Giulio Andreotti e Cosa nostra

Nato a Roma nel 1919 e ivi morto nel 2013, Giulio Andreotti è stato tra i fondatori della Democrazia cristiana, ed una delle personalità di maggior spicco della vita pubblica in Italia nella seconda metà del Novecento, con la sua ininterrotta presenza ai vertici della politica per oltre un quarantennio: deputato dal 1948, più volte ministro in diversi dicasteri, sette volte presidente del Consiglio, tra il 1972 e il 1992, senatore a vita. Tra i fondatori della DC, fu delegato alla Consulta e deputato all’Assemblea costituente; è stato eletto alla Camera in tutte le consultazioni, dal 1948 al 1987; nel 1991 è stato nominato senatore a vita. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio con De Gasperi e Pella (1947-54), fu ministro agli Interni con Fanfani (1954), alle Finanze con Segni e Zoli (1955-58), al Tesoro con Fanfani (1958-59); resse poi i dicasteri della Difesa tra il 1959 e il ’66 (governi Segni, Tambroni, Fanfani, Leone, Moro) e dell’Industria (1966-68, governi Moro e Leone). Dal febbr. al giugno 1972 fu capo di un governo monocolore democristiano e, dal luglio 1972 al luglio 1973, di un governo di coalizione tra DC, PSDI e PLI con l’appoggio esterno del PRI. Nuovamente alla Difesa nel governo Rumor del 1974, resse poi il Bilancio nei governi Moro del 1974-76. Dal luglio 1976 al marzo 1978, durante la difficile e delicata fase della solidarietà nazionale, fu a capo di un governo monocolore democristiano, con l’astensione di PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI; questi stessi partiti, tranne il PLI, sostennero con il voto un nuovo governo monocolore che lo stesso ANDREOTTI. guidò dal marzo 1978 (il voto di fiducia venne dato poche ore dopo il rapimento di Moro) al marzo 1979, mentre, ritiratosi il PCI dalla coalizione, un quinto governo ANDREOTTI. formato da DC, PSDI e PRI, portò alle elezioni anticipate del 1979. Ministro degli Esteri dall’ag. 1983 al luglio 1989 nei governi Craxi, Fanfani, Goria, De Mita, fu particolarmente attento ai rapporti con il mondo arabo. Dal luglio 1989 fu capo di un governo pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI), al quale seguì, dall’apr. 1991, un settimo governo A., senza il PRI, in carica fino alle elezioni dell’apr. 1992. Durante quest’ultimo (giugno 1991) ANDREOTTI. venne nominato senatore a vita. Frantumatasi (1994) la DC in una serie di formazioni minori, ANDREOTTI. diede dapprima la sua adesione al Partito popolare italiano (PPI), per poi (2001) appoggiare la nuova formazione di Democrazia europea. 

Indicato dalle dichiarazioni di alcuni esponenti mafiosi “pentiti” come referente politico di settori della mafia siciliana e ispiratore dell’omicidio del giornalista Carmine (Mino) Pecorelli, nel 1993 fu rinviato a giudizio nell’ambito di due procedimenti giudiziari. Il primo procedimento si è concluso nel 2004 con il verdetto della Cassazione che, confermando quello della Corte d’Appello, ha assolto A. dall’accusa di aver colluso con la mafia dopo il 1980 e ha prescritto il reato di associazione per delinquere contestatogli per fatti avvenuti prima di tale data. Nel processo Pecorelli la Cassazione nel 2003 ha annullato la sentenza della Corte d’Appello, assolvendo ANDREOTTI per non aver commesso il fattoTRECCANI

Il 2 maggio 2003  il senatore Giulio Andreotti è stato giudicato e condannato dalla Corte d’Appello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Era stato assolto in primo grado, il 23 ottobre 1999. Nell’ultimo grado di giudizio, la II sezione penale della Corte di Cassazione ha citato il concetto di “concreta collaborazione” con esponenti di spicco di Cosa Nostra fino alla primavera del 1980, presente nel Dispositivo di Appello. Il reato commesso non era però più perseguibile per sopravvenuta prescrizione e quindi si è dichiarato il “non luogo a procedere” nei confronti di Andreotti. (Archivio Antimafia)


AUDIO deposizioni ai processi


IL PROCESSO ANDREOTTI. IL CONFINE LABILE FRA LA PARTECIPAZIONE E IL CONCORSO ESTERNO NEI REATI ASSOCIATIVI-INTOCCIA

 

SENTENZE


DOCUMENTI DELL’ACCUSA DELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA

Udienze processo di primo grado
15.5.1996 PDF 
16.5.1996 PDF 
22.5.1996 PDF 
23.5.1996 PDF 
29.5.1996 PDF 
30.5.1996 PDF 
Ordinanze
10.4.1996 PDF 
15.5.1996 PDF 
21.5.1996 PDF 
29.5.1996 PDF


Altri processi

Omicidio del giornalista Carmine “Mino” Pecorelli
Sentenza primo grado (Corte di Assise di Perugia 24-9-1999) PDF
Sentenza secondo grado (Corte di Assise d’appello di Perugia 17-11-2002) PDF
Sentenza della Cassazione (15-10-2004) PDF

Diffamazione del giudice Almerighi
Sentenza primo grado (Tribunale di Perugia 15-6-2007) PDF

Omicidio di Salvo Lima

Sentenza di primo grado PDF  
Sentenza di secondo grado PDF  
Sentenza della Cassazione PDF 

 


 

 

 

CAPACI – L’errore di ANDREOTTI: dimenticato non morto


Senatore a vita riconosciuto non colpevole di associazione mafiosa. L’imputato: “Partita chiusa“Palermo, assolto Andreotti “Il fatto non sussiste” E l’esito del “processo del secolo” finisce in prima pagina sui notiziari di mezzo mondo: dalla Bbc alla cinese XinhuaGiulio Andreotti non è colpevole di associazione mafiosa: lo ha deciso la giuria del tribunale palermitano presieduta da Francesco Ingargiola, stabilendo che “il fatto non sussiste”. La sentenza è stata letta questa mattina, nell’aula bunker del carcere di Pagliarelli: “Sono emozionato e contento, è ovvio, ma ho dovuto aspettare tanti anni”, ha dichiarato l’imputato, che ha ascoltato il verdetto in tv, dal suo studio di Palazzo Giustiniani, a Roma. “Ho sempre avuto fiducia nella giustizia – ha proseguito – anche se qualcuno esagera, nel non voler arrendersi alla verità”. L’accusa, ricordiamolo, aveva chiesto la condanna a quindici anni di reclusione. E la conclusione di un processo così clamoroso ha conquistato subito le prime pagine dei giornali Internet di mezzo mondo, oltre che molti notiziari televisivi. La rete tv Cnn, ad esempio, ha subito interrotto i suoi programmi con una “breaking news”, comunicando l’assoluzione in tempo (quasi) reale. Poco dopo, sul sito, l’articolo sul verdetto di Palermo ha conquistato una posizione di grande rilievo, sulla home page. Analogo comportamento da parte della Bbc, sia sul piccolo schermo, sia sull’edizione telematica. Sulla versione online del “New York Times”, articolo e foto sul senatore a vita campeggiano sulla spalla. Ancora, tra le agenzie di stampa che si sono occupate del verdetto, va segnalata la cinese Xinhua.  Ma torniamo alle reazioni a caldo. “Questo dibattimento era stato definito il processo del secolo, ora dovrà essere ricordata come l’ingiustizia del secolo”, ha commentato l’avvocato Giulia Bongiorno, mentre, nella capitale, il suo assistito – che ha seguito le parole dei giurati, in tv, col volto nascosto tra le mani – è stato letteralmente subissato dalle telefonate di felicitazioni (fra le prime, quella del presidente del Senato, Nicola Mancino). Alla Bongiorno Andreotti ha detto solo “grazie, grazie a voi legali, che non vi siete fatti impressionare”. Poco più tardi, sceso in strada tra gli applausi delle gente, ai cronisti ha invece ricordato, con sollievo, che quella con la giustizia “per me è una partita chiusa”.  E poco più tardi ha parlato anche un altro protagonista della vicenda, il procuratore di Palermo Pietro Grasso, principale rappresentante dell’accusa sconfitta: “La procura di Palermo, nel prendere atto con il doveroso rispetto della sentenza emessa dalla quinta sezione del Tribunale di Palermo, si riserva di esaminare le motivazioni per le eventuali determinazioni di competenza”. Fin qui, parole quasi di prammatica. Grasso, poi, ha aggiunto: “L’ufficio che io rappresento sente di poter dire che ha fatto tutto il proprio dovere in piena coscienza, nel rispetto del principio fondamentale dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. Appare comunque opportuno ricordare – ha concluso – che il processo nei confronti del senatore Andreotti si è svolto sulla base di elementi di prova preventivamente sottoposti al duplice vaglio del Parlamento che in sede di rilascio di autorizzazione a procedere ha escluso il ‘fumus persecutionis’ e del giudice dell’udienza preliminare che ha disposto il rinvio a giudizio”. Più tardi ha rotto il silenzio anch Roberto Scarpinato, il pm che ha sostenuto l’accusa in aula: “Abbiamo da dire una sola cosa, siamo assolutamente sereni come sono assolutamente sereni gli uomini che compiono il loro dovere”. Con lui c’era il procuratore aggiunto Guido Lo Forte: “Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto e dovuto fare – ha aggiunto – siamo assolutamente tranquilli, abbiamo compiuto il nostro lavoro con tutto l’impegno, la capacità che umanamente avevamo per l’accertamento della verità”.  (23 ottobre 1999 La Repubblica)


LA CASSAZIONE CONFERMA L’ASSOLUZIONE PER GIULIO ANDREOTTI. «La Corte rigetta il ricorso del Pg e dell’imputato e condanna quest’ultimo al pagamento delle spese processuali». E’ questo il dispositivo emesso dalla II sezione penale della Cassazione al termine dell’udienza del processo che riguardava il senatore a vita Giulio Andreotti. Per quanto riguarda il pagamento delle spese processuali, si tratta di una «cifra ingente» perché relativa a 11 anni di procedimenti giudiziari, sottolineano indiscrezioni della Procura della Suprema corte. «Sono soddisfatto di essere arrivato vivo alla fine di questo processo. Qualcuno voleva che togliessi il disturbo, ma non l’ho fatto», ha commentato a caldo la sentenza Giulio Andreotti. «Oggi voglio sottolineare la grande libertà dimostrata dai giudici della Cassazione: non perché gli altri non lo siano, ma perché in altre zone ho visto, in alcune udienze, dei condizionamenti che hanno poco a che fare con il diritto». «Molti episodi – ha aggiunto – mi hanno lasciato sconcertato: ho visto delle forme di tale manipolazione dei collaboratori di giustizia che spero di dimenticare». Ora la questione è chiusa. La Corte di Cassazione ha confermato oggi la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Palermo il 2 maggio 2003.  Mentre i giudici di primo grado, con la sentenza del 23 ottobre 1999 avevano assolto Andreotti dall’accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso per insussistenza del fatto contestato (richiamando l’art. 530, secondo comma, del codice di procedura penale, ossia la vecchia formula dell’insufficienza di prove), i giudici di secondo grado avevano distinto due momenti nei presunti rapporti di Andreotti con la mafia. Il primo ha riguardato i fatti fino al 1980 – qualificati come associazione per delinquere «semplice», non esistendo allora l’associazione di tipo mafioso – che i giudici hanno ritenuto prescritti; i secondi – qualificati come associazione per delinquere di tipo mafioso – sono stati ritenuti insussistenti, per cui e’ stata pronunciata sentenza di assoluzione (anche in questo caso, tuttavia, con richiamo al secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale). 15/10/2004


Andreotti morto, il tribunale disse: “Ebbe rapporti organici con la mafia” I giudici della Corte d’appello e la Cassazione hanno decretato che il senatore a vita commise il reato di associazione a delinquere commesso fino alla primavera del 1980. Dall’omicidio Mattarella ai rapporti con i Salvo fino alle relazioni con Lima e Ciancimino e all’incontro con un boss trapanese Chi ha voluto delegittimare i magistrati di Palermo, guidati dal procuratore Gian Carlo Caselli, e osannare Giulio Andreotti, ha sempre detto che il sette volte presidente del Consiglio è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa. Il suo sarebbe stato un processo politico e persecutorio. Ma non è così. Giudici d’appello e di Cassazione hanno decretato che Andreotti ebbe rapporti organici con Cosa nostra almeno fino al 1980. Quello ad Andreotti è stato sicuramente il processo più dirompente della storia recente italiana, seguito, in primo grado, a livello internazionale. La sentenza di primo grado è del 23 ottobre 1999 ed è di assoluzione con il comma 2 dell’articolo 530 cpp, la vecchia insufficienza di prove. In appello, il 2 maggio 2003, i giudici in parte prescrivono e in parte assolvano l’ex premier. Proclamano la prescrizione per il reato di associazione a delinquere (in quegli anni non c’era ancora il reato di associazione mafiosa, 416 bis) “commesso fino alla primavera del 1980”. Per le accuse successive alla primavera del 1980, la Corte d’appello assolve sempre con la vecchia insufficienza di prove. La Cassazione conferma l’appello il 15 ottobre del 2004. Dunque Andreotti, almeno fino al 1980 ha avuto rapporti con Cosa nostra. Secondo la Corte d’appello Andreotti, “con la sua condotta (non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. La Corte ritenne che sia stato “ravvisabile il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale, nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di una organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’Isola: a) chieda ed ottenga, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione, interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli; b) incontri ripetutamente con esponenti di vertice della stessa associazione; c) intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti; d) appalesi autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e) indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati; f) ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi; g) dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici­ e non meramente fittizi­ di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale”. Le “vicende particolarmente delicate per la vita” di Cosa nostra e i “fatti di particolarissima gravità” riguardano Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, della Democrazia Cristiana, in lotta per una pulizia all’interno del suo partito e nell’amministrazione pubblica. Un ostacolo per la mafia che decise di eliminarlo proprio il giorno di Epifania del 1980. di Antonella Mascali | 6 MAGGIO 2013 IL FQ


Mafia, così Riina parlò di Andreotti: “Ci incontrammo ma il bacio non ci fu” Per la prima volta il boss racconta la sua verità sulla vicenda. “C’era anche la scorta”. Il dialogo in cella depositato a Palermo. per trent’anni è stato uno dei segreti meglio conservati della mafia siciliana, adesso è il padrino più autorevole dell’organizzazione a svelarlo per la prima volta. Racconta Salvatore Riina: “Balduccio Di Maggio dice che mi ha accompagnato lui e mi sono baciato con Andreotti. Pa… pa… pa”. Il capo di Cosa scuote le mani mentre passeggia sorridente nel cortile del carcere milanese di Opera, come a far capire: tutte palle. Non ci fu alcun bacio, sostiene. Poi, cambia tono di voce e sussurra la sua verità: “Però con la scorta mi sono incontrato con lui”. Lui, il sette volte presidente del Consiglio finito sotto processo per associazione mafiosa, ma poi assolto dall’accusa di aver incontrato Riina nel 1987: gli unici due incontri accertati dai giudici fra Giulio Andreotti e un altro capomafia, Stefano Bontate, risalgono al periodo 1979-1980, troppo in là nel tempo, e la prescrizione ha salvato l’imputato eccellente deceduto il 6 maggio 2013. Ad ascoltare Riina, c’è il fedele compagno d’ora d’aria, il boss della Sacra Corona Unita Alberto Lorusso: la telecamera della Dia che sta intercettando su ordine dei pm di Palermo lo riprende attentissimo a non perdere una sola parola dei racconti del vecchio padrino. Il mafioso pugliese sottolinea il ruolo di chi avrebbe custodito i segreti di Andreotti: i suoi uomini di scorta. “Si tenevano nascosti – dice – ed erano fidati, la scorta sua erano fidati”. Anche Riina lo ribadisce: “Questi l’hanno salvato, questi, questi l’hanno salvato e si è salvato per questo. E si salvò”. Il boss di Corleone in carcere da 21 anni ritiene che anche qualche altro “si salvò”: Di Maggio, il suo ex autista che prima lo fece arrestare e poi raccontò la storia del bacio. “Balduccio dice che lui si è messo in una stanza ed io sono rimasto con Andreotti. Minchia… ma questo cornuto… minchia figlio di puttana… ce la spuntò, ce l’ha spuntata e se n’è andato assolto”. A questo punto, Riina rivela: “Però con la scorta mi sono incontrato con lui”. Se davvero fosse questa la verità, avevano visto giusto i pm del processo Andreotti, Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, che nella loro requisitoria stigmatizzarono i troppi “non so” e “non ricordo” della scorta di Andreotti. Ora Riina si offre di svelare il mistero e riapre il caso. La domanda è: se l’incontro non avvenne nel 1987, come aveva messo a verbale Di Maggio, quando si tenne? E soprattutto: perché Riina lancia la sua ennesima verità? Anche questo dialogo, risalente al 29 agosto dell’anno scorso, è stato depositato al processo per la trattativa Stato-mafia dai pm Di Matteo, Del Bene, Tartaglia e Teresi. E si va ad aggiungere al corposo dossier che raccoglie le trascrizioni di sette mesi di intercettazioni in carcere.
Durante le passeggiate, Riina rivendicava continuamente il suo ruolo nelle bombe del 1992. Solo vanterie di un vecchio padrino? Oppure Riina voleva mandare l’ennesimo messaggio? Come dire: io di segreti ne ho ancora tanti da rivelare. Andreotti, secondo una sentenza ormai definitiva, volò a Palermo nel 1980 per un incontro con il capomafia Bontate: protestò per l’omicidio del presidente della Regione Mattarella, ma Bontate lo redarguì, così racconta il pentito Marino Mannoia, minacciando di revocare il sostegno elettorale di Cosa nostra. Qualche mese dopo, Bontate fu ucciso, e i corleonesi iniziarono il loro governo di sangue e nuove complicità. Andreotti e Riina si incontrarono per davvero? Il pentito Onorato ha raccontato al processo “trattativa” che nel 1992 Riina voleva uccidere Andreotti, “perché non aveva mantenuto i patti”. di SALVO PALAZZOLO 27 agosto 2014 LA REPUBBLICA


 

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MANDATI PARLAMENTARI


Giulio Andreotti tra i principali esponenti della Democrazia Cristiana, partito protagonista della vita politica italiana per gran parte della seconda metà del XX secolo. Ha partecipato a dieci elezioni politiche nazionali: è stato il candidato con il maggior numero di preferenze in Italia in quattro occasioni (nel 1958, nel 1972, nel 1979 e nel 1987) e il secondo nelle altre sei (nel 1948 e nel 1953, dietro Alcide De Gasperi; nel 1963 e nel 1968, dietro Aldo Moro; nel 1976 e nel 1983, dietro Enrico Berlinguer). Infine, nel 1991 è stato nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Dal 1945 al 2013 fu quindi sempre presente nelle assemblee legislative italiane: dalla Consulta Nazionale all’Assemblea costituente, e poi nel Parlamento italiano dal 1948, come deputato fino al 1991 e successivamente come senatore a vita. Andreotti è stato il politico con il maggior numero di incarichi governativi nella storia della repubblica. Fu infatti: sette volte presidente del Consiglio e per 32 volte Ministro della Repubblica considerando anche gli incarichi ad interim: otto volte Ministro della difesa; cinque volte Ministro degli affari esteri; tre volte Ministro delle partecipazioni statali (tutte ad interim); tre volte Ministro del bilancio e della programmazione economica (una volta ad interim), tre volte ministro dell’industria, del commercio e dell’ artigianato, due volte Ministro delle finanze, due volte Ministro dell’interno (il più giovane della storia repubblicana) a soli trentacinque anni, mentre la seconda volta lo fu ad interim nel suo 4º governo, due volte Ministro per i beni culturali e ambientali (ad interim), due volte Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno (Governo Moro IV e Governo Moro V), una volta Ministro del tesoro, una volta Ministro delle politiche comunitarie (ad interim). Nella storia della Repubblica Italiana Andreotti è il secondo Presidente del Consiglio per numero di giorni in carica, superato solo da Silvio Berlusconi. A cavallo tra XX e XXI secolo fu imputato in un processo per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.[1] Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo. La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 2 maggio 2003, lo assolse per i fatti successivi al 1980 e dichiarò il “non luogo a procedere” per quelli anteriori a tale data per intervenuta prescrizione. L’organo giudicante ravvisò che Andreotti dimostrava “un’autentica, stabile, ed amichevole disponibilità verso i mafiosi” sino al 1980, mentre, da quell’anno in poi, portò avanti un “incisivo impegno antimafia condotto nella sede sua propria dell’attività politica”.[2][3] La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello condannando Andreotti al pagamento delle spese processuali.[4] È stato sposato dal 1945 al 2013 (la sua morte) con Livia Danese (1º giugno 1921-29 luglio 2015), da cui ha avuto quattro figli: Lamberto (1950), Stefano, Serena e Marilena.

Le origini e la formazione Nato a Roma, in via dei Prefetti 18[5], da genitori originari di Segni, all’età di due anni rimase precocemente orfano di padre e in seguito perse anche Elena, l’unica sorella:«Mia madre è rimasta vedova giovanissima. Con mio fratello maggiore e mia sorella più grande, che morì appena si iscrisse all’università, vivevamo presso una vecchissima zia, classe 1854, nella casa nella quale io sono nato.»

«Appena presa la licenza liceale, fu doveroso per me non gravare più su mia madre, che con la sua piccola pensione aveva fatto miracoli per farci crescere, aiutata soltanto dalle borse di studio di orfani di guerra. Rinunciai, in fondo senza rimpianti eccessivi, a scegliere la facoltà di Medicina, che comportava la frequenza obbligatoria; mi iscrissi a Giurisprudenza e andai a lavorare come avventizio all’Amministrazione Finanziaria […].[7]»

Iniziò a soffrire fin da ragazzo di forti emicranie, mentre la sua gracile costituzione fisica giustificò infauste previsioni che Andreotti ricorda così:Frequentò il ginnasio al “Visconti” e il liceo al “Tasso“.[6] Si iscrisse poi alla facoltà di Giurisprudenza per ragioni da lui così illustrate:«Aiutato dal mio carattere ad apprezzare anche il lato comico delle vicende, dimenticai presto la terribile prognosi del medico militare del Celio, Ricci, che, dichiarandomi non idoneo al corso allievi ufficiali per «oligoemia e deperimento organico», aveva aggiunto il pronostico che a suo giudizio non mi restavano più di sei mesi prima di passare a vita migliore.[8]»«Alla visita medica militare, il medico responsabile mi diede sei mesi di vita; quando diventai ministro della difesa lo chiamai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui![9 ndreotti raccontò della funesta previsione del medico militare anche ad Oriana Fallaci: Dopo aver completato la scuola dell’obbligo, si laureò in legge con il voto di 110/110 presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” il 10 novembre del 1941.[10][11]

Inizio della carriera politica Intraprese la carriera politica già nel corso degli studi universitari, durante i quali entrò a far parte della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, Andreotti ha spiegato così i motivi della sua adesione:«[…] stavo studiando diritto della navigazione, andai in biblioteca e un impiegato mi disse: «Lei non ha niente di meglio da fare?». Io mi seccai un po’. Qualche giorno dopo mi chiama Spataro, che era stato presidente molti anni prima, e stava riorganizzando la Democrazia Cristiana, e ci ritrovo quel signore dei libri che mi dice: “De Gasperi vuole il suo nome”. […] De Gasperi io non lo conoscevo. Mi venne detto: “Vieni a lavorare con noi”. Allora ho cominciato, e non era affatto nei miei programmi. Poi, si sa, la politica è una specie di macchina nella quale se uno entra non può più uscirne.[12]»

Quando nel 1942 questi fu chiamato alle armi, Andreotti gli succedette nell’incarico di presidente, incarico che mantenne sino al 1944:Riguardo all’impiegato della biblioteca, Andreotti ha spiegato: «Io non sapevo chi fosse quel signore. Lui sapeva invece che dirigevo il giornale degli universitari cattolici»[13]. Infatti nella FUCI Andreotti era giunto, nel luglio 1939, a ricoprire l’incarico di direttore di Azione Fucina (la rivista degli universitari cattolici), proprio mentre Aldo Moro assumeva la presidenza dell’associazione.[14]«Con Moro ci conoscevamo fin dai tempi della Fuci, lui era presidente, io dirigevo l’Azione fucina, e quando lui lasciò la carica presi il suo posto. Quindi una dimestichezza che risaliva a prima della politica. […] ho sempre avuto con lui una relazione molto facile, proprio perché c’era questo legame universitario.[15]»

L’elezione all’Assemblea costituente e le prime responsabilità di governo Fu De Gasperi ad introdurlo nella scena politica nazionale, designandolo quale componente della Consulta Nazionale nel 1945 e successivamente favorendone la candidatura alle elezioni del 1946 all’Assemblea Costituente. I due si conobbero casualmente nella Biblioteca Vaticana dove De Gasperi aveva un modesto impiego concessogli dal Vaticano per consentirgli di sfuggire alla miseria cui lo aveva condannato il regime fascista[16] e fra i due si sviluppò un intenso rapporto nonostante le profonde differenze caratteriali.Nel luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. Durante la guerra scrisse per la Rivista del Lavoro, pubblicazione di propaganda fascista. Partecipò anche alla redazione clandestina de Il Popolo. Il 30 luglio 1944, al Congresso di Napoli, fu eletto nel primo Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana e il 19 agosto divenne responsabile dei gruppi giovanili del partito; in tale carica verrà confermato dal Congresso nazionale del Movimento giovanile DC di Assisi del gennaio 1947.

All’inizio degli anni quaranta monsignor Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI), già assistente ecclesiastico della Fuci e sostituto della segreteria di Stato, aveva notato il giovane Andreotti e fu lui nel maggio 1947 ad esortare De Gasperi perché lo nominasse sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, «lasciando di stucco un’intera schiera di vecchi popolari che affollavano l’anticamera politica della nuova Italia»[17].

Sottosegretario nei Governi De Gasperi Andreotti divenne così parte del quarto governo De Gasperi, venendo poi eletto nel 1948 alla Camera dei deputati per la circoscrizione di Roma-Latina-Viterbo-Frosinone, in quella che sarà la sua roccaforte elettorale fino agli anni novanta. Nel 1952, in vista delle elezioni amministrative del comune di Roma, Andreotti diede prova delle sue capacità diplomatiche e della credibilità conseguita agli occhi del Papa negli anni della presidenza della Fuci scrivendo a Pio XII un appunto che finalmente lo persuase – dopo che non vi erano riusciti né Montini né De Gasperi – a rinunciare all’”operazione Sturzo” (cioè all’idea di un’alleanza elettorale che coinvolgesse anche i neofascisti).[18] Durante gli anni del sottosegretariato alla presidenza del consiglio, Andreotti si occupa della produzione cinematografica italiana. La legge Andreotti del 1949 prevede la difesa del cinema italiano dalla saturazione del mercato americano imponendo una tassa sul doppiaggio; inoltre, le sceneggiature delle produzioni italiane dovevano essere sottoposte all’approvazione governativa per aggiudicarsi finanziamenti pubblici. Tra il 1947 e il 1950, Andreotti si avvale della collaborazione del frate domenicano Felix Morlion per fondare un neorealismo cattolico. Questo doveva combattere il pericolo neorealista, colpevole di dare una rappresentazione negativa dell’Italia all’esterno. Questo tentativo risulterà nella presentazione di due film di Roberto Rossellini alla 11ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Francesco, giullare di Dio e Stromboli (Terra di Dio).[19] Andreotti mantenne la carica di sottosegretario alla Presidenza in tutti i governi De Gasperi e poi nel successivo governo Pella, fino al gennaio 1954. Ad Andreotti furono affidate numerose e ampie deleghe (fra le altre, quelle per lo spettacolo, lo sport, la riforma della pubblica amministrazione, l’epurazione). A lui si devono in particolare la rinascita del CONI che si pensava di sciogliere o liquidare dopo la caduta del regime fascista, l’autonomia finanziaria dello sport attraverso il collegamento con il totocalcio e la rinascita della industria cinematografica nazionale e il rilancio degli stabilimenti di Cinecittà devastati nell’immediato dopoguerra (Legge n. 958 del 29 dicembre 1949)[20] fornendo inoltre prestiti alle imprese di produzione italiane e adottando misure per prevenire la dominazione del mercato da parte delle produzioni americane. È del 1953, fra l’altro, il cosiddetto “veto Andreotti” contro il blocco della importazione di calciatori stranieri. Le benemerenze acquisite da Andreotti in questi anni nei confronti dello sport italiano gli verranno riconosciute il 30 novembre 1958 con la nomina all’unanimità, da parte del Consiglio nazionale del Coni, a presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Roma 1960. Molti anni dopo, nel 1990, Andreotti verrà inoltre insignito del prestigioso Collare all’Ordine olimpico, la massima onorificenza del Comitato Olimpico Internazionale. Seguirono altri innumerevoli incarichi, tanto che Andreotti fu presente in quasi tutti i governi della Prima Repubblica. Nel periodo 1947-54 fu inoltre il responsabile politico dell’Ufficio per le zone di confine (Uzc), che tramite ingenti fondi riservati finanziava partiti, giornali ed enti di vario tipo per difendere l’italianità in delicate zone di frontiera come Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta. L’Uzc svolgeva poi una serie di altre attività di natura amministrativa e burocratica relative al rapporto con le minoranze linguistiche e all’attuazione dell’autonomia (escludendo il Friuli Venezia Giulia). Perciò ebbe un ruolo preminente come raccordo tra Roma e la classe dirigente locale.[21]

Ministro delle Finanze Nel 1954 è per la prima volta ministro, entrando a far parte del breve primo governo Fanfani come Ministro dell’interno. Successivamente diventa Ministro delle Finanze nei governi Segni I e Zoli.

Nel novembre 1958 Andreotti fu nominato presidente del comitato organizzatore delle Olimpiadi del 1960 che si sarebbero tenute a Roma. Nell’agosto del 1958 rimane coinvolto per «mancata vigilanza» nel Caso Giuffrè sulla base di un “memoriale”, poi rivelatosi falso. Dall’accusa venne completamente scagionato da una commissione di inchiesta parlamentare. Viene invece censurato da una Commissione d’inchiesta parlamentare del 1961–1962 su alcune irregolarità nei lavori dell’aeroporto di Fiumicino.

La nascita della corrente andreottiana Quasi parallelamente all’affermarsi della segreteria nazionale di Amintore Fanfani, la corrente andreottiana nasce in quegli anni, ereditando nella capitale i quadri della destra clericale che nel 1952 s’erano coalizzati – con la benedizione del Vaticano – dietro il tentativo di espugnare il Campidoglio con la lista civica guidata da Luigi Sturzo. Essa esordì con la campagna di stampa che implicò Piero Piccioni (figlio del vicesegretario nazionale Attilio Piccioni) nella vicenda del caso Montesi. Eliminata così la vecchia guardia degasperiana dalla guida del partito, gli andreottiani aiutarono la neonata corrente dei dorotei a conseguire la maggioranza necessaria per scalzare Fanfani dalla Presidenza del consiglio e dalla segreteria della Democrazia cristiana. Si trattava di «una sorta di curva Sud del partito […] anche se marginale all’interno della DC»[22], che Franco Evangelisti battezzò «corrente Primavera».

Ministro della Difesa Nei primi anni sessanta fu Ministro della difesa quando esplose lo scandalo dei fascicoli SIFAR e del Piano Solo, un presunto progetto di golpe neofascista, promosso, secondo il settimanale L’Espresso, dal generale missino Giovanni De Lorenzo[23]. L’incarico ministeriale rivestito da Andreotti fu onerato, da una successiva legge, della responsabilità della distruzione dei fascicoli, con cui il Sifar aveva schedato importanti politici italiani, di cui aveva composto dei ritratti poco favorevoli. Gli si addebita perciò una responsabilità quanto meno oggettiva nel fatto che – come è stato accertato[24] – quei fascicoli fossero stati prima fotocopiati e poi passati alla P2 di Licio Gelli, che aveva portato quei materiali all’estero[25], a dispetto del fatto che la commissione parlamentare d’inchiesta avesse deciso di far bruciare a Fiumicino, nell’inceneritore, i fascicoli abusivi. Quasi a rimarcare la differente cifra della sua condotta, Francesco Cossiga, che nella veste di sottosegretario alla Difesa procedette parallelamente all’espunzione con omissis del rapporto della commissione ministeriale d’inchiesta del generale Manes sul Piano Solo, ha sempre pubblicamente vantato il suo intervento censorio, dichiarando di averlo svolto nella piena legalità. Nel dicembre del 1968 viene nominato capogruppo della Dc alla Camera, incarico che manterrà per tutta la legislatura fino al 1972.

Presidente del Consiglio  Lo stesso argomento in dettaglio: Governo Andreotti I e Governo Andreotti II. Nel 1972, Giulio Andreotti diventa per la prima volta Presidente del Consiglio, incarico che reggerà, alla guida di due esecutivi di centro-destra, fino al 1973. Il primo governo non ottenne la fiducia e fu costretto a dimettersi dopo nove giorni. Tale governo è stato dunque finora quello col più breve periodo di pienezza dei poteri nella storia della Repubblica Italiana ed il terzo a vedersi rifiutato il voto di fiducia dal parlamento, fatto che provocò le prime elezioni anticipate della Repubblica. L’esecutivo, tuttavia, rimase in carica dal 18 febbraio al 26 giugno 1972, per un totale di 128 giorni, ovvero 4 mesi e 8 giorni. Dopo le elezioni del 1972, che videro la Democrazia Cristiana rimanere più o meno stabile, si formò il secondo governo Andreotti che fu il primo esecutivo dal 1957 a vedere l’organica partecipazione di ministri e sottosegretari liberali, rappresentò un tentativo di resurrezione del centrismo di degasperiana memoria, e fu anche noto come governo Andreotti-Malagodi. L’esecutivo cadde per il ritiro dell’appoggio esterno[26] dei repubblicani al governo sulla materia della riforma televisiva: “casus belli” delle problematiche delle televisioni locali fu la vicenda di Telebiella. La battuta usata dalle opposizioni fu “Andreotti inciampò nel cavo di Telebiella e cadde”.

Dopo la fine dei primi due governi Andreotti Andreotti continuò a ricoprire incarichi di primo piano, nei successivi esecutivi. Nel ruolo di Ministro della difesa, rilascia una famosa intervista a Massimo Caprara con cui rivela le coperture istituzionali dell’indagato per la strage di piazza Fontana, Guido Giannettini[27] (Andreotti sarà prosciolto, nel 1982, dall’accusa di favoreggiamento nei confronti di Giannettini). Fra il 1974 e il 1976 ricopre il ruolo di Ministro del bilancio e della programmazione economica nei governi Moro IV e Moro V.

Il compromesso storico Nel 1976, il governo, presieduto da Aldo Moro, perse la fiducia dei socialisti in Parlamento e il Paese si avviò alle elezioni anticipate, che videro un forte aumento del Partito Comunista Italiano, guidato da Enrico Berlinguer. La Democrazia Cristiana riuscì, anche se solo per pochi voti, a restare il partito di maggioranza relativa. Forte del buon risultato elettorale, Berlinguer propose, appoggiato anche da Aldo Moro e Amintore Fanfani, di dare concretezza al compromesso storico, ovvero alla formazione di un governo di coalizione fra PCI e DC, per superare la difficile situazione dell’Italia dell’epoca, colpita dalla crisi economica e dal terrorismo.

Il «governo della non sfiducia» Fu proprio Andreotti ad essere prescelto per guidare il primo esperimento in questa direzione: egli varò nel luglio del 1976 il suo terzo governo, detto della «non sfiducia»[28] perché, pur essendo un monocolore, si reggeva grazie all’astensione dei partiti dell’arco costituzionale (tutti tranne il MSI-DN). L’azione legislativa di questo inedito esperimento si concretizzò in diverse riforme come la legge sul diritto d’uso fondiario (che introdusse severi vincoli di costruzione oltre che nuovi criteri per gli espropri dei terreni e nuove procedure di pianificazione delle costruzioni), la legge per il controllo da parte dello stato sugli affitti e le condizioni di locazione, l’aggiornamento ad hoc delle prestazioni in denaro nel settore agricolo e l’estensione del collegamento della pensione con il salario industriale a tutti gli altri sistemi pensionistici non gestiti dall’INPS. Questo Governo cadde però nel gennaio del 1978.

La solidarietà nazionale  A marzo la crisi fu superata grazie alla mediazione di Aldo Moro, che promosse un nuovo esecutivo, sempre un monocolore democristiano ma sostenuto dal voto favorevole di tutti i partiti compreso il PCI (votarono contro solo MSI, PLI e SVP). Il nuovo governo fu nuovamente affidato ad Andreotti e ottenne la fiducia in Parlamento, il 16 marzo, lo stesso giorno del sequestro di Moro. La drammatica situazione fece nascere la cosiddetta solidarietà nazionale, in nome della quale il PCI accettò di votare comunque la fiducia malgrado Andreotti avesse rifiutato tutte le richieste della sinistra (riduzione del numero dei Ministri, inclusione di alcuni indipendenti, esclusione di ministri quali Antonio Bisaglia e Carlo Donat Cattin, apertamente contrari alla politica di solidarietà nazionale)[29]. In qualità di Presidente del Consiglio, Andreotti decise di portare avanti la linea della fermezza, rifiutando ogni trattativa che avrebbe significato il riconoscimento delle BR da parte dello Stato (come sua controparte) dopo l’uccisione della scorta del presidente democristiano[30]. A sostegno della linea dura del Governo si schierarono Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, ossia i due uomini che avrebbero avuto il maggiore interesse alla sopravvivenza di Moro, in quanto interprete e garante della politica di solidarietà nazionale[30][31], mentre fu criticata dalla famiglia dell’ostaggio[32]. Nel suo memoriale, scritto mentre era prigioniero, Moro riserva giudizi durissimi su Andreotti. Dopo l’omicidio di Moro, nel maggio del 1978, l’esperienza della solidarietà nazionale proseguì, portando all’approvazione di importanti leggi come il piano decennale per l’edilizia residenziale (legge n. 457 del 5 agosto 1978), la legge Basaglia riguardante i manicomi e la riforma sanitaria che istituiva il servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 23 dicembre 1978). A livello europeo Andreotti stimolò la nascita del Fondo europeo di sviluppo regionale. La richiesta dei comunisti, per una partecipazione più diretta alle attività di governo, fu respinta dalla DC: di conseguenza Andreotti si dimise nel giugno del 1979. In quel periodo teorizzò la «strategia dei due forni», secondo cui il partito di maggioranza relativa avrebbe dovuto rivolgersi alternativamente a PCI e PSI, a seconda di chi dei due «facesse il prezzo del pane più basso». Sta di fatto che ciò produsse per lungo tempo un pessimo rapporto con Bettino Craxi: esso s’era degradato quando Andreotti aveva fissato le elezioni anticipate del 1979 ad una settimana dalle europee di quell’anno (disattendendo la richiesta del PSI, che riteneva di avere maggiori chance di trascinamento con la coincidenza tra le due date)[33], ed era crollato definitivamente quando la vicenda di finanziamento illecito di correnti anticraxiane del PSI – che era dietro lo scandalo ENI-Petromin – fu (a torto o a ragione) ricondotta da Craxi ad ambienti andreottiani.[senza fonte] Ne scaturì il veto a incarichi di Governo per tutta la successiva legislatura (quando Craxi disse che «la vecchia volpe è finita in pellicceria»[34]): si trattò dell’unico quadriennio della Prima Repubblica (oltre al periodo 1968-1971) in cui Andreotti non rivestì alcun incarico di Governo.

Ministro degli affari esteri  Nel 1983 Andreotti assume la carica di Ministro degli affari esteri nel primo governo Craxi, incarico che mantiene nei successivi governi fino al 1989. Forte della sua pluridecennale esperienza di uomo politico, Andreotti favorì il dialogo fra USA e URSS, che in quegli anni si stava aprendo. All’interno del governo, si rese protagonista di diversi scontri con Craxi – prevalentemente surrettizi, come quando sussurrò ad un giornalista di essere stato «… in Cina con Craxi e i suoi cari…»[35]; l’antagonismo fu anche oggetto di satira e di moti di spirito della più variegata origine[36]. Ma nella gestione filoaraba della politica estera[37] fu oggettivamente in consonanza con Craxi, schierandosi con lui – durante la crisi di Sigonella – nella decisione di sottrarre alla giustizia americana i terroristi che avevano dirottato la nave Achille Lauro, assassinando un passeggero paralitico.

Gli ultimi governi Andreotti  Anche grazie a questi sviluppi, svolse successivamente un ruolo di tramite fra Craxi e la Democrazia Cristiana, i cui rapporti erano tutt’altro che idilliaci. Gli scontri fra il carismatico leader socialista e il segretario democristiano Ciriaco De Mita erano all’ordine del giorno, tanto che i giornali parlarono dell’esistenza del triangolo CAF (Craxi-Andreotti-Forlani): quando tale intesa sottrasse a De Mita la guida del governo, nel 1989, fu chiamato nuovamente alla presidenza del Consiglio, incarico che resse fino al 1992. Si trattò di un governo dal decorso turbolento: la scelta di restare alla guida del governo, nonostante l’abbandono dei ministri della sinistra democristiana – dopo l’approvazione della norma sugli spot televisivi (favorevole alle emittenze private di Silvio Berlusconi, reso “oligopolista” dalla legge Mammì) – non impedì il riemergere di antichi sospetti e rancori con Craxi (che alluse ad Andreotti quando disse che dietro il ritrovamento delle lettere di Moro in via Montenevoso vedeva una “manina”, guadagnandosi la sua piccata replica che forse c’era stata una “manona”); la scoperta di Gladio e le “picconate” del presidente Francesco Cossiga lo videro destinatario di pressioni istituzionali fortissime, cui replicò con la consueta levità di spirito dichiarando che era «… meglio tirare a campare che tirare le cuoia»[38]. Nel 1992, finita la legislatura, Andreotti rassegnò le sue dimissioni, non mancando di chiosare che facendo le valigie aveva trovato nei suoi cassetti alcune lettere del Presidente della repubblica ancora chiuse[senza fonte]. Eppure a quel Presidente dovette la sua sopravvivenza politica nella sua quarta età: l’anno prima era stato nominato senatore a vita proprio da Cossiga. Priva di radicamento territoriale al di fuori del Lazio (dove si valeva di proconsoli territoriali come Franco Evangelisti prima e Vittorio Sbardella poi, oltre che di “specialisti” nelle varie istituzioni come il magistrato di Cassazione Claudio Vitalone e il vescovo di Curia monsignor Angelini), la corrente andreottiana si alleava periodicamente con correnti espresse da altre realtà territoriali: da ultimo, negli anni ottanta, furono organici all’andreottismo, tra le tante, le correnti napoletane di Enzo Scotti e Paolo Cirino Pomicino, quella bresciana di Giovanni Prandini, quella milanese di Luigi Baruffi, quella emiliano-romagnola di Nino Cristofori, quella Toscana di Tommaso Bisagno, quella piemontese di Silvio Lega, quella calabrese di Camelo Puija, quella palermitana di Salvo Lima e quella catanese di Nino Drago; al di là delle espressioni geografiche, un lungo tratto di cammino insieme compirono anche le frange politiche di Comunione e Liberazione, pur mantenendo un ampio margine di autonomia. Dopo la nomina a Senatore a vita, nel Lazio la corrente fu sottoposta a forti tensioni per capire su chi dovessero convergere le forze. Lo scontro fu particolarmente aspro e portò Vittorio Sbardella ad uscire dal Gruppo. Alle prime elezioni politiche successive alla nomina come senatore a vita, quelle del 1992, lo stesso Sbardella otterrà un lusinghiero risultato, arrivando secondo ad un’incollatura da Franco Marini. In Regione sedeva dal 1990 il nipote di Andreotti (per parte di moglie) Luca Danese.

Senatore a vita  In quello stesso anno, il 1992, Andreotti era considerato uno dei candidati più papabili per la carica di presidente della repubblica, ma la sua corrente non si espose mai con una candidatura esplicita che portasse alla conta dei voti, preferendo l’esercizio di un’estenuante interdizione che tenne sulla corda gli altri candidati del CAF (fino a “bruciare”, in due memorabili scrutini di metà maggio, la candidatura di Arnaldo Forlani, che non riuscì a raggiungere il quorum per meno di trenta voti). Quella di Andreotti, che era studiata come una candidatura da far emergere dopo l’affossamento delle altre, divenne però a sua volta del tutto impraticabile dopo l’assassinio del giudice Giovanni Falcone a Palermo: il fatto che due mesi prima fosse stato assassinato a Palermo Salvo Lima, della medesima corrente di Andreotti, fu giudicato in Parlamento un evento di scarsa presentabilità pubblica in una situazione di emergenza nazionale nella lotta alla mafia. Così si passò a considerare altri nomi più “istituzionali”: prima il presidente del Senato Giovanni Spadolini e poi, con successo, quello della Camera Scalfaro, sostenuto anche dalla sinistra. Il 27 marzo 1993[39] ricevette un avviso di garanzia dalla Procura di Palermo con l’accusa di aver favorito la mafia, tramite la mediazione del suo rappresentante in Sicilia, Salvo Lima. Il Senato, dietro sua sollecitazione, concesse l’autorizzazione a procedere e il processo accertò la collaborazione di Andreotti con la criminalità organizzata fino al 1980, facendo così scattare la prescrizione.

Lo stesso anno dopo le rivelazioni di alcuni pentiti, viene indagato come mandante dell’omicidio Pecorelli dalla Procura di Perugia. Sarà assolto definitivamente dalla Corte di cassazione dieci anni dopo. Dall’ottobre del 1993, Giulio Andreotti diviene direttore del mensile internazionale 30 giorni nella Chiesa e nel Mondo, in vendita solo nelle edicole intorno al Vaticano e nelle librerie Paoline, ma a cui è possibile abbonarsi[40]. Allo scioglimento della Democrazia Cristiana, nel 1994, aderì al Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli, partito che lascerà nel 2001, in seguito alla nascita della Margherita. Nel febbraio del 2001 diede vita, insieme a Ortensio Zecchino e Sergio D’Antoni, al partito d’ispirazione cristiana denominato Democrazia Europea, che ottenne un risultato modesto alle elezioni e confluì nell’UDC nel 2002. Candidato Presidente del Senato Le elezioni politiche del 2006, che videro una vittoria di misura dell’Unione di Romano Prodi, con al Senato un leggero vantaggio di seggi tra lo schieramento vincente e la Casa delle Libertà, fecero discutere sui futuri assetti istituzionali e sulla necessità di ricompattare un’Italia sostanzialmente divisa in due. Perciò, da alcuni settori del centro-destra era giunta la proposta di assegnare la Presidenza del Senato al senatore a vita Andreotti, ritenuto capace di mediare tra i due schieramenti e tra le due anime del Paese; il tentativo fallì nelle votazioni del 28-29 aprile 2006.

La mancata elezione a Presidente del Senato

Il senatore a vita, sulla proposta del centro-destra di candidarsi alla guida di palazzo Madama, aveva dichiarato: «Deciderò sul momento» se accordare o meno la fiducia all’eventuale governo Prodi II. Sull’ipotesi di una sua elezione alla Presidenza del Senato, in un’intervista al quotidiano La Stampa del 22 aprile 2006, si rese disponibile purché «… in un’ottica di conciliazione». L’elezione di Andreotti, secondo alcune fonti, avrebbe dovuto ottenere i consensi di un’ampia fetta dei moderati del centrosinistra, fra La Margherita e l’Udeur di Mastella, mettendo in crisi la scelta, data ormai per certa, del diellino Franco Marini. L’elezione nei primi scrutini non diede luogo ad una proclamazione del vincitore Marini, per alcuni voti annullati dalla Presidenza in quanto riconoscibili[41]. Ma l’elezione, tenutasi il 29 aprile, al terzo scrutinio, portò alla presidenza del Senato Franco Marini, con 165 voti (quelli della maggioranza più quelli di alcuni senatori a vita e, verosimilmente, alcuni provenienti dai gruppi di minoranza della CdL), contro le 156 preferenze raccolte dall’ex-presidente del consiglio tra le file del centro-destra e dal senatore a vita Francesco Cossiga. Andreotti – che aveva commentato con la consueta arguzia la vicenda dei voti annullati[42] – fu il primo a riconoscere che la coalizione di centrosinistra – proprio con il voto sul Presidente del Senato – aveva dimostrato di essere in grado di avere una maggioranza dei voti per esprimere un governo.

Il 19 maggio 2006, Andreotti accordò la fiducia al governo Prodi II, assieme agli altri sei senatori a vita, suscitando vive polemiche nella Casa delle Libertà, che aveva sostenuto la sua candidatura alla Presidenza del Senato. Successivamente, si consultò spesso con il nuovo Presidente del Consiglio riguardo alla politica estera, che continuava a seguire in qualità di membro della Commissione Affari esteri del Senato.

Gli ultimi anni  Il 21 febbraio 2007 suscitò scalpore la sua astensione in Senato alla risoluzione della maggioranza di centro-sinistra, relativa alle linee guida di politica estera illustrate dal Ministro degli esteri Massimo D’Alema al Senato della Repubblica, che non ottenne il quorum di maggioranza, iniziando così la crisi di Governo che portò il presidente del Consiglio Romano Prodi a rassegnare, in serata, le dimissioni dal suo incarico (poi respinte) al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il senatore a vita aveva annunciato il giorno prima il suo voto favorevole. L’indomani dichiarò ai mass media che il suo cambio di scelta fu dovuto al discorso di D’Alema, teso a marcare fortemente la discontinuità della politica estera del centrosinistra rispetto all’esecutivo dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; dichiarò inoltre il suo totale disaccordo su una politica tesa da un lato ad osannare il leader di Forza Italia e dall’altro a demonizzarlo[43]. Alcuni tra commentatori e giornalisti insinuarono che l’astensione di Andreotti fosse dovuta alla tensione politica tra il Vaticano e il Governo Prodi, sorta circa il disegno di legge sui DICO. Andreotti partecipò in seguito, nel maggio 2007, a una manifestazione “in difesa della famiglia” (Family Day)[44]. Il 29 aprile 2008, a seguito della rinuncia dei senatori Rita Levi-Montalcini e Oscar Luigi Scalfaro, Andreotti svolse le funzioni di presidente provvisorio del Senato della Repubblica in quanto senatore più anziano. Diresse quindi le votazioni che portarono all’elezione del senatore Renato Schifani alla seconda carica dello Stato. Il suo notevole archivio cartaceo (3500 faldoni, dal 1944 in poi), che, negli ultimi anni della sua carriera parlamentare, aveva sede nel suo ufficio di piazza in Lucina, è stato acquisito dalla Fondazione Sturzo[45] ed è stato utilizzato da Andreotti anche successivamente. Dopo il 30 dicembre 2012, giorno della scomparsa di Rita Levi-Montalcini, è stato il più anziano senatore in carica. Muore il 6 maggio 2013 nella sua casa di Roma; per volontà della famiglia le esequie si svolgono in forma privata.[46] È sepolto presso il cimitero monumentale del Verano di Roma.

Rapporti con Cosa nostra Andreotti è stato sottoposto a giudizio a Palermo per associazione per delinquere (fino al 28 settembre 1982) e associazione mafiosa (dal 29 settembre 1982 in avanti)[47]. Mentre la sentenza di primo grado, emessa il 23 ottobre 1999, lo aveva assolto perché il fatto non sussiste (in base all’articolo 530 comma 2 c.p.p.)[48], la sentenza d’appello, emessa il 2 maggio 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilì che Andreotti aveva «commesso» il «reato di partecipazione all’associazione per delinquere» (Cosa nostra), «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980», reato però «estinto per prescrizione». Per i fatti successivi alla primavera del 1980 Andreotti è stato invece assolto.[49]

La sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003, in estrema sintesi, parla di una «autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980»[47][50]. Interrogato dalla procura di Palermo il 19 maggio 1993, il sovraintendente capo della polizia Francesco Stramandino, dichiarò di aver assistito il 19 agosto 1985, in qualità di responsabile della sicurezza dell’allora Ministro degli Esteri Andreotti, ad un incontro tra lo stesso politico e quello che solo successivamente sarà identificato come boss Andrea Manciaracina, all’epoca sorvegliato speciale e uomo di fiducia di Salvatore Riina. Lo stesso Andreotti ammise in aula l’incontro con Manciaracina, spiegando che il colloquio ebbe a che fare con problemi relativi alla legislazione sulla pesca.

La sentenza di appello definì «inverosimile» la «ricostruzione dell’episodio offerta dall’imputato». Pur confermando che Andreotti incontrò uomini appartenenti a Cosa nostra anche dopo la primavera del 1980, il tribunale stabilì che mancava «qualsiasi elemento che consentisse di ricostruire il contenuto del colloquio». La versione fornita da Giulio Andreotti, secondo il tribunale, potrebbe essere dovuta «al suo intento di non offuscare la propria immagine pubblica ammettendo di avere incontrato un soggetto strettamente collegato alla criminalità organizzata e di avere conferito con lui in modo assolutamente riservato».

Sia l’accusa sia la difesa presentarono ricorso in Cassazione, l’una contro la parte assolutiva, e l’altra per cercare di ottenere l’assoluzione anche sui fatti fino al 1980, anziché il proscioglimento per prescrizione. Tuttavia la Corte di cassazione il 15 ottobre 2004 rigettò entrambe le richieste confermando la prescrizione per qualsiasi ipotesi di reato fino alla primavera del 1980 e l’assoluzione per il resto[51]. Nella motivazione della sentenza di appello si legge (a pagina 211):«Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione.»

Andreotti avrebbe potuto essere condannato in base all’articolo 416 c.p., cioè all’associazione “semplice”, poiché quella aggravata di tipo mafioso (416-bis c.p.) fu introdotta nel codice penale soltanto nel 1982, grazie ai relatori Virginio Rognoni (DC) e Pio La Torre (PCI), oppureSe la sentenza definitiva fosse arrivata entro il 20 dicembre 2002 (termine per la prescrizione), avrebbe potuto dare luogo ad uno dei seguenti due esiti alternativi:

– l’imputato avrebbe potuto essere assolto con formula piena con la conferma della sentenza di primo grado. La stessa sentenza della Corte di Cassazione ha affermato che Andreotti ha incontrato almeno due volte l’allora capo dei capi di Cosa Nostra Stefano Bontate.[53][54]

Le rivelazioni dei pentiti Leonardo Messina ha affermato di aver sentito dire che Andreotti era «punciutu», ossia un uomo d’onore con giuramento rituale.[55] Baldassare Di Maggio raccontò di un bacio tra Andreotti e Totò Riina. Successivamente questo non venne provato e si ritiene che abbia attirato tutta l’attenzione del processo su questo ipotetico fatto suggestivo, allontanandola dalle testimonianze di circa 40 pentiti[56]. Giovanni Brusca ha affermato: «Per quel che riguarda gli omicidi Dalla Chiesa e Chinnici, io credo che non sarebbe stato possibile eseguirli senza scatenare una reazione dello Stato se non ci fosse stato il benestare di Andreotti. Durante la guerra di mafia c’erano morti tutti i giorni. Nino Salvo mi incaricò di dire a Totò Riina che Andreotti ci invitava a stare calmi, a non fare troppi morti, altrimenti sarebbe stato costretto ad intervenire con leggi speciali» e «Chiarisco che in Cosa Nostra c’era la consapevolezza di poter contare su un personaggio come Andreotti»[57].

Omicidio Piersanti Mattarella Nel 2004 la Cassazione conferma le accuse nei confronti di Andreotti. La sentenza, pur assolvendolo per alcuni reati e prescrivendolo per altri, afferma che Andreotti era a conoscenza delle intenzioni della mafia di uccidere il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, tanto che aveva incontrato il capo di Cosa Nostra Stefano Bontate prima che l’omicidio avvenisse, per esprimere la sua contrarietà. Quando Piersanti Mattarella venne assassinato, Andreotti si recò nuovamente in Sicilia e incontrò ancora Stefano Bontate per chiarire la vicenda.

Omicidio Pecorelli Andreotti è stato anche processato per il coinvolgimento nell’omicidio di Mino Pecorelli, avvenuto il 20 marzo 1979. Secondo i magistrati investigatori, Andreotti commissionò l’uccisione del giornalista, direttore della testata Osservatore Politico (OP). Pecorelli – che aveva già pubblicato notizie ostili ad Andreotti, come quella sul mancato incenerimento dei fascicoli SIFAR sotto la sua gestione alla Difesa – aveva predisposto una campagna di stampa su finanziamenti illegali della Democrazia Cristiana e su presunti segreti riguardo il rapimento e l’uccisione dell’ex Presidente del Consiglio Aldo Moro avvenuto nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse. In particolare, il giornalista aveva denunciato connessioni politiche dello scandalo petroli, con una copertina intitolata Gli assegni del Presidente con l’immagine di Andreotti, ma accettò di fermare la pubblicazione del giornale già nella rotativa. Il pentito Tommaso Buscetta testimoniò che Gaetano Badalamenti gli raccontò che «l’omicidio fu commissionato dai cugini Salvo per conto di Giulio Andreotti», il quale avrebbe avuto paura che Pecorelli pubblicasse informazioni che avrebbero potuto distruggere la sua carriera politica. In primo grado nel 1999 la Corte d’assise di Perugia prosciolse Andreotti, il suo braccio destro Claudio Vitalone (ex Ministro del Commercio con l’estero), Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò, il presunto killer Massimo Carminati (uno dei fondatori dei Nuclei Armati Rivoluzionari) e Michelangelo La Barbera per non aver commesso il fatto[58] (in base all’articolo 530 c.p.p.)[59]. Successivamente, il 17 novembre 2002 la Corte d’assise d’appello ribaltò la sentenza di primo grado per Badalamenti e Andreotti, condannandoli a 24 anni di carcere come mandanti dell’omicidio Pecorelli[60]. Il 30 ottobre 2003 la sentenza d’appello fu annullata senza rinvio dalla Cassazione, annullamento che rese definitiva la sentenza di assoluzione di primo grado[61]. Per la Cassazione la sentenza d’appello si basava su «un proprio teorema accusatorio formulato in via autonoma e alternativa in violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione»[62], sostenendo che il processo di secondo grado avrebbe dovuto confermare il giudizio di assoluzione, basato su una «corretta applicazione della garanzia»[62]. I supremi giudici aggiunsero che le rivelazioni di Buscetta non si basavano su elementi concreti «circa l’identificazione dei tempi, delle forme, delle modalità e dei soggetti passivi (intermediari, submandanti o esecutori materiali) del conferimento da parte di Andreotti del mandato di uccidere»[62], oltre al fatto che mancava il movente e che la sentenza di condanna non aveva spiegato né come né perché l’imputato avrebbe ordinato l’omicidio del giornalista[62].

Caso Almerighi È stato condannato in via definitiva il 4 maggio 2010 per aver diffamato il giudice Mario Almerighi definendolo «falso testimone, autore di infamie e pazzo»[63][64][65].

Coinvolgimenti in altre vicende La figura di Andreotti è oggetto di interpretazioni e polemiche di varia natura. Le numerose contestazioni che gli sono state volte hanno riguardato praticamente tutti i campi della sua attività e sono venute anche da politici e giornalisti illustri (come Indro Montanelli[66]). In parte ciò è ascrivibile all’assolutamente inedito curriculum ministeriale accumulato, che fece sì che anche senza più rivestire cariche formali egli fosse referente di alti funzionari e burocrati ministeriali e dei servizi di sicurezza, con un coinvolgimento personale in vicende che non lo riguardavano più sotto il profilo istituzionale[67]. Accuse e sospetti gli sono stati rivolti a proposito delle sue relazioni con la loggia P2[68], Cosa Nostra, la Chiesa cattolica e con alcuni individui legati ai più oscuri misteri della storia repubblicana. Tali voci – e specialmente il reato relativo al rapporto con Cosa Nostra – hanno certamente danneggiato la sua immagine pubblica: come s’è visto nel 1992, scaduto il mandato del dimissionario Francesco Cossiga come Presidente della repubblica, la candidatura di Andreotti sembrava destinata ad avere la meglio finché, durante i giorni delle votazioni di maggio, la strage di Capaci orientò la scelta dei parlamentari verso Oscar Luigi Scalfaro.

Andreotti e Dalla Chiesa  Nel 1978, dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, in seguito al ritrovamento di un borsello sopra un pullman, i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa riuscirono ad individuare un covo delle Brigate Rosse appartenente alla colonna Walter Alasia, situato a Milano in Via Monte Nevoso. Ne scaturirono 9 arresti e una serie di perquisizioni, nella quale furono rinvenuti alcuni documenti riguardanti il rapimento di Moro e parte di un memoriale dello stesso[69]. Il Memoriale Moro sarebbe stato consegnato da Dalla Chiesa ad Andreotti a causa delle informazioni contenute al suo interno. Inoltre nel 1979, pochi giorni prima di essere ucciso, Mino Pecorelli incontrò Dalla Chiesa per ricevere informazioni sul Memoriale, consegnandogli documenti riguardanti Andreotti[70]. Nel 1982 Andreotti spinse molto sulla disponibilità di Dalla Chiesa ad accettare l’incarico propostogli di Prefetto di Palermo. In un diario, un appunto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa datato 2 aprile 1982 al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini scriveva che la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la “famiglia politica” più inquinata da contaminazioni mafiose.[71] Sempre Dalla Chiesa, nel suo taccuino personale scrive: «Ieri anche l’on. Andreotti mi ha chiesto di andare [da lui, ndr] e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori.[…] Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno […] lo ha condotto e lo conduce a errori di valutazione e circostanze.»[72][73]

Rapporti con Michele Sindona e Licio Gelli  Secondo la Corte di Perugia e il Tribunale di Palermo «Andreotti aveva rapporti di antica data con molte delle persone che a vario titolo si erano interessate della vicenda del banchiere della Banca Privata Italiana ed esponente della loggia massonica P2 Michele Sindona, oltre che con lo stesso Sindona.»[74]  Tali rapporti si intensificarono nel 1976, al momento del crac finanziario delle banche di Sindona: Licio Gelli, capo della loggia P2, propose un piano per salvare la Banca Privata Italiana all’allora Ministro della difesa Andreotti. Quest’ultimo incaricò informalmente il senatore Gaetano Stammati (affiliato alla loggia P2) e Franco Evangelisti di studiare il progetto di salvataggio della Banca Privata Italiana, il quale venne però rifiutato da Mario Sarcinelli, vice direttore generale della Banca d’Italia[75]. In seguito, Andreotti si giustificò sostenendo che il suo interessamento per il salvataggio della Banca Privata Italiana era solo di natura istituzionale. Tuttavia, anche durante la lunga latitanza di Sindona all’hotel Pierre di New York, Andreotti continuò a mantenere contatti con l’avvocato del banchiere, Rodolfo Guzzi, mostrandosi più che disponibile a tutte le iniziative volte a favorire lo stesso Sindona, sia per il salvataggio finanziario, sia per evitargli l’estradizione[76].  Solo dopo il falso rapimento di Sindona, la sua estradizione e il conseguente arresto per bancarotta fraudolenta e per l’omicidio del liquidatore della Banca Privata Italiana Giorgio Ambrosoli, Andreotti se ne distanziò pubblicamente.  Su Ambrosoli, Andreotti ha in seguito dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».[77], per poi precisare: «… intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto»[78].  Nel 1984 la Camera e il Senato votano respingendole delle mozioni presentate dalle opposizioni che avrebbero impegnato il governo ad assumere decisioni sulle responsabilità di Andreotti relative al caso Sindona.  Sindona morì avvelenato da un caffè al cianuro il 22 marzo 1986 nel carcere di Voghera, due giorni dopo essere stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ambrosoli. La sua morte fu giudicata essere un suicidio, poiché le prove e le testimonianze riguardo al veleno utilizzato e al comportamento di Sindona stesso fecero supporre un tentativo di auto-avvelenamento[tale atto sarebbe stato compiuto nella speranza di una re-estradizione negli Stati Uniti, paese con il quale l’Italia aveva un accordo sulla custodia del banchiere legato alla sicurezza e incolumità di quest’ultimo. Sindona, quindi, avrebbe messo in scena un avvelenamento e sarebbe morto a causa di un errore di dosaggio.  Il giornalista e docente universitario Sergio Turone ipotizza che sia stato Andreotti a far pervenire una bustina di zucchero contenente il cianuro fatale a Sindona, facendo credere a quest’ultimo che il caffè avvelenato gli avrebbe causato solo un malore. Secondo Turone, il movente del presunto omicidio sarebbe stato il timore che Sindona rivelasse durante il processo d’appello segreti riguardanti i rapporti tra politici italiani, Cosa Nostra, e la P2: «… fino alla sentenza del 18 marzo 1986 Sindona [aveva] sperato che il suo potente protettore [Andreotti] trovasse la via per salvarlo dall’ergastolo. Nel processo d’appello, non avendo più nulla da perdere, avrebbe detto cose che fin ora aveva taciuto».[79]. Va tuttavia sottolineato che tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta che implichi in alcun modo Andreotti nella morte di Sindona.  Ancora nel 2010, Giulio Andreotti dava un giudizio positivo su Sindona: «Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona». Il fatto «che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c’erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene»[80]. Inoltre nel 1988 Clara Canetti, la vedova del banchiere Roberto Calvi (trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge di Londra nel 1982), affermò che il marito le avrebbe confidato poco tempo prima di morire che il vero capo della loggia P2 era Andreotti, da cui Licio Gelli prendeva ordini[81]: di tale affermazione però non sono mai stati raccolti riscontri attendibili ed Andreotti negò le accuse della vedova, rispondendo ironicamente: «Se fossi un massone non mi accontenterei di essere a capo di una loggia soltanto»[82]. A questo proposito, in un’intervista concessa il 15 febbraio 2011 al settimanale Oggi, Licio Gelli dichiarò: «Giulio Andreotti sarebbe stato il vero “padrone” della Loggia P2? Per carità.. io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l’Anello»: l’Anello (o più propriamente chiamato «Noto servizio») sarebbe stato un servizio segreto parallelo e clandestino usato come anello di congiunzione tra i servizi segreti (usati in funzione anticomunista) e la società civile. Il settimanale Oggi chiese subito un commento ad Andreotti, il quale fece sapere di non volere rispondere alle dichiarazioni di Gelli»[83].

Andreotti e il Golpe Borghese  A seguito delle rivelazioni sull’indagine legata al tentativo di Golpe da parte di Junio Valerio Borghese, il 15 settembre 1974 Giulio Andreotti, all’epoca Ministro della Difesa, consegnò alla magistratura romana un dossier del SID diviso in tre parti che descriveva il piano e gli obiettivi del golpe, portando alla luce nuove informazioni. Il dossier fu redatto dal numero due del SID, il generale Gianadelio Maletti, che avviò un’inchiesta sulle cospirazioni mantenendolo nascosto anche a Vito Miceli, direttore del servizio. Scoperto il progetto, Maletti fu costretto a scavalcare Miceli e a parlare direttamente con Andreotti. Andreotti per questo destituì Miceli e altri 20 generali e ammiragli. Ma nel 1991 si scoprì che le registrazioni consegnate nel 1974 da Andreotti alla magistratura non erano in versione integrale. Vi erano infatti i nomi di numerosi personaggi di spicco in ambito politico e militare, per cui Andreotti stesso ha recentemente dichiarato che ritenne di dover tagliare quelle parti per non renderle pubbliche, in quanto tali informazioni erano “inessenziali” per il processo in corso e, anzi, avrebbero potuto risultare “inutilmente nocive” per i personaggi ivi citati. Nelle parti cancellate vi era il nome di Giovanni Torrisi, successivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa tra il 1980 e il 1981; ma anche riferimenti a Licio Gelli e alla loggia massonica P2, che si doveva occupare del rapimento del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat; infine si facevano rivelazioni circa un “patto” stretto da Borghese con alcuni esponenti della mafia siciliana, secondo cui alcuni sicari della mafia avrebbero ucciso il capo della polizia, Angelo Vicari. L’esistenza di tale patto sarebbe poi stata confermata da vari pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta.  Grazie al Freedom of Information Act nel 2004 si è inoltre scoperto che il piano di Borghese era noto al governo degli Stati Uniti e che esso aveva l’”avallo” a condizione che fosse assicurato il coinvolgimento di un personaggio politico italiano “di garanzia”. Il nome indicato sarebbe stato quello di Andreotti[84], che sarebbe dovuto diventare una sorta di presidente in pectore del governo post-golpe. Tuttavia non è accertato che Andreotti fosse al corrente dell’indicazione statunitense. Il dottor Adriano Monti, complice di Junio Valerio Borghese nel tentato golpe, afferma che il suo nome, come “garante politico” del colpo di Stato, sarebbe stato fatto da Otto Skorzeny, promotore dell’”organizzazione Geleme”, una branca dei servizi segreti tedeschi durante la guerra, poi inserita tra le organizzazioni di intelligence fiancheggiatrici della CIA.


I RAPPORTI CON SINDONA E GELLI

  • Secondo la Corte di Perugia e il Tribunale di Palermo «Andreotti aveva rapporti di antica data con molte delle persone che a vario titolo si erano interessate della vicenda del banchiere della Banca Privata Italiana ed esponente della loggia massonica P2 Michele Sindona, oltre che con lo stesso Sindona.»[74]
  • Tali rapporti si intensificarono nel 1976, al momento del crac finanziario delle banche di Sindona: Licio Gelli, capo della loggia P2, propose un piano per salvare la Banca Privata Italiana all’allora Ministro della difesa Andreotti. Quest’ultimo incaricò informalmente il senatore Gaetano Stammati (affiliato alla loggia P2) e Franco Evangelisti di studiare il progetto di salvataggio della Banca Privata Italiana, il quale venne però rifiutato da Mario Sarcinelli, vice direttore generale della Banca d’Italia. In seguito, Andreotti si giustificò sostenendo che il suo interessamento per il salvataggio della Banca Privata Italiana era solo di natura istituzionale. Tuttavia, anche durante la lunga latitanza di Sindona all’hotel Pierre di New York, Andreotti continuò a mantenere contatti con l’avvocato del banchiere, Rodolfo Guzzi, mostrandosi più che disponibile a tutte le iniziative volte a favorire lo stesso Sindona, sia per il salvataggio finanziario, sia per evitargli l’estradizione[.
  • Solo dopo il falso rapimento di Sindona, la sua estradizione e il conseguente arresto per bancarotta fraudolenta e per l’omicidio del liquidatore della Banca Privata Italiana Giorgio Ambrosoli, Andreotti se ne distanziò pubblicamente.
  • Su Ambrosoli, Andreotti ha in seguito dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando»., per poi precisare: «… intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto».
  • Nel 1984 la Camera e il Senato votano respingendole delle mozioni presentate dalle opposizioni che avrebbero impegnato il governo ad assumere decisioni sulle responsabilità di Andreotti relative al caso Sindona.
  • Sindona morì avvelenato da un caffè al cianuro il 22 marzo 1986 nel carcere di Voghera, due giorni dopo essere stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ambrosoli. La sua morte fu giudicata essere un suicidio, poiché le prove e le testimonianze riguardo al veleno utilizzato e al comportamento di Sindona stesso fecero supporre un tentativo di auto-avvelenamentotale atto sarebbe stato compiuto nella speranza di una re-estradizione negli Stati Uniti, paese con il quale l’Italia aveva un accordo sulla custodia del banchiere legato alla sicurezza e incolumità di quest’ultimo. Sindona, quindi, avrebbe messo in scena un avvelenamento e sarebbe morto a causa di un errore di dosaggio.
  • Il giornalista e docente universitario Sergio Turone ipotizza che sia stato Andreotti a far pervenire una bustina di zucchero contenente il cianuro fatale a Sindona, facendo credere a quest’ultimo che il caffè avvelenato gli avrebbe causato solo un malore. Secondo Turone, il movente del presunto omicidio sarebbe stato il timore che Sindona rivelasse durante il processo d’appello segreti riguardanti i rapporti tra politici italiani, Cosa Nostra, e la P2: «… fino alla sentenza del 18 marzo 1986 Sindona [aveva] sperato che il suo potente protettore [Andreotti] trovasse la via per salvarlo dall’ergastolo. Nel processo d’appello, non avendo più nulla da perdere, avrebbe detto cose che fin ora aveva taciuto». Va tuttavia sottolineato che tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta che implichi in alcun modo Andreotti nella morte di Sindona.
  • Ancora nel 2010, Giulio Andreotti dava un giudizio positivo su Sindona: «Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona». Il fatto «che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c’erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene»
  • Inoltre nel 1988 Clara Canetti, la vedova del banchiere Roberto Calvi (trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge di Londra nel 1982), affermò che il marito le avrebbe confidato poco tempo prima di morire che il vero capo della loggia P2 era Andreotti, da cui Licio Gelli prendeva ordini[81]: di tale affermazione però non sono mai stati raccolti riscontri attendibili ed Andreotti negò le accuse della vedova, rispondendo ironicamente: «Se fossi un massone non mi accontenterei di essere a capo di una loggia soltanto». A questo proposito, in un’intervista concessa il 15 febbraio 2011 al settimanale Oggi, Licio Gelli dichiarò: «Giulio Andreotti sarebbe stato il vero “padrone” della Loggia P2? Per carità.. io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l’Anello»: l’Anello (o più propriamente chiamato «Noto servizio») sarebbe stato un servizio segreto parallelo e clandestino usato come anello di congiunzione tra i servizi segreti (usati in funzione anticomunista) e la società civile. Il settimanale Oggi chiese subito un commento ad Andreotti, il quale fece sapere di non volere rispondere alle dichiarazioni di Gelli».

Diari di Andreotti, il vero segreto è che non esistono grandi segreti. Conversazione con Stefano Andreotti  Manager di lungo corso in una multinazionale, Stefano Andreotti si occupa, con la sorella Serena, della catalogazione e del mantenimento della smisurata mole di informazioni, appunti e documenti che il padre, Giulio, ha collezionato nei suoi oltre 50 anni di attività politica. Per i tipi della Solferino, è stato presentato recentemente il volume “Giulio Andreotti, i diari segreti” ed è già andata esaurita la prima edizione. Un archivio cartaceo, quello di Giulio Andreotti, la gran parte del quale è custodito presso la sede dell’Istituto Don Luigi Sturzo e la restante (i diari) rimane nelle esclusive disponibilità della famiglia. Una massa di “carte” che, messe un foglio sull’altro, supererebbe di 200 metri l’altezza dell’Empire State Building. Incontro Stefano Andreotti al centro di Roma, nell’elegantissima sala riunioni di un noto studio legale internazionale e mi lascio immergere sin da subito, sull’onda dei ricordi dell’interlocutore, in una storia familiare genuinamente italiana, ma di un’Italia che non c’è più… l’Italia del dopoguerra, quella del boom economico, quella della DC e del PCI ma anche del PSI, PRI, PLI, l’Italia di Totò e di Alberto Sordi, l’Italia di Sivori, di Mike Bongiorno. Una nazione in bianco e nero ma infinitamente più colorata di quella in cui viviamo oggi. Confesso di non aver preparato alcuna domanda definita, ma ho un’idea ben precisa del perimetro e soprattutto tantissima, sana, genuina e a volte forse anche impertinente, curiosità e quindi mi appresto idealmente a suonare il campanello di ‘Casa Andreotti’.

Immagino che i diari personali di suo padre facessero gola alle intelligence di mezzo mondo. Che effetto avrebbe fatto a quegli 007 sapere che un giorno quei diari segretissimi sarebbero stati disponibili in tutte le librerie d’Italia e per i più pigri addirittura su Amazon, catalogati, decodificati e resi fruibili senza censure ed omissioni? Non so se gli 007 avrebbero fatto a gara per accaparrarsene, sono certamente scritti in gran parte inediti, la loro esposizione (per ora abbiamo pubblicato gli anni ottanta) è una lettura della storia italiana e ancor più internazionale fatta da un testimone privilegiato e in molti casi protagonista di quei fatti.

Di quali capitoli o argomenti, consiglierebbe particolarmente la lettura? Quali sono, a suo avviso, le parti più interessanti, inedite e le rivelazioni esplosive… Per gli amanti della storia credo che siano un incontro o in alcuni casi un buon ripasso di cosa accadde in quel periodo. Vengono trattati centinaia e centinaia di fatti e certamente la maggior parte di politica estera. Mio padre amava soprattutto le occasioni e quindi gli incarichi che gli permettevano di oltrepassare i nostri confini per occuparsi praticamente di qualsiasi cosa accadesse nel mondo, in particolare dei conflitti che necessitavano di mediazione di pace per la loro risoluzione. Europa, Africa, Asia Americhe, Ovest, Est lo hanno attratto giorno dopo giorno, le sue testimonianze credo riescano a far luce su tanti episodi, spesso poco o per niente conosciuti o in alcuni casi male riferiti.

In una recente intervista televisiva lei ha dichiarato che suo padre subiva innegabilmente il fascino del Potere ma che non ne considerava minimamente l’esercizio fine a se stesso. Può spiegarci meglio quale fosse il rapporto di suo padre con il Potere? Certamente mio padre amava il potere e ricoprire gli incarichi che gli venivano affidati, ma il potere non era solo fine a se stesso, era soprattutto lo strumento per realizzare i principi in cui credeva e che lo hanno guidato nella sua vita politica, un credo assoluto nell’interclassismo e nella giustizia sociale che gli derivavano dal profondo credo nella religione cattolica, la fedeltà alla solidarietà atlantica e al progetto di costruzione di una vera unione europea, un modello di democrazia con al centro il parlamento che considerava il cuore della Stato. I posti di potere come detto gli piacevano, ma non erano un’ossessione, nei diari pubblicati ad esempio c’è il rifiuto, negli anni in cui non era al governo, a ricoprire la carica di ministro del Tesoro, offertagli prima da Forlani e poi da Spadolini, perché il suo interesse vero era quello di occuparsi di politica estera.

Una certa letteratura da edicola, e purtroppo anche un certo giornalismo, vorrebbe suo padre al centro di chissà quali cospirazioni, la P2, opachi rapporti internazionali e, ovviamente, ma questa per stessa ammissione, anche le guerre puniche… può invece raccontarci quante volte suo padre si sia trovato nelle condizioni di dover prendere decisioni su questioni cruciali salvando l’Italia dal caos? Di polemiche ne ha affrontate tante, le prime risalgono addirittura agli anni cinquanta, ma non gli ha mai dato grande importanza né si è mai difeso con querele o comportamenti eclatanti, probabilmente con il senno del poi sbagliando, con la convinzione di avere comunque la coscienza a posto e che il tempo avrebbe poi risistemato comunque le cose. In un’intervista del 1984 Montanelli lo invitava a reagire di fronte all’ennesimo attacco (in quel caso il ricorrente ritornello dei suoi rapporti con Sindona) e in quell’occasione mio padre gli dette a parole ragione, ma nei fatti non cambiò atteggiamento. Certamente oggi qualcuno si approfitta del fatto che mio padre non c’è più e non può quindi ribattere, tirando fuori le più incredibili congetture ma spero che la storia, basata soprattutto sull’esame dei tanti documenti che ha lasciato, quando prenderà il posto della cronaca spiccia, potrà riequilibrare tanti giudizi. Quanto alla seconda domanda in tanti anni di governo come primo ministro o a capo di dicasteri sicuramente si trovò ad affrontare problemi di estrema gravità, crisi economiche devastanti, attacchi del terrorismo alle istituzioni (la tragedia d Moro e degli uomini della sua scorta in primis), tensioni internazionali, dalla lettura dei diari se ne ha un buon campione.

Cossiga, in una delle sue ultime interviste, disse che l’Italia si era arenata negli anni sessanta ed avrebbe continuato a galleggiare ad aeternum. Come prevedeva invece il futuro dell’Italia suo padre? Non credo che considerasse la nostra Italia una barca ferma, contenta solo di sopravvivere galleggiando, era invece convinto dei grandi progressi fatti dal nostro paese risorto dalla catastrofe della seconda guerra mondiale e divenuto anno dopo anno, pur fra tanti problemi, uno dei primi paesi industrializzati del mondo (negli anni ottanta di cui ci siamo occupati nei diari superò perfino la Gran Bretagna della Thatcher), con un buon livello di occupazione e un buon tenore di vita diffuso largamente, con una riconosciuta visibilità internazionale. Mio padre era certamente fiero di aver potuto dare una mano a quella grande crescita, della quale oggi ci si dimentica spesso, e non era contento invece di un’Italia che, a partire dagli anni novanta, ha imboccato una strada in discesa ben diversa, dalla quale non si vede ancora oggi una prospettiva di risalita.

Qual era invece la sua visione dell’Italia… il progetto nazionale che aveva in testa e verso il quale cercava di orientare il Paese? Credo che quanto detto sopra risponda già a questa domanda. Sottolineo l’importanza che dava ad un’Italia, partner di una grande Europa, vera unione politica e non solo economica, riconosciuta a livello internazionale come una delle prime attrici.

Come mai lei ed i suoi fratelli non avete intrapreso l’attività politica? Nessuno di noi quattro fratelli ne ha avuto mai la tentazione. Ciascuno, in campi diversi, ha seguito la propria strada. Nostro padre non ci ha mai incoraggiato a seguire la sua e non ne sarebbe comunque stato contento.

Non sembra che suo padre abbia avuto delfini… Probabilmente uno dei difetti di mio padre e più in generale della classe politica di allora è stato quello di sentirsi quasi immortali e di non aver troppo incoraggiato le nuove leve.

Chi, a suo modo di vedere, ha raccolto tra i politici di oggi l’eredità politica di suo padre? Sono talmente cambiati i tempi che è normale che nessuno assomigli a lui.

Qual è il quid che manca ai politici attualmente sulla scena. Cosa manca, secondo lei, oggi in politica che la generazione di suo padre invece aveva? Le doti che mio padre richiedeva a un politico erano ideali, grande preparazione (quindi dura e faticosa gavetta) e assoluto rispetto dell’avversario, caratteristiche che credo non siano riscontrabili in una classe politica che vuole oggi emergere senza una lunga esperienza alle spalle e che si contraddistingue spesso per un ricorso alla violenza verbale e alla demonizzazione degli altri, senza mai rivelare bene il proprio ideale. Ma come detto i politici di oggi sono figli di tempi profondamente cambiati.

L’occasione mi è ghiotta… mi rivela un segreto che non ha trovato posto nel libro? Le posso rispondere con una battuta che mio padre spesso ripeteva, ma che battuta lo è fino ad un certo punto: il vero grande segreto è che non esistono grandi segreti. Certamente ci saranno state cose che andavano, soprattutto nel campo internazionale, tenute coperte da riserbo, ma il pensare che mio padre si sia portato dietro inconfessabili verità, senza mai lasciare alcuna traccia, è frutto della grande passione per la dietrologia per la quale credo in Italia siamo campioni del mondo. FORMICHE 23.9.2020


Scrivo dell’amico Giulio Andreotti e di cosa penso della magistratura italiana Su La Voce di New York interviene il Professor Joseph La Palombara dopo lo scambio tra il giudice Mario Vaudano e il figlio dell’ex premier Stefano Andreotti di Joseph LaPalombara

In quello che scrive Vaudano non c’è una sola riga, nemmeno una piccola evidenza provata, che reggerebbe in un tribunale onesto e non politicizzato… Andreotti non piaceva a Washington, probabilmente perché non era disposto a farsi guidare dagli Stati Uniti. Fece spesso infuriare gli americani, perché voleva che l’Italia seguisse la propria idea di politica estera, senza farsi influenzare dall’esterno.

La mia opinione sull’accusa che Mario Vaudano fa a Giulio Andreotti, è che il racconto dell’ex giudice sia viziato da ciò che c’è sostanzialmente di sbagliato nel sistema della magistratura italiana. La memoria di Vaudano, per quanto accurata possa essere storicamente, non è solo egoistica. È anche un potente esempio di colpevolezza per associazione e per insinuazione, una colpevolezza indiretta che lo scrittore, in questo caso un ex magistrato e giudice, ha deciso in anticipo debba esserci.
I magistrati battaglieri, coccolati e temuti sono quelli esperti, in un ordinamento giuridico dove sono gli imputati, e non i pubblici ministeri, a dover dimostrare la loro innocenza! I magistrati sono immensamente esperti. In quello che scrive Vaudano non c’è una sola riga, nemmeno una piccola evidenza provata, che reggerebbe in un tribunale onesto e non politicizzato.

Qui il mio ritratto di Andreotti, scritto alcuni anni fa, è autobiografico.

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Giulio Andreotti, sette volte primo ministro italiano, è stato un amico lontano. L’ho anche descritto come uno dei miei insegnanti. L’ho incontrato alla fine degli anni ’50 ed è stato presente da protagonista nella politica nazionale italiana dal secondo dopoguerra fino alla sua morte, quasi settant’anni dopo.

Se Andreotti avesse o meno degli amici intimi, fu un segreto ben custodito. In uno dei tanti processi che dovette sopportare, fu ridicolmente accusato di aver baciato su entrambe le guance l’allora famigerato capo della mafia siciliana. Sarebbe una notizia se Andreotti, chiamato “La Tartaruga” dagli italiani, fosse noto per salutare in quel modo i membri di quella famiglia. 

Andreotti, in Italia, era sostenuto da milioni di cittadini che hanno creduto in questo uomo straordinario, ma, probabilmente, da altrettanti era disprezzato. Ha guidato a lungo la Democrazia Cristiana e, in molte delle elezioni alle quali ha partecipato, ha ricevuto centinaia di migliaia di “preferenze”. Solo una manciata di leader politici, nella storia italiana, hanno ottenuto più voti di quelli di Andreotti. Questo fatto, da solo, era sufficiente a far indispettire i suoi detrattori.

Andreotti non piaceva a Washington, probabilmente perché non era disposto a farsi guidare dagli Stati Uniti. Fece spesso infuriare gli americani, perché voleva che l’Italia seguisse la propria idea di politica estera, senza farsi influenzare dall’esterno. Mantenne apertamente un atteggiamento amichevole nei confronti del mondo arabo. Questa posizione, di certo, non gli fece ottenere amici a “Foggy Bottom” (Il Dipartimento di Stato USA, ndr), molto più favorevolmente orientata verso Israele di quanto lo fosse Andreotti, o di quanto fosse la Sinistra Italiana, di cui Andreotti non fece mai parte. Andreotti si pentì dell’ostilità di Washington nei suoi confronti, ma, a differenza di molti dei suoi contemporanei politici, non era incline a cedere sotto le pressioni degli Stati Uniti.

Il comportamento di Andreotti potrebbe avere indotto alcuni a credere che “La Tartaruga” fosse un uomo troppo moderato e non fosse intelligente. A mio giudizio, e certamente nel suo senso per la politica, Andreotti in Italia non ha mai avuto una grande concorrenza politica. Anche i suoi nemici giurati, e forse molti che erano noti per detestarlo, erano attenti a dargli spazio. Amici e colleghi italiani si stupivano spesso del fatto che Andreotti mi piacesse, che lo rispettassi e che mantenessi i contatti con lui.

Ho incontrato Andreotti l’ultima volta poco prima che raggiungesse i novant’anni. Gli chiesi se, nell’arco della sua carriera politica, ci fosse qualcosa di cui si lamentasse, o di cui si fosse pentito. Mi riservò quello che pensavo fosse uno sguardo condiscendente ed esitò un attimo prima di parlare. Disse poi che il suo unico vero rimpianto era il pensiero che non sarebbe stato vivo quando il tribunale, in Sicilia, avrebbe respinto le accuse contro di lui. Ancora una volta, non c’erano prove a sostegno delle accuse che i magistrati politicizzati gli avevano rivolto.

Andreotti ha discusso con me le motivazioni politiche che hanno spinto i magistrati a muoversi contro di lui. I suoi commenti sulla motivazione politica o ideologica dei pubblici ministeri e dei giudici italiani sono stati molti, e sempre negativi. Andreotti ha visto correttamente il lato politico della magistratura, indipendentemente dal fatto che venisse da destra o da sinistra, da entrambi gli estremi della politica italiana.

Ha escoriato la magistratura “intoccabile” in modo corretto ed è stato attento a sottolineare come, l’Italia, fosse un paese in cui le stesse persone, spesso compagni di classe e amici, fossero in modo intercambiabile procuratori e giudici. In effetti, ci si aspetta che periodicamente svolgano entrambi questi ruoli. Purtroppo, i tentativi italiani di “riformare” la magistratura, indirizzati in questo senso, hanno sempre fallito.

Se il lettore vuole un esame della magistratura italiana estremamente critico, delle sue dinamiche e delle sue orrende motivazioni politiche, allora deve acquistare una copia del libro di Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, La ghigliottina italiana (Rowman &  Littlefield, 1998). Io stesso ho pubblicato un articolo (The Yale ReviewVol.99, gennaio, 2011, pp. 89-105) in cui sostengo che i magistrati siano degli ottimi “vigilanti”, e che così sia anche il peggiore tra loro. Qualsiasi politologo, dentro o fuori l’Italia, giungerebbe a questa conclusione.

Andreotti è stato particolarmente deciso nel rimproverare il comportamento dell’ANM, la lobby nazionale dei magistrati. Mi ha avvertito, raccontando che questa lobby fosse così potente che né i deputati, né i primi ministri e nemmeno i presidenti della Repubblica osassero criticare apertamente la magistratura, il Consiglio nazionale della magistratura, o l’ANM, il potente gruppo di interessi che rappresenta e combatte per i magistrati italiani, che in effetti giudicano ufficialmente se stessi e, di fatto, si trovano al di sopra della legge. 

Giorgio Napolitano, ex Presidente della Repubblica, ha visto questo aspetto della magistratura dopo che, nei primi anni ’90, è stato presidente di Montecitorio, la Camera dei Deputati.  Ma quando il suo libro autobiografico di quell’esperienza è stato pubblicato, è stato molto attento nel suggerire ai magistrati italiani come migliorare il loro comportamento pubblico. Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica dal 1985 al 1992, era molto più diretto, almeno quando io e lui ci trovavamo a discutere delle mancanze dei magistrati e dei giudici italiani. Cossiga, in verità, mi ha detto che, per quanto riguarda la moralità o l’etica professionale, i magistrati italiani sono simili ai procuratori distrettuali americani, in particolare a quelli che vengono eletti. Penso che Cossiga, una volta ritiratosi in pensione, abbia odiato la magistratura. Le sue parole per me erano: ” Questi non sono altro che truppe d’assalto”. Ha sempre enfatizzato la sua idea: che i pubblici ministeri e giudici, in Italia, non fossero nulla di diverso da “armi d’assalto”.

Quando fu giudicato innocente dai magistrati siciliani che lo avevano erroneamente accusato, Andreotti si ricordò della nostra conversazione. Così, dal Senato italiano, mi fece recapitare questo messaggio: “Caro Professore, come avrà visto, anche i vecchi politici, a volte, sono capaci di sbagliare! Ossequi”. LA VOCE DI NEW YORK 23.10.2020


Il processo allo “zio Giulio” e all’intera Prima Repubblica

 

Un detenuto disse al suo compagno di cella: «La vedi quella gobba? Guardala bene perché è piena di omicidi». La televisione era accesa, sullo schermo apparve l’uomo politico più famoso d’Italia che per sette volte era stato capo del governo e per ventuno ministro della Repubblica. Poi un altro raccontò: «Noi lo sapevamo chi era davvero, girava la voce che era punciutu».

Punciutu, punto sul polpastrello del dito indice della mano destra con un ago, o con la spina di arancio amaro o forse con una spilla d’oro come usavano i boss più megalomani delle province interne, comunque passato anche lui dal rito d’iniziazione con l’immagine della Madonna dell’Annunziata che prende fuoco e il sangue che sgorga mentre stregato recita la magica formula (“Come carta ti brucio, come santa ti adoro, che un giorno possa bruciare la mia carne se mai tradirò la Cosa nostra”) per diventare mafioso.

L’Entità

Giulio Andreotti mafioso. Palermo, fine inverno del 1993. Appena una decina di anni prima, e dopo un vorticoso incrocio di silenzi e di sguardi con il giudice Giovanni Falcone, il pentito Tommaso Buscetta si era limitato ad alludere a un’impalpabile “Entità” che suggeriva e proteggeva, che metteva sempre le cose a posto in Sicilia e a Roma. Ma con le stragi di Capaci e di via D’Amelio, le bombe, era cambiato tutto. E quella figura avvolta perennemente nel mistero aveva preso quasi un nome.

Per alcuni ero “lo zio”, per altri “lo zio Giulio”. Era sempre lui. Così il 4 marzo del 1993, un giovedì, in una stanza al secondo piano dell’imponente palazzo di giustizia di Palermo ci fu il primo atto di quello che sarebbe stato definito Il processo del secolo.

L’iscrizione di Giulio Andreotti nel registro degli indagati “per i reati di cui agli articoli 110 e 416 c.p. e agli articoli 110 e 416 bis c.p.”, concorso esterno in associazione semplice e concorso esterno in associazione mafiosa. Ventitré giorni dopo, il 27 marzo alle undici del mattino in punto, da Palermo fu inoltrata all’ufficio di presidenza del Senato una richiesta di autorizzazione a procedere di 246 pagine firmata dal procuratore capo della repubblica Gian Carlo Caselli e dai sostituti Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato.

Il 13 maggio la speciale giunta di palazzo Madama concesse l’autorizzazione «escludendo la sussistenza di fumus persecutionis oggettivo e soggettivo nei confronti di Giulio Andreotti», il 21 maggio la procura di Palermo modificò con un tratto di penna il capo d’imputazione: non più concorso in associazione mafiosa ma associazione mafiosa pura.

L’Italia divisa in tre

A quel punto l’Italia si è divisa in due e pure in tre. Quasi mafioso, mafioso, mafiosissimo. Quasi innocente, innocente, innocentissimo. Finalmente trascinato davanti a un tribunale per le sue gravi colpe, vittima di una grande macchinazione nazionale e internazionale, invischiato fino al collo nelle brutalità della mafia siciliana, corrotto e corruttore, incastrato da diaboliche forze e probabilmente anche da una fazione del governo americano che non vedeva l’ora di levarselo di torno dopo la caduta del Muro di Berlino. Particolarmente sagace, la battuta sempre pungente, una straordinaria capacità di sintetizzare pensieri complessi in una sola frase, quando le carte dei suoi insidiosi rapporti con la mafia vengono scoperte lui muove lentamente la testa incassata fra le spalle ingobbite, piega le labbra sottili e sibila: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito di tutto».

Cos’è l’atto d’accusa dei magistrati di Palermo? Un processo a un potere incrollabile? Un processo alla Storia? Un processo all’uomo – nato a Roma il 14 gennaio del 1919, democristiano, giornalista, scrittore, a ventotto anni già sottosegretario nel governo di Alcide De Gasperi, delfino di Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare – o al sistema?

I suoi peccati

Ciò che è sempre stato oscuro, viene spiegato in realtà con una semplicità che sconvolge. Giulio Andreotti, uno che dalla fine della Seconda Guerra mondiale si è seduto al tavolo con i padroni del mondo, con capi di stato come Eisenhover e De Gaulle, Mitterand e Reagan, Thatcher e Gorbaciov, contemporanemente ha intrattenuto rapporti criminali con don Stefano Bontate e don Gaetano Badalamenti e persino con Totò Riina, ha “aggiustato” procedimenti in Cassazione, ha ordinato omicidi o comunque non ha fatto nulla per evitarli, ha garantito e si è garantito l’appoggio di Salvo Lima, il console in Sicilia che con Cosa Nostra era in un solo abbraccio.

I suoi misfatti e i suoi peccati, giuridicamente parlando: «Avere messo a disposizione dell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra, per la tutela degli interessi e per il raggiungimento degli scopi criminali della stessa, l’influenza e il potere derivanti dalla sua posizione di esponente di vertice di una corrente politica, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività; partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione medesima». Giulio Andreotti mafioso.

Più che un’inchiesta, se pur clamorosa, simboleggia l’abbattimento di una struttura statuale messa in piedi dal 1945. Giulio Andreotti incarna la Democrazia Cristiana che ha governato per quasi quarant’anni l’Italia (da non confondere con ciò che sarebbe accaduto qualche tempo dopo con le indagini sui legami fra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, forse riciclatore di denaro sporco, forse a conoscenza di segreti sulle stragi siciliane del 1992 ma sicuramente non “uomo stato” come Andreotti), è l’occulto della Prima Repubblica.

Le trame e i segreti

Le trame del Sifar – il servizio segreto militare all’epoca dei dossier del generale Giovanni De Lorenzo – il crack Montedison con protagonista l’imprenditore Nino Rovelli, il complotto contro il direttore della Banca d’Italia Mario Sarcinelli e il presidente Paolo Baffi, il patto con il banchiere della mafia Michele Sindona e l’altro con il banchiere di Dio Roberto Calvi, la loggia P2 di Licio Gelli, le scorrerie del comandante generale della guardia di finanza Raffaele Giudice in combutta con i petrolieri, lo spericolato intreccio con i “palazzinari” romani Caltagirone (famosa la frase pronunciata dal capostipite dei Caltagirone, Gaetano, al ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti: «A Fra’ che te serve?»), l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, le ombre sul delitto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sfiorato dai più grandi scandali ma mai affondato, nemmeno graffiato.

Eugenio Scalfari, in un celebre editoriale su Repubblica lo battezza Belzebù, descrivendolo «come l’incrocio accuratamente dosato d’un mandarino cinese e d’un cardinale settecentesco». E poi la mafia siciliana. Alla fine sono i padrini a farlo sprofondare e ad imprigionarlo in un processo infinito che si celebra nel bunker di Palermo, proprio nell’aula dove qualche anno prima erano rinchiusi i capi della Cosa Nostra.

Il delitto Lima

Le indagini su Andreotti prendono avvio il 12 marzo del 1992. È il giorno dell’assassinio di Salvo Lima, il capo della corrente andreottiana siciliana che, come aveva ricordato il prefetto generale Dalla Chiesa al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini nella primavera del 1982 prima del suo sbarco a Palermo, «era la famiglia politica più inquinata del luogo».

Lima, europarlamentare e già sottosegretario alle Finanze, è un capobastone della Democrazia cristiana, è legato ai potentissimi Nino e Ignazio Salvo, proprietari terrieri, interessi nel turismo e nella commercializzazione del vino e soprattutto esattori.

Nel resto d’Italia l’aggio concesso per le somme riscosse è poco superiore al 3 per cento, in Sicilia sfiora il 10 per cento. I Salvo sono mafiosi, uomini d’onore della famiglia trapanese di Salemi. Loro e Salvo Lima sono i re dell’isola fino a quando i Corleonesi di Totò Riina non conquistano Cosa Nostra, vincono ma si ritrovano comunque all’ergastolo.

Quello di Lima è il primo delitto eccellente del 1992. I sicari lo rincorrono sui vialetti di Mondello, il mare di Palermo. E lo uccidono sparandogli alle spalle, come si fa con i traditori. Il movente: «Non avere garantito il buon esito del maxi processo». Il 30 gennaio precedente la Cassazione, contro ogni previsione, ha condannato tutti i grandi boss siciliani. È la prima volta, una sentenza storica.

Ed è la prima volta che a presiedere la prima sezione della suprema corte non c’è Corrado Carnevale, il giudice conosciuto come “l’ammazzasentenze”, sbalzato da quella poltrona da una rotazione di magistrati voluta da Giovanni Falcone e dal ministro della Giustizia Claudio Martelli. Meno di due mesi dopo il verdetto della mafia, l’esecuzione di Mondello.

La corsa al Quirinale

È un omicidio che destabilizza l’Italia. Punisce Salvo Lima ma ferma anche la corsa al Quirinale di Giulio Andreotti. Le elezioni del nuovo capo dello stato sono previste in primavera, lui è uno dei candidati favoriti. «Da questo momento può succedere di tutto», dice Giovanni Falcone la sera stessa del delitto. Succede che Andreotti è definitivamente fuori gioco, non diventerà mai Presidente della Repubblica.

Le indagini intorno all’omicidio Lima scavano sui summit fra “zio Giulio” e il capomafia palermitano Stefano Bontate dopo la morte del presidente della regione Piersanti Mattarella, sul condizionamento di alcuni processi ai boss, sulla sua vicinanza con il capo della loggia P2, sul suo coinvolgimento nell’uccisione del direttore della rivista OP Mino Pecorelli legata alla “carte segrete” di Aldo Moro, sui suoi viaggi non registrati fra Palermo e la Sicilia per incontrare personaggi gravitanti nell’ambiente criminale.

È il procedimento penale numero 1491/93. Migliaia di fogli raccolti in 9 volumi e 26 capitoli, i testimoni citati dall’accusa 400, i pentiti all’inizio sono 27 e alla fine 41.

L’enigmatico pentito

Ci sono quelli cosiddetti di serie A come Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia o Angelo Siino e Francesco Di Carlo, c’è qualche pugliese e qualche calabrese, c’è il messinese Orlando Galati Mamertino (quello della gobba piena di omicidi), c’è Leonardo Messina da Caltanissetta (quell’altro che aveva sentito dire che era “punciutu”), un paio sono della banda della Magliana. Poi ne salta fuori uno che fa saltare il banco. È Balduccio Di Maggio, ex autista di Totò Riina, il mafioso che porta – e ancora oggi, dopo trent’anni, non sappiamo come – i carabinieri del Ros al capo dei capi latitante da un quarto di secolo.

Ufficialmente Di Maggio viene catturato in Piemonte l’8 gennaio (ma il gelataio indovino Salvatore Baiardo, che ha annunciato la cattura di Matteo Messina Denaro, dirà che sapeva del suo pentimento già dal dicembre 1992), poi rivela una ventina di ammazzatine ai sostituti procuratori palermitani Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi, poi ancora si presenta da Gian Carlo Caselli con una fantastica favola. Quella del bacio.

Ricorda che un giorno, tra le 14 e le 16 del 21 settembre 1987, accompagnò Totò Riina nella lussuosa casa palermitana di Ignazio Salvo “alla Statua”, in fondo a viale Libertà, dove trovò ad attenderlo Salvo Lima, lo stesso Ignazio Salvo e l’ospite d’onore: Giulio Andreotti. Testuale Di Maggio: «Il Riina salutò con un bacio tutte e tre le persone».

Il bacio, per le immaginabili suggestioni suscitate nell’opinione pubblica, fuori dall’aula di giustizia è diventato il cuore del processo Andreotti. Mai dimostrato né dimostrabile (Salvo Lima era stato ucciso a marzo del 1992, Ignazio Salvo appena sei mesi dopo), negato naturalmente da Andreotti, ha rappresentato una sorta di cavallo di troia nella corposa documentazione accusatoria sullo “zio Giulio”.

Con il senno del poi potremmo dire – anche se qualcuno aveva subito intuito il pericolo di una testimonianza così iperbolica e maliziosa – che l’enigmatico Balduccio Di Maggio dell’arresto di Riina aveva ancora una volta fatto il suo mestiere coplentando l’opera con Andreotti. Verità e menzogne, abilmente mischiate.

Di quel bacio, alla fine, c’è rimasto solo il geniale pensiero dell’attore palermitano Ciccio Ingrassia: «Io non so se Andreotti e Riina si siano mai incontrati, ma se si sono incontrati di sicuro si sono baciati».

Mai visti da vicino

Il processo si apre la mattina del 26 settembre nella grande aula accanto all’Ucciardone. I giudici sono quelli della quinta sezione penale del Tribunale di Palermo, presidente Francesco Ingargiola, a latere Salvatore Barresi e Vincenzina Massa.

Per la pubblica accusa Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato. Il collegio difensivo è composto da Franco Coppi, Gioacchino Sbacchi e da una giovanissima Giulia Bongiorno. Poi si aggiungerà anche l’avvocato Odaordo Ascari. L’aula è stracolma, centinaia i giornalisti provenienti da tutto il mondo, accreditata anche una troupe giapponese.

Alla vigilia del dibattimento sugli scaffali delle librerie è in bella mostra un volume: «Cosa Loro, mai visti da vicino». Giulio Andreotti ricostruisce per la Rizzoli i suoi ultimi tre anni e mezzo di vita, dal giorno in cui il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere contro di lui.

Scrive: «In queste pagine non si troveranno invettive o generiche lamentele, ma solo descrizioni puntuali di un impianto accusatorio che io ritengo infondato e perverso». E ancora: «Era stato presentato all’inizio del preannuncio di schiaccianti dimostrazioni di mie responsabilità mafiose; ora ripiega sulla singolare tesi di un reato collettivo, compiuto dalla Democrazia Cristiana siciliana o da una parte di essa; attraverso uno scambio di favori fra politica e mafia del quale non si è avuta la possibilità di dimostrare contro di me il benché minimo esempio di concretizzazione».

Dopo duecentocinquanta udienze il dibattimento di primo grado viene formalmente chiuso il 19 gennaio. Comincia la requisitoria dei pubblici ministeri, ventitré sedute: quindici gli anni chiesti per Andreotti.

La difesa, dopo ventiquattro sedute, vuole l’imputato pienamente assolto. Fra i testi a discolpa l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Xavier Perez De Cuellar, gli ex ambasciatori Usa a Roma Maxwell Rabb e Peter Secchia, l’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, l’ex capo dei servizi segreti Riccardo Malpica, tre ex capi della polizia. E, colpo di scena, anche il boss Gaetano Badalamenti. Perché don Tano, sul delitto Pecorelli e su quello Dalla Chiesa, ha smentito Buscetta.

L’incubo Buscetta

Il primo pentito di mafia dell’era moderna è un incubo per Andreotti. Ha credibilità, carisma, ha la certificazione doc del giudice Falcone. Racconterà a proposito del suo vecchio amico Badalamenti: «Mi disse che un giorno si era incontrato con il presidente a Roma e che si era personalmente congratulato con lui, dicendogli che “di uomini come lui (Badalamenti, ndr) ce ne voleva uno per ogni strada di ogni città italiana”..».

Dopo undici giorni di camera di consiglio, il 23 ottobre 1999 il tribunale di Palermo assolve Giulio Andreotti “perché il fatto non sussiste”. Mancanza di prove sufficienti, incongruenze, dichiarazioni confuse e contraddittorie. Il contesto che dipingono i giudici intorno all’imputato eccellente però è maleodorante. Lui, che non aveva mai mostrato un gesto di gioia o un moto d’ira, per la prima volta ha un brivido, quasi trema e dice: «La partita è chiusa».

Nel frattempo Giulio Andreotti viene assolto a Perugia anche per l’omicidio di Mino Pecorelli, poi sarà condannato a 24 anni in appello e definitivamente assolto in Cassazione. Nel frattempo il presidente della Suprema Corte Corrado Carnevale viene assolto a Palermo dall’accusa di avere “aggiustato” il maxi processo, condannato a 6 anni in secondo grado e poi anche lui assolto dalla Cassazione. Si arriva così all’appello per Giulio Andreotti. E il 2 maggio del 2003 la sentenza rimescola le carte. In parziale riforma del primo verdetto i giudici affermano che, fino alla primavera del 1980, Giulio Andreotti era colluso con Cosa Nostra.

E che, solo dopo l’uccisione del presidente della regione Piersanti Mattarella, si è allontanato dall’organizzazione criminale. Condannato e prescritto per l’associazione a delinquere semplice fino al 1980, assolto sia pur in forma dubitativa per il dopo. Due epoche di mafia, due sentenze. Confermate dalla Cassazione il 28 dicembre del 2004.

Il Divo

Ma il processo contro l’uomo politico italiano più famoso dalla fine della Seconda Guerra mondiale in realtà non è mai finito. Continua ancora oggi, a trent’anni dall’inizio dell’indagine. Intrecciandosi con tutti gli altri “processi politici” celebrati a Palermo negli anni successivi, incrocio rovente della giustizia italiana, campo di battaglia, arena. Il dibattito è sempre aperto soprattutto su un punto: bisognava processarlo e condannarlo politicamente e non trascinarlo in un’aula di tribunale. Sullo “zio Giulio” viene girato nel 2008 anche un film capolavoro, Il Divo, regista il premio Oscar Paolo Sorrentino. E poi una montagna di libri. Ne cito solo alcuni.

Quello dell’avvocato Giulia Bongiorno (Nient’altro che la verità, Rizzoli 2005), quello del sociologo Pino Arlacchi (Il processo, Giulio Andreotti sotto accusa a Palermo, Rizzoli 1995), quello di Alexander Stille (Andreotti, Mondadori 1995), quello di Gian Carlo Caselli e di Guido Lo Forte (La verità sul processo Andreotti, Laterza 2018) e ancora tanti altri.

Sempre nel 1995 la Pironti Editore pubblica un tomo di 973 pagine che riporta integralmente la memoria dei procuratori di Palermo, il titolo fa discutere: La vera storia d’Italia. L’anno dopo, un pamphlet firmato dallo storico Salvatore Lupo (Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Donzelli) dà più ampio respiro alla vicenda: «La vera storia d’Italia passa anche per l’aula del processo Andreotti, ma – per disgrazia o per fortuna – non si ferma lì».

Giulio Andreotti muore a Roma il 6 maggio del 2013 all’età di novantaquattro anni.


 

Incarichi parlamentari Camera dei deputati

  • Membro 3ª Commissione permanente: affari esteri, emigrazione
  • Commissione speciale per l’esame di disegni di legge di conversione di decreti-legge
  • Commissione parlamentare d’inchiesta concernente il “dossier Mitrokhin” e l’attività d’intelligence italiana
  • Commissione speciale per la tutela e la promozione dei diritti umani
  • Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della organizzazione per la sicurezza e la cooperazione 

in Europa (OSCE)

Senato della Repubblica

  • Membro 1ª Commissione (Affari Interni)
  • Commissione speciale per l’esame della proposta di legge De Francesco N.1459: “Norme generali sull’azione amministrativa”
  • Commissione speciale per l’esame del disegno di legge N.1264: “Norme in materia di locazioni e sublocazioni di immobili urbani” e delle proposte di legge in materia di locazioni e sfratti
  • Membro 5ª Commissione (Bilancio e Partecipazioni Statali)
  • Membro 4ª Commissione (Difesa)
  • Componente della Giunta per il Regolamento
  • Componente della 3ª Commissione (Esteri)
  • Presidente della 3ª Commissione (Esteri)
  • Componente della Rappresentanza italiana al Parlamento Europeo

Ministro

Mandato

Governo

Segretario del Consiglio dei ministri

31 maggio 1947 – 23

maggio 1948

Governo De Gasperi IV

Segretario del Consiglio dei ministri

23 maggio 1948 – 12 gennaio 1950

Governo De Gasperi V

Segretario del Consiglio dei ministri

27 gennaio 1950 – 16 luglio 1951

Governo De Gasperi VI

Segretario del Consiglio dei ministri

26 luglio 1951 – 29 giugno 1953

Governo De Gasperi VII

Segretario del Consiglio dei ministri

16 luglio 1953 – 2 agosto 1953

Governo De Gasperi VIII

Segretario del Consiglio dei ministri

17 agosto 1953 – 5 gennaio 1954

Governo Pella

Ministro dell’Interno

18 gennaio 1954 – 30 gennaio 1954

Governo Fanfani I

Ministro delle Finanze

6 luglio 1955 – 6 maggio 1957

Governo Segni I

Ministro delle Finanze

19 maggio 1957 – 19 giugno 1958

Governo Zoli

Ministro del Tesoro

1º luglio 1958 – 15 febbraio 1959

Governo Fanfani II

Ministro della Difesa

15 febbraio 1959 – 23 marzo 1960

Governo Segni II

Ministro della Difesa

25 marzo 1960 – 26 luglio 1960

Governo Tambroni

Ministro della Difesa

26 luglio 1960 – 21 febbraio 1962

Governo Fanfani III

Ministro della Difesa

21 febbraio 1962 – 21 giugno 1963

Governo Fanfani IV

Ministro della Difesa

21 giugno 1963 – 4 dicembre 1963

Governo Leone I

Ministro della Difesa

4 dicembre 1963 – 22 luglio 1964

Governo Moro I

Ministro della Difesa

22 luglio 1964 – 23 febbraio 1966

Governo Moro II

Ministro dell’Industria, Commercio e Artig.

23 febbraio 1966 – 24 giugno 1968

Governo Moro III

Ministro dell’Industria, Commercio e Artig.

24 giugno 1968 – 12 dicembre 1968

Governo Leone II

Presidente del Consiglio

17 febbraio 1972 – 26 giugno 1972

Governo Andreotti I

Presidente del Consiglio

26 giugno 1972 – 7 luglio 1973

Governo Andreotti II

Ministro della Difesa

14 marzo 1974 – 23 novembre 1974

Governo Rumor V

Ministro del Bilancio e Programmazione Econ.

23 novembre 1974 – 12 febbraio 1976

Governo Moro IV

Ministro del Bilancio e Programmazione Econ.

12 febbraio 1976 – 29 luglio 1976

Governo Moro V

Presidente del Consiglio

29 luglio 1976 – 11 marzo 1978

Governo Andreotti III

Presidente del Consiglio

11 marzo 1978 – 20 marzo 1979

Governo Andreotti IV

Presidente del Consiglio

20 marzo 1979 – 4 agosto 1979

Governo Andreotti V

Ministro degli Affari Esteri

4 agosto 1983 – 1º agosto 1986

Governo Craxi I

Ministro degli Affari Esteri

1º agosto 1986 – 17 aprile 1987

Governo Craxi II

Ministro degli Affari Esteri 

17 aprile 1987 – 28 luglio 1987

Governo Fanfani VI

Ministro degli Affari Esteri

28 luglio 1987 – 13 aprile 1988

Governo Goria

Ministro degli Affari Esteri

13 aprile 1988 – 22 luglio 1989

Governo De Mita

Presidente del Consiglio

22 luglio 1989 – 12 aprile 1991

Governo Andreotti VI

Presidente del Consiglio

12 aprile 1991 – 28 giugno 1992

Governo Andreotti VII

La figura di Andreotti Immagine privata  Intervistato da Enzo Biagi, Andreotti ha detto della propria consorte: «ha un lieve brontolio ma, insomma, adesso ci siamo abituati, da una parte e dall’altra. […] a mia moglie sono debitore dell’educazione dei figli che per il novantanove per cento è merito suo»[86]. È diventato nonno di diversi nipoti, tra cui un “Giulio” e una “Giulia”.[87] Sempre Biagi ha scritto di lui: «cattolico praticante, quasi ogni giorno, essendo assai mattiniero, va ad ascoltare la prima Messa»[88]Indro Montanelli ha commentato che «in chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti col prete» (Montanelli riferisce anche che, lette queste parole, Andreotti ribatté: «sì, ma a me il prete rispondeva»)[89]. Affermò di sentirsi in chiesa «molto vicino al pubblicano della parabola»[90], convinto che nell’aldilà non sarebbe stato chiamato «a rispondere né di Pecorelli, né della mafia. Di altre cose sì»[91]. In proposito divenne celebre la sua battuta: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto»[92]. Ebbe come confessore, per circa vent’anni, mons. Mario Canciani, suo parroco presso la basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini.[93] Sul proprio carattere, Andreotti ha rivelato: «Non ho un temperamento avventuroso e giudico pericolose le improvvisazioni emotive. […] Lavorare molto m’è sempre piaciuto. È una… utile deformazione»[94]. Montanelli ha inoltre detto di lui: «Mi faccio una colpa di provare simpatia per Andreotti. È il più spiritoso di tutti. Mi diverte il suo cinismo, che è un cinismo vero, una particolare filosofia con la quale è nato»[95]; «è distaccato, freddo, guardingo, ha sangue di ghiaccio. […] È autenticamente colto, cioè di quelli che non credono che la cultura sia cominciata con la sociologia e finisca lì»[96]Roberto Gervaso lo ha definito «più realista di Bismarck, più tempista di Talleyrand […] La sua smagliante conversazione sarebbe piaciuta a Voltaire, i suoi libri non sarebbero dispiaciuti a Sainte-Beuve»[97].

Ad Andreotti è stata attribuita una nutrita gamma di soprannomi:

  • Per via della personalità carismatica e pragmatica, è stato soprannominato “Divo Giulio” dal giornalista Mino Pecorelli, prendendo spunto da Giulio Cesare, evidenziandone la “sacralità” nella politica italiana[98].
  • È stato chiamato anche “Zio Giulio”, sia per l’epiteto con il quale sarebbe stato conosciuto dai clan mafiosi secondo l’accusa rivoltagli al processo palermitano (Zù Giulio, secondo i pentiti), sia per il tono paterno con cui tante volte – durante la Seconda Repubblica– si è espresso nei suoi discorsi, atteggiandoli ad uno stile “super partes” proprio di uno degli ultimi Costituenti ancora in vita.[99]
  • È stato soprannominato Belzebùda Bettino Craxi quando, su un articolo di fondo uscito sull’Avanti! il 31 maggio 1981, lo volle distinguere da Belfagor, soprannome dato a Licio Gelli[100].
  • Da ricordare anche altri soprannomi citati nel film Il divo: “Molok“, “la Sfinge“, “il Gobbo” e “il Papa Nero”.
  • “La Volpe” o talvolta “vecchia volpe” è un altro soprannome con cui ci si è riferiti ad Andreotti.[34]
  • Un ultimo appellativo usato più di frequente è anche “Indecifrabile”[101].

Bersaglio molto frequente di strali satirici e di prese in giro sul suo difetto fisico (aveva una pronunciata quanto manifesta cifosi), ha sempre risposto con una proverbiale ironia di scuola epigrammatica romana che nel tempo lo ha reso fonte di una nutrita schiera di commenti e battute ancora oggi di uso comune (tra le più famose “Il potere logora chi non ce l’ha”, citando Talleyrand). Fra i suoi imitatori più celebri vi erano Alighiero Noschese[102]Ugo TognazziEnrico MontesanoPino Caruso e Oreste Lionello.

Andreotti nel cinema, canzone e cultura di massa

  • Secondo quanto affermato dalla figlia di TotòLiliana De Curtis, la celebre scena del vagone letto nel film del 1952Totò a colori, in cui l’attore napoletano duetta con l’onorevole Trombetta, interpretato da Mario Castellani, sarebbe stata ispirata da un incontro tra Totò e Giulio Andreotti, realmente avvenuto su un treno in un vagone letto.[103]
  • Totònel film Gli onorevoli del 1963 fa dire alla moglie che voterà per “Giulio” perché “non c’è rosa senza spine, non c’è governo senza Andreotti”.
  • A lui si ispira la figura del potente politico italiano Licio Lucchesi nel film del 1990Il padrino – Parte III di Francis Ford Coppola, al quale, tra l’altro, viene pronunciata all’orecchio la celebre frase “Il potere logora chi non ce l’ha”.
  • Nel 1983è apparso nel film Il tassinaro, con Alberto Sordi, dove con la solita acida ironia, suggerisce le Università a numero chiuso, in modo da risolvere il problema dei laureati disoccupati.
  • Nel Commissario Lo Gatto(1986), con Lino Banfi, alla fine del film un attore imita Andreotti (di spalle) che ringrazia il commissario per il servigio reso alla DC grazie al polverone creato dalla sua inchiesta che aveva svelato il legame di una soubrette con Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio.
  • È probabilmente ispirato alla figura di Andreotti il brano L’uomo falcodel 1978, nell’album Sotto il segno dei pesci di Antonello Venditti.[104]
  • In una storia di Topolinodel 1988Paperino portaborse, il personaggio dell’onorevole Papeotti è la sua chiara parodia.
  • Nell’album del 1992Nomi e cognomi di Francesco Baccini, gli è dedicata la canzone dal titolo Giulio Andreotti.
  • Sempre nel 1992Pierangelo Bertoliinclude la canzone intitolata Giulio, nel suo album Italia d’oro, le cui invettive rivolte al soggetto della canzone non lasciano spazio a interpretazioni.
  • Nel film Giovanni Falconedel 1993 un attore lo imita (sempre di spalle) in tutte le scene in cui appare. In questa pellicola parla con la voce di Sandro Iovino.
  • Il senatore a vita è stato protagonista di un celebre cartone animato italiano, Giulio Andreotti(2000), firmato da Mario Verger, trasmesso più volte dalla trasmissione Rai Blob.[105]
  • Nel 2000ha prestato immagine e voce per alcuni spot della Diners, dove reinterpretava alcune sue famose frasi.
  • Nella Trilogia di Occidente, serie di romanzi ucronici in cui l’autore Mario Farnetiimmagina che l’Italia fascista, rimasta neutrale durante la Seconda Guerra Mondiale, sia diventata una superpotenza, Andreotti, già Segretario di Stato Vaticano, viene eletto papa nel 2000 con il nome di Giulio IV, per un papato che durerà 7 anni.
  • Nel film I banchieri di Dio – Il caso Calvi(2002) di Giuseppe Ferrara, nel quale vengono ricostruite le vicende del banchiere Roberto Calvi. Il film ha avuto problemi durante la lavorazione, in quanto la magistratura ha voluto accertarsi delle ricostruzioni ancora al vaglio.[106]
  • Nel 2005recita in uno spot televisivo per la compagnia telefonica 3 Italia accanto a Claudio Amendola e Valeria Marini.
  • Nel 2008la figura di Andreotti appare nella miniserie televisiva Aldo Moro – Il presidente.
  • Alla vita di Andreotti è ispirato il film Il divodi Paolo Sorrentino, il suo ruolo è stato interpretato da Toni Servillo e presentato al Festival di Cannes del 2008 e vincitore del Premio della giuria. Il film narra gli anni dal 1991 al 1993, cioè dalla fiducia all’ultimo governo Andreotti all’inizio del processo per associazione mafiosa. Il film è basato su documenti politici reali e libri che ne fanno riferimento; Andreotti ha definito il film “una mascalzonata”, e ha commentato, a seguito della vittoria del film al Festival di Cannes: “Se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato. Dunque…”[107].
  • Nella trasmissione di Maurizio Costanzo, il Maurizio Costanzo Showsu Canale 5 del 17 gennaio del 2009, per festeggiare i 90 anni compiuti da Andreotti il 14 gennaio, Costanzo ricorda una frase detta in confidenza da Andreotti con la sua tipica ironia “A pensar male non si andrà in paradiso ma si dice la verità”.
  • È stato Presidente del Comitato d’Onore del “Premio Marcello Sgarlata”[108]
  • Nel corso di un’intervista nella trasmissione Questa domenicadel 2 novembre 2008 ad opera di Paola Perego, mentre guardava il monitor che mostrava la copertina del calendario “Grande tra i grandi – i politici per i bambini”, di cui era protagonista, il senatore ha subito un lieve malore in diretta.
  • Nell’album L’inizio(2013) di Fabrizio Moro è presente una canzone su Andreotti intitolata Io so tutto.
  • Nel film La mafia uccide solo d’estatedi Pif, il protagonista, da bambino, sviluppa una vera e propria ossessione per Andreotti, dopo averlo sentito narrare a Maurizio Costanzo, come ha chiesto alla moglie di sposarlo, ovvero al cimitero. Il bambino ne rimane affascinato, ritaglia ogni sua fotografia dai giornali per farne un album, si farà regalare dal padre un poster che ritrae il Presidente, e a carnevale si travestirà da lui, senza essere riconosciuto dai suoi compagni, che lo scambiano per Dracula o per il Gobbo di Notre-Dame. Invece, uscendo dall’edificio, viene visto da Totò Riina, che si chiede se il bambino fosse il figlio di Andreotti.
  • Nel film Il Traditoredi Marco Bellocchio (2019), Andreotti, interpretato da Pippo Di Marca, viene incontrato dal pentito Buscetta in una sartoria, mentre è in mutande, e viene salutato amichevolmente dall’ex-mafioso e dal suo amico Salvatore Contorno. Compare maggiormente verso la fine del film, dedicata al processo ad Andreotti per l’omicidio di Mino Pecorelli, in cui Buscetta è stato un testimone chiave. Tuttavia la testimonianza e la credibilità del pentito vengono fortemente messa in dubbio, a causa di alcune contraddizioni, da Franco Coppi, l’avvocato di Andreotti. Si nota come quest’ultimo, durante il processo, abbia continuamente preso appunti di ciò che veniva detto, sia durante l’accusa che la difesa. Alcune critiche sono state sollevate sulla somiglianza tra l’attore e Andreotti. Alcuni hanno infatti commentato che somigliasse più a Cossiga che non ad Andreotti stesso.
  • Nel film Non ci resta che il crimine(2019), di Massimiliano Bruno, tre uomini che, per sbarcare il lunario, svolgono un tour alla scoperta dei luoghi simbolo della banda della Magliana, si ritrovano, a causa di un ponte di Einstein-Rosen, nel 1982. In un bar incontrano alcuni dei membri della Banda della Magliana e, riconoscendoli, li chiamano per nome. Al che, il capo della banda, Renatino, spaventato e inquietato da come degli sconosciuti li potessero conoscere gli chiede: “Chi vi manda? I servizi segreti? Andreotti?”.

Opere

  • Concerto a sei voci. Storia segreta di una crisi, s.l., Edizioni della bussola, 1946; Milano, Boroli, 2007. ISBN 978-88-7493-103-3.
  • L’eucaristia nella vita sociale. Relazione al XIII Congresso eucaristico Nazionale. Assisi, settembre 1951, Roma, Tip. G. Bardi, 1951.
  • Discorso al congresso. Napoli, 29 giugno 1954, Roma, Tip. del Senato del dott. Bardi, 1954.
  • Pranzo di magro per il Cardinale, Milano, Longanesi, 1954.
  • De Gasperi e il suo tempo. Trento, Vienna, Roma, Milano, A. Mondadori, 1956; 1964; 1969; 1974.
  • Il senso dello stato, Milano, Rizzoli, 1958.
  • Scritti e discorsi…. Da “Concretezza”, “Oggi”, “Politica”, “La discussione”, Roma, Tip. A. Garzanti, 1959.
  • La patria e le nuove generazioni nel pensiero dell’on. Giulio Andreotti, ministro della difesa, Roma, Tip. OPI, 1963.
  • La sciarada di Papa Mastai, Milano, Rizzoli, 1967.
  • I minibigami, Milano, Rizzoli, 1971.
  • Ore 13: il Ministro deve morire, Milano, Rizzoli, 1974.
  • De Gasperi e la ricostruzione, Roma, Cinque lune, 1974.
  • La Democrazia cristiana. (1943-1948), Roma, Cinque lune, 1975.
  • Intervista su De Gasperi, Roma-Bari, Laterza, 1977.
  • A ogni morte di Papa. I papi che ho conosciuto, Milano, Rizzoli, 1980.
  • Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà, Milano, Rizzoli, 1981. vincitore del Premio Il Libro dell’Anno
  • Visti da vicino, Milano, Rizzoli, 1982.
  • Visti da vicino. Seconda serie, Milano, Rizzoli, 1983. ISBN 88-17-85093-4.
  • Visti da vicino. Terza serie, Milano, Rizzoli, 1985. ISBN 88-17-85102-7.
  • Unione europea. Un personaggio in cerca d’autore. Firenze, 23 novembre 1985, Firenze, Istituto universitario europeo, 1985.
  • De Gasperi. Visto da vicino, Milano, Rizzoli, 1986. ISBN 88-17-36010-4.
  • Onorevole, stia zitto, Milano, Rizzoli, 1987. ISBN 88-17-85103-5.
  • , con Sandra Facchini, Gardolo, Reverdito, 1987. ISBN 88-342-0192-2.
  • L’URSS vista da vicino, Milano, Rizzoli, 1988. ISBN 88-17-85104-3.
  • Gli USA visti da vicino, Milano, Rizzoli, 1989. ISBN 88-17-85087-X.
  • Il potere logora… Ma è meglio non perderlo, Milano, Rizzoli, 1990. ISBN 88-17-85101-9.
  • Governare con la crisi, Milano, Rizzoli, 1991. ISBN 88-17-84135-8.
  • Onorevole, stia zitto. Atto secondo, Milano, Rizzoli, 1992. ISBN 88-17-84206-0.
  • Il mistero dell’uomo in grigio, Petriccione, Giunti Lisciani, 1993. ISBN 88-09-50116-0.
  • Cosa Loro. Mai visti da vicino, Milano, Rizzoli, 1995. ISBN 88-17-84446-2.
  • De (prima) re publica. Ricordi, Milano, Rizzoli, 1996. ISBN 88-17-84486-1.
  • Non ho mai ballato con un presidente. Autobiografia non scritta di Giulio Andreotti, Roma-Viterbo, Stampa alternativa-Nuovi equilibri, 1997. ISBN 88-7226-331-X.
  • Nove appunti di Natale, Roma, Benincasa, 1997.
  • Operazione Via Appia, Milano, Rizzoli, 1998. ISBN 88-17-85987-7.
  • A non domanda rispondo. Le mie deposizioni davanti al tribunale di Palermo, Milano, Rizzoli, 1999. ISBN 88-17-86079-4.
  • I quattro del Gesù. Storia di un’eresia, Milano, Rizzoli, 1999. ISBN 88-17-86221-5.
  • Teneteli su e altri racconti, Roma, Benincasa, 1999.
  • Don Giulio Belvederi, Roma, Trenta giorni, 1999.
  • Piccola storia di Roma. Da Romolo al giubileo del 2000, Milano, Mondadori, 2000. ISBN 88-04-47796-2. vincitore del Premio Cimitile
  • Sotto il segno di Pio IX, Milano, Rizzoli, 2000. ISBN 88-17-86362-9.
  • Volti del mio tempo. Personaggi della storia, della politica, della Chiesa, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000. ISBN 88-215-4245-9.
  • 1 gennaio 2025, Roma, Benincasa, 2000.
  • Un gesuita in Cina, 1552-1610. Matteo Ricci dall’Italia a Pechino, Milano, Rizzoli, 2001. ISBN 88-17-86940-6.
  • I nonni della Repubblica, Milano, Rizzoli, 2002. ISBN 88-17-87026-9.
  • Uno sconto su Mosè, Roma, Trenta giorni, 2002.
  • Continuo ad avere fiducia nella giustizia. La dichiarazione spontanea alla Corte d’appello di Palermo. 28 novembre 2002, Roma, Trenta giorni, 2002.
  • I miei alti e bassi, Roma, Benincasa, 2002.
  • Altri cento nonni della Repubblica, Milano, Rizzoli, 2003. ISBN 88-17-87177-X.
  • La fuga di Pio IX e l’ospitalità dei Borbone, Roma, Benincasa, 2003. ISBN 88-86418-12-4.
  • Nonni e nipoti della Repubblica, Milano, Rizzoli, 2004. ISBN 88-17-00143-0Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Moranteper la saggistica.[109]
  • , Milano, Rizzoli, 2005. ISBN 88-17-00718-8.
  • , Milano, Rizzoli, 2005. ISBN 88-17-00927-X.
  • , Milano, Rizzoli, 2006. ISBN 88-17-01153-3.
  • De Gasperi, Palermo, Sellerio, 2006. ISBN 88-389-2130-X.
  • , Milano, Rizzoli, 2007. ISBN 88-17-01527-X.
  • , Milano, Rizzoli, 2007. ISBN 978-88-17-01960-6.
  • Don Carlo Gnocchi nel ricordo di Giulio Andreotti, Milano, San Paolo, 2009.
  • , Napoli, Edizioni Cento Autori, 2013. ISBN 978-88-97121-84-8
  • Il buono cattivo, Collana Oceani, Milano, La Nave di Teseo, 2017, ISBN978-88-934-4344-9. [romanzo inedito scritto nel 1973]
  • I diari segreti (6 agosto 1979 – 22 luglio 1989), Introduzione di Andrea Riccardi, a cura di Stefano Andreotti e Serena Andreotti, Milano, Solferino, 2020, ISBN978-88-282-0447-3.

NOTE

  1. ^Francesco Grignetti, Giulio dà l’annuncio «Meglio che la lupara», in La Stampa, 28 marzo 1993. URL consultato il 23 novembre 2017.
  2. ^[1]
  3. ^Massimo Franco,  La vita di un uomo politico, la storia di un’epocaop. cit. p. 7
  4. ^Processo Andreotti. (PDF) (DOC) (Odt). Atti della sentenza di I grado, della sentenza d’appello, della sentenza di cassazione. Trascrizione udienze del processo di I grado. Ordinanze. Archivio Antimafia. 2011.2014.
  5. ^Stefano Pascucci, Infanzia e Studi, su Giulio Andreotti. URL consultato il 3 settembre 2020.
  6. ^Enzo Biagi, BUONI | CATTIVI cit. , p. 31.
  7. ^Giulio Andreotti, Visti da vicino. Seconda serie, Rizzoli Editore, Milano, 1983, p. 75, ISBN 88-17-85093-4.
  8. ^Giulio Andreotti, Visti da vicino. Seconda serie cit., p. 235.
  9. ^Oriana FallaciIntervista con la storia, Rizzoli, 1974. ISBN 88-17-15378-8
  10. ^Massimo Franco, Andreotti, Edizioni Mondadori, 2010, ISBN 88-520-1289-3
  11. ^Alcide De Gasperi, su net. URL consultato il 20 maggio 2013 (archiviato dall’url originale il 26 dicembre 2004).
  12. ^Enzo Biagi, BUONI | CATTIVI cit., pp. 31-32.
  13. ^Bruno VespaStoria d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Rai Eri – Mondadori, Milano, 2004, p. 7. ISBN 88-04-53484-2.
  14. ^Sulle vicende di Andreotti e Moro negli anni della FUCI si veda Tiziano Torresi, L’altra giovinezza. Gli universitari cattolici dal 1935 al 1940Cittadella editrice2010, con prefazione dello stesso Andreotti.
  15. ^Enzo Biagi, BUONI | CATTIVI cit., p. 43.
  16. ^Giulio Andreotti, De Gasperi visto da vicino, Rizzoli, Milano, 1986, p. 12: «…. Auspice l’avvocato Giuseppe Spataro(già presidente della Fuci), fui invitato nella sua casa di via Cola di Rienzo per incontrare, quasi clandestinamente, l’onorevole De Gasperi […] Quando lo vidi restai di stucco. Qualche giorno prima avevo avuto un piccolo incidente in Biblioteca Vaticana dove ero andato per consultare l’opera del padre Guglielmotti sulla Marina pontificia, nel quadro di una ricerca universitaria suggeritami dal professor Roberto Sandiford, incaricato di diritto marittimo. Riempito il modulino di richiesta, lo presentai ad un austero impiegato (sembra che anche gli scrittori dovessero fare un po’ di umile turno supplendo ammalati o altrimenti assenti) e mi sentii chiedere se non avessi studi più seri o più utili cui dedicarmi. Gli risposi garbatamente, ma un po’ infastidito dalla sorprendente interferenza, insistendo per avere i volumi che io avevo chiesto in lettura. Scoprivo ora che l’impiegato in parola era proprio De Gasperi. Senza tanti preamboli, mi disse che gli piaceva il taglio dato ad Azione fucina e che voleva che collaborassi con Gonella, sia nella redazione de Il Popolo che si stampava alla macchia, sia nella predisposizione di tutto il necessario per uscire come quotidiano a fascismo sconfitto.»
  17. ^Bruno Vespa, Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi cit, p. 8.
    Anche Francesco Cossiga, nell’intervista al Corrieredel 14 novembre 2007 sul caso Moro, spiegherà che Andreotti era uomo di Papa Montini.
  18. ^Bruno Vespa, Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, p. 76, che riporta le seguenti parole di Andreotti: «Il papa e i suoi consiglieri non avevano messo nel conto che una simile operazione avrebbe aperto immediatamente la crisi di governo: socialdemocratici, repubblicani e liberali erano infatti risolutamente contrari. Scrissi dunque un appunto per Pio XII spiegando quali effetti disastrosi avrebbe avuto l’operazione e glielo trasmisi attraverso madre Pascalina [la suora tedesca che si occupava della persona del papa, d.r.]. Poche ore dopo, dalla segreteria di Stato mi chiamò Tardini: «Non ti sei fidato di noi» mi disse, «Non c’era tempo» risposi. Il papa bloccò così l’operazione […]».
  19. ^Tomaso Subini, La doppia vita di Francesco Giullare di Dio. Giulio Andreotti, Felix Morlion e Roberto Rossellini, Milano, Libraccio Editore, 2011.
  20. ^Lietta Tornabuoni, Cinecittà, i migliori ciak della nostra vita: « Il primo film che torna a essere girato a Cinecittàè Cuore di Duilio Coletti, da De Amicis, con Vittorio De Sica e Maria Mercader. Dieci anni dopo l’inaugurazione, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giulio Andreotti, 27 anni, visita con altri quel primo set. Dal fascismo ci si purga con la devozione (Fabiola, Cielo sulla palude), mentre il neorealismo porta i grandi registi a lavorare nella realtà. Andreotti fa approvare la legge che «congela» una parte degli incassi dei film americano in Italia, e da questi «fondi bloccati» nasce Hollywood sul Tevere, l’affluenza modernizzante e divertente di registi e star del cinema americano.»
  21. ^Paolo Gheda, Federico Robbe, Andreotti e l’Italia di confine. Lotta politica e nazionalizzazione delle masse (1947-1954), Guerini e Associati, Milano 2015
  22. ^Così Fernando Proietti, Morto Franco Evangelisti il camerlengo di Andreotti, in “Corriere della Sera”, 12 novembre 1993, pag. 15, secondo cui «Uno per tutti, tutti per Giulio» era il motto della squadra fondata nel 1954 da Evangelisti.
  23. ^
  24. ^SENATO DELLA REPUBBLICA-CAMERA DEI DEPUTATI, XII LEGISLATURA, Doc. XXXIV, n. 1, RELAZIONE DEL COMITATO PARLAMENTARE PER I SERVIZI DI INFORMAZIONE E SICUREZZA E PER IL SEGRETO DI STATO, § 4.2: «Appare credibile quanto affermato a suo tempo dall’ingegnere Francesco Siniscalchi e dai dottori Ermenegildo Benedetti e Giovanni Bricchi circa una possibile donazione di fascicoli che l’ex capo del SIFAR Giovanni Allavena avrebbe effettuato a Gelli al momento di aderire alla loggia P2 nel 1967. Negli anni successivi, inoltre, l’adesione alla loggia di pressoché tutti i principali dirigenti del SID rende più che plausibile un travaso informativo da questi ultimi a Gelli».
  25. ^Sergio Flamigni, Dossier Pecorelli, Kaos ed., 2005.
  26. ^I repubblicani, pur non facendo parte del governo, con il proprio appoggio esterno risultavano indispensabili per il raggiungimento della maggioranza, assommando i tre partiti ministeriali 315 voti alla Camera e 154 (elettivi) al Senato, cioè rispettivamente uno e quattro meno del necessario.
  27. ^XII legislatura, Camera dei deputati-Senato della Repubblica, Doc. XXXIV n. 3, RELAZIONE DEL COMITATO PARLAMENTARE PER I SERVIZI DI INFORMAZIONE E SICUREZZA E PER IL SEGRETO DI STATO SUI DOCUMENTI TRASMESSI DALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI MILANO – RILIEVI E VALUTAZIONI: «In particolare, nel 1974, egli aveva provocato una crisi nel SID, sia attraverso un’intervista a Massimo Caprara, per il settimanale “Il Mondo”, rivelando la identità del neofascista Guido Giannettini, confidente del Servizio, sia attraverso iniziative contro il generale Vito Miceli (allora Direttore del SID), in rapporto alle vicende del cosiddetto golpe Borghese e della “Rosa dei venti”, sia offrendo, dal marzo 1974, come Ministro della difesa, un attivo sostegno al generale Gianadelio Maletti (allora Capo dell’Ufficio D), nello scontro interno che lo contrapponeva a Miceli».
  28. ^Seduta della Camera dei Deputati del 4 agosto 1976(PDF), su camera.it. «Ho pertanto proposto al Capo dello Stato la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia del Senato e della Camera dei deputati.».
  29. ^Discorsi parlamentari di Enrico Berlinguer, pubblicato dalla Camera dei Deputati, a cura di M.L. Righi, 2001, p. 183.
  30. ^ab Indro Montanelli, Aldo Moro: commemorare o dimenticare?, in Corriere della Sera, 21 dicembre 1995. URL consultato il 24 aprile 2017 (archiviato dall’url originale il 3 giugno 2015).
  31. ^Indro Montanelli, Caso Moro: non c’è più nulla da scoprire, in Corriere della Sera, 6 luglio 1997. URL consultato il 25 aprile 2017 (archiviato dall’url originale l’8 novembre 2015).
  32. ^Scomparsa la vedova di Moro Contestò la “linea della fermezza”, in , 19 luglio 2010. URL consultato il 24 aprile 2017.
  33. ^Simona Colarizi, Marco Gervasoni, La cruna dell’ago: Craxi, il Partito socialista e la crisi della Repubblica, Laterza, 2005, p. 85 e seguenti.
  34. ^ab E Andreotti invoca un gesto di clemenza, in Corriere della Sera, 27 ottobre 1999, p. 2. URL consultato il 10 maggio 2012 (archiviato dall’url originale il 10 novembre 2013).
  35. ^Il riferimento è al viaggio diplomatico che Craxi fece in Cinacon una delegazione ipertrofica, comprensiva di familiari: nonostante la consegna del silenzio, seguita da buona parte della stampa (cfr. https://valentini.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/01/04/in-cina-con-craxi-e-i-suoi-cari/), la “battuta” di Andreotti contribuì a dare evidenza alla cosa, dando occasione a Beppe Grillo di farne oggetto di uno sketch che andò in onda nell’ora di massimo ascolto del varietà serale di Rai 1 e che costò al comico l’allontanamento dalla televisione di stato.
  36. ^Ad esempio, Indro Montanelliebbe a scrivere: “Che Craxi sia uomo di grandi capacità e ambizioni, lo si sapeva. Che sia anche uomo di grande coraggio, lo si è visto ieri, quando pronunciava alla Camera il suo discorso di replica. Per due volte si è interrotto alla ricerca di un bicchier d’acqua. Per due volte Andreotti glielo ha riempito e porto. E per due volte lui lo ha bevuto.”
    Indro Montanelli, Il meglio di “Controcorrente”, pag. 153, Rizzoli, 1993 – ISBN 8817428078
  37. ^Da lui successivamente ricondotta alla proiezione mediterranea della penisola, collocata tra “l’acqua santa e l’acqua salata”: vedi (EN) Giulio Andreotti, Foreign policy in the Italian democracy, in Political Science Quarterly, 109, no. 3 (Special Issue 1994 1994): 529.
  38. ^Nota Ansa del 13 gennaio 2009, intitolata “L’ANDREOTTISMO SPIEGATO CON LE SUE BATTUTE”, su ( https://www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_851085871.htmlLink Ansa).
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  42. ^https://ricerca.gelocal.it/ilcentro/archivio/ilcentro/2006/04/30/CA5PO_CA501.html: «Siamo passati dal franco al francesco tiratore».
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  68. ^La giornalista Sandra Bonsantiriporta nel sul libro “Il gioco grande del potere” una dichiarazione secondo la quale Giulio Andreotti sarebbe stato il vero capo della Loggia P2, mentre Licio Gelli ne sarebbe stato solo una sorta di prestanome.
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 a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF

 

 

 

 a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF