brutalmente … solo quello gli potevo dire. Gli ho detto: ‘ma lei li conosce questa gente?’ Sapevo benissimo che li conosceva, Ciancimino è di Corleone. E quindi è stato quasi portato al discorso, questo ti … E’ stato un andare insieme verso quel… Perché a noi ci conveniva, guadagnavamo tempo “. Ha detto di aver avuto in mente anche di far pedinare Ciancimino, se la trattativa fosse proseguita, per capire quali persone contattava e se le contattava.

In sede di controesame ha precisato che Ciancimino gli parlò espressamente dei “corleonesi” come suoi referenti […]. Non furono mai fatte da Ciancimino proposte concrete per la trattativa. Non sentì mai parlare di “papello “. Ciancimino non diede alcun contributo all’arresto di Riina. Secondo la sua personale opinione, se la trattativa fosse proseguita li avrebbe messi in condizione di fare un’indagine seria su Riina. Le mappe richieste da Ciancimino sono state consegnate alla Procura della Repubblica di Palermo. In esse era compresa anche la zona che fu teatro dell’arresto di Riina. Erano comprensive anche della zona in cui abitava Riina. Circa le intenzioni con cui essi iniziarono la discussione con Ciancimino ha precisato, in sede di controesame: “lo pensavo, e ritengo di

averlo espresso questo concetto, che Ciancimino avrebbe tirato alla lunga questa trattativa per vedere in effetti noi che cosa gli potevamo offrire come persona, non come soggetto inserito in una organizzazione. Cioè, ai suoi fini l’avrebbe tirata lunga, perché non ritenevo che fosse in condizione, o che volesse prendere contatto con Cosa nostra. Per cui io ritenevo che invece lui cercasse di sbocconcellarci il pane della sua sapienza, di fatti e di cose che potevano interessarci, su altri settori. Cioè imprenditoria mafiosa, appalti, polemiche relative … vicende giudiziarie relative al Comune di Palermo: ecco, questo era il settore dove io pensavo che lui andasse a finire. E quindi rimasi sorpreso invece dall’indirizzo che lui ebbe a dare al nostro…”

… De Donno Giuseppe. Questo teste ha dichiarato di essere stato in servizio al Nucleo Operativo del Gruppo dei Carabinieri di Palermo tra il 1988 e il 1989, come ufficiale (capitano). In tale qualità effettuò una serie di indagini sulla gestione degli appalti del Comune di Palermo, all’esito delle quali furono emesse ordinanze di custodia cautelare dal GiP di Palermo a carico di Vito Ciancimino e altri personaggi. Ciancimino fu arrestato nella primavera del 1990 e condannato poi a sette o otto anni di reclusione. Ha dichiarato di essere poi passato al ROS alla fine degli anni ’90 e di essersi interessato nuovamente di Ciancimino nel 1992. Questa volta, non per sottoporlo ad indagini, ma per questi altri motivi: “Il senso in pratica era questo: era nostra intenzione cercare di trovare un canale di contatto con il Ciancimino, per tentare di ottenere da lui indicazioni utili su quanto, sui fatti storici che si stavano verificando in quel periodo. E in ultima analisi tentare di ottenerne una collaborazione formale con l’autorità giudiziaria “.

L’idea di contattare Ciancimino fu sua, perché conosceva molto bene uno dei figli di Vito Ciancimino, a nome Massimo, che aveva incontrato varie volte mentre si sviluppava l’attività investigativa sul padre e nel corso di spostamenti aerei da Palermo a Roma. Aveva anche motivo di ritenere di non essere male-accetto a Ciancimino e alla sua famiglia, giacché si era sempre comportato con estrema correttezza nel corso dei “contatti” che aveva avuto con lui per motivi professionali. Fece presente questa sua intenzione all’allora col. Mori, comandante del reparto in cui operava, poco dopo la strage di Capaci, ed ebbe l’autorizzazione a tentare un approccio. Si rivolse a Massimo Ciancimino, che incontrò, appunto, durante uno spostamento aereo da Palermo a Roma e avanzò la sua richiesta di essere ricevuto dal padre. Incontrò, in effetti, Vito Ciancimino nella di lui abitazione romana, due tre volte, tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Prese il discorso alla larga, facendo intendere che ricercava elementi di valutazione rispetto a ciò che

stava accadendo, in quel periodo, in Sicilia […]. Parlarono anche di “tutto lo sviluppo che c’era stato nel momento delle operazioni milanesi, il cosiddetto Manipulite”.

L’obiettivo era, comunque, a quel momento, di instaurare un rapporto di fiducia e di comprensione con Ciancimino. Ha aggiunto che, dopo la strage di via D’Amelio, fece un tentativo, riuscito, di “forzare la mano “: indurre Ciancimino a incontrarsi col colonnello Mori. Spiega così questo “innalzamento del livello “: “Questo, per una serie di motivi particolari. Primo fra tutti, la presenza del comandante rappresentava un livello nettamente superiore al mio, quindi rappresentava una sorta di riconoscimento del livello del nostro interlocutore. E ritenevo che il Ciancimino potesse sbloccarsi di più. Tra l’altro, mantenendo ferma l’idea che la nostra impostazione era comunque quella di attenerne una collaborazione, l’accettazione da parte del Ciancimino di un dialogo anche con il colonnello Mori era un passo in avanti verso questo obiettivo graduale che si doveva raggiungere “. Questo “innalzamento “, ha precisato, non era stato preventivato fin dall’inizio, ma rappresentò l’approdo del discorso fino a quel momento sviluppato. L’obiettivo finale era, comunque, quello di portare il Ciancimino alla collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.

Ecco in che modo pensarono di raggiungere questo risultato: “Allora convenimmo che la strada migliore era quella di avvicinare sempre di più il Ciancimino alle nostre esigenze, cioè di portarlo per mano dalla nostra parte. E gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa nostra. Al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò. Accettò questa ipotesi con delle condizioni. Innanzitutto, la condizione fondamentale era che lui poteva raggiungere il vertice dell’organizzazione siciliana, palermitana, a patto di rivelare i nominativi miei e del comandante al suo interlocutore “.

Essi acconsentirono a che venissero rivelati i loro nomi agli interlocutori, ma non fecero certo capire al Ciancimino che erano rappresentanti solo di sé stessi. Gli lasciarono credere che “avevano la capacità di fare questa iniziativa”. […] Il discorso del cap. De Donno è continuato, quindi, sulla falsariga di quello già fatto dal gen. Mori. Ha riferito che ci furono quattro incontri tra Mori e Ciancimino tra agosto e ottobre del 1992, avvenuti tutti a casa di Ciancimino e tutti con la sua partecipazione. […] Al quarto incontro Ciancimino disse di aver stabilito un contatto con i “vertici siciliani” e chiese loro cosa volevano. Si adirò quando si sentì dire che volevano la cattura di Riina e Provenzano in cambio di un equo trattamento per i loro familiari. Decise autonomamente che non avrebbe fatto alcun cenno al suo interlocutore della loro richiesta, perché, altrimenti, avrebbe anche corso il rischio di rimetterci la vita. Si lasciarono col tacito accordo di congelare ogni cosa, per il momento (”Quindi avrebbe dato sì un messaggio negativo, ma non un messaggio ultimativo. Cioè, comunque restava aperta la porta ad un ‘eventuale ripresa di dialogo”).

L’esito di questo discorso fu, comunque, quello di isolare Ciancimino dal suo retroterra mafioso, giacché, accettando il dialogo con i Carabinieri, si era venuto a trovare “con un piede di qua e un piede di là”, se non altro perché aveva reso evidente che “i Carabinieri avevano scelto lui per questo contatto”.

Questo fatto costringeva ormai il Ciancimino a “gestirsi in maniera estremamente accorta “, perché in Sicilia anche un minimo sospetto “può determinare conseguenze particolari “.

Praticamente, la scelta della collaborazione era ormai obbligata per Ciancimino. Ha dichiarato che, prima di dargli il via libero per i contatti con Ciancimino, il col. Mori parlò col comandante del ROS, il generale Subranni. Ha continuato dicendo di aver incontrato nuovamente Ciancimino afine ottobre (o inizi di novembre del 1992), allorché Ciancimino gli fece sapere, attraverso il figlio, che voleva vederlo. Quando si incontrarono chiese chiaramente a Ciancimino di collaborare fattivamente per la cattura di Riina Ciancimino accettò di fornire informalmente elementi utili a questo scopo, nella speranza di allontanare la prospettiva del carcere, che per lui si presentava quasi imminente. Chiese, infatti, alcune mappe particolareggiate di Palermo e alcuni documenti dell’azienda municipalizzata dell’acqua, attraverso cui pensava di poter individuare l’abitazione di Riina. Gli consegnò questi documenti il 19-12-92, ma nello stesso giorno Ciancimino fu arrestato per scontare una condanna definitiva. Successivamente, accettò di incontrare i magistrati di Palermo. In sede di controesame ha precisato che Ciancimino, nei primi incontri avuti con lui, si disse disposto a fare da “agente sotto copertura” con “la funzione di diventare il responsabile, il gestore della ristrutturazione del sistema tangentizio tra imprese e partiti “, che egli riteneva connaturato al sistema politico ed imprenditoriale italiano e necessario al suo funzionamento. Si dichiarò sempre in grado di raggiungere i vertici “corleonesi” di “cosa nostra” (“Ciancimino non si è mai dichiarato uomo d’onore, comunque era in grado di arrivare ai vertici dell’organizzazione corleonese, sì”). Rispondendo al Procuratore di Palermo il Ciancimino rivelò poi che la persona da lui contattata per giungere a Riina era il dr. Cinà, medico di Riina”.

Come si è detto e si legge nella citata sentenza della Corte di Assise di Firenze, le predette risultanze si fondano soprattutto sulle testimonianze in quel processo rese dagli odierni imputati Mori e De Donno. Tale testimonianze sono state, quindi, introdotte anche nel medesimo processo

per iniziativa degli stessi predetti imputati, […].

E’ bene fissare, allora, per le valutazioni che poi saranno fatte sulle risultanze complessive, ciò che, in punto di fatto, si può ricavare dalla predetta sentenza e, ancor più dettagliatamente, dalle deposizioni testimoniai i allora rese dagli odierni imputati Mori e De Donno sulle quali prevalentemente si fondano le conclusioni di quella sentenza:

  1. l) il Col. Mori fu mosso, dopo la strage di Capaci, dal dovere professionale di fare qualcosa per ricercare notizie all’interno della struttura mafiosa (Dich. Mori: “A fine maggio, mi sembra 24, 25, non ricordo bene, c’è la strage di Capaci ….. … … Ritenni che era un impegno morale, oltre che professionale, fare qualche cosa di più, di diverso, per venire a capo, nelle mie possibilità,

di queste vicende, di questa struttura che stava distruggendo i migliori uomini dello Stato … “);

2) De Donno suggerì di contattare Vito Ciancimino tramite il figlio Massimo, col quale aveva familiarità (Dich. Mori: “In questo ambito, in questo contesto di iniziativa mi si presentò il capitano De Donno, che da me dipendeva, il capitano Giuseppe De Donno. E mi propose un’iniziativa …… …. mi propose di tentare un avvicinamento, tramite il figlio Massimo, con Vito Ciancimino, che in quel momento era libero ed era residente a Roma”; Dich. De Donno: “L’idea di contattare il Ciancimino era stata mia …. . … …. Sì,faccio questa ipotesi al mio comandante. Che era, allora, il colonnello Mori. E così, proponendogli questa prova, nel senso insomma di tentare, nell’immediatezza della strage di tentare un – tra virgolette, così – “un avvicinamento” del Ciancimino”);

3) Morì autorizzò De Donno a procedere In tal senso (Dich. Mori: “Lo autorizzai a procedere a questo tentativo”; Dich. De Donno: “Col comandante concordiamo che questo tentativo possa esser fatto”);

4) De Donno agganciò Massimo Ciancimino e incontrò Vito Ciancimino per la prima volta tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio (Dich. Mori: “questo primo contatto – che poi sono più di uno – tra De Donno e Massimo Ciancimino, avviene tra Capaci e via D’Amelio. Quindi diciamo nel giugno del ’92. Vito Ciancimino, sollecitato dal figlio, accetta”) e successivamente altre volte, secondo Mori, “a cavallo” della strage di via D’Amelio (Dich. Mori: “E ci sono una serie di colloqui che quindi partono … adesso, De Donno poi può essere più preciso, non so quand’è il primo, comunque partono nel giugno e si sviluppano tra il giugno e il luglio, a cavallo anche del secondo fatto grave, cioè via D’Amelio”), mentre, secondo De Donno, prima della detta strage (Dich. De Donna: “E abbiamo provato il contatto che. tra la strage di via Capaci e la strage di via d’Amelio. avviene. Perché Ciancimino accetta di incontrarmi nella sua abitazione di Roma … … .. .lo vado dal Ciancimino e incontro il Ciancimino sempre nella sua abitazione di Roma, da solo, due, tre volte. Nell’intervallo tra le due stragi: la strage del dottor Falcone e del dottore Borsellino…”);

5) lo scopo di tali incontri fu, per Mori, quello di acquisire spunti investigativi sia per la individuazione di latitanti, sia più in generale per le indagini in corso ed interrompere la strategia stragista della mafia (Dich. Mori: “Noi volevamo solo arrestare della gente che delinqueva …. … …. La trattativa nostra con Ciancimino era solo per vedere di sapere qualche cosa di più di

Cosa Nostra e arrestare questa gente. E basta; A VVOCATO Li Gotti: E poi era di interrompere la strategia stragista: TESTE Mori: Certo. Certo. certo”), così come confermato anche da De Donno secondo il quale, oltre a tentare di spingere Ciancimino a collaborare con la Giustizia, essi avevano anche l’intendimento di per far cessare le stragi (Dich. De Donno: ” .. era nostra intenzione cercare di trovare un canale di contatto con il Ciancimino, per tentare di ottenere da lui indicazioni utili su quanto, sui fatti storici che si stavano verificando in quel periodo. E in ultima analisi tentare di attenerne una collaborazione formale con l’autorità giudiziaria … ……… un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto. stragista nei confronti dello Stato”);

6) il discorso, in questi stessi incontri, si allargò al fenomeno di “tangentopoli” (Dich. De Donno: ” .. tutto lo sviluppo che c’era stato nel momento delle operazioni milanesi, il cosiddetto “Manipulite'”‘) e Vito Ciancimino si offrì di fornire le sue conoscenze;

7) per tale ragione, secondo Mori, De Donno aveva organizzato il primo incontro con lo stesso Mori avvenuto il 5 agosto 1992 […], mentre secondo De Donno, egli aveva deciso di “innalzare il livello” dei contatti dopo la strage di via D’Amelio per indurre definitivamente Ciancimino a collaborare […];

8) in questa occasione Mori fece a Vito Ciancimino il nome del Gen. Subranni (comunque già informato sin dall’inizio dell’intendimento di contattare Ciancimino: v. testimonianza De Donno[…]), che il Ciancimino già conosceva (“…gli accennai che il mio superiore diretto era il generale Subranni. Al che lui si ricordò: ‘ma chi è, il maggiore che era al Nucleo Investigativo di Palermo?’ ‘Sì, il maggiore che … ‘ e commentammo questo .. “), informando, poi, di ciò Subranni […];

9) il secondo incontro avvenne il 29 agosto 1992 (“II secondo incontro avviene il 29 di agosto, quindi nello stesso mese, a fine mese”) ed in tale occasione, secondo Mori, questi sapendo dei problemi giudiziari di Ciancimino, gli chiese se, superando il “muro contro muro” tra lo Stato e la mafia, fosse possibile parlare con i vertici mafiosi […], mentre, secondo De Donno, fu anche espressamente detto a Ciancimino che il dialogo era finalizzato alla immediata cessazione della strategia stragi sta dei mafiosi (Dich. De Donno: “E gli proponemmo di farsi tramite. per nostro conto. di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa nostra. AI fine di trovare un punto di incontro. un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest ‘attività di contrasto netto. stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò”);

10) secondo Mori, Vito Ciancimino accettò, dichiarandosi in grado di poteri o fare, e Mori, quindi, lo sollecitò a farlo, mentre, secondo De Donno, Ciancimino condizionò il suo intervento alla possibilità di fare ai mafiosi i nomi dei Carabinieri con cui era in contatto, richiesta cui Mori e De Donno acconsentirono, facendo credere al Ciancimino che essi avevano il potere di rappresentare lo Stato inteso come Istituzione […];

11) secondo Mori, nel successivo incontro dell’l ottobre 1992 Ciancimino disse di avere preso contatto con i vertici mafiosi tramite un intermediario e che, però, i predetti vertici volevano sapere per conto di chi agivano quei Carabinieri […]; tale discorso, come detto al punto precedente, è collocato, invece, da De Donno nella prima occasione in cui essi avevano sollecitato Ciancimino a contattare i vertici mafiosi;

12) ancora secondo Mori, questi allora, “bluffando”, fece consapevolmente credere a Ciancimino che la sua iniziativa era nota a chi avrebbe potuto interloquire fattivamente con i mafiosi, invitando, quindi, Ciancimino ad andare avanti (” ….. Allora gli dissi: ‘lei non si preoccupi, lei vada avanti’…”); anche tale discorso logicamente collegato al precedente, ugualmente, è collocato, invece, come già detto sopra, da De Donno nella prima occasione in cui essi avevano sollecitato Ciancimino a contattare i vertici mafiosi;

13) Mori e Vito Ciancimino, dunque, lasciandosi, concordarono di “sviluppare la trattativa” (“…E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa…”); il termine “trattativa”, sul quale si tornerà più avanti anche a proposito delle dichiarazioni spontanee rese all’udienza dell’8 settembre

2016 da Mario Mori, è stato espressamente usato da quest’ultimo; anche De Donno ha usato il medesimo termine riferendo di avere detto a Ciancimino che i Carabinieri in quella, appunto, “trattativa”, rappresentavano lo Stato;

14) Mori e Ciancimino si rividero il successivo 18 ottobre 1992 ed in quella occasione il secondo disse che i mafiosi “accettavano la trattativa” (Dich. Mori: “18 ottobre, quarto incontro. Ciancimino, con mia somma sorpresa, perché fino a quel momento, anche con tutte le affermazioni: ‘io ho preso

contatto’, non ci credevo. Ciancimino mi disse: ‘guardi, quelli accettano la trattativa .. “; Dich. De Donno: “Al quarto incontro. Ciancimino invece si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Cioè, ci disse: ‘sono d’accordo. Va bene, accettano”) a condizione che Ciancimino fosse l’intermediario e che la trattativa proseguisse all’estero […] con conseguente richiesta del Ciancimino di ottenere il passaporto […] e riferì, nel contempo, che i mafiosi chiedevano di sapere cosa lo Stato offrisse loro (Dich. Mori: “Voi che offrite in cambio?”; Dich. De Donno: “Vogliono sapere che cosa volete”‘); secondo De Donno, però, essi avrebbero dissuaso il Ciancimino dal richiedere il passaporto per le conseguenze per lui pregiudizievoli che ne sarebbero derivate;

15) Mori, preso alla sprovvista da quella richiesta, disse a Ciancimino di invitare i mafiosi a costituirsi con in cambio la promessa di trattare bene le loro famiglie […];

16) Ciancimino disse a Mori che mai avrebbe potuto riferire una simile offerta ai mafiosi che altrimenti lo avrebbero ucciso e, pertanto, i predetti si lasciarono con la prospettiva di chiudere la “trattativa” […];

17) tuttavia, nei primi di novembre 1992 Vito Ciancimino aveva chiesto di incontrare di nuovo i Carabinieri […] e, incontrato De Donno, gli chiese cosa effettivamente loro volessero da lui […];

18) De Donno rispose che volevano catturare Riina e Vito Ciancimino accettò di aiutare i Carabinieri, chiedendo, a tal fine, di fargli avere le mappe delle utenze di alcune precise zone di Palermo […];

19) secondo Mori, De Donno portò le mappe a Ciancimino il 18 dicembre 1992 e quest’ultimo, però, chiese di disporre di altre indicazioni che, tuttavia, non fu più possibile fargli avere perché il giorno successivo Ciancimino fu arrestato […], mentre, secondo De Donno, egli consegnò le mappe a Ciancimino lo stesso 19 dicembre 1992 poco prima che quest’ultimo fosse arrestato […];

20) soltanto quando Ciancimino nel marzo 1993 ne aveva parlato con i magistrati, Mori e De Donno avevano saputo che l’intermediario tra Vito Ciancimino e i vertici mafiosi era stato il Dott. Cinà […];

21) Mori aveva sempre informato il suo superiore Gen. Subranni dello sviluppo degli incontri con Vito Ciancimino […];

22) Mori era ben consapevole che Vito Ciancimino effettivamente conosceva i mafiosi “corleonesi” (“Dich. Mori: “Gli ho detto: ‘ma lei li conosce questa gente?’ Sapevo benissimo che li conosceva, Ciancimino è di Corleone”), cioè Riina e Provenzano, cosa di cui aveva avuto conferma quando

Ciancimino si era adirato per la richiesta di far consegnare i predetti ([…];

23) Mori aveva intenzione di far pedinare Vito Ciancimino, se la “trattativa” fosse proseguita, per scoprire con chi si incontrasse il predetto […];

24) Ciancimino non formulò mai proposte concrete per la “trattativa” e, pertanto, non si parlò mai del “papello” […].

LA SENTENZA DI SECONDO GRADO DELLA CORTE DI ASSISE DI APPELLO FIRENZE  Nella sentenza n. 4/200 l pronunziata dalla Corte di Assise di Appello di Firenze il 13 febbraio 2001 (doc. 50 della produzione del P.M. all’udienza del 26 settembre 2013), per la parte che qui rileva, si legge: “La trattativa Mori – Ciancimino. La questione riveste, ad avviso di questa Corte, molta importanza nella economia del presente processo e merita quindi farvi un cenno, ancorché breve, sia perché dei rapporti fra l’allora Colonnello dei Carabinieri Mori, comandante del R.O.S. dei Carabinieri, con tale Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato per reati di mafia ha parlato il primo giudice, sia perché è stata chiesta, ancora, la l’innovazione del dibattimento per nuovo esame del predetto ufficiale, che sembra oggi sia generale dell’Arma, e del capitano De Donno, suo dipendente, da parte del difensore di Calabrò e Riina. […] La predetta sentenza di appello, dunque, nulla aggiunge ai dati di fatto già enucleati dalla sentenza di primo grado, se non nell’ inciso in cui rileva che “i contatti tra i due ufficiali” (quindi, sia Mori che De Donno) con Vito Ciancimino erano iniziati nel giugno 1992 LA REPUBBLICA 25.8.2019


Trattativa, Mori: “Vito Ciancimino agente segreto sotto copertura”. Il generale dei carabinieri in pensione: l’ex sindaco di Palermo, per conto dello Stato, si sarebbe inserito nel sistema illegale degli appalti al fine del loro controllo “La spinta che aveva indotto Vito Ciancimino ad accettare” dopo le stragi mafiose del ’92 “l’interlocuzione” con il Ros fu data “dall’orrore per le morti di Salvo Lima, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”. Per questo motivo decise di svolgere per conto del Ros il ruolo di una “sorta di agente sotto copertura” per conto dello Stato. Una interlocuzione che, secondo la procura di Palermo avrebbe portato all’avvio della trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia, con il capitano Giuseppe De Donno, che “sfruttando incontri casuali, incontrò e prese contatti con Massimo Ciancimino, stabilendo con lui una corretta interlocuzione”. A spiegarlo, rendendo dichiarazioni spontanee nel processo sulla trattativa, in corso davanti alla Corte d’assise di Palermo, è il generale Mario Mori, ex capo del Ros, imputato per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. De Donno, “ben conosceva la funzione di cerniera tra il mondo politico-imprenditoriale e l’ambito mafioso” di Vito Ciancimino.

Ecco perché “nell’ottica di acquisire elementi utili alla prosecuzione delle indagini per giungere all’individuazione dei responsabili degli omicidi di quell’anno, in particolare per quanto attiene alla strage di Capaci – spiega Mario Mori rendendo dichiarazioni spontanee – e sulla base delle interlocuzioni avute con Massimo Ciancimino, De Donno ritenne che Vito Ciancimino avrebbe potuto accettare il dialogo e, al limite, accondiscendere a qualche forma di collaborazione, se non altro per dimostrate la sua sempre proclamata estraneità a Cosa nostra”. “Su queste basi” sempre secondo Mario Mori, che ha sempre negato l’esistenza di una trattativa tra stato e mafia “De Donno chiese a Massimo Ciancimino se il padre sarebbe stato propenso a un incontro con lui”.

Dopo un iniziale rifiuto, l’incontro tra Ciancimino senior e l’allora capitano De Donno, ci fu. “Dopo un primo incontro di studio con l’ufficiale – dice Mori – a seguito della strage di via D’Amelio, Vito Ciancimino manifestò una certa propensione al dialogo”. E la spinta definitiva arrivò dopo la strage di via d’Amelio. Così ebbe inizio una interlocuzione tra i vertici del Ros e Ciancimino che “descrisse i fatti che lo avevano visto protagonista da cui emergeva chiaramente la fondamentale funzione di snodo da lui avuta nei rapporti tra mafia e mondo politico-imprenditoriale”.

“Sulla base di questa constatazione Ciancimino non esitò a proporre a De Donno un piano di lavoro nel quale Ciancimino, per conto dello Stato, si sarebbe inserito nel sistema illegale degli appalti al fine di un loro controllo. In pratica una sorta di ‘agente sotto copertura’ di settore”. Il Ros “prese tempo rimandando a una eventuale fase successiva questa ipotesi di lavoro che risultava inattuabile”. Ma la proposta “indicava una certa volontà di dialogo da parte di Ciancimino, e De Donno pensò di sfruttarla chiedendogli se era disponibile ad incontrare un suo superiore” cioè l’allora colonnello Mario Mori. Ed ecco che avvenne il primo incontro tra Mori e Ciancimino.

“Accettai di incontrarlo come una fonte confidenziale, seppure tutta da valutare, nella scontata considerazione che per battere concretamente la mafia occorreva confrontarsi con chi dell’organizzazione conosceva perfettamente i personaggi e le trame”. Il primo incontro tra Mori e Ciancimino avvenne il 5 agosto del 1991 “nell’abitazione romana di Ciancimino”. “Questo primo abboccamento – dice Mori – fu una semplice presa di contatti e servì per conoscere l’interlocutore”. LA REPUBBLICA 8.9.2016


I mille misteri svelati da Mori. Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story ma al quale ha affidato il suo grido d’innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l’avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano.

Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull’uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell’ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l’occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l’operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d’arte in Costa d’Avorio (senza trattato di estradizione con l’Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal.

E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l’arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un’assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell’intervento della Procura di Palermo che mette quest’ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata».

Nelle ultime pagine, un’altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l’Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c’è un limite. SOLE 24 ORE 18.12.2011


Trattativa: quando i servizi vietarono al futuro generale Mori di lavorare a RomaI pm di Palermo acquisiscono documenti top secret dal fascicolo dell’alto ufficiale imputato al processo. Tra il 1975 e il 1978 l’allora Sid intimò il suo allontanamento. Il legame con il golpe Borghese e il contatto con due personaggi – ancora misteriosi – coinvolti nel patto Stato-mafia

Per tre anni non ha potuto mettere piede a Roma, per espresso divieto dei Servizi segreti. È un divieto di dimora molto particolare quello che piomba sulle spalle del giovanissimo Mario Mori nel 1975. Perché è un divieto di dimora espressamente richiesto dai vertici del Sid, il servizio informazioni difesa, antenato del Sismi, dove Mori presta servizio per tre anni: dal 1972 al 1975.

L’informazione è contenuta in alcuni documenti, classificati come top secret, che compongono il fascicolo personale dello stesso Mori, custodito oggi negli archivi dell’Aise, l’Agenzia informazioni per la sicurezza esterna. Documenti che i pm Antonino Di Matteo e Roberto Tartaglia hanno depositato agli atti dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, dopo averli trovati negli schedari dei servizi. I pm che indagano sul patto tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra stanno cercando di ricostruire il periodo iniziale della carriera dell’uomo che nell’estate del 1992 incontrò Vito Ciancimino.

Prima di diventare capo del Sisde, prima di guidare il Ros dei carabinieri, prima di finire sotto processo (poi assolto in primo grado) per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, prima di essere inquisito nell’inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia, Mario Mori era infatti un giovane e valente 007 nell’Italia dilaniata degli anni di piombo. È il 1972 quando l’allora capitano dei carabinieri entra nei servizi, grazie all’intercessione del colonnello Federico Marzollo, molto vicino a Vito Miceli, direttore del Sid fino al 1974, iscritto alla P2, poi coinvolto nell’inchiesta sul Golpe Borghese e sulla Rosa dei Venti, l’organizzazione segreta di stampo neofascista parallela all’intelligence ufficiale.

Sotto Miceli, Mori fa una splendida carriera: si occupa prevalentemente di questioni legate al terrorismo di estrema destra, ai neri, gli vengono affidati incarichi delicati, e per condurli gli viene anche costruita un’identità falsa. Fino alla fine del 1974, stando a quanto contenuto nel suo fascicolo personale, Mori è un’agente segreto molto ben visto dei suoi superiori, che infatti lo premiano perfino con encomi speciali. È in quel periodo che, secondo i documenti acquisiti dai pm palermitani, Mori incrocia due personaggi (di cui non è ancora stata rivelata l’identità), che vent’anni dopo giocheranno un ruolo anche nella complessa vicenda della tattativa.

Una coincidenza che ha destato la curiosità degli inquirenti. Che oltre a ricostruire i particolari dell’attività di Mori da giovane 007, hanno anche scoperto come il generale viene poi allontanato dai Servizi. Dopo il 1974, infatti, qualcosa si rompe. Miceli viene arrestato dal giudice di Padova Giovanni Tamburino, che indaga da alcuni mesi sulla Rosa dei Venti. E poco dopo Gianadelio Maletti, capo dell’ufficio D, quello che si occupa del controspionaggio, scrive a Mario Casardi, che ha sostituito Miceli al vertice dei servizi, chiedendo di allontanare Mori dal Sid “nel più breve tempo possibile”. Una richiesta inedita, perché accompagnata appunto da quel divieto a prestare servizio nella capitale: perché dopo un biennio ricco di soddisfazioni a Mori viene interdetto persino di prestare servizio a Roma?

La nota del Sid però viene recepita dall’Arma dei Carabinieri. Che infatti dopo il 1975, sposta Mori al Nucleo radiomobile di Napoli. Lì rimane tre anni: poi nel 1978 l’Arma prova di nuovo a spostarlo a Roma. Prima però, in maniera abbastanza irrituale, chiede il parere del Sid. Che risponde con un appunto in cui si spiega come Mori non potrà rientrare in servizio nella capitale prima della fine del processo sul Golpe Borghese.

Per quale motivo? Che cosa c’entra il futuro capo del Sisde col Golpe Borghese? Se lo chiedono i magistrati palermitani che stanno ricostruendo le origini della carriera del militare oggi imputato al processo sul patto Stato-mafia. All’epoca il processo sul golpe organizzato e mai attuato dal principe Junio Valerio Borghese inglobava anche l’inchiesta sulla Rosa dei Venti, che nel frattempo era stata “scippata” dalla Cassazione al giudice Tamburini e affidata al pubblico ministero romano Claudio Vitalone. Alla fine da quel processo tutti gli imputati finiranno assolti. Incluso il generale Miceli, vecchio mentore di Mori. Che ancora nei primi mesi del 1978 non può tornare a prestare servizio nella capitale.

Dopo un po’, però, con il processo Borghese ancora in corso, l’Arma decide di inviarlo a Roma nonostante il divieto del Sid, nominandolo a capo della sezione antiterrorismo del reparto operativo. Il primo giorno in cui Mori torna a Roma con il nuovo incarico è il 16 marzo del 1978: lo stesso giorno in cui in via Fani viene sequestrato Aldo Moro.  di Giuseppe Pipitone | 23 LUGLIO 2014 IL FATTO QUOTIDIANO


RIINA FU VENDUTO AL ROS DI BINNU. MORI SAPEVA.Lo Stato cede alla mafia “il 21 febbraio del ’93”, quando “il ministro della Giustizia Conso revoca il decreto Martelli dei 41 bis a Secondigliano e Poggioreale”, dice nel quinto giorno di requisitoria nell’aula bunker il pm Vittorio Teresi che indica i protagonisti istituzionali di quel cedimento: “Attori di questo sconvolgimento sono certamente il presidente Scalfaro, il neo nominato Conso, il nuovo direttore del Dap Capriotti, il suo vice Di Maggio”. 

Sono i registi del mondo “carcerario”, prosegue Teresi, sia pure con un “grado diverso di consapevolezza”: fu “massimo in Scalfaro e Di Maggio, lo era in misura minore per Conso e Capriotti, che furono solo ingenui e utili scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, ha detto il pm citando le parole di Loris D’Ambrosio.

Un mese prima il Ros di Mori e Subranni non aveva perquisito il covo di Riina (“non si volevano trovare documenti imbarazzanti”), il 9 febbraio la camorra uccide l’agente Pasquale Campanello a Poggioreale, e il ministro Martelli applica il 41 bis ai detenuti del carcere napoletano. 

Ma una lettera anonima giunta al Quirinale e firmata “i familiari dei detenuti” minaccia ritorsioni, e dodici giorni dopo Conso, “smarrito dalla incalzante pressione”, avocando a sè il provvedimento, revoca i 41 bis decisi da Martelli, caso unico della storia di via Arenula.

“C’è un fine pena mai anche per i familiari delle vittime – ha detto Teresi – se io fossi stato un familiare dell’agente Campanello, col mio ‘fine pena mai’ avrei chiesto conto e ragione a Conso del perchè bisognava dare un segnale di distensione dopo 12 giorni dell’omicidio. A chi? E perché?’’.

In quel momento “nello Stato esistono le due linee: quella trattativista è una deviazione inammissibile dai doveri istituzionali’’ e i fautori di quella linea si concentrano sul mondo carcerario: “L’unico settore – prosegue Teresi – nel quale si poteva intervenire immediatamente e con una discreta previsione di successo”, visto che le richieste del papello “avevano natura legislativa o giudiziaria nessuno poteva garantire che quelle richieste sarebbero state soddisfatte”. 

Dunque “bastava ed è bastato cambiare quattro uomini, per cambiare la politica penitenziaria e soddisfare la mafia”.

Fino a quel momento Nicolò Amato aveva garantito al Dap “la politica del coraggio”, con “decreti che prevedevano misure restrittive e afflittive’”, ma prevedendo “per il futuro misure stabili come la ripresa audiovisiva dei colloqui e un sistema di video conferenze che impedisca ai detenuti di fare turismo carcerario”.

“Due misure di straordinaria intelligenza – ha detto Teresi – misure che verranno applicate ma molti anni dopo’’. Amato, quindi, deve “saltare’’, prosegue il pm, anche con l’intervento della Chiesa: “La scelta del nuovo capo del Dap (Adalberto Capriotti, ndr) – ha proseguito il magistrato – fu di fatto operata dalla Chiesa senza alcuna garanzia di professionalità, con l’unica assicurazione che si trattava di una persona ‘molto pia’”.

In quei giorni di trattativa, la mafia “forza il gioco”, la “Falange Armata prende di mira il mondo carcerario e i vertici delle istituzioni” e il 27 maggio “l’autobomba di via dei Georgofili costituisce un ulteriore segnale di rilancio”: sono “bombe del dialogo – dice il pm – perchè tutti sapevano e nessuno parlò?’’. 

E qui Teresi cita le deposizioni di Violante (“Erano bombe per mettere i pubblici poteri di fronte a un aut aut, ne parlai con il capo dello Stato e Spadolini”) e Napolitano che ricordo come da subito si “ipotizzò una sorta di ricatto o pressione a scopo destabilizzante”.

Un ricatto che, paradossalmente, Cosa nostra non ha cercato di imporre: nel ’92 “tra lo Stato e la mafia era quest’ultima che stava perdendo – ha detto Teresi – ed è per questo che ha ideato la campagna di attentati per indurre lo Stato a farsi sotto”. 

Ma invece di fermare le stragi, è la conclusione, la Trattativa le ha indotte: “L’adempimento del patto che lo Stato ha sottoscritto con i mafiosi nel maldestro, e non raggiunto, tentativo di fermare le stragi – per Teresi – ha sortito l’effetto contrario’’. 

E poi è arrivato l’arresto di Riina, venduto da Provenzano, spiega ancora il pm: “Un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e De Donno”.  Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco sul Fatto del  20/01/2018


«L’OMBRA NERA DI MORI NELLA SENTENZA SULLA STRAGE DI BOLOGNA. I GIUDICI CHIEDONO D’INDAGARLO PER FALSA TESTIMONIANZA E RETICENZA ASSIEME AGLI EX NAR FIORAVANTI E CIAVARDINI»Falsa testimonianza e reticenza. E’ un’ipotesi di accusa pesante quella messa nero su bianco nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Bologna, presieduta da Michele Leoni, nel processo che un anno fa ha condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini per concorso nella Strage di Bologna.

Nelle conclusioni, infatti, i giudici hanno disposto l’invio delle carte alla Procura a seguito di alcune testimonianze che sono intercorse durante il dibattimento. Oltre all’ex Comandante del Ros (condannato in primo grado a 12 anni nel processo Trattativa che lo vedeva imputato assieme ad altri ex ufficiali dell’Arma, ex politici e boss mafiosi) gli atti ai pm sono stati rimandati anche su Fioravanti, Ciavardini, l’ex compagna di Cavallini Flavia Sbrojavacca e l’ex militante di Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra.

La testimonianza di Mori. Addirittura i giudici bolognesi hanno dedicato un intero capitolo alla testimonianza di Mori e già nel processo Stato-mafia erano emerse diverse ombre sul suo passato che non lo ha visto solo ai vertici dell’Arma, ma anche come membro, dal 1972 al 1975, al Sid, i servizi segreti di allora, agli ordini del colonnello Federico Marzollo, il comandante del raggruppamento Centri Controspionaggio.

Anni “turbolenti” in cui ai vertici dell’intelligence militare c’erano Vito Miceli, coinvolto e poi assolto per il progetto eversivo della Rosa dei Venti, e di Gianadelio Maletti, condannato per la protezione accordata ad alcuni dei neofascisti coinvolti nella strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e per questo, dal 1981, latitante in Sudafrica.

Nel processo di Palermo era stato ripercorso il suo operato all’interno dei Servizi di Sicurezza negli anni Settanta, approfondendo il suo eventuale coinvolgimento nelle trame nere della Rosa dei Venti ed i collegamenti con il Gran Maestro della P2 Licio Gelli ed il giornalista Mino Pecorelli negli anni della strategia della tensione. Addirittura la Corte d’assise di Palermo aveva evidenziato “il mendacio ed il tentativo di depistaggio posti in essere dal detto imputato (Mori, ndr) con le sue dichiarazioni spontanee”.

Ed altrettanto dure sono le considerazioni dei giudici bolognesi. Basta rileggere alcuni passaggi della sentenza Cavallini in cui vengono ripercorso le dichiarazioni rese nell’udienza del 3 ottobre 2018, mettendo in evidenza alcune contraddizioni e perplessità.

“L’ex generale dei Carabinieri – scrivono i giudici – ha confermato che comandò la Sezione Polizia Anticrimine di Roma ininterrottamente dal 16 marzo 1978 (giorno del sequestro dell’on. Aldo Moro) al 1985. Non si sarebbe però mai occupato delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna su delega del Giudice Istruttore di Bologna dottor Vito Zincani del 26 giugno 1985 in quanto il 12 o 18 agosto egli prese servizio al Comando Generale come Comandante di Sezione Ufficio Criminalità Organizzata. Quindi, praticamente, non dette corso a nessuna di queste attività d’indagine che erano state delegate alla Sezione Anticrimine di Bologna (in realtà, come si vedrà, le cose stanno diversamente, come ammesso dallo stesso Mori in altra sede)”.

La Corte d’assise ha posto l’accento su alcune risposte dell’ex ufficiale come quando “a una domanda su Marco Mario Massimi (il falsario che ebbe un ruolo preminente nelle indagini sull’omicidio Amato), ha ricordato, genericamente, che si trattava di una persona ‘coinvolta in qualche indagine’. Nient’altro. Non ha saputo dire nemmeno se si trattava di un soggetto di destra o di sinistra”. Quindi viene definito come “incomprensibile” il senso di una risposta data da Mori nel momento in cui, non avendo indagato sulla morte di Amato perché si occupava di altro, puntualizzava che “se gli si dice chi ha indagato, è invece in grado di rispondere”.

I giudici riportano alcuni passaggi dell’esame testimoniale.

  • Avv. Brigida: Comunque, in questo periodo, a Roma, stiamo parlando della fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, ha in qualche modo indagato sui Nar, e segnatamente sulla persona di Giusva Fioravanti e del suo Gruppo?
  • Mori: No, direttamente no.
  • Avv. Brigida: Ecco, allora spieghi. Indirettamente. Perchè?
  • Mori: Indirettamente tramite la componente della mia sezione, che si occupa di destra terroristica. Ma qui non me lo posso ricordare. Lei si ricorda che ha fatto trentacinque anni fa, scusi? Eh! Allora!

La Corte ha quindi rimarcato come “all’eco generale Mori si sta chiedendo se ricorda uno degli episodi più laceranti per la storia del Paese (l’omicidio del dottor Amato, l’unico pm che a Roma conduceva le indagini sul terrorismo di destra), su cui la Sezione Anticrimine di Roma da lui comandata indagava. Non gli si sta chiedendo cosa ha mangiato il giorno dopo l’omicidio Amato, cosa pure accaduta trentacinque anni prima”.

Dal proseguo dell’esame, scrivono sempre i giudici, “se ne ricava che l’allora colonnello Mori, comandante della Sezione Anticrimine di Roma, non solo si è completamente disinteressato dell’omicidio Amato, ma lasciava le indagini alla ‘eventuale’ iniziativa di un sottufficiale (e che nemmeno era importante sapere se qualcuno si occupava di questa vicenda e chi). Non erano compiti suoi”.

“Io ho fatto un sacco di indagini – disse stizzito Mori – quindi lei non mi può mettere sotto scacco perché non ho fatto indagini. Ho fatto certe indagini, e certe non le ho fatte perché le facevano altri. Questa è la situazione. Eh!”.

Sul punto, nelle motivazioni della sentenza bolognese, si confrontano le dichiarazioni rilasciate nel procedimento Cavallini con quelle davanti alla Corte d’assise di Palermo nel processo Stato-mafia. “Al Tribunale di Palermo ha detto cose diverse – si legge ancora – Ha specificato che alla Sezione Anticrimine di Roma, al cui comando venne assegnato, era ‘il Reparto dell’Arma a cui spettava il compito del contrasto al terrorismo nella capitale e nel Lazio’, aggiungendo: ‘Ho retto il Comando della Sezione Anticrimine di Roma per quasi sette anni, dal 16 marzo ’78 al 5 di gennaio ’85, nel periodo cioè più significativo della lotta al terrorismo interno, sia di destra che di sinistra, operando proficuamente e in piena intesa con i Magistrati impegnati nel contrasto a quel fenomeno’. Cioè non ha fatto distinzioni. Operava nell’ambito della lotta al terrorismo, sia di destra che di sinistra”. Affermò anche di aver ricevuto incarico dal dottor Domenico Sica, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, di svolgere indagini sul rinvenimento avvenuto a Bologna nel corso del febbraio del 1981 di una valigia contenente documentazione, armi ed esplosivo del tipo di quello usato per la strage della Stazione.

Dunque, hanno evidenziato i giudici, diversamente da quanto riferito nel processo, “si è occupato della strage della stazione di Bologna”.

“Mori – si legge – ha voluto far credere a questa Corte che quando vi erano in ballo indagini sul terrorismo di sinistra, si interessava proficuamente, mentre, quando si trattava di indagini sul terrorismo di destra, si girava dall’altra parte. L’ex generale non ha ricordato nulla nemmeno del maxisequestro avvenuto nel 1982 nel covo di via Monte Asolone a Torino, nonostante egli stesso abbia proceduto agli arresti di Stroppiana e poi di Zani e Cogli, arresti a cui la scoperta di quel deposito di armi e altro (armi, esplosivi, tesserini delle forze dell’ordine più o meno falsi, pistole mitragliatrici e targhe contraffatte) era indissolubilmente connessa. Ha detto che, eseguiti gli arresti, del seguito se ne interessarono l’Arma di Torino e il solito Cardoni. Lui scomparve”.

Piersanti Mattarella “già morto e seppellito”. Durissime le considerazioni della Corte in un altro passaggio testimoniale dell’ex Comandante del Ros, in riferimento alle risposte su alcune domande relative ad una richiesta di indagini su Valerio Fioravanti nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Piersanti Mattarella. L’avvocato Brigida chiedeva: “In una relazione di servizio, credo ponderosa, datata 12 giugno dell’89, del suo collega Tesser, c’è scritto esattamente: ‘Richiesta orale sulla posizione di Fioravanti Valerio, in ordine all’omicidio di Piersanti Mattarella avanzata al tenente colonnello Mario Mori’. Quindi, mi permetto di aggiungere, che sembrerebbe lei… avesse fatto una delega orale per approfondire non so quali aspetti dell’omicidio…”. E Mori poco dopo rispondeva: “E non me lo posso ricordare. Io dal”86 al ’90 comandavo il gruppo Carabinieri di Palermo. Quindi probabilmente mi ha fatto una telefonata Giorgio Tesser, ma era già morto e seppellito Piersanti Mattarella. Io sono andato nell’86, e non c’era già il problema Piersanti Mattarella”.

Scrivono dunque i giudici: “A parte la finezza di una simile espressione (questa Corte ritiene che le vittime del terrorismo, della mafia, di omicidi e massacri non siano mai ‘morte e seppellite’) vi è da ribadire che negli anni in cui Mori comandò i Carabinieri di Palermo l’istruttoria di Falcone su quell’omicidio era pienamente in corso. Il ‘problema Mattarella’ c’era, eccome, ma lui (Mori), evidentemente, si occupava di altro. Come sempre. Fece quella richiesta orale (che ci ha tenuto a precisare, non era una delega) forse distrattamente”.

Il periodo al Sid. La Corte ha anche evidenziato un’altra risposta di Mori sul periodo in cui era al Sid, ovvero tra il 1972 ed il 1975, in cui ha riferito che non si occupò mai di depositi di armi, né di Gladio o strutture Stay behind in quanto dedicato a “tutt’altri compiti” (“Io ero un operativo, ero nel settore controspionaggio per quanto riguarda l’Oltrecortina, quindi di queste cose non mi occupavo assolutamente”).

Dichiarazioni leggermente diverse da quelle riferite sempre a Palermo in cui “sembra al contrario che Mori, all’occorrenza, si sia interessato fattivamente, e in profondità, di attività concernenti l’estrema destra eversiva e la sicurezza interna, e abbia all’uopo allacciato e mantenuto con personaggi assai equivoci tanto al Nord, quanto a Roma quanto a Palermo (il riferimento è a Gianfranco Ghiron).

E al processo trattativa Stato-mafia fece riferimento al periodo in cui fu impegnato presso il Comando delle Forze Terrestri Alleate per il Sud Europa (FTASE), comando militare Nato avente sede a Verona, a direzione italiana. Disse che quella struttura era stata creata nel 1951, “in pieno periodo di guerra fredda, con un compito istituzionale ben preciso, quello di assicurare la difesa del fronte terrestre dell’Europa meridionale contro una ipotetica invasione da est da parte delle truppe del Patto di Varsavia e che ogni altra funzione o impiego è unicamente frutto di avventate illazioni che non trovano supporto in nessun riscontro in fatti documentalmente accertati”.

Eppure i giudici di Bologna, riprendendo le note sentenze-ordinanze del 1995 e del 1998 del giudice istruttore di Milano Salvini, hanno messo in evidenza una serie di dichiarazioni da cui emergono una serie di collegamenti tra la FTASE ed elementi di Ordine Nuovo.

Al Tribunale di Palermo Mori aveva anche parlato dell’affidamento del Nos Cosmic al massimo livello (nulla osta di segretezza, il documento che attesta che un soggetto, sia esso militare o civile, ha le credenziali di sicurezza per svolgere determinate funzioni, tra cui l’analisi e la visione dei documenti coperti di segreto militare). Un nulla osta che sarebbe stato ottenuto nell’aprile 1971, come ammesso dalla stessa difesa di Mori al processo Stato-mafia.

L’argomento del Nos Cosmic era stato affrontato anche durante l’esame nel processo bolognese ma, scrive la Corte, da questo “par di capire che lui col ‘Cosmic’ non abbia mai avuto nulla a che fare e che a tutto ciò che competesse ai soggetti dotati di ‘Cosmic’ egli sia rimasto estraneo, in quanto ‘passacarte'”. Da ciò si deve dedurre che “quando ha parlato davanti al Tribunale di Palermo, evidentemente, ha scherzato”.

La Corte ribatte anche all’affermazione di Mori per cui lo stesso ha sostenuto che nessuno gli ha mai chiesto di entrare nella P2 precisando che “è facile discettare a distanza di secoli dalla vicenda”.

La Corte ha ricordato alcune dichiarazioni rilasciate da Gianfranco Ghiron al Giudice Istruttore di Brescia, o ancora le dichiarazioni di Massimo Giraudo. Entrambe approfondite nel processo Stato-mafia.

Ma la Corte d’assise di Bologna va anche oltre: “L’ex generale Mario Mori, avanti questa Corte, ha affermato di non essersi mai occupato della destra eversiva in quanto lui è sempre stato occupato in ‘altro’. Ma ciò contrasta apertamente con una nutritissima serie di evidenze processuali e investigative di segno contrario, provenienti anche da dichiarazioni da lui stesso rilasciate. Ha perfino bluffato invitando i presenti ad andare a leggersi le sentenze ordinanze del Giudice istruttore di Milano dottor Salvini del 1995 e del 1998, che dicono cose ben diverse da quanto da lui sostenuto”.

Quindi, hanno concluso i giudici, “Alla luce di tutto quanto sopra, Mario Mori va quindi denunciato ai sensi dell’art. 331 c.1 cpp per falsa testimonianza e reticenza”.

Alla luce di questa nuova sentenza, seppur di primo grado, l’auspicio è che la stessa possa essere prodotta al processo d’appello Stato-mafia, in corso sempre a Palermo, in modo che anche la Corte d’Assise d’Appello possa essere messa a conoscenza del modus operandi che è stato, come aveva evidenziato il pm Roberto Tartaglia nella requisitoria del processo di Palermo da sempre e per sempre, o “Oltre” o “Contro” “le leggi e le regole”.  Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari 20 Gennaio 2021 ANTIMAFIA DUEMILA


Mori e i suoi uomini, un reparto molto speciale e “indipendente”

Dalla sentenza 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini

Sempre il gen. Cancellieri ha aggiunto che in considerazione di quella finalità investigativa, quando si scoprirà che non vi era alcun servizio di osservazione in atto su via Bernini, non avvertì la necessità di riparlare della perquisizione eseguita il 21 gennaio, sulla base di un presupposto inesistente, in quanto quell’operazione “andava comunque fatta”.

Le superiori emergenze, quindi, portano a ritenere che l’Arma territoriale agì in quell’occasione in piena autonomia, nell’intento di rendere un servizio al Ros ma senza interloquire ed interagire con il medesimo.

In proposito, il Collegio osserva che la mancanza di raccordo tra i due organismi debba essere valutata tenendo conto del fatto che ciascuno, all’epoca in oggetto, conservava e proteggeva gelosamente le proprie prerogative ed era impegnato a portare avanti il proprio filone di indagini.

La prima sezione del raggruppamento, sin dal giorno dell’arresto di Riina, si occupò di eseguire gli accertamenti e le analisi di riscontro sul materiale sequestrato, al momento della cattura, al boss corleonese ed al Biondino, consistente in decine di fogli manoscritti, i cd. “pizzini”, ed altra documentazione, i cui risultati furono relazionati all’a.g. con note del 22 e 26.1.93; avanzò richieste di intercettazione telefonica in relazione a decine di utenze riconducibili a società o a persone fisiche menzionati, direttamente od indirettamente, nei sopradetti “pizzini”; collaborò ad accertamenti di carattere societario e patrimoniale sui fratelli Sansone (cfr. nota 26.1.93 all. n. 28 doc. difesa De Caprio; deposizioni dei testi Obinu e Caldareri).

In merito a questi ultimi, nei giorni successivi all’arresto, il cap. De Donno ricevette l’incarico da parte del vicecomandante operativo Mori di costituire un gruppo, con componenti sia del Ros che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi di indagare in via esclusiva sulla struttura economico- imprenditoriale dei Sansone e sugli interessi riconducibili a “cosa nostra”, ma non ebbe il tempo di avviare, dal punto di vista operativo, le attività in quanto, come detto, ai primi di febbraio i Sansone furono arrestati.

Il Nucleo Operativo proseguiva, invece, l’attività di riscontro sulle ulteriori propalazioni del Di Maggio ed era impegnato, specificatamente il gruppo 2, nelle operazioni di ascolto delle utenze intestate ai Sansone, tra cui quella di via Bernini, operazioni che cessarono il 20.1.93 – lo stesso giorno in cui venne deliberata la perquisizione al “fondo Gelsomino” – giusta decreto di revoca dell’Autorità Giudiziaria (cfr. all. n. 27 doc. difesa De Caprio).

Inoltre, doveva essere localizzata, all’interno del complesso, la villa dalla quale Salvatore Riina era uscito e dovevano svolgersi i necessari accertamenti in merito allo stato dei luoghi nonché alla proprietà del residence e delle varie unità immobiliari che lo componevano.

Con nota del 26.1.93, pervenuta in Procura il giorno seguente, il Ros inviò le riprese filmate, con allegate relazioni illustrative, relative ai giorni 14 e 15 gennaio 1993, che furono visionate – ha riferito il dott. Patronaggio – dal sostituto procuratore dott. Vittorio Teresi, il quale, constatante l’interruzione lo stesso giorno dell’arresto di Riina, espresse ai colleghi, in diverse riunioni ed alla presenza dello stesso teste, le sue perplessità in merito.

Bisognava capire – ha riferito il teste – cosa era successo, ma nessuno lo chiese al Ros.

Anche alla riunione del 26 gennaio in procura non presero parte gli imputati e difatti, come si legge nella nota del 12.2.93 del dott. Caselli, alcuni ufficiali dell’arma, alla presenza del dott. Aliquò e di altri magistrati nonché della sezione anticrimine, “affermarono, sia pure non in termini di certezza, dato che essi non seguivano direttamente questo aspetto delle indagini, che ogni attività di controllo era forse cessata da tempo”.

L’istruzione condotta ha consentito di accertare che gli ufficiali presenti furono il gen. Cancellieri, il col. Sergio Cagnazzo, nonché il magg. Balsamo ed il cap. Minicucci, e che fu proprio il col. Cagnazzo a pRospettare che, probabilmente, c’erano stati dei problemi circa l’osservazione e che, forse, la stessa non era più in corso già da diversi giorni.

Sul punto il teste Cagnazzo ha affermato di non avere il ricordo di quella riunione ed ha negato di avere espresso dubbi in ordine alla sussistenza del servizio di osservazione in quanto era certo, sino al 30 gennaio, quando il cap. Minicucci gli riferì che il servizio era stato abbandonato da tempo, che l’attività continuasse, ma è stato contraddetto dalle concordi risultanze testimoniali rese da coloro, sopra già citati, che vi parteciparono.

Le accuse contro Mori e Ultimo (poi assolti): avere favorito Cosa nostra

Ciò premesso, secondo l’impostazione accusatoria gli imputati avrebbero posto in essere una condotta agevolatrice dell’attività dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra” attraverso quattro condotte, consistite:

  • nell’avere dato il 15.1.93 false assicurazioni ai magistrati della Procura di Palermo che la casa di Salvatore Riina sarebbe rimasta sotto stretta osservazione, così ottenendo la dilazione della perquisizione che stava per essere effettuata lo stesso giorno;
  • nell’aver disposto, invece, la cessazione del servizio di osservazione sul complesso immobiliare di via Bernini n. 54 a far data da quello stesso pomeriggio;
  • nell’averne omessa la comunicazione all’autorità giudiziaria;
  • nell’aver, quindi, posto in essere un comportamento reiterato volto a rafforzare la convinzione che il servizio fosse ancora in corso, così inducendo intenzionalmente in errore i predetti magistrati ed i colleghi dei reparti territoriali dell’Arma dei carabinieri e, pertanto, agevolando gli uomini di “cosa nostra”, che svuotarono il covo di ogni cosa di eventuale interesse investigativo, il tutto al fine specifico di agevolare proprio l’organizzazione criminale.

La pluralità di condotte contestate ha un unico reato presupposto, l’associazione per delinquere di tipo mafioso, e si rivolge nei confronti di uno stesso soggetto beneficiato, “Cosa nostra”, onde non vale ad integrare una molteplicità di reati di favoreggiamento aggravato, ma un’unica fattispecie delittuosa a carattere permanente perfezionatasi il giorno della cattura del Riina e consumatasi il giorno della scoperta della inesistenza del servizio di osservazione su via Bernini, ovvero il 30.1.93 quando il col. Mario Mori, nel corso di una riunione, comunicò questa situazione di fatto ai magistrati della Procura di Palermo ed agli ufficiali dell’Arma.

Non v’è dubbio, infatti, come già precisato in punto di diritto, che l’eventuale reiterazione dello stesso comportamento criminoso integrante sia sotto il profilo oggettivo che con riguardo a quello soggettivo il delitto di favoreggiamento personale, in presenza dello stesso reato presupposto e del medesimo soggetto aiutato, non vale ad integrare una molteplicità di reati riconducibili ad un unico disegno criminoso, come contestato nella fattispecie, bensì un solo delitto, con le caratteristiche del reato permanente (Cass. Martinelli, cit.).

La peculiarità della fattispecie si coglie già al livello dogmatico di inquadramento nella previsione di cui alla norma incriminatrice, difatti, da un lato, solo quel segmento della complessiva condotta che ha avuto luogo il 15.1.93 consiste in un comportamento commissivo, mentre per i restanti quattordici giorni il reato si sarebbe realizzato mediante un atteggiamento puramente omissivo degli imputati, consistito nel non avere riattivato il giorno 16 gennaio, e per tutti i giorni a seguire, il servizio in atto il giorno dell’arresto del Riina e nel non avere comunicato tale decisione all’Autorità Giudiziaria; dall’altro, nel fatto che il soggetto beneficiato sia venuto ad essere non una persona fisica ma la stessa “mafia”, nella sua dimensione collettiva e strutturale, venendo così a coincidere con quello oggetto dell’ulteriore finalismo previsto dall’aggravante a dolo specifico ex art. 7 L. n. 203/91.

Tralasciando quest’ultimo profilo, che verrà ripreso in punto di esame del dolo degli imputati, deve preliminarmente rilevarsi che, come anticipato nelle precedenti argomentazioni svolte in punto di diritto, la natura omissiva della condotta contestata non osta alla configurabilità del favoreggiamento, sia perché l’ampia locuzione di “aiuto” di cui all’art. 378 C.P. è idonea a ricomprendere qualsivoglia comportamento positivo o negativo, sia perché è rinvenibile, nella fattispecie, un preciso obbligo di garanzia in capo agli imputati, quali organi di polizia giudiziaria, di impedire l’evento pericoloso ex art. 40 cpv. C.P..

Quanto alle caratteristiche dell’elemento oggettivo del reato, la norma – come già detto – richiede solo il pericolo di lesione del bene protetto, e cioè prescinde dalla verificazione di un effettivo sviamento od intralcio alle indagini, occorrendo solo che la condotta, sulla base di una valutazione ex ante da condursi tenendo conto di tutti gli elementi che erano a conoscenza del soggetto agente, o comunque conoscibili secondo criteri di ordinaria diligenza, si presentasse idonea a produrre un tale risultato.

Anche da questo punto di vista, la vicenda in oggetto presenta indubbie particolarità, in quanto il potenziale vantaggio procurato al sodalizio mafioso dall’abbandono del sito di via Bernini può ipotizzarsi sotto diverse forme.

Come dispersione di prezioso materiale investigativo, può avere impedito l’individuazione di altre persone, intranee o fiancheggiatrici dell’organizzazione, che ivi erano citate o alle quali sarebbe stato possibile risalire; può avere consentito all’associazione la regolare prosecuzione dei suoi affari illeciti, estorsioni, appalti, traffico di stupefacenti, che invece avrebbero potuto essere individuati e colpiti dalle forze dell’ordine; può avere impedito l’acquisizione di informazioni rilevanti ai fini delle indagini in corso, quali quelle sulle stragi di via Capaci e di via D’Amelio commesse nell’estate precedente.

Come omessa osservazione visiva del cd. “covo”, infine, potrebbe avere direttamente agevolato qualche latitante che vi si fosse recato indisturbato, come ad esempio Leoluca Bagarella nell’intento di prelevare la sorella, moglie del Riina.

Il rilievo che l’istruzione dibattimentale non abbia consentito di provare l’esistenza di documenti in casa del Riina, od abbia addirittura escluso che si sia recato in via Bernini il suddetto Bagarella, non vale per negare che gli esiti sopra prospettati fossero pienamente possibili, secondo massime di esperienza, e perfettamente prevedibili dagli imputati.

La posizione apicale del Riina, ai vertici dell’organizzazione criminale, ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su “cosa nostra” e, tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l’interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero.

Al di là di queste argomentazioni di carattere logico, il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi “pizzini”, ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall’organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese ed alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto, che vale a rendere la condotta contestata agli imputati oggettivamente idonea ad integrare il reato.

 

EDITORIALE DOMANI