Cosa nostra

 

 

Cosa Nostra l’organizzazione criminale di stampo mafioso nata in Sicilia, la più famosa e fino agli inizi degli anni ’90 la più potente tra le organizzazioni mafiose a livello internazionale. A lungo identificata con la parola di origine siciliana “Mafia”, Cosa Nostra ha giocato un ruolo e ha avuto un peso nelle vicende politiche dell’Italia unita, sin dalle origini. La prima volta che comparve la parola «mafia» in Italia fu nel 1863, durante lo spettacolo teatrale “I mafiusi della Vicaria” di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca. La piéce teatrale ebbe molto successo all’epoca, con oltre trecento repliche nella sola Palermo e addirittura Re Umberto I tra gli spettatori a Napoli: il protagonista, Gioacchino Funciazza, dominava sugli altri mafiusi, facendosi pagare “u pizzu” per dormire su un giaciglio, ma al tempo stesso difendeva gli oppressi dal nuovo Stato e tutti quelli che chiedevano la sua protezione. Non solo, il boss rispettava i morti, battezzava i nuovi affiliati, promuoveva i migliori della banda. Tutte cose considerate all’epoca «onorevoli», ma il mafioso non era ancora «uomo d’onore» come sarebbe stato inteso decenni dopo. L’aggettivo «mafioso» era piuttosto sinonimo di «uomo coraggioso», mentre diventava «bella donna» se declinato al femminile. Tant’è che Rizzotto fu aspramente criticato, in primo luogo dall’etnologo Giuseppe Pitrè, che lo accusava di aver attribuito valore negativo alla parola. «La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti.», sosteneva lo studioso, «Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui». WIKIMAFIA





Speciale PAOLO BORSELLINO

Speciale GIOVANNI FALCONE

 


FALCONE: “ABBIAMO TANTI SEGNALI CHE POSSONO ACCADERE COSE MOLTO GRAVI NEL PROSSIMO FUTURO” – video


 

TOTO’ U CURTU

BINNU U’ TRATTURI

I PIZZINI

IL MAXIPROCESSO

 

 

DON MASINO, IL BOSS DEI DUE MONDI

 

 

 

 

 



biografie mafiose


STRUTTURE E REGOLE DI “COSA NOSTRA”

  1. I) Il primo mafioso pentito che parlò dell’organizzazione della mafia, nel ’73, è stato Leonardo Vitale, che però venne considerato pazzo, nonostante le molte piste che fornì ai giudici. Molti criminali da lui accusati furono prosciolti. Solo lui fu condannato. Appena uscito dal carcere, dopo aver scontato la pena, nell’84, fu assassinato a colpi di pistola mentre tornava a casa dalla messa domenicale.
  2. II) La sua testimonianza venne confermata dal primo boss mafioso che collaborò con la giustizia: Tommaso Buscetta, estradato nell’84 dal Brasile, dove si era rifugiato per sfuggire alla guerra di mafia, scatenata per il controllo dell’organizzazione. Gli erano già stati uccisi due figli, il fratello, il genero, il nipote e tutti gli uomini di cui si fidava.

III) Contemporaneamente a Buscetta, decide di parlare un altro boss mafioso, Salvatore Contorno, dopo essere stato arrestato nell’82. Contorno era scampato fortunosamente a un attentato ed era perseguitato ferocemente dalla mafia vincente di Giuseppe (Pippo) Calò. Gli avevano ucciso tutti i parenti e gli amici allo scopo di farlo venire allo scoperto, ma inutilmente.

  1. IV) La sua testimonianza coincide con quella di Buscetta, ma nessuno dei due si dichiara “pentito”. Sono uomini sconfitti, colpiti negli affetti più cari, perseguitati e braccati, ma senza crisi di coscienza. Parlano per vendicarsi. In tal modo, comunque, hanno per la prima volta infranto il muro dell’omertà. Sono infatti stati loro che hanno permesso di ricostruire con precisione i meccanismi di funzionamento della mafia. Oggi si trovano negli USA, protetti dalla polizia americana.
  2. V) I mafiosi chiamano la propria organizzazione “Cosa Nostra”. Sono divisi in “famiglie” e ciascuna famiglia ha un capo, detto “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore”, assistito da un vice-capo e uno o più “consiglieri”. In ogni famiglia gli uomini d’onore (o “soldati”) sono coordinati, a gruppi di dieci, da un “capodecina”. Tre famiglie costituiscono un “mandamento” e i capi-mandamento (anch’essi eletti) fanno parte della “Commissione”, che è il massimo organismo dirigente di Cosa Nostra. Capo della Commissione nell’80 era Michele Greco, detto il “papa”, arrestato nell’86 e condannato all’ergastolo come mandante dell’assassinio del giudice Chinnici e del generale Dalla Chiesa. La Commissione prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie, espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi. Di recente è nato a Palermo un Consiglio interprovinciale.
  3. VI) Per diventare uomini d’onore bisogna dar prova di coraggio (sino a uccidere), non essere imparentati con forze dell’ordine, non tradire il proprio coniuge né divorziare, ecc. Il candidato, prima di essere accettato, viene tenuto sotto controllo, frequentato dai mafiosi, poi viene condotto in un luogo solitario, dove alla presenza di almeno 3 testimoni, presta il giuramento di fedeltà. Prende in mano un’immagine sacra, si punge un dito e la bagna col suo sangue, poi le dà fuoco e la palleggia tra le mani finché il santino si riduce in cenere. Nel frattempo pronuncia la formula di rito, che si conclude con le parole: “Le mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò fede al giuramento”. Dopo questa cerimonia conoscerà tanti più segreti e traffici della mafia quanto più elevato sarà il suo grado.

VII) Ogni uomo d’onore è tenuto al silenzio, cioè a non fare troppe domande, a non comunicare ad estranei la sua appartenenza alla mafia; né deve avere rapporti con polizia o giudici. Solo in caso di furto d’auto può rivolgersi alla giustizia, denunciando però il furto non il suo autore, per evitare d’essere coinvolto in reati eventualmente commessi con l’auto rubata. Quando vengono rubate cose di sua proprietà, pur senza che ciò abbia nulla a che vedere con la sua attività mafiosa, egli non può reclamare giustizia.

VIII) Quando parla di fatti riguardanti Cosa Nostra con altri mafiosi ha sempre l’obbligo di dire la verità. Chi mente (“tragediaturi”) può essere espulso (“posato”) o ucciso (Contorno ha parlato anche di “bastonature”). Non può comunque andarsene da solo. Quando è espulso deve continuare a tacere sulla mafia e non può più avere alcun rapporto con gli altri mafiosi. Per evitare che altri vengano a sapere fatti che solo i mafiosi devono conoscere, si usa un codice verbale e gestuale (p. es. quando “A” vuol dire a”B” che “C” è fidato, dice “Chistu è ‘a stissa cosa”).

  1. IX) Uomo d’onore si resta fino all’espulsione o alla morte. Quand’egli è in carcere, Cosa Nostra si preoccupa di fornire assistenza ai familiari e di pagare gli avvocati. Se l’arrestato è un capo-famiglia, viene sostituito dal suo vice, finché resta in carcere, ma non per questo perde il potere.
  2. X) Alcune di queste regole non sono più così rigide come negli anni ’60 e ’70. Responsabile di ciò è stato il gruppo dei Corleonesi di Luciano Liggio, che ha assunto le direzioni di Cosa Nostra nell’ultimo decennio e che ha indotto Buscetta e Contorno a parlare. Naturalmente continuano a valere le due leggi fondamentali: omertà e obbedienza assoluta ai superiori.
  3. XI) Il più grande processo contro degli imputati mafiosi (474) è stato quello di Palermo nell’86. Per la prima volta è stata spezzata una lunga tradizione di impunità, mettendo sotto accusa non solo i singoli, ma l’intera organizzazione.

MAFIA: QUADRO GENERALE

) Una delle caratteristiche principali della odierna mafia è quella di non avere più dei confini geografici particolari in cui muoversi. Da tempo (sicuramente dal momento in cui sono iniziati i traffici legati agli stupefacenti), la mafia è diventato un problema nazionale e internazionale. Non solo, ma essa oggi minaccia settori, attività e persone che fino a qualche decennio fa si ritenevano fuori dal suo raggio d’azione (oggi persino un insegnante o un pensionato rischia di pagare il “pizzo”).

  1. II) Lo dimostra il fatto che all’aumento del suo potere economico-finanziario è aumentata la gravità dei suoi delitti. In Italia i morti più importanti in questi ultimi 15 anni sono stati: il capitano dei carabinieri Basile, l’on. Pio La Torre, il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, i giudici Costa, Chinnici e Terranova, il vicequestore Giuliano, il generale e prefetto Dalla Chiesa. Alcuni dei mandanti e assassini di queste persone sono stati identificati solo nell’ultimo maxiprocesso di Palermo (vedi però la recente scarcerazione provvisoria di 41 imputati).

III) Come si è giunti a tutto questo? Le cause storiche sono note a tutti: la mafia si è impadronita con la forza e l’inganno del plurisecolare sentimento di ribellione del popolo siciliano nei confronti di ogni forma di potere statale. Un sentimento alimentato dalla lunga catena di torti e soprusi compiuti dai diversi dominatori dell’isola. All’inizio la mafia cercò di difendere questo sentimento, poi se ne è servita. La mafia così è diventata il modo d’emanciparsi economicamente della borghesia meridionale impedita nel suo sviluppo dall’Unità d’Italia, la quale avvenne all’insegna dell’alleanza tra la borghesia industriale del Nord e i ceti agrari latifondisti del Sud.

  1. IV) E’ da molti anni che l’immagine del capo-mafioso con la coppola storta, la doppietta a tracolla, i baffi e basettoni, non ha più alcun riscontro. Oggi il boss mafioso è un affarista, un imprenditore, un industriale, un uomo legato a banche, agenzie finanziarie, borsa, ecc. Veste alla moda, vive nel lusso, manda i figli all’Università, ha l’auto di grossa cilindrata, possiede grandi alberghi, ville con piscina. Spesso non fa una vita pubblica vera e propria, in quanto si occupa personalmente solo delle decisioni di maggiore rilevanza. Per il resto si serve d’intermediari, attraverso i quali dirige i grandi affari criminosi (racket, traffici, estorsioni, appalti, delitti…), e partecipa a consigli d’amministrazione di banche, grandi società, ecc. Con queste e altre attività può riciclare il denaro “sporco” investendolo in borsa, acquistando azioni, fondando società e imprese. Alle elezioni politiche manovra grossi pacchetti di voti, influisce sulle nomine politiche, ottiene grossi finanziamenti pubblici.
  2. V) La mafia ha smesso di funzionare come organizzazione meramente parassitaria e ha cominciato a influire sulla produzione economica. Ciò è stato reso possibile dalla rapida accumulazione di capitali realizzata a partire dalla seconda metà degli anni ’70, con il commercio mondiale dell’eroina. I profitti qui sono enormi poiché è molto grande il dislivello fra il prezzo d’acquisto della materia prima e il prezzo di vendita del prodotto. La mafia siciliana controlla il commercio dell’eroina in tutta l’Europa occidentale e del mercato USA controlla almeno il 30%. In Italia solo con l’eroina realizza un fatturato annuale sui 50 mila miliardi.
  3. VI) La mafia si è sviluppata soprattutto dal dopoguerra ad oggi. Pur continuando con i soliti sistemi delle estorsioni, dell’usura, dell’omertà, degli omicidi, ecc., essa dal dopoguerra ha cominciato a gestire nuovi settori commerciali: l’edilizia, i lavori pubblici, gli appalti statali o degli enti locali, ecc. La grande occasione tuttavia le è stata offerta dalla droga (ultimamente anche dal commercio delle armi).

VII) L’aumento del suo potere economico fa paura a certi settori economici statali. Usando metodi illegali o illeciti, l’imprenditore mafioso è più concorrenziale di quello tradizionale. Di qui i tentativi dello Stato di arginare l’espandersi del potere mafioso. Di qui però la reazione violenta della mafia, che negli ultimi anni ha ucciso personaggi di grande rilievo pubblico, mostrando di non temere affatto i poteri dello Stato. Forte della sua autonomia economica la mafia si fa “Stato nello Stato”, dotandosi di un personale politico alle sue dirette dipendenze, cioè non costretto a compromessi, intese e mediazioni con uomini dello Stato.

VIII) E’ difficile catturare un capo-mafia, sia per l’omertà che vige nell’organizzazione e che essa impone al suo esterno, sia perché le attività illecite vengono svolte da intermediari. Non dimentichiamo che il maxiprocesso è stato possibile solo in virtù delle rivelazioni dei due boss Buscetta e Contorno. Tuttavia, nell’82, con la legge La Torre, è possibile eseguire indagini bancarie e patrimoniali sul presunto mafioso, sui suoi complici e sui familiari, al fine di sequestrarne i beni con provenienza ingiustificata. Va però detto che il capo-mafia può anche avvalersi di giudici, funzionari di polizia, politici, avvocati, ecc. in grado di proteggerlo.

  1. IX) Palermo è una città ricchissima: almeno 20 persone sono in grado di firmare su due piedi un assegno di 30 miliardi (vedi però il recente D.L. no 2/1991, secondo cui non si possono emettere assegni trasferibili superiori ai 20 milioni). E’ tra le città dove si vendono più gioielli, più motociclette di grossa cilindrata, macchine tipo BMW e Jaguar. I costruttori non hanno bisogno di mutui. I consumi sono altissimi. Le imposte spesso evase. Tuttavia c’è anche un basso reddito medio pro-capite. Ci sono i quartieri poveri, dove la mortalità infantile è del 20 per mille (e qui abitano 44.000 persone). 80.000 giovani sono senza lavoro, sottoposti alle lusinghe della mafia.

LA LOTTA CONTRO LA MAFIA

) Come si combatte oggi la mafia? La segreteria telefonica della Confesercenti (091-225508) assicura l’anonimato a chiunque voglia denunciare per telefono casi di mafia. Centinaia di commercianti, dopo un anno, hanno ammesso d’essere taglieggiati da boss mafiosi e squadre di picciotti: non solo tangenti pagate in silenzio per anni, temendo lo “sgarro”, ma anche incendi e bombe. In genere, i commercianti telefonano in seguito a una rapina, soprattutto se non vedono arrivare subito la polizia. La Confesercenti pubblicherà presto questo “Romanzo del pizzo”.

  1. II) Alcuni esempi: “Sono il titolare di un’azienda di pratiche automobilistiche. Ho rapporti assurdi con l’UFF. della Motorizzazione. Gli impiegati di quell’UFF. sono soci di altre agenzie e mandano avanti solo gli incartamenti dei loro soci. Cioè s’immatricola un camion per gli “amici” dall’oggi al domani, mentre gli altri aspettano settimane. Alla fine perdo tutti i clienti”.
    – “Sono un farmacista. Ho subìto 4 rapine, poi mi è arrivata una telefonata anonima. Mi hanno costretto ad assumere un ex-detenuto che mi fa da guardia”.
    – “Mi costringono a pagare in base al no delle vetrine -centomila a vetrina- e in base ai mq. del negozio”.
    – “Prima mi hanno detto: Diventiamo soci al 30%. Poi mi hanno alzato il prezzo. Alla fine si sono impadroniti di tutto”.
    – Un commerciante va in banca perché ha problemi economici seri. Non ottiene nulla perché non ha garanzie sicure da offrire. Si affida a usurai, pagando (a Palermo) il 12,50% al mese! Se non paga, l’usuraio gli porta un suo amico e gli impone di prenderlo come socio. Poi il socio, col tempo, s’impadronisce di tutta l’impresa, che così diventa mafiosa.
    – Il 70% dei negozi di Palermo è stato assalito almeno una volta da rapinatori con pistola in pugno. Il 25% ha subìto sino a 4 assalti. Assai difficilmente ci si rivolge alla polizia.

III) Altro modo di combattere la mafia: la Confesercenti siciliana sta progettando una convenzione fra Regione e Unipol. Il commerciante a rischio stipulerà un contratto con la compagnia di assicurazione e la Regione pagherà il 40% delle rate. Se la mafia danneggerà cose, persone, immobili, l’Assicurazione si farà carico del risarcimento.

  1. IV) Perché la mafia è sempre così fortemente concorrenziale? 1) Ti impone di acquistare un prodotto piuttosto che un altro; 2) ti obbliga a rifornirti presso una ditta piuttosto che un’altra (ad es. a Palermo la mafia gestisce quasi tutta la grande distribuzione); 3) i negozi mafiosi aprono senza licenza; 4) compaiono grandi catene alimentari che strozzano i piccoli esercizi; 5) nei pressi di un negozio c’è un abusivo che vende la stessa merce a prezzi molto più bassi; e così via.
  2. V) Come fa la mafia ad aggiudicarsi gli appalti pubblici (scuole, strade, ponti, ecc.)? Utilizza i suoi collegamenti col mondo politico. Quando si svolge la gara d’appalto, si presentano diverse imprese e ciascuna fa un’offerta (cioè il prezzo per il quale eseguirà i lavori). L’amministrazione che ha bandìto il concorso confronta le varie offerte con il suo preventivo e aggiudica l’appalto alla ditta che si è avvicinata di più. L’offerta cioè non deve essere né troppo alta (perché verrebbe a costare troppo allo Stato), né troppo bassa (perché non sarebbe credibile). L’impresa mafiosa può vincere in tre modi: o conosce già l’offerta-base, o ha convinto con le minacce tutte le altre ditte a ritirarsi, oppure corrompe qualche membro della commissione appaltatrice. Ottenuto l’appalto, l’impresa mafiosa in genere evita di rispettare i tempi previsti per l’edificazione, perché così, dovendo ricevere i finanziamenti man mano che costruisce, può speculare anche sull’aumento dei prezzi dei materiali.
  3. VI) Buscetta ha detto che fino al 1978 le attività principali della mafia erano state, in campagna: il furto di bestiame (abigeato), la sofisticazione del vino, la truffa ai danni della CEE nel commercio dei prodotti agricoli; in città: l’edilizia e gli appalti di opere pubbliche. 
    – Verso la fine degli anni ’70 è entrata in gioco l’eroina. La mafia però è sempre stata interessata anche al contrabbando di sigarette (che in un primo tempo organizzava insieme alla camorra). Il principale protagonista del passaggio dal contrabbando delle sigarette al traffico di eroina è stato Nunzio La Mattina.
    – I primi fornitori di morfina-base (poi trasformata in eroina nei laboratori di Palermo) sono stati i Turchi. Negli anni ’80 Cosa Nostra acquistava anche eroina purissima direttamente dalla Thailandia, per rivenderla negli USA. Il principale intermediario tra Estremoriente e Italia è stato per anni Koh Bak Kin. Chi invece controlla ancora oggi tutta la zona del “Triangolo d’oro” nel Sudest asiatico è Kun Sa (pseudonimo di Chan Chi Fu). I pagamenti venivano effettuati tramite banche svizzere con denaro proveniente soprattutto dagli USA. A tutt’oggi sono ancora le famiglie palermitane a detenere il monopolio dei rapporti con i boss americani.
    – Negli anni ’80 l’eroina era controllata a Palermo da Michele Greco e altri boss, a Trapani dai Corleonesi di Liggio. Le famiglie Catanesi invece controllavano il traffico di hashish e svolgevano attività di supporto nel trasporto via mare della morfina-base destinata a Palermo. A tale scopo utilizzavano i vecchi canali del contrabbando di sigarette.
    – Molti percorsi, tappe e protagonisti di questo traffico sono stati individuati dalla polizia, perché, essendo costretta la mafia a utilizzare come corrieri uomini non strettamente legati a Cosa Nostra, questi intermediari, una volta arrestati, hanno quasi sempre parlato.

VII) Il giudice istruttore Giovanni Falcone, quand’era a Palermo, svolse un’intensa attività contro la mafia. Firmò numerosi rinvii a giudizio per bancarotta fraudolenta, mettendo fine a una tradizionale impunità riconosciuta a questo tipo di reato. Falcone era il braccio destro di Chinnici. Quando contribuì al blitz contro il clan Spatola-Inzerillo-Di Maggio, la sua vita cambiò completamente. Per riuscire a incriminare i mafiosi dovette seguire i tortuosi giri di centinaia di assegni, spulciando gli archivi delle banche. Non appena ebbe in mano i fascicoli più scottanti, fu costretto a chiedere la scorta e l’auto corazzata, cominciò ad armarsi, trasferì la sua segretaria in un’altra stanza, fece costruire nel suo ufficio un basamento di cemento sul quale venne installata una grande cassaforte per custodire i fascicoli. Già Chinnici aveva fatto mettere i vetri antiproiettile alle finestre. La vita privata di Falcone era stata completamente annullata da 30 agenti e carabinieri addetti alla scorta. Quando si spostava per andare da casa al suo ufficio blindato, la polizia bloccava il traffico cittadino per farlo passare. Falcone fu il primo a individuare all’interno della mafia un triplice livello di affari: quelli leciti, quelli illeciti e quelli politico-finanziari (quest’ultimi per dirigere il processo di riciclaggio degli enormi flussi di denaro sporco).

APPUNTI SUL CONCETTO DI MAFIA

 In senso molto generale la mafia è un modo di una parte del Sud di riprendersi con la forza e l’inganno quanto il Nord gli ha tolto dall’unità d’Italia ad oggi. E’ una reazione illegale ad un’azione non meno illegale.

In genere però si ha l’impressione che sia il Sud a sfruttare il Nord (vedi ad es. le tantissime pensioni per i presunti invalidi civili, le ingentissime sovvenzioni per i terremotati, gli investimenti fasulli di quella che una volta si chiamava “Cassa per il Mezzogiorno”, per non parlare dei concorsi pubblici truccati, anche in ruoli di alta responsabilità, e via dicendo). Ma se esaminassimo le cose da un punto di vista strettamente economico, cercando di capire il meccanismo di dipendenza coloniale che lega il Sud al Nord, vedremmo che quest’ultimo, dall’unificazione nazionale ad oggi, si è servito del Mezzogiorno come di un’area ove piazzare le proprie merci industriali, ove reperire forza-lavoro e materie prime a buon mercato. In questo senso sarebbe opportuno rileggersi le opere di Nicola Zitara, Francesco Tassone, Paolo Cinanni, Emilio Sereni, senza dimenticare i famosi “Quaderni calabresi”.

Il Sud ha pagato l’unificazione nazionale col sottosviluppo, cioè con l’impossibilità di uscire dall’arretratezza economica: è diventato una “colonia interna” per il Nord capitalistico. Queste cose le Leghe non vogliono assolutamente ammetterle.

Il Sud ha cercato di opporsi a questa logica di sfruttamento ed espropriazione col brigantaggio e le lotte contadine per la fine del latifondo. Poi, dopo la repressione cruenta di questa opposizione, non gli è rimasto altro che l’emigrazione. La mafia è anche una diretta conseguenza del fallimento di questi tentativi di sopravvivenza e di resistenza al colonialismo.

La mafia potrà essere vinta solo quando i meridionali comprenderanno ch’essa non costituisce affatto un’alternativa allo Stato, ovvero quando comprenderanno che può esistere un’alternativa in positivo allo sfascio dello Stato.

La mafia è l’altra faccia dello Stato nel Mezzogiorno e ovunque si possano fare affari coi soldi sporchi del narcotraffico, degli appalti, dei seguestri di persona, ecc.

La mafia serve allo Stato per controllare nel Sud quelle contraddizioni emerse con l’unità d’Italia. In questo senso la mafia da “prodotto” di quelle contraddizioni è diventata “strumento” dello Stato per controllarle. Oggi però il problema maggiore che lo Stato deve affrontare è quello relativo al fatto che la mafia sta dilagando a livello nazionale, superando i confini in cui lo stesso Stato, tacitamente, l’aveva circoscritta (confini non sono geografici, ma anche sociali, politici, economici, morali…).

Il narcotraffico ha permesso alla mafia di realizzare profitti tali da non avere più bisogno di alcuna tutela statale. La mafia oggi può uccidere generali, prefetti, politici, giudici, avvocati, giornalisti… proprio perché sa di avere il potere sufficiente per farlo. Non sta impazzendo, sta soltanto dimostrando di avere più potere dello Stato. Dal canto suo lo Stato, se vorrà riprendere la situazione sotto un relativo controllo sarà costretto, prima o poi, a legalizzare la droga, che è la fonte principale dei profitti mafiosi.

Quando i politici dicono che nel Sud lo Stato è assente, sanno benissimo di mentire, in quanto esso è presente appunto nei panni delle stesse cosche mafiose. Tale coincidenza è spiegata dal fatto che lo Stato non fa nulla di decisivo per combattere la criminalità organizzata. Lo Stato -eccettuati naturalmente alcuni suoi singoli esponenti o organismi- non solo è complice di questa criminalità, ma ha addirittura delegato ad essa molte sue funzioni. In un territorio ove la criminalità domina incontrastata, le funzioni dello Stato o non esistono (ovvero sono ridotte al minimo) oppure sono quelle stesse della mafia. Ad es. in certi paesi della Calabria o della Sicilia è la stessa mafia che procura, a pagamento, l’acqua per i cittadini. Chiunque voglia lavorare, al Sud, deve prima passare attraverso la mafia. Chiunque debba votare non può non rendere conto alla mafia. La mafia ha un potere che intacca e corrode ogni partito.

Lo Stato è convinto che nel Sud sia sufficiente l’organizzazione mafiosa per governare quelle popolazioni giudicate “arretrate”.

Nel Nord imprenditoriale e commerciale si ruba in maniera “legale”; nel Sud mafioso si ruba in maniera “illegale”. Ma “illegale” per chi? Per gli stessi imprenditori e commercianti del Nord, i quali però beneficiano di agevolazioni statali a tutto campo. Perché dunque la mafia non dovrebbe pretendere le stesse facilitazioni? Si dice che la mafia non paga le tasse: perché, forse le paga la borghesia imprenditoriale del Nord? Supponiamo anche che tale borghesia, in proporzione, paghi molte più tasse della mafia, ma che ne sarebbe della mafia se questa volesse impiantare imprese e attività commerciali gareggiando alla pari con le imprese e i commerci del Nord? Sarebbe un fallimento totale. Se vuole imporsi anche al Nord, dove la concorrenza è molto più forte, la mafia è costretta a perfezionare i meccanismi economico-finanziari del proprio successo. Non si deve infatti dimenticare che l’unificazione nazionale è stata fatta sulla base del compromesso tra borghesia del Nord e agrari del Sud, ma la classe che detiene l’egemonia politica a livello nazionale è quella borghese.

E’ dunque illusorio pensare che lo Stato sia un ente neutrale ed equidistante in grado di contenere la corsa ai profitti da parte dei monopoli, o di impegnarsi seriamente in una lotta contro la criminalità organizzata. Se alcuni magistrati, politici, carabinieri ecc. vengono uccisi, si tratta sempre di casi sporadici (rispetto, beninteso, all’entità e alla vastità del fenomeno, il quale, se fosse veramente aggredito, procurerebbe nell’immediato un considerevole numero di morti. Sarebbe però interessante ipotizzare, servendosi di dati e statistiche, se i morti di uno scontro frontale, decisivo, tra le nostre forze armate e la criminalità organizzata, risulterebbero di molto superiori a quelli che fino ad oggi si sono avuti).

In genere, cioè salvo le dovute eccezioni, chi cade sotto i colpi della mafia fa parte della concorrenza (anche nel senso che può essere vittima di una vendetta trasversale), oppure è stato testimone involontario di un omicidio, o forse non si è reso conto di combattere una battaglia persa in partenza, perché appunto condotta in maniera individuale o con mezzi e strumenti di ordinaria amministrazione. Di fatto molti magistrati, politici, carabinieri… che partono dal presupposto di quanto sia assurdo morire per niente, sono o direttamente mafiosi (ma è una minoranza), oppure, indirettamente (cioè senza volerlo), collaborano, in un modo o nell’altro, all’affermazione della criminalità.

E’ veramente incredibile che ancora oggi vi siano persone disposte a credere nell’onestà dello Stato, nelle promesse del governo, nella propria singola forza (di denuncia) contro la forza collettiva ben organizzata e ben armata delle cosche mafiose. Oggi molti credono che esista uno Stato più o meno onesto, sottoposto alle pressioni della criminalità organizzata. In verità le ultime briciole di onestà lo Stato le ha perse con le stragi del terrorismo nero coperte dai servizi segreti, col delitto Moro voluto dalla Dc, con la strage-NATO di Ustica, con l’attentato della CIA al papa, con la scoperta della P2, con il crack dell’Ambrosiano, con la vicenda Gladio e il piano Solo e in molte altre occasioni.

Una qualche differenza tra mafia e Stato poteva forse esistere prima del narcotraffico. Purtroppo oggi i miliardi hanno varcato ogni confine geografico, ogni riserva mentale, hanno superato ogni barriera naturale e artificiale. Politici, magistratura, forze dell’ordine…: tutto è inquinato in maniera relativa o assoluta. Persino i cittadini che ritengono la mafia un fenomeno meridionale e che si ostinano a non vederlo nelle loro proprie città, collaborano indirettamente alla sua diffusione. Per non parlare di quei cittadini che depositano i loro soldi, consapevolmente, per avere maggiori interessi, nelle società finanziarie o nelle banche gestite direttamente dalla mafia.

Singole persone oneste costituiscono eccezioni isolate, che non possono certo mutare il quadro della situazione. Situazione che, per essere affrontata con decisione, non richiede tanto l’eroismo di pochi o lo spirito di sacrificio delle forze dell’ordine o di qualche magistrato, quanto piuttosto un’organizzazione collettiva armata. Lo Stato s’è armato a dovere contro il terrorismo rosso e l’ha vinto (anche se non ha vinto le cause socio-economiche che l’avevano generato, per cui dovremo presto aspettarci un suo revival). Lo stesso Stato non vuole combattere con uguale determinazione la criminalità organizzata, che è sempre stata molto più pericolosa del terrorismo rosso.

Di fronte a questa vergognosa latitanza, i cittadini devono reagire in modo autonomo e con lungimiranza, affrontando il problema in maniera radicale e globale. Non può infatti bastare una riforma elettorale che spezzi il gioco delle preferenze (la mafia saprebbe creare altri meccanismi, magari più occulti o più aggressivi). Né avrebbe senso sperare che la mafia s’impegni ad allestire strutture produttive, servizi sociali, attività economiche e commerciali a favore dei cittadini: la mafia ha bisogno dell’arretratezza e del sottosviluppo per sopravvivere e, comunque, anche se lo facesse, essa sola continuerebbe a trarne un beneficio. Un’organizzazione che dispone di un enorme potere politico, economico e militare non può aver paura, in maniera paralizzante, di alcuna riforma elettorale, di alcun controllo pubblico, di alcuna commissione d’inchiesta.

Ai cittadini dunque non resta che armarsi e combattere collettivamente, direttamente, contro la mafia. Essi dovranno lottare anche contro quanti sostengono che una soluzione del genere farebbe piombare il paese nel caos, nella guerra civile. Il paese è già in guerra civile: da tempo la mafia l’ha scatenata contro cittadini inermi, ivi inclusi minorenni d’ogni età. La lotta quindi dovrà essere condotta anche per costruire una società più giusta e democratica. In questo senso i cittadini del Sud possono trovare in quelli del Nord, oppressi dal capitale, un valido alleato.

Sul piano normativo e socio-culturale, una risposta veramente adeguata alla criminalità organizzata può essere solo il frutto di un comportamento quotidiano anti-criminale. E’ bene infatti rendersi conto che l’atteggiamento “mafioso” va molto aldilà dei tradizionali confini del costume meridionale, in quanto lo ritroviamo ovunque vi siano clientele, protezioni, raccomandazioni, cooptazioni, minacce, ricatti e corruzioni di vario genere. Truccare un concorso o un appalto pubblico significa già diffondere l’atteggiamento “mafioso”. Bisogna insomma abituarsi a estendere il concetto di “mafia” a determinati comportamenti immorali e/o impolitici, così come il concetto di “droga” non può riferirsi esclusivamente a determinate stupefacenti sintetici o vegetali.

Non solo, ma un coinvolgimento attivo della cittadinanza in un’operazione anti-crimine comporta necessariamente una revisione, da parte delle istituzioni, del concetto di “reato”. La gente comune infatti spesso non reagisce alla criminalità non tanto per paura, quanto perché non è affatto convinta che le istituzioni siano meno “colpevoli” della stessa criminalità organizzata.

Le omertà, le reticenze, le complicità, le collusioni… vanno viste in questa prospettiva. Un reato rifiutato per motivi morali, viene spesso accettato, dalla gente comune, per motivi politici, in quanto, mettendolo a confronto con quelli “legali” delle autorità pubbliche, esso può sempre trovare una qualche giustificazione o attenuante.

Ecco perché è impossibile che al Sud la popolazione accetti di combattere la criminalità senza avere almeno la speranza che tale lotta porti anche a una trasformazione del sistema politico-istituzionale e sociale. Al Nord, quando si combatte la criminalità, spesso non si mette in discussione il valore del sistema; al Sud invece le due cose sono strettamente legate. Per poter coinvolgere l’intera cittadinanza nazionale occorre che l’alternativa sia sufficientemente chiara e visibile, a portata di mano.

L’irresponsabilità di molti giornalisti la si nota chiaramente quando intervistano i meridionali a proposito della criminalità organizzata. Da un lato fingono di non sapere che il problema è gravissimo, allo scopo d’indurre l’interlocutore, vessato dalla mafia, a parlare (senza garantirgli, in cambio, alcuna vera protezione: l’unica vera “protezione” che gli “garantiscono” è quella del potere “magico” dell’intervista pubblica, fatta in televisione).

Dall’altro essi ritengono che quando l’intervistato addebita alla disoccupazione il motivo principale della criminalità, si sia in presenza non di una reale motivazione bensì di un pretesto bell’e buono. Il giornalista cioè vuol far credere che se i meridionali volessero “veramente”, troverebbero lavoro e non diventerebbero mafiosi… Nascono da qui i vari pregiudizi dei settentrionali.

Come se la mafia fosse solo al Sud! Come se il concetto di “mafia” andasse circoscritto alla sola criminalità organizzata legata agli appalti, alle estorsioni, alla droga… e non anche alla corruzione più generale che investe il nostro Paese!

Ciò che sfugge completamente ai media istituzionali è il rapporto di sfruttamento, di subalternità economica che lega il Nord al Sud, ovvero il fatto che la criminalità organizzata è “l’altra faccia” dello Stato nel Mezzogiorno.

Quanto sia astratta e fuori luogo l’affermazione di quelle Leghe lombardo-venete, secondo cui l’Italia “ricca” deve restare separata, se vuole “entrare in Europa”, dall’Italia “povera”, è assai evidente alla luce del fatto che buona parte della “ricchezza” del Nord è dipesa e tuttora dipende dalla “miseria” del Sud.

Tornando ai giornalisti, va ribadito ch’essi, il più delle volte, sono cinici e ipocriti, poiché, sapendo da un lato di avere le spalle coperte, pretendono dall’altro che qualcuno si esponga per loro (anche a rischio della propria vita), e solo per rendere la loro intervista più interessante, più appetibile, più concorrenziale: più di così infatti quelle interviste non servono. Nel peggiore dei casi vengono usate per far sembrare la situazione del Sud ancora più esplosiva di quella che è, secondo la tecnica del “tanto peggio tanto meglio”. Il “tanto meglio”, ultimamente, ha riguardato la possibilità d’inviare delle forze armate nelle isole maggiori per dimostrare che le istituzioni ci sono… almeno per qualche mese. Come se la criminalità organizzata rientrasse unicamente nei problemi dell’ “ordine pubblico”!

I giornalisti mettono il dito nella piaga dell’ammalato per sentirlo urlare, mostrandolo a un’utenza che paga il canone guardandosi i problemi della nazione comodamente seduta in poltrona, ovvero illudendosi che solo per il fatto di vederli, qualcuno si assumerà la responsabilità di risolverli.

Se poi l’intervistato che si è esposto alla tv denunciando i soprusi della mafia, viene da questa assassinato, magari proprio perché ha accettato l’intervista, ecco che allora il giornalista zelante si serve di questo nuovo delitto per cercare una nuova audience. E così si versano lacrime da coccodrillo, ovvero si cade dalle nuvole nel costatare che il proprio potere “mediale” non è così persuasivo e protettivo come si era creduto. 
In pratica ci si continua a illudere -sulla scia del ’68- che sia sufficiente denunciare le contraddizioni per assicurarsi la loro pronta soluzione. E non ci accorge neppure che le istituzioni sono ormai assuefatte a questo modo astratto d’affrontare la realtà e che non si lasciano mettere in crisi tanto facilmente dalle denunce fatte alle televisione o sui giornali. Inoltre non si tiene conto del fatto che i poteri della mafia oggi sono infinitamente più grandi, per cui chi si espone rischia molto di più.

I giornalisti insomma devono smettere di considerare la mafia un’attività criminale fra tante, e di credere che in questa lotta contro la criminalità lo Stato stia dalla parte giusta.

Con la morte dei magistrati Falcone e Borsellino si chiude forse un’epoca nella lotta dello Stato contro la mafia, quella in cui ancora si riteneva che la mafia fosse un “antistato”. Naturalmente lo Stato, mandando l’esercito in Sicilia, vuol continuare ad alimentare questa illusione.

Falcone e Borsellino rappresentavano la fiducia nell’ideale dello Stato etico, benché nell’ultimo periodo della loro vita essi avessero maturato delle riserve alquanto critiche nei confronti degli organi statali (anche questo, in fondo, può essere considerato un buon movente per quei delitti).

Evitando di proteggerli, lo Stato “mafioso” ha fatto in modo che la mafia mostrasse a tutta la nazione chi comanda veramente in Italia. Che lo Stato sia “mafioso” non significa, ovviamente, che lo siano “tutti” i parlamentari, “tutti” i prefetti, i questori ecc. Semplicemente significa che il trend dominante di questo Stato è favorevole alla mafia, a quella mafia che al Sud si chiama Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita, Anonima Sequestri, ecc., e che al Nord si chiama con un neologismo giornalistico, “tangentopoli”. Tra le due mafie geografiche la differenza è solo di forma non di sostanza, a motivo dei diversi contesti socio-economici in cui agiscono, incluse le tradizioni storico-culturali che le caratterizzano.

Lo Stato “mafioso” quindi sembra aver vinto in tutti i campi, cioè sembra essere riuscito a dimostrare che l’atteggiamento mafioso (la corruzione, la concussione, la rendita parassitaria, il clientelismo ecc.) è dominante nel nostro Paese, soprattutto laddove esiste un potere politico ed economico da gestire e da spartire.

In tal modo, tuttavia, lo Stato “mafioso” s’è per così dire dato la zappa sui piedi. La reazione indignata della gente comune agli omicidi di Falcone e Borsellino, ai corrotti e corruttori del mondo politico ed economico, locale regionale e nazionale, sta portando sempre più alla consapevolezza che tra Stato e mafia vi sia un legame molto stretto – ciò che, fino a qualche anno fa, pochi sarebbero stati disposti ad ammettere.

Si sapeva infatti che alcuni politici vengono eletti coi voti della mafia, che alcuni magistrati sono collusi con gli interessi mafiosi, ma ancora non si era arrivati a credere che lo Stato in quanto tale, cioè a suoi livelli istituzionali, è complice, direttamente o indirettamente, della criminalità organizzata.

Ciò comporta delle conseguenze molto importanti:

  1. i magistrati che si ostinano a combattere la mafia, senza credere nella collusione dello Stato, diventano automaticamente degli ingenui irriducibili, anzi irresponsabili;
  2. i magistrati che si rifiutano di combattere la mafia, proprio perché sono consapevoli di questa collusione, non hanno fiducia che le cose possano cambiare nel Mezzogiorno con l’aiuto dell’intera popolazione;
  3. la lotta contro la mafia non può essere condotta senza lottare contemporaneamente contro lo Stato;
  4. la lotta contro lo Stato e contro la mafia dev’essere considerata come il primo passo della lotta per la transizione a una democrazia socialista.

C’è un altro versante in cui attualmente si combatte o si dice di combattere il fenomeno mafioso, quello delle comunità terapeutiche per i tossicodipendenti. Di tutte queste comunità, la più ostile alla legalizzazione della droga è -come noto- quella di San Patrignano, per la quale lo Stato diventerebbe “mafioso” appunto se legalizzasse la droga.

Ora qui non si vogliono discutere simili puerili affermazioni, ma fare una considerazione di carattere generale sulla “natura” delle suddette comunità, soprattutto di quella di Muccioli, che più di ogni altra risente dei limiti del “socialismo utopistico”.

In effetti, isolandosi dal contesto sociale, essa -al pari soprattutto di quelle che aspirano a diventare “comunità di vita”, cioè “globali” o “permanenti”, è caduta nell’illusione di credere che la soluzione delle contraddizioni della società sia possibile solo creando “un’isola felice”. In tal modo -e ciò è paradossale- essa contribuisce, non meno delle contraddizioni che dice di combattere, alla diffusione della droga: non solo perché rifiuta il concetto di “legalizzazione”, ma anche perché si è costituita come “comunità”, che di per sé vuole essere immune dal contagio.

Certo, il contributo è indiretto, rispetto a quello mafioso vero e proprio, ma se la soluzione comunitaria viene istituzionalizzata dallo Stato, cioè viene utilizzata dal sistema (e l’idea oggi è proprio questa, tanto è vero che quante non rientrano in certi requisiti non vengono sostenute in alcun modo), allora il contributo diventa anche diretto.

Ogniqualvolta si alimenta un’illusione (pur senza saperlo o senza volerlo), il fine che si realizza sarà sempre capovolto rispetto a quello che si pensava di perseguire. Il problema della droga rientra nel più generale problema della “dipendenza”, che, a sua volta, è legato all’ancora più generale problema della frustrazione e alienazione sociale (che sono problemi tipici di questa società divisa in classi e che quasi nessuna comunità terapeutica sembra abbia intenzione di voler porre all’ordine del giorno: non a caso i loro rapporti reciproci sono del tutto insignificanti, in quanto basati prevalentemente sulla concorrenzialità).

Se volessimo veramente ripensare i criteri di vita della nostra società, dovremmo utilizzare i fenomeni della droga, della delinquenza e di altre forme di marginalizzazione sociale, in chiave dinamica, propositiva. Non facendolo rimane intatta quell’opinione maggioritaria, istintiva, superficiale, che considera i suddetti criteri nel complesso positivi, accettabili o comunque ineliminabili, mentre il soggetto “marginale” o “deviato” rappresenta soltanto un’eccezione, cioè colui che non sa rassegnarsi a questa necessità, che non sa capire questa evidenza.

Ecco perché le comunità terapeutiche contribuiscono a riprodurre i criteri borghesi di vita, seppure al loro interno vi siano comportamenti, stili e ritmi più esigenti (analoghi a quelli carcerari o monastici). Esse s’illudono (perché se ne vantano) di poter superare quei criteri, ma i fatti purtroppo dimostrano che il giovane, uscendo dalla comunità, o si ritrova a dover affrontare con le stesse difficoltà gli stessi problemi che aveva prima di drogarsi (e spesso non sa cosa fare, poiché la comunità l’ha soltanto abituato a spersonalizzarsi, chiarendogli ogni giorno di più che il “suo” problema è un problema di “molti”, per cui deve relativizzarlo); oppure, decidendo di restare in comunità (là dove è possibile), egli obbligherà la stessa comunità (che nel frattempo si sarà ingrandita) a scontrarsi con le esigenze e i meccanismi della società borghese, la quale, essendo più forte, la costringerà ad accettare compromessi d’ogni tipo pur di poter sopravvivere. In questo senso sarebbe interessante sottoporre le comunità a un rigoroso controllo economico e finanziario delle loro entrate e uscite.

Il massimo che la comunità è in grado di offrire a un giovane disintossicato che se ne vuole andare, è un lavoro più o meno qualificato col quale potrà reinserirsi in società, ma anche così egli non potrà risolvere i suoi problemi di fondo, di “senso della vita”: sia perché dovrà scontrarsi con situazioni inedite per lui, che nella comunità non esistevano, in quanto il rapporto di lavoro era organizzato in condizioni diverse; sia perché, prima o poi, egli dovrà rendersi conto d’essere un privilegiato rispetto alle centinaia anzi migliaia di ragazzi non dediti agli stupefacenti che non sono riusciti ad avere le sue stesse opportunità o agevolazioni. Uno dei paradossi di questa società infatti è che le istituzioni, nel migliore dei casi, si preoccupano dei giovani non prima che si droghino ma dopo.

Le comunità quindi (quando addirittura non vengono create per sfruttare economicamente la questione della tossicodipendenza) assai raramente lottano per trasformare la società borghese: lo farebbero se denunciassero i loro propri limiti e i tentativi di strumentalizzazione da parte del potere politico, ma preferiscono non farlo, perché temono di perdere i contributi finanziari, di cui hanno sempre un grande bisogno. Ecco perché in definitiva esse non fanno che educare i giovani ad accettare la società borghese, incanalando il loro potenziale eversivo in una direzione conformistica. Tant’è vero che quando si fanno conferenze sul problema della droga, con l’aiuto di ex-tossici, gli operatori delle comunità spesso li presentano come se fossero un loro “prodotto commerciale”, dando l’impressione che le varie comunità siano tra loro in gara nel dimostrare quale rieducazione alla società-così-com’è sia la migliore.

Per concludere, mentre la presenza dei drogati appare in fondo come il segno d’un malessere sociale, la presenza delle comunità è invece il segno di un’illusione sociale, quella di credere che ai problemi della società borghese si possa sempre trovare una soluzione non meno borghese. Con questo naturalmente non si vuole affermare che la comunità “non serve”, ma solo che il senso della sua utilità non può prescindere dalla riflessione che si deve fare sui criteri di vita della nostra società. STORIA CONTEMPORANEA

 
 
 
Com’era composta la Commissione di Cosa nostra   La Commissione di “cosa nostra”, fino al suo scioglimento (1963), provocato dalla guerra fra i La Barbera e le altre “famiglie”, era così composta: 1. Salvatore Greco (Cicchitteddu): Segretario; 2. Antonino Matranga, 3. Mariano Traia, 4. Michele Cavataio, 5. Calcedonio Di Pisa, 6. Salvatore La Barbera, 7. Cesare Manzella, 8. Giuseppe Panno, 9. Antonino Salamone, 10. Lorenzo Motisi, 11. Salvatore Manno, 12. Francesco Sorci, 13. Mario Di Girolamo, tutti capi mandamento.  Si noti l’assenza, a quei tempi dei corleonesi nell’organo direttivo di “cosa nostra”; infatti, i rapporti tra “Cicchiteddu” e Luciano Leggio erano tutt’altro che buoni e solo lo scatenarsi della faida contro i La Barbera ha evitato che gli attriti tra i due sfociassero in guerra aperta; ma i corleonesi non avrebbero dimenticato e si sarebbero vendicati in seguito anche dei loro avversari superstiti di un tempo.   Non è questa la sede per esporre approfonditamente i motivi della guerra di mafia scatenatasi con l’omicidio di Calcedonio Di Pisa e culminata nella strage di Ciaculli; basterà dire che anche nella materia il Buscetta è stato attendibile. In sostanza, lo scontro è stato provocato dal crescente potere che i La Barbera andavano acquisendo, con l’ostilità soprattutto di Antonino Matranga (Resuttana), Mariano Traia (San Lorenzo) e Salvatore Manno (Boccadiferro). Michele Cavataio, muovendosi abilmente nel dissidio fra i La Barbera e il resto della commissione, uccideva Calcedonio Di Pisa in modo che la responsabilità ne venisse attribuita dalla commissione proprio ai La Barbera. E anche in seguito gli episodi più eclatanti, erano opera del Cavataio, comprese le autovetture piene di esplosivo fatte esplodere contro esponenti di spicco di “cosa nostra”.  Lo scontro sanguinoso e l’attività repressiva degli organi di polizia determinavano lo scioglimento di “cosa nostra”, per cui i personaggi più rappresentativi cercavano riparo anche all’estero, sia per timore di essere uccisi sia per sfuggire agli arresti. 

… Cosa Nostra” è rimasta inoperante fino al 1969, e cioè fino all’esaurimento dei grandi processi di mafia, con conseguente massiccia remissione in libertà di numerosi mafiosi. “Su tali fatti bisognerà che gli organi inquirenti ritornino, essendo emerse responsabilità penali per gravissimi delitti a carico di persone tuttora in vita; in questa sede va richiamata l’attenzione su personaggi come Pippo Calò e Antonino Salomone, protagonisti da oltre vent’anni di primo piano delle vicende di “cosa nostra”, i quali per tutto questo periodo si sono tenuti abilmente nell’ombra mentre altri con responsabilità molto minori sono stati accanitamente perseguiti e sopravalutati. 
Nel 1970, dopo “l’esecuzione” di Michele Cavataio (c.d. strage di Via Lazio), riconosciuto il maggiore colpevole delle insensate carneficine del 1963, si ricostituiva “ cosa nostra” e, per un primo periodo, la direzione della stessa era nelle mani di un triumvirato formato da Salvatore Riina (ecco comparire i corleonesi!), Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti; e va rilevato che alla strage di via Lazio avevano partecipato Calogero Bagarella (probabilmente ucciso da Michele Cavataio nella sparatoria), Emanuele D’Agostino (della famiglia di Stefano Bontade) e Damiano Caruso; (originario di Villabate ma appartenente alla famiglia di Riesi capeggiata da Giuseppe Di Cristina. 
Il Caruso, accusato di essere un confidente dei carabinieri, veniva ucciso poi, per ordine dei corleonesi; in realtà, in siffatta maniera costoro avevano dato il primo avvertimento a Giuseppe Di Cristina, fedele alleato e grande amico di Stefano Bontade, che aveva arruolato nella propria famiglia il Caruso nonostante che questi fosse originario di Villabate. 
Nel 1970 veniva compiuta la cosiddetta spedizione di Castelfranco Veneto, dove venivano sorpresi ed arrestati Galeazzo Giuseppe, Lo Presti Salvatore e Rizzuto Salvatore (tutti e tre della famiglia di Pippo Calò), nonché Gaetano Fidanzati (della famiglia di Giuseppe Bono); ad essi era stato affidato dal triumvirato l’incarico di individuare ed uccidere il vice di Michele Cavataio, Giuseppe Sirchia, resosi responsabile fra l’altro, dell’omicidio di Bernardo Diana, vice di Stefano Bontade, avvenuto nel 1963. 
Il 5 maggio 1971, veniva compiuto l’assassinio di Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo, definito dal Buscetta magistrato integerrimo e persecutore della mafia. In questa sede, non è possibile trattare di questo gravissimo fatto di sangue, per il quale procede altra autorità giudiziaria; va solo notato che l’omicidio, ispirato e voluto dai corleonesi, è stato eseguito nel territorio di Porta Nuova, della cui famiglia già allora era capo Pippo Calò. È di tutta evidenza, dunque, quanto siano antichi i rapporti di colleganza fra i corleonesi e questi ultimi. 
Il processo cosiddetto dei 114, con l’arresto di Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti, consentiva una maggiore libertà d’azione al Riina, unico membro del “triumvirato” rimasto in libertà. Questo ultimo aveva l’ardire di ordinare il sequestro dell’ingegnere Luciano Cassina, nel quale venivano implicati uomini della famiglia di Pippo Calò, E ciò nonostante che vi fosse un patto espresso, in seno a “cosa nostra” di non eseguire sequestri di persona in Sicilia, per le conseguenze negative in termini sia di repressione poliziesca sia di allarme sociale. 
In questa situazione di acuto risentimento da parte degli altri membri del “triumvirato”, Bontade e Badalamenti, Luciano Leggio, che nel frattempo era evaso, riprendeva in mano le redini della sua famiglia e, apparentemente per placare il Bontade, metteva da parte il Riina; tuttavia otteneva che, con la scusa che il riscatto era stato pagato e l’ostaggio già liberato, la faccenda venisse considerata ormai chiusa. Ciò ovviamente lasciava con l’amaro in bocca Bontade e Badalamenti, i quali nella sostanza non avevano ottenuto soddisfazione. 
Comunque, con l’intervento del Leggio, veniva posto termine al “triumvirato” e si ricostituivano gli organi ordinari di “cosa nostra”. In questa fase la commissione veniva così composta: 1. Gaetano Badalamenti, Capo Commissione; 2. Luciano Leggio; 3. Antonino Salamone; 4. Stefano Bontade; 5. Rosario Di Maggio; 6. Salvatore Scaglione; 7. Giuseppe Calò; 8. Rosario Riccobono; 9. Filippo Giacalone; 10. Michele Greco; 11. Nené Geraci, tutti capi mandamento. 
È da notare che: il posto di Leggio, dopo il suo arresto avvenuto il 15 maggio 1974, veniva preso in seno alla commissione, da Salvatore Riina o da Bernardo Provenzano (in realtà e contro ogni regola da entrambi); il posto di Antonino Salamone, emigrato in Brasile, veniva preso da Bernardo Busca, che però riprendeva il suo ruolo di vice del Salamone, ogni volta che quest’ultimo ritornava in Italia. 
L’omicidio del colonnello cc. Giuseppe Russo, avvenuto il 20 agosto 1977 provocava ulteriore gravissimo attrito fra Bontade e Badalamenti da un lato e i corleonesi dall’altro. L’omicidio, del quale anche Di Cristina ha indicato quali ispiratori i corleonesi, veniva eseguito da un “comando” del quale faceva parte anche Pino Greco “scarpazzeda”; nel commentare il fatto, Stefano Bontade faceva notare, in seguito, al Buscetta la falsità del comportamento di Michele Greco, il quale gli aveva detto di non sapere nulla circa mandanti ed esecutori dell’omicidio, mentre il suo uomo d’onore più “valoroso” (e cioè il suo killer più spietato) era stato uno degli autori del vile assassinio. “Anche da tale episodio, dunque, emerge come i corleonei e i loro alleati, perseguendo un piano diabolico, compivano al momento giusto delle azioni che – a parte la loro barbara ferocia – sono senz’altro dimostrazioni di una lucida strategia criminale. Nel caso di specie, con l’omicidio del colonnello Russo, essi ottenevano ad un tempo, l’eliminazione di un abile investigatore e di un implacabile nemico della mafia, il disorientamento nelle forze di polizia ed il progressivo isolamento e perdita di prestigio di personaggi come Bontade e Badalamenti, i soli che potevano opporsi ai piani dei corleonesi stessi di egemonizzazione di “cosa nostra”. 
Si comincia a notare, inoltre, come le strutture di tale organizzazione, pur formalmente intatte, si avviavano ad essere utilizzate per coprire un audacissimo piano, del tutto riuscito, diretto a trasformare “cosa nostra” in una pericolosissima organizzazione criminale, maggiormente in sintonia con i tempi e con le mutate esigenze dei traffici illeciti. In questo quadro, Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti erano un ostacolo da rimuovere, il primo perché legato ad una visione di “cosa nostra” ormai disarmonica rispetto alle esigente dei traffici; il secondo perché ritenuto dai corleonesi privo delle capacità intellettuali per poter gestire una realtà tanto complessa. Gli eventi successivi dimostrano in modo impressionante la fondatezza delle parole del Buscetta. Ed infatti, alla fine del 1977 – primi del 1978, avvengono sostanziali modifiche della Commissione tali da renderla ancora più docili ai voleri dei corleonesi. E difatti: viene espulso da “cosa nostra” Gaetano Badalamenti per motivi che il Buscetta ha dichiarato di non conoscere ma che certamente sono stati gravissimi se hanno comportato tale sanzione nei confronti del capo di “cosa nostra”. Da allora, invero, il Badalamenti ha sempre vissuto appartato, (evidentemente per il fondato timore di essere ucciso), tanto che non è riapparso in pubblico nemmeno quando le sue vicende giudiziarie si sono risolte in modo a lui favorevole; il posto di Gaetano Badalamenti quale capo della Commissione vien preso da Michele Greco, interamente, manovrato dai corleonesi; capo della famiglia di Cinisi viene nominato Antonino Badalamenti cugino di Gaetano, che nutre profonda avversione nei confronti di quest’ultimo; entrano a far parte della Commissione Francesco Madonia, rappresentante della famiglia di Resuttana, e Nené Geraci, rappresentante di quella di Partinico, entrambi fidatissimi alleati dei corleonesi. In siffatta maniera, tutta la piana dei colli, fino a Partinico, è controllata dai corleonesi, specie se si considera che il capo della famiglia di San Lorenzo, Filippo Giacalone, avversario dei corleonesi, viene fatto sparire; entra a far parte della Commissione Inzerillo, in sostituzione di Rosario Di Maggio; unico punto a favore del Bontade, nel riassestamento della Commissione, è la nomina a capo mandamento di Gigino Pizzuto, rappresentante di una famiglia ai confini del territorio della Commissione di Palermo. E qui incidentalmente va rilevato che trattasi di uno dei tantissimi riscontri delle dichiarazioni di Buscetta, dato che di Gigino (Calogero) Pizzuto finora si ignorava del tutto il ruolo nelle vicende di Cosa Nostra ed è stato possibile procedere alla sua identificazione solo in virtù delle precise indicazioni fornite dal Buscetta anche sulle modalità della uccisione del Pizzuto stesso. 

BORIS GIULIANO, CESARE TERRANOVA, PIER SANTI MATTARELLA COMINCIÒ CON RIINA L’ETÀ DELLE STRAGI   Riassumendo, quindi, dopo il rimpasto, la Commissione, nel 1978, era così composta: 1) Michele Greco, capo commissione; 2) Salvatore Riina e Bernardo Provenzano; 3) Antonino Salomone (sostituito da Berardo Brusca); 4) Stefano Bontade; 5) Salvatore Inzerillo; 6) Salvatore Scaglione; 7) Giuseppe Calò; 8) Rosario Riccobono; 9) Francesco Madonia; 10) Gigino Pizzuto; 11) Nené Geraci; 12) Soggetto in corso di identificazione. 
Nel 1979-1980, e comunque prima della uccisione di Stefano Bontade, venivano inseriti nella Commissione Giovanni Scaduto, genero di Salvatore Greco Ferrara, e Pino Greco “scarpazzedda”, quale capo della famiglia di Ciaculli: quest’ultimo episodio costituisce ulteriore stravolgimento delle regole di Cosa Nostra, ove si consideri che della famiglia di Ciaculli due membri vengono inseriti all’evidente scopo, da un lato, di riconoscere l’importanza acquisita dal feroce Pino Greco “scarpazzedda”, e dall’altro, di relegare in posizioni meramente onorifiche Michele Greco, vittima della sua mancanza di personalità ed ormai in balia dei corleonesi. 
Le conseguenze di questo mutato assetto della commissione e, quindi, degli accresciuti poteri dei corleonesi non si fanno attendere. 
Nel marzo 1978 veniva ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Dc. Di tale omicidio – che per la sua rivelanza non poteva non avere coinvolto tutta la commissione – né Stefano Bontade, né Salvatore Inzerillo, né Rosario Riccobono sapevano nulla ed anzi i primi due, nel commentarlo successivamente col Buscetta, lamentavano, appunto, questo ulteriore affronto al loro prestigio ed il loro progressivo isolamento. 
Nel maggio 1978, veniva ucciso Giuseppe Di Cristina. L’omicidio, opera dei corleonesi, era una gravissima offesa soprattutto per Salvatore Inzerillo, nel cui territorio il crimine veniva consumato con modalità tali da indirizzare i sospetti della Polizia su questo ultimo. 

A UN TRATTO CAPIRONO DI ESSERE ACCERCHIATI   Anche stavolta i due non ottenevano alcuna soddisfazione dalla commissione e cominciavano finalmente a rendersi conto di essere accerchiati; non comprendevano appieno, però, fino a che punto fosse giunta l’opera di proselitismo da parte dei loro avversari anche all’interno delle loro stesse “famiglie”. È da rilevare, però, che Inzerillo era quasi sicuro che nell’omicidio fosse implicato Salvatore Montalto (e il futuro avrebbe dimostrato quanto erano fondati i suoi sospetti) ma nulla poteva fare non potendo sorreggere con prove il suo convincimento. “Dopo l’uccisione del Di Cristina veniva fatta circolare la voce che questi era stato ucciso perché confidente dei carabinieri. In realtà, era stato eliminato in quanto uno dei maggiori esponenti dell’ala moderata di Cosa Nostra. “Gli ulteriori omicidi di Boris Giuliano, di Cesare Terranova e di Pier Santi Mattarella, come il Buscetta apprendeva da Salvatore Inzerillo, venivano decisi dalla commissione sempre all’insaputa dello stesso Inzerillo, di Stefano Bontade e di Rosario Riccobono (si noti che, in questa fase, Rosario Riccobono è apparentemente alleato di Bontade ed Inzerillo) è ciò ovviamente, allargava ancora di più il solco tra Bontade e Inzerillo da un lato, e la commissione dall’altra. 
Infine, il 4 maggio 1980 veniva commesso l’omicidio del capitano dei cc. Emanuele Basile, voluto dai corleonesi con la supina acquiescenza della commissione. Basta por mente ai tre personaggi coinvolti nell’omicidio (assolti inopinatamente alla Corte di Assise di Palermo ma di certo responsabili dell’omicidio, secondo le motivate e plausibili dichiarazioni di Buscetta), per rendersi conto della falsità delle affermazioni di Michele Greco al Bontade circa la sua estraneità al crimine, nonché della rappresentatività del terzetto. Infatti, Puccio Vincenzo è “uomo d’onore” della famiglia di Michele Greco (Ciaculli), Giuseppe Madonia fa parte della famiglia di Resuttana ed Armando Bonanno di quella di San Lorenzo. Attraverso l’identificazione degli autori materiali, dunque, si ha una formidabile conferma, ove ve ne fosse stato bisogno, dell’attendibilità delle dichiarazioni del Buscetta. 
La reazione degli organi statuali, purtroppo, si dirige verso direzione opposta rispetto a quella degli ambienti mafiosi che hanno ideato ed eseguito il crimine. Difatti, dopo pochissimi giorni dalla uccisione del Basile, vengono denunciate alla magistratura 55 persone, tutte della famiglia di Salvatore Inzerillo e comunque estranee alla decisione di uccidere il capitano Basile. “Ancora una volta, dunque, l’Inzerillo subiva, come per l’omicidio Di Cristina, il danno di azioni che, non solo non erano state volute da lui, ma che costituivano gran nocumento del suo prestigio. Da qui la sua decisione di uccidere Gaetano Costa, Procuratore della Repubblica di Palermo, Capo, cioè, dell’Ufficio cui era stato presentato, per la ratifica dell’operato della Polizia, il rapporto contro i membri del suo clan. 
A Buscetta, nel frattempo rientrato a Palermo (essendosi allontanato da Torino dove era stato ammesso al regime di semilibertà), tutti quanti, compreso lo stesso interessato, confermavano che la decisione di uccidere Costa era stata adottata, senza alcun avallo dalla commissione ed all’insaputa della stessa, dal solo Salvatore Inzerillo, per dimostrare che anch’egli, come e più dei corleonesi, era in grado di poter fare eseguire un omicidio eclatante. 

UN CORO CONTRO INZERILLO: “BAMBOCCIO”   Ed era un coro unanime che l’Inzerillo si era comportato da “bamboccio” avendo commesso un omicidio così grave solo per un’affermazione di prestigio.   Ed è proprio sconsolante constatare che un galantuomo, fedele servitore dello Stato, sia stato ucciso solo per turpi calcoli di tornaconto personali, per meschini giochi di potere. Anche la posizione di Stefano Bontade era assai precaria: egli infatti confidava poi al Buscetta che il fratello Giovanni lo metteva in cattiva luce con gli altri componenti della commissione, ed in particolare con Michele Greco, fatto, questo, confermato anche da Pippo Calò. Siffatto comportamento non poteva non indebolire la posizione di Stefano Bontade essendosi fatto sapere ai suoi avversari che il suo potere di capo non era poi così solido se perfino suo fratello lo criticava apertamente con estranei. 
Non si ha ancora la certezza che Giovanni Bontade fosse partecipe del disegno di eliminazione del fratello Stefano e di tanti altri – ed in effetti ripugna pensare che il suo grado di abiezione fosse giunto a tale livello – però, è un fatto che, come “uomo d’onore”, egli non poteva ignorare a quali rischi esponeva il fratello Stefano, parlandone male agli avversari: ed è un fatto anche che il Bontade, detenuto fin da epoca anteriore all’omicidio del fratello, ha sempre dichiarato di non temere per la sua incolumità all’interno dell’Ucciardone e che diversi detenuti hanno confermato che egli convive tranquillamente, senza alcun apparente disagio, con membri delle famiglie cui è da ascrivere la responsabilità per l’assassinio del fratello. 
È proprio in questo momento così delicato che avviene il rientro del Buscetta a Palermo. Il suo carisma e il fatto di non essere stato coinvolto in precedenti alleanze, lo rendevano particolarmente appetibile ad entrambi gli schieramenti quale elemento rappresentativo da utilizzare per convincere con il suo prestigio gli incerti in previsione di uno scontro che si preannunciava terribile. “E così Pippo Calò, da tempo, ormai mimetizzatosi a Roma dove aveva acquistato, anche in virtù della sua alleanza coi corleonesi, grandissimo peso e inquietanti collegamenti col mondo imprenditoriale e politico, lo voleva immediatamente con sé e, dopo di averlo del tutto dimenticato negli otto lunghi anni della carcerazione, gli offriva condizioni assolutamente privilegiate ed ingenti guadagni derivanti dal traffico di stupefacenti e da altre illecite attività. 
Dal canto suo Stefano Bontade – del quale da tempo il Buscetta era fervido ammiratore, riconoscendogli di essere il migliore interprete della mafia di un tempo, non esitava a confidargli di essere pronto ad uccidere personalmente Salvatore Riina in una riunione della commissione, per dichiarare poi, a tutti, i motivi del suo gesto; gli confidava altresì che Salvatore Inzerillo era dalla sua parte e che anche Antonino Salomone, impegnato ad aiutarlo nel suo proposito, gli aveva promesso che si sarebbe schierato dalla sua parte ove egli fosse riuscito ad uccidere il Riina; ed infatti, il Salomone, avendo come vice della sua famiglia Bernardo Brusca, uno dei più fidi alleati dei corleonesi, era tutt’altro che tranquillo sulla propria sorte, anche per la sua parentela con “cicchitteddu”, profondamente inviso ai corleonesi. Il Buscetta, però, da fine intenditore dei fatti di Cosa Nostra, si rendeva immediatamente conto che l’impresa del Bontade era disperata e, dopo avere tentato la riappacificazione tra il predetto e Salvatore Inzerillo con Pippo Calò, facendoli incontrare a Roma, decideva di estraniarsi dalla vicenda e partiva definitivamente per il Brasile nei primi giorni del gennaio 1981. A tal riguardo si ricordi, a conferma delle dichiarazioni di Buscetta, che già nel gennaio 1981, Eric Charlier, trafficante internazionale di stupefacenti, aveva riferito – per averlo appreso da Francesco Mafara (uno di coloro che poi sarebbero stati fatti scomparire dai corleonesi) – che era in preparazione uno scontro all’interno della mafia e che il Mafara gli aveva chiesto armi. 

UN “UOMO D’ONORE” DI STAMPO ANTICO    Nel marzo 1981 veniva fatto scomparire Giuseppe Panno, vecchio capo famiglia di Casteldaccia e “uomo d’onore” di stampo antico che, disgustato dalla piega che avevano preso gli avvenimenti e dell’imbarbarimento di Cosa Nostra, aveva rifiutato di riprendere in seno alla Commissione il posto che aveva ai tempi di “cicchitteddu”; è evidente che la sua autorevole presenza avrebbe costituito serio ostacolo al disegno dei Corleonesi e dei loro alleati di eliminare gli avversari. 
Il 23 aprile 1981, la sera del suo compleanno, Stefano Bontade veniva ucciso in un proditorio agguato, dopo che Pietro Lo Iacono, recatosi a casa sua con la scusa di fargli gli auguri, aveva appreso dallo stesso Bontade che stava per recarsi nella casa di campagna e, così, aveva avvertito Lucchese Giuseppe che attendeva in macchina sotto casa e che, per mezzo di una ricetrasmittente, aveva avvisato a sua volta, gli assassini acquattati nei pressi della casa. 
La ricostruzione dell’omicidio – riferita al Buscetta in Brasile da Antonino Salomone dopo che quest’ultimo era venuto a Palermo per informarsi dell’omicidio stesso – è la chiarissima dimostrazione del tradimento subito dal Bontade ad opera del suo stesso vice (Pietro Lo Iacono) e del coinvolgimento di tutta la commissione (Lucchese Giuseppe appartiene alla famiglia di Ciaculli). 

L’INCONTRO GALANTE, L’AGGUATO MORTALE   La preoccupazione del Buscetta per la sorte dell’Inzerillo dopo l’uccisione del Bontade, non era certamente infondata, ma il Salamone gli riferiva che egli stesso e Salvatore Riina avevano affidato allo Inzerillo una partita di 50 kg. di eroina affinché l’inoltrasse negli Usa attraverso i propri corrieri, per cui l’Inzerillo non temeva per la sua uccisione almeno fino a quando non avesse pagato tale partita. Ma i suoi calcoli erano infondati. 
Infatti, l’11 maggio 1981, anch’egli cadeva in un agguato davanti allo stabile di via Brunelleschi, 50 ucciso dalle stesse armi che avevano eliminato Bontade (vedi perizia balistica). Come è stato riferito al Buscetta da Antonino Salomone, anche nell’omicidio dell’Inzerillo i Montalto sono implicati in prima persona. L’Inzerillo si era recato in quello stabile, per un appuntamento galante, in compagnia di Giuseppe Montalto, figlio di Salvatore, il quale aveva avvertito i killers. Va considerato, poi, che l’Inzerillo, appena pochi giorni prima di essere ucciso, si era procurato un’autovettura blindata e che gli assassini la sera prima dell’attentato avevano provato l’efficacia perforante dei micidiali kalashnikov sui vetri corazzati della gioielleria Contino. Ora, il fatto che gli avversari dell’Inzerillo fossero venuti a conoscenza in un brevissimo lasso di tempo, dell’acquisto di un’autovettura blindata da parte del predetto, è segno inequivoco che l’Inzerillo aveva dei traditori in seno alla propria famiglia, perché solo chi gli era vicino poteva venire a conoscenza di un fatto tanto riservato in un tempo tanto breve. 
Dopo questi due omicidi, si scatenava la caccia a tutti coloro che dovevano essere eliminati o perché fedeli ai due uccisi o perché ritenuti traditori o perché ostacolavano i disegni egemonici della fazione vincente o, comunque, perché erano rei, agli occhi dei loro avversari, di qualche torto che era giunto il momento di vendicare. E così, il 26 maggio 1981, scomparivano contemporaneamente Di Franco Giuseppe (autista di Stefano Bontade), i fratelli Angelo e Salvatore Federico e Girolamo Teresi. I tre ultimi, tutti della famiglia di Stefano Bontade, erano stati invitati unitamente ad Emanuele D’Agostino da uno dei Pullarà e da Lo Iacono Pietro ad incontrarsi con loro per discutere la situazione conseguente all’omicidio di Stefano Bontade; il D’Agostino, subdorante il tranello, si rifugiava in casa di Rosario Riccobono, ritenendolo suo amico, mentre gli altri andavano all’incontro, venendo spietatamente soppressi. Anche il D’Agostino, il quale aveva confidato al Riccobono l’intenzione del Bontade di uccidere il Riina, veniva eliminato dallo stesso Riccobono che informava di tutto la commissione. E così, gli avversari di Bontade e Inzerillo, che fino a quel momento non avevano alcun plausibile motivo per giustificare la soppressione dei due, ricevevano legittimazione del loro operato per l’ingenuità di Emanuele D’Agostino. In seguito venivano commessi gli omicidi di Severino Vincenzo e Salvatore (28 maggio 1981), scomparsi anch’essi senza lasciare tracce; Gnoffo Ignazio (15 giugno 1981), fedelissimo di Stefano Bontade (nella cui famiglia aveva militato a lungo prima di essere autorizzato dalla Commissione a ricostruire la famiglia di Palermo Centro), Di Noto Francesco (9 giugno 1981) a lungo reggente della famiglia di Corso dei Mille, evidentemente ritenuto amico del “traditore” Pietro Marchese, come appresso si dirà, Di Fazio Giovanni (9 agosto 1981), Mazzola Emanuele (5 ottobre 1981), Mazzola Paolo (6 febbraio 1982) di cui ha parlato anche Sinagra Vincenzo, Mafara Giovanni (14 ottobre 1981), Mafara Francesco (14 ottobre 1981), Grado Antonino (14 ottobre 1981), Rugnetta Antonino (8 novembre 1981), di cui hanno parlato anche Stefano Calzetta e Sinagra Vincenzo -, Grado Antonino (9 gennaio 1982) – zio del primo -, Teresi Francesco Paolo (8 gennaio 1982), – cugino di Teresi Girolamo e suo socio in affari – Di Fresco Giovanni (8 gennaio 1982) Di Fresco Francesco (12 marzo 1982), Sanfilippo Vincenzo (30 settembre 1982). Un discorso a parte merita, per la sua inaudita ferocia, l’uccisione di Stefano Pecorella e di Giuseppe Inzerillo, figlio di Salvatore, appena sedicenne. Come Buscetta ha appreso da Gaetano Badalamenti, Pino Greco “scarpazzedda”, prima di uccidere Giuseppe Inzerillo, gli aveva tagliato un braccio, dicendogli con scherno: «Con questo braccio tu non ucciderai più Totò Riina!». 
Veniva fatto scomparire anche Di Gregorio Salvatore, un povero giovane che aveva avuto il coraggio di riferire alla polizia quanto era a sua conoscenza sulla presenza mafiosa a Ciaculli di Michele Greco e dei suoi accoliti nonché sulle modalità dell’uccisione di Stefano Bontade. 
Inzerillo Pietro, fratello di Salvatore, veniva poi ucciso il 22 gennaio 1982 a New York e, anche stavolta per derisione, il cadavere veniva fatto trovare in un portabagagli con dollari in bocca e nei genitali. “Venivano uccisi inoltre, Greco Salvatore, padre di Giovannello (21 luglio 1982) e D’Agostino Ignazio (11 gennaio 1982), padre di quel D’Agostino Rosario, in atto detenuto, ritenuto autista di Franco Mafara e arrestato con Vincenzo Grado nella villa di quest’ultimo sita in Besano. 
Salvatore Contorno era un altro dei perseguitati con maggiore accanimento. Ritenuto giustamente uno dei più fidi collaboratori di Stefano Bontade e uomo “d’azione”, cadeva in un agguato il 15 giugno 1981, ma grazie alla prontezza dei suoi riflessi e rispondendo al fuoco, riusciva a darsi alla fuga. Da allora e fino al suo arresto, venivano commessi numerosi efferati omicidi di parenti ed amici del Contorno al solo scopo di stanare quest’ultimo e senza che gli uccisi fossero in alcun modo coinvolti nelle attività del medesimo. “Così, venivano uccisi Costanzo Giovanni (9 ottobre 1981), Cinà Giacomo (24 luglio 1982), Mandalà Pietro (3 ottobre 1981), Mandalà Francesco (5 aprile 1982); Patricola Francesco (2 ottobre 1981), Spitalieri Salvatore (15 aprile 1982), Zarcone Salvatore (12 novembre 1983), Amodeo Paolo (27 dicembre 1983), Amodeo Giovanni (16 marzo 1983), Vitale Antonino (9 ottobre 1981), Ienna Michel (8 gennaio 1982), Bellini Calogero (16 marzo 1983), Pesco Vincenzo (17 marzo 1983), Corsino Salvatore (17 aprile 1982). Anche nei confronti di Pietro Marchese – Corso dei Mille – e di Giovannello Greco – Ciaculli -, ritenuti “traditori” perché amici di Salvatore Inzerillo e probabilmente suoi alleati, si scatenava la persecuzione. 
Il 9 giugno 1981, a Palermo veniva ucciso, come si è detto, Franco Di Noto, per lungo tempo reggente la famiglia di Corso dei Mille e ciò veniva esattamente interpretato da Giovannello Greco e da Pietro Marchese come inequivoco segnale anche nei loro confronti, per cui si davano a precipitosa fuga con le loro mogli e con Antonio Spica, un rapinatore che gravitava su Milano ed era amico dei Greco. La loro fuga veniva bloccata a Zurigo dove venivano arrestati, mentre stavano imbarcandosi su un aereo diretto in Brasile, perché trovati in possesso di banconote provenienti dai sequestri Susini ed Armellini e di documenti falsi. Estradati in Italia il Greco, cui il G.I. di Milano concedeva la libertà provvisoria, si rendeva immediatamente irreperibile, mentre il Marchese, tradotto nel carcere dell’Ucciardone perché imputato dell’omicidio di Boris Giuliano, veniva ucciso da altri detenuti il 25 febbraio 1982. 

TRADITI DAL DENARO, “GIUSTIZIATI” IN UNA CELLA    “Per l’omicidio di Pietro Marchese sono stati già rinviati a giudizio oltre agli autori materiali, anche Michele Greco ed il fratello Salvatore: bisognerà procedere adesso anche contro gli altri correi, essendo di tutta evidenza, anche alla stregua di quanto dichiarato dal Buscetta, che trattasi di un omicidio strettamente connesso con quelli di Inzerillo e Bontade. “Anche su Antonio Spica posto in libertà provvisoria dal G.I. di Milano, si abbatteva la vendetta. Infatti, dopo essere sfuggito miracolosamente ad un attentato nel quale veniva ucciso il suo amico Pietro Romano, lo Spica veniva trovato ucciso a colpi di pistola e carbonizzato in una pubblica discarica di quella città. Anche per questi due omicidi, dunque, deve procedersi contro gli stessi imputati di quello di Pietro Marchese. “È da notare che l’amica dello Spica (Hayed Hafida Bent Mohamed) rimasta a Palermo dopo l’improvvisa fuga di quest’ultimo, veniva sequestrata e violentata affinché rivelasse il nascondiglio dell’amico e di Giovannello Greco e veniva interrogata da una persona anziana dall’accento napoletano.
Anche nei confronti di Gaetano Badalamenti e dei suoi familiari ed amici si scatenava la furia omicida e sanguinaria dei suoi avversari. 
Il 19 agosto 1981, veniva ucciso proditoriamente, in virtù dell’intervento di Rosario Riccobono, Antonino Badalamenti che aveva ottusamente accettato la reggenza della famiglia di Cinisi, dopo l’espulsione da “Cosa Nostra” del cugino Gaetano. Egli, pur nutrendo profonda avversione verso il cugino, non avrebbe mai consentito che venisse ucciso e tanto meno avrebbe cooperato per la sua uccisione; la sua presenza a Cinisi, pertanto, costituiva ormai un ostacolo per gli avversari di Gaetano Badalameti; successivamente veniva ucciso anche Stefano Gallina, della famiglia di Antonino Badalamenti. 
Nell’agosto 1982, Gaetano Badalamenti si recava in Brasile per tentare di convincere il Buscetta ad allearsi con lui onde sconfiggere i corleonesi. Stranamente, prima dell’arrivo in Brasile del Badalamenti (che avrebbe dovuto essere segretissimo), il Salomone avvertiva telefonicamente il Buscetta che Badalamenti avrebbe cercato di contattarlo in Brasile e che ciò avrebbe comportato graviproblemi. Ed infatti, nonostante che Buscetta avesse comunicato al Badalamenti la sua indisponibilità per qualsiasi tentativo di ribaltare la situazione mediante il ricorso alla violenza, puntuale si scatenava la reazione degli avversari. 
L’11 settembre 1982, venivano fatti sparire per rappresaglia a Palermo Benedetto e Antonio Buscetta, figli di Tommaso ed il 19 novembre 1982, veniva ucciso Salvatore Badalamenti, figlio di Antonino, un ragazzo di appena diciassette anni. 
E la strage continuava il 2 giugno 1983 con l’uccisione a Marsala, di Silvio Badalamenti, nipote di Gaetano, sul conto del quale l’istruttoria non aveva consentito di accertare alcun coinvolgimento nelle imprese dello zio. Successivamente, il 21 novembre 1983, veniva ucciso nell’ospedale di Carini dove era ricoverato, un fedelissimo di Gaetano Badalamenti, Natale Badalamenti e il febbraio 1984, veniva ucciso in Germania il figlio di quest’ultimo, Agostino. 
Il Buscetta ha riferito di non aver incontrato né il Brasile, né altrove Giovannello Greco e non vi è motivo per dubitare dell’attendibilità di tale affermazione. È sicuro però che Giovannello Greco si è recato in Brasile in quanto è stato accertato che a fine marzo 1984, è partito da Rio de Janeiro in aereo, diretto a Madrid sotto il falso nome di Perez Silva. Certamente questa sua partenza è collegata con quella di Gaetano Badalamenti ove si consideri che nei primi giorni dell’aprile 1984, quest’ultimo è stato arrestato a Madrid, proveniente da Rio. 

1982-1983: LA CARNEFICINA CONTINUA VINCENTI E PERDENTI UN MARE DI SANGUE IN CAMBIO DEL POTERE   Sembra certo, comunque, che Giovannello Greco e Badalamenti meditassero una clamorosa azione contro i loro avversari. Già dalle dichiarazioni di Stefano Calzetta risulta che il 25 dicembre 1982, vi era stata una “rufiata” ai Ciaculli e, cioè, che Giovanneto Greco e Giuseppe Romano inteso “l’americano” avevano sparato a Pino Greco “scarpazzedda” senza riuscire ad ucciderlo. La reazione era immediata e di una ferocia inaudita. “Il 26 dicembre 1982 (e, cioè, il giorno successivo) venivano uccisi Ficano Gaspare e Michele (Fratello e padre della convivente Giovannello Greco) e, con la stessa arma, Genova Giuseppe, D’Amico Antonio e D’Amico Orazio (rispettivamente genero e nipoti di Tommaso Buscetta) e, il 29 dicembre 1982, Buscetta Vincenzo e Benedetto di Vincenzo (rispettivamente, fratello e nipote di Tommaso Buscetta), infine, l’8 febbraio 1983, venivano uccisi a Fort Lauderdale (Miami) Romano Giuseppe (l’americano) e Tramontana Giuseppe. Il Buscetta ha sostenuto, con dovizia di argomenti, di essere estraneo al tentativo di omicidio contro Pino Greco “scarpazzedda” e le sue argomentazioni sembrano plausibili; è ovvio, tuttavia, che i suoi avversari si fossero formati un convincimento opposto a causa della presenza fra gli attentatori di Romano Giuseppe, amico di Giuseppe Tramontana, da tempo collegato al Buscetta in indagini giudiziarie. “Di altri omicidi hanno parlato Vincenzo Sinagra e Stefano Calzetta e le loro dichiarazioni, riscontrate attendibili in numerosi punti di decisiva importanza, sono state più volte vagliate dal tribunale della libertà con esito positivo. Qui va ricordato un altro importante elemento di riscontro delle dichiarazioni del Sinagra, acquisito recentemente: nel luogo da lui indicato, dove venivano consumati gli omicidi per soffocamento ordinati e spesso eseguiti da Filippo Marchese, è stata rinvenuta una corda nella quale sono state riscontrate, con apposita perizia, formazioni pilifere di natura umana, appartenenti a tre diverse persone. 
Va sottolineato, altresì, che le dichiarazioni del Calzetta e del Sinagra, rese da persone cioè che occupavano un gradino molto basso nella gerarchia mafiosa della famiglia di corso dei Mille (il Calzetta addirittura ne era ai margini), non potevano che riguardare prevalentemente fatti della loro “famiglia” da essi vissuti o notati direttamente. “Gli omicidi su cui hanno riferito Calzetta e Sinagra, riguardano: 1) Ambrogio Giovanni (11marzo1981) 2) Benfante Giovanni (5 febbraio 1983) 3) Calabria Agostino (9 ottobre 1981) 4) Mineo Filippo (4 ottobre 1982) 5) Sciardelli Giulio (24 agosto 1982) 6) Scalici Gaetano (19 ottobre 1982) 7) Lo Iacono Carmelo (6.6.1982) 8) Buscemi Rodolfo e Rizzuto Matteo (26 maggio 1982) 9) Buscemi Giuseppe (tentato omicidio) (5.4-1976) 10) Buscemi Salvatore (5.4.1976) 11) Fallucca Giovanni e Lo Verso Maurizio (1 agosto 1981) 12) Fiorentino Orazio (6 settembre 1981) 13) Finocchiaro Giuseppe (24 settembre 1981) 14) Giaccone Paolo (11 agosto 1982) 15) Gennaro Diego (12 aprile 1981) 16) Ingrassia Domenico (31 luglio 1981) 17) Manzella Cesare e Pedone Ignazio (7 agosto 1982) 18) Migliore Antonino (2 giugno 1982) 19) Peri Antonino (6 giugno 1982) 20) Ragona Pietro (27 luglio 1982) 21) Tagliavia Gioacchino (28 agosto 1981) 22) Pinello Francesco (7 agosto 1982) 23) Sparacello Giacomo (1 agosto 1981) 24) Mazzola Paolo (6 febbraio 1982).
Per tali omicidi – nella maggior parte attinenti a vicende interne della “famiglia” di Corso dei Mille – è sufficiente richiamarsi a quanto già si è esposto nelle motivazioni dei relativi provvedimenti di cattura, essendo questo mandato, per la parte che riguarda tali delitti, meramente riepilogativo. “Occorrono, però, le seguenti precisazioni. “Per l’omicidio di Buscemi Rodolfo e Rizzuto Matteo, va attribuita la responsabilità anche ad Argano Gaspare, giuste le ulteriori attendibili precisazioni dell’imputato Sinagra Vincenzo. “Una particolare attenzione merita l’omicidio del prof. Paolo Giaccone, stimatissima figura di professionista, che è stato ucciso soltanto perché incaricato di svolgere dall’Autorità Giudiziaria una perizia sulle impronte papillari rinvenute nell’autovettura utilizzata dagli esecutori dell’omicidio di Valvola Onofrio ed altri; da tali perizie sono emersi sicuri elementi di identificazione per Marchese Giuseppe, figlio di Vincenzo.
L’omicidio del Prof. Giaccone appare particolarmente significativo perché dimostra, da un lato, il grado di abiezione morale raggiunto da “cosa nostra” e dalla “famiglia” di Filippo Marchese, dall’altro, ove ve ne fosse stato bisogno, la terribile efficacia intimidatrice di questa organizzazione, che non ha esitato ad uccidere un galantuomo nel tentativo di evitare la giusta punizioni per i biechi assassinii commessi. “Nel corso della presente istruttoria un altro valoroso medico-legale, cui era stato affidato l’espletamento di un incarico peritale, è stato gravemente minacciato sì da indurre questo ufficio, per evidenti motivi di opportunità, a sostituirlo con altro professionista non residente a Palermo. Lo stesso professionista aveva subito analoghe minacce nel corso di espletamento di altro incarico peritale affidatogli durante l’istruttoria relativa all’omicidio del capitano Basile. 
Di altri omicidi conviene trattare separatamente, per la peculiarità dei moventi che li sorreggono: A) “Sull’omicidio del maresciallo Sorino ucciso a San Lorenzo (Palermo) il 10 gennaio 1974, Tommaso Buscetta ha rivelato che Filippo Giacalone, capo di quella famiglia ed accusato del delitto, aveva riferito a Stefano Bontate, essendo entrambi in stato di detenzione, di essere completamente estraneo al crimine e che, una volta rimesso in libertà, avrebbe accertato chi ne era l’autore. Poi, durante la permanenza a Palermo nel 1980, Stefano Bontate gli aveva detto di aver appreso da Filippo Giacalone che esecutore materiale del delitto era stato Leoluca Bagarella su mandato dei Corleonesi; ciò, secondo il Bontate, era un altro dei gravissimi affronti fatti dai corleonesi e l’uccisione del Sorino, compiuta nel territorio del Giacalone, aveva lo scopo di mettere in difficoltà quest’ultimo con l’Autorità Giudiziaria in modo da renderne possibile la sostituzione. Trattasi della solita, collaudata tattica dei corleonesi per consentire di eliminare un personaggio che essendo troppo vicino a Stefano Bontate e controllando una parte strategica della Piana dei Colli, impediva il pieno dominio della zona ai corleonesi ed ai loro alleati. Ed è un fatto che, nel 1981, Filippo Giacalone è scomparso anche sei suoi familiari sostengono inattendibilmente di sentirlo telefonicamente, ogni tanto. B) “Gli omicidi di Antonino e Carlo Sorci (12 aprile 1983) e di Francesco Sorci (5 giugno 1983), traggono la motivazione in fatti risalenti a tempi ormai lontani e dimostrando il grado di corrività e l’inesauribile sete di vendetta dei corleonesi, in una con lo stato di soggezione e di supina acquiescenza di tutta la commissione ai voleri di questi ultimi. 
Nino Sorci era stato socio di una società finanziaria (Isep, poi denominata Cofisi) insieme con Angelo Di Carlo, inteso il “capitano”, originario di Corleone; Luciano Leggio, sostenendo che il Di Carlo era uno sbirro, pretendeva dal medesimo il pagamento della “tangente”, fin quando il Di Carlo, stanco delle angherie del Leggio, ne informava il socio Nino Sorci, il quale otteneva l’intervento del capo della commissione di allora, Greco Salvatore detto “cicchitteddu”; questo ultimo ingiungeva al Leggio né molestare il Di Carlo e, sia pure a malincuore, doveva obbedire. Questo è l’unico motivo, secondo il Buscetta, che poteva indurre i corleonesi a eliminare i Sorci, che si erano mantenuti rigorosamente neutrali nello scontro in questione. Comunque, è certo che l’uccisione dei suddetti Sorci – uno dei quali era rappresentante della famiglia di Villagrazia e l’altro capo mandamento – non poteva che essere decisa da tutta la commissione. C) “Sugli omicidi di Alfio Ferlito e dei cc. di scorta e di Carlo Alberto dalla Chiesa e della moglie e dell’agente Domenico Russo, e già nel mandato di cattura del 9 luglio 1983 contro Greco Michele ed altri, erano state esposte le risultanze istruttorie, anche dinatura obiettiva (perizia balistica), che dimostravano come gli stessi autori degli omicidi di Inzerillo e Bontate fossero responsabili anche di questi assassinii, motivati, il primo, da un contrasto fra Ferlito e Santapaola, il quale, collegato coi corleonesi, aveva ottenuto dalla mafia palermitana l’eliminazione del suo avversario e, quindi, aveva restituito il favore cooperando nell’eliminazione di Dalla Chiesa. 
Tali considerazioni, in oltre un anno di approfondita istruttoria, hanno ricevuto importanti conferme (si ricordino le confidenze fatte a Bou Chebel Ghassan da Rabito a Scarpisi, i quali, nel richiedere la fornitura di armi per i Greco, sostenevano che vi era il bisogno di cambiare le stesse per ogni omicidio; evidentemente, i risultati della perizia sulle armi avevano impartito la lezione!); in ultimo, le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, anche sul punto estremamente precise, hanno fornito validissimo riscontro delle prove già acquisite. Tali notizie, importanti perché acquisite dal Buscetta direttamente da Gaetano Badalamenti, uno dei più profondi conoscitori dei fatti di Cosa Nostra, sono del seguente tenore: Alfio Ferlito era stato ucciso per rendere un favore a Nino Santapaola, capo della famiglia dei Catania e strettamente collegato coi corleonesi (Si ricordi che Giuseppe Calderone, precedente capo della famiglia di Catania, era, invece, collegato e compare di Giuseppe Di Cristina, nemico dichiarato dei Corleonesi e che Alfio Ferlito era strettamente legato a Salvatore Inzerillo. Attraverso l’omicidio del Ferlito, dunque, non soltanto si rendeva un favore al Santapaola, ma si eliminava un grosso personaggio mafioso che, per la sua trascorsa amicizia con Salvatore Inzerillo, era tutt’altro che favorevole allo strapotere degli avversari di quest’ultimo, che ne avevano decretato la morte. 


NELL’ESECUZIONE DEL PREFETTO FURONO IMPIEGATI I CATANESI CHE A PALERMO ERANO SCONOSCIUTI MA I CORLEONESI UCCISERO DALLA CHIESA   Dalla Chiesa era stato ucciso dai corleonesi, che avevano reagito alla sfida contro la mafia lanciata dal Prefetto di Palermo; peraltro – fatto veramente grave ed inquietante – qualche uomo politico della mafia si era sbarazzato di Dalla Chiesa divenuto troppo ingombrante. Nell’esecuzione dell’assassinio erano stati impiegati anche i catanesi perché occorrendo muoversi in pieno centro cittadino, era preferibile utilizzare, almeno in parte, volti nuovi non identificabili dei palermitani. “Come si può notare, la ricostruzione dei moventi e dei mandanti, almeno fino ad un certo livello, dell’omicidio, è stata pienamente confermata dalle suddette dichiarazioni e vengono offerti utili spunti per ulteriore approfondimento dell’istruttoria. Quello che è certo, comunque, è che l’intero gruppo di mafia che aveva eliminato Bontate ed Inzerillo è coinvolto anche negli omicidi di Ferlito e Dalla Chiesa. D) “Gli omicidi di Nunzio La Mattina (24 gennaio 1983) e del cognato Francesco Lo Nigro (15 febbraio 1983) sono da ascrivere senz’altro alla commissione.                                                                                   
Il La Mattina, membro di spicco della famiglia di Porta Nuova, era stato prima uno dei vertici del contrabbando di tabacchi, e poi, uno degli elementi di maggior spicco nel traffico di stupefacenti. Anzi, secondo il Buscetta, era stato proprio il La Mattina ad iniziare il traffico della morfina base con il medio-oriente e la creazione in Sicilia di laboratori per la produzione di eroina. 
La sua uccisione e quella del cognato, di cui finora non sono stati accertati i motivi specifici, è comunque da ascrivere a decisione della commissione, molto probabilmente per questioni ricollocabili al traffico di stupefacenti. Al riguardo, è agevole rilevare che se non vi fosse stata unanimità di consensi nell’uccisione dei due, la reazione della famiglia di Porta Nuova, diretta da Pippo Calò (alleato dei corleonesi), sarebbe stata violentissima. E tale conclusione è avvalorata dal fatto che – come ha riferito Stefano Calzetta – nell’omicidio del cognato di La Mattina, Francesco Lo Nigro, sono coinvolti Paolo Alfano e Pietro Senapa, membri della famiglia di corso dei Mille, alleata di quella di Pippo Calò. E) “Sono da ricollegare senz’altro alle vicende della “guerra di mafia” gli omicidi di Mineo Antonino (12 novembre 1981) e Mineo Giuseppe (22 maggio 1982). Gli stessi erano fratelli di Mineo Settimo, indicato dal Buscetta quale uomo d’onore della famiglia di Pagliarelli, una delle famiglie schieratesi contro Stefano Bontate, il quale, come è stato riferito dal Buscetta, nutriva profonda avversione per l’elemento di maggior spicco di tale famiglia, Antonio Rotolo, inteso Roberto. Valgono per tali omicidi le considerazioni già espresse per quelli di La Mattina e Lo Nigro e va soggiunto che, almeno nel secondo omicidio, la vittima designata era Mineo Settimo, il quale però, riusciva a sfuggire all’agguato. 
F) L’omicidio dell’agente Calogero Zucchetto, consumato il 14–11-1982, costituisce un altro crimine efferato, senz’altro addebitabile alla “commissione”. Lo Zucchetto, intelligente ed abile agente addetto alla sezione investigativa della Squadra Mobile di Palermo, aveva contribuito in modo decisivo all’arresto di Montalto Salvatore e lo aveva anche riconosciuto nel corso di pedinamenti in compagnia del famigerato Pino Greco Scarpazzedda. Ciò costituisce eloquente ulteriore dimostrazione delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta secondo cui uno dei maggiori responsabili dell’omicidio di Salvatore Inzerillo è proprio Salvatore Montalto, che lo aveva tradito per allearsi con gli avversari del predetto. Ed è sintomatica conferma delle dichiarazioni del Buscetta il fatto che il Montalto sia stato arrestato proprio in un giardino di Villabate, zona della quale è divenuto “capo famiglia” dopo l’esito vittorioso della guerra di mafia. 
In ultimo lo Zucchetto, pochi giorni prima dell’arresto del Montalto, aveva incrociato mentre era in servizio due vetture che si dirigevano verso l’abitazione del predetto, a bordo delle quali aveva riconosciuto Mario Prestifilippo e Pino Greco Scarpazzedda ed aveva riferito ad un funzionario della Squadra Mobile, che sicuramente anch’egli era stato riconosciuto a sua volta. 
È di tutta evidenza, dunque, che Lo Zucchetto è stato ucciso per il ruolo determinante da lui avuto nell’arresto di Salvatore Montalto e, senz’altro, ha influito nella decisione di ucciderlo il fatto che il predetto conoscesse bene fin dall’infanzia sia i Prestifilippo sia Pino Greco Scarpazzedda, per cui nella mentalità distorta di questi assassini, è stato giudicato come uno sgarbo intollerabile che una persona del loro stesso ambiente, non importa se agente di polizia, avesse contribuito all’arresto di un personaggio tanto importante come Salvatore Montalto. G) “Analoghe considerazioni vanno formulate per l’omicidio del cap. CC. Mario D’Aleo, consumato a Palermo il 13 giugno 1983. Questi era stato destinato al Comando della Compagnia CC. di Monreale, quella stessa, cioè, comandata dal Cap. Basile. A prescindere dai concreti elementi alla base dell’omicidio, in corso di approfondimento istruttorio, questo crimine, consumato pochissimo tempo dopo l’assoluzione dei responsabili dell’omicidio Basile e quando il capitano D’Aleo era, del pari, da poco tempo, al comando di quella compagnia, costituisce un’aperta sfida ai poteri dello Stato; forse finora non si è sufficientemente considerato che la compagnia CC. di Monreale costituisce un vero avamposto, poiché il territorio della sua giurisdizione ricomprende zone (fra cui San Giuseppe Jato ed Altofonte) che costituiscono roccaforte del potere mafioso dei corleonesi. È indubbio, dunque, che di tale omicidio debba rispondere tutta la commissione, e cioè, il gruppo mafioso prevalso nella guerra di mafia. “Da queste considerazioni sugli omicidi sopra passati in rassegna si trae la conseguenza che – a parte i delitti determinati da motivi particolari, riguardanti singole famiglie e già contestati agli imputati – tutti quelli che hanno la loro casuale nella logica di sterminio del gruppo dei fedelissimi di Bontate ed Inzerillo vanno attribuiti non soltanto alla commissione ma anche a tutti coloro che hanno conseguito maggiori poteri dalla eliminazione fisica dei predetti. “Un dato fondamentale è da tenere ben presente al riguardo; la eliminazione di un capofamiglia determina ordinariamente la reazione violentissima da parte della famiglia di appartenenza ed una lotta sanguinosa che non si conclude se non quando si ottenga la piena e completa vendetta o la famiglia non venga annientata; le vicende del 1963 sulla faida fra la famiglia di La Barbera (Palermo centro) ed il resto della commissione sono un esempio emblematico di vicende di questo tipo. “Quando, come nel caso in esame, nessuna reazione avviene da parte delle famiglie private dei propri rappresentanti, ma anzi personaggi di primo piano delle stesse acquisiscono cariche di maggior rilievo, si ha la prova indiscutibile che da parte di costoro si è consumato il più vile dei tradimenti e che gli omicidi sono stati accuratamente programmati anche col concorso dei traditori. E di fatti, contrariamente agli avvenimenti del 1963, quelli di cui ci si occupa costituiscono non già uno scontro fra opposte fazioni, ma lo sterminio, sistematicamente attuato, di tutti coloro che venivano ritenuti, a torto o a ragione, infidi e di tutta una moltitudine di persone, uccise solo per rappresaglie e, comunque, per stanare gli avversari (Salvatore Contorno, Giovannello Greco, Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti). “È doveroso, dunque, attribuire tali omicidi, non soltanto ai membri della commissione, ma anche a coloro che ne hanno tratto vantaggio, essendo sicuro il loro concorso in tali crimini; e ciò a parte ogni ulteriore positivo riscontro (e ve ne sono diversi, per esempio, per Pietro Lo Iacono e Salvatore Montalto) sulle concrete responsabilità di uno o più di costoro. 
Così, nella famiglia di Villabate è stato nominato rappresentante Salvatore Montalto, che era vice di Salvatore Inzerillo nella famiglia di Passo di Rigano e che, apparentemente, era legato a quest’ultimo da vincoli fraterni; nella famiglia di S. Maria di Gesù, alla morte di Stefano Bontate, divengono reggenti Pietro Lo Iacono e uno dei Pullarà; nella famiglia di Brancaccio, dopo la uccisione di Giuseppe Di Maggio, diviene capo Giuseppe Savoca; in quella di Uditore, dopo la bufera abbattutasi sugli Inzerillo, diviene capo Francesco Bonura, che prima era vice e lo stesso dicasi per quella di Passo di Rigano, il cui posto di capo viene preso, dopo la morte di Salvatore Inzerillo, da Salvatore Buscemi; per quella di Palermo Centro (Giovanni Corallo, grande amico di Pippo Calò, al posto di Ignazio Gnoffo); nella famiglia di Borgo Salvatore Cucuzza non solo è divenuto capo ma ha esteso la sua influenza anche su altri territori; Bono Giuseppe gode sempre maggiore prestigio e la sua famiglia non ha subito nessuna perdita e lo stesso vale per Pietro Vernengo che costituisce uno degli elementi di maggior prestigio della famiglia di S. Maria di Gesù e che, non solo non ha alzato un dito per vendicare la morte del suo capo, ma ha continuato ad intessere i suoi loschi traffici con famiglie come quella di Corso dei Mille e di Partanna, costituenti punti di forza dei corleonesi. 
Solo per mero scrupolo – e pur essendo convinti che da parte di tutti costoro vi fosse il consenso a compiere tutti i delitti ritenuti necessari o opportuni per l’eliminazione degli avversari, questo ufficio si astiene allo stato dal contestare ai singoli imputati gli omicidi commessi durante lo stato di detenzione degli stessi, permanendo un pur minimo dubbio che possono essere stati stabiliti senza il loro consenso. – 4 – 
Quanto si è finora esposto dovrebbe rendere evidente la enormità delle dimensioni e la estrema pericolosità di “Cosa Nostra”; ma è necessario effettuare altre precisazioni. Come Buscetta ha efficacemente sottolineato, non sussistono né atto costitutivo, né statuto né comunque, regole scritte di questa organizzazione, né sarà mai possibile trovare elenchi di associati, né ricevute di pagamento di quote sociali. E tuttavia si è in presenza di un’organizzazione governata da leggi ferree fra cui quella severissima dell’omertà che diventa sempre più pericolosa. “Del sorprendente inserimento di “famiglie” napoletane nella “commissione” di Palermo si è già detto; ma bisogna tenere ben presenti come altri collegamenti non meno pericolosi, fra cui quello determinato dall’Interprovinciale, di cui ha parlato Tommaso Buscetta. Ed in effetti, i riscontri di tale affermazione sono innumerevoli. Nel traffico dell’eroina i collegamenti dei catanesi di Nitto Santapaola con la famiglia mafiosa di Palermo sono sati ampiamente verificati e la dimostrazione della saldezza di tali rapporti si è avuta negli omicidi di Alfio Ferlito e del prefetto Dalla Chiesa. Sui rapporti tra i Catanesi, Giuseppe Madonna di Vallelunga, Carmelo Coletti di Ribera, Agate Mariano di Mazara del Vallo, si hanno parimenti elementi di prova inequivocabili (si vedono le dichiarazioni di Nunzio Salapia, Giuseppe Di Cristina, Bono Benedetta, gli accertamenti bancari e numerosissimi altri riscontri tra cui: l’arresto di Mariano Agate con Nitto Santapaola a Campobello di Mazara il 13.8.1980, la presenza di Gambino Giacomo Giuseppe e di Armando Bonanno a Castelvetrano nel 1977 in compagnia di pregiudicati locali). 
Non ci vuol molto, dunque, per rendersi conto che non si è più in presenza di quelle “spontanee germinazioni” di mafia di cui talora (per fortuna sempre meno frequentemente) si è favoleggiato, né di contatti sporadici e casuali fra organizzazioni con ambito di operatività locale, come è stato confermato dal Buscetta, di stabili collegamenti fra i vari rami di cosa nostra, con funzione trainante da parte della commissione di Palermo. 
 Il traffico di stupefacenti, poi, ha costituito una spinta formidabile per rinsaldare i vincoli preesistenti e per crearne di nuovi.  dal dossier Mafia di Repubblica del 3 ottobre 1984


 

 AUDIO DEPOSIZIONI AI PROCESSI

Processo Via D’Amelio – video archivio Youtube

AUDIO DEPOSIZIONI AI PROCESSI

 I PROCESSI BORSELLINO

La richiesta della Procura generale di Caltanissetta (13/10/2011)

La Procura di Caltanissetta, diretta da Sergio Lari, ha poi chiesto l’emissione di quattro ordinanze di custodia cautelare, riguardanti il capomafia pluriergastolano Salvino Madonia (è accusato di aver partecipato nel dicembre 1991 alla riunione della Cupola in cui si decise l’avvio della strategia stragista), i boss Vittorio Tutino e Salvatore Vitale (il primo rubò con Spatuzza la 126 per la strage; il secondo abitava nel palazzo della madre di Borsellino, in via d’Amelio, e avrebbe fatto da talpa agli stragisti). Un quarto provvedimento ha riguardato il pentito Calogero Pulci, era l’unico in libertà: è accusato di calunnia aggravata, perché con le sue dichiarazioni avrebbe finito per fare da riscontro al falso pentito Vincenzo Scarantino.
La richiesta di misura cautelare presentata dalla Procura di Caltanissetta
Scarica l’indice del documento

L’ordinanza del gip di Caltanissetta Alessandra Giunta (2/3/2012):
Parte Prima
Parte Seconda

Parte Terza

Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza – Il racconto di Spatuzza è dettagliato: dopo gli opportuni riscontri svolti dal centro operativo Dia di Caltanissetta, i magistrati hanno avuto chiari i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. E’ rimasto il mistero su un uomo che il giorno prima della strage avrebbe partecipato alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sulla 126, in un garage di via Villasevaglios, a Palermo. Spatuzza non lo conosce, i magistrati sospettano che possa essere un appartenente ai servizi segreti.
Interrogatorio del 3/7/2008 (riguardante anche la strage Falcone)
Interrogatorio del 17/9/2009
Interrogatorio del 22/6/2010
 (è allegata una lettera-appello di Spatuzza al boss Pietro Aglieri)
Interrogatorio del 3/5/2011

L’autodifesa dello 007 Lorenzo Narracci – E’ stato indagato per concorso in strage, i pm di Caltanissetta hanno sospettato che fosse lui il misterioso uomo nel garage di via Villasevaglios, ma il pentito Spatuzza non l’ha riconosciuto.
L’audizione di Narracci davanti ai pm di Caltanissetta

La confessione dei falsi pentiti
Il racconto di Spatuzza sugli esecutori della strage di via d’Amelio è stato confermato soprattutto dalla confessione di chi si era accreditato come collaboratore di giustizia attendibile, depistando le indagini sull’eccidio del 19 luglio 1992. E’ una confessione drammatica, che parla di abusi e violenze subite da alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine, per costruire una verità di comodo.
Interrogatorio di Vincenzo Scarantino (28/9/2009)
Interrogatorio di Francesco Andriotta (17/7/2009)
Interrogatorio di Salvatore Candura (10/3/2009)

Il perché di un errore giudiziario
Un errore madornale, fatto per l’ansia di trovare un colpevole, o un depistaggio costruito ad arte? I magistrati di Caltanissetta hanno esplorato tutte le ipotesi. Un’ombra inquietante è nella nota inviata dall’Aisi alla procuratore Lari, che riferisce di una collaborazione con i servizi segreti intrattenuta in passato dal dirigente Arnaldo La Barbera, il coordinatore del gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”.
La nota dell’Aisi sul questore La Barbera

Le dichiarazioni del nuovo pentito Fabio Tranchina
Quando le indagini su via d’Amelio erano ormai a una svolta, la Dia è riuscita a far collaborare l’ex autista di Giuseppe Graviano, Fabio Tranchina, che conosce molti dei retroscena delle stragi voluta da Cosa nostra.
Interrogatorio del 16/4/2011
Interrogatorio del 21/4/2011

Interrogatorio del 22/4/2011
Interrogatorio del 3/5/2011

La scena del crimine
I magistrati di Caltanissetta hanno chiesto alla polizia scientifica di ricostruire minuziosamente la scena di via d’Amelio, dove si consumò la strage Borsellino, per cercare di individuare la genesi del depistaggio istituzionale, ma anche per evidenziare ulteriori riscontri alla verità offerta dal pentito Spatuzza.
Relazione della polizia scientifica sulla scena di via d’Amelio

  • Ordinanza GIP 1 [29]
  • Ordinanza GIP 2 [30]
  • Ordinanza GIP 3 [31]
Data Processo Grado di giudizio
4 ottobre 1994 Inizia il Processo Borsellino primo Primo grado
27 gennaio 1996 Sentenza del Processo Borsellino primo Primo grado
21 ottobre 1996 Inizia il Processo Borsellino bis Primo grado
15 luglio 1997 Inizia il Processo Borsellino primo Appello
28 gennaio 1998 Inizia il Processo Borsellino ter Primo grado
23 gennaio 1999 Sentenza del Processo Borsellino primo Appello
13 febbraio 1999 Sentenza del Processo Borsellino bis Primo grado
9 dicembre 1999 Sentenza del Processo Borsellino ter Primo grado
18 dicembre 2000 Sentenza del Processo Borsellino primo Cassazione
25 dicembre 2000 Sentenza del Processo Borsellino ter Appello
18 marzo 2000 Sentenza del Processo Borsellino bis Appello
18 gennaio 2003 Sentenza del Processo Borsellino ter Cassazione
3 luglio 2003 Sentenza del Processo Borsellino bis Cassazione
9 luglio 2003 Inizia il Processo stragi Capaci/Via d’Amelio Primo grado
21 aprile 2006 Sentenza del Processo stragi Capaci/Via d’Amelio Primo grado
18 settembre 2008 Sentenza del Processo stragi Capaci/Via d’Amelio Cassazione
22 marzo 2013 Inizia il Processo Borsellino quater Primo Grado
20 aprile 2017 Sentenza del Processo Borsellino quater Primo Grado

 

«Cosa nostra» (nel linguaggio comune genericamente detta mafia siciliana o semplicemente mafia) è un’espressione utilizzata per indicare un’organizzazione criminale di tipo mafiosoterroristico[1] presente in Italia, soprattutto in Sicilia e in più parti del mondo. Questo termine viene oggi utilizzato per riferirsi esclusivamente alla mafia di origine siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d’America, dove viene identificata come Cosa nostra statunitense, sebbene oggi entrambe abbiano diffusione a carattere internazionale), per distinguerla dalle altre associazioni ed organizzazioni mafiose. Gli interventi di contrasto da parte dello Stato italiano si sono fatti più decisi a partire dagli anni ottanta del XX secolo, attraverso le indagini del cosiddetto “pool antimafia” creato dal giudice Rocco Chinnici e in seguito diretto da Antonino Caponnetto. Facevano parte del pool anche i magistrati Giuseppe Di LelloLeonardo GuarnottaGiovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dalle origini al Regno delle Due Sicilie   significato criminale conosciuto oggi «Cosa nostra» nacque probabilmente nei primi anni del XIX secolo dal ceto sociale dei massari, dei ‘fattori’ e dei gabellotti, che gestivano i terreni della nobiltà siciliana, avvalendosi dei braccianti che vi lavoravano, anche se in verità potrebbe essere molto più antica, dato che il feudo con tutto ciò che ne consegue, esiste in Sicilia fin dall’epoca normanna. Cosa nostra, nacque perché fu da sempre sistema di potere e integrato con il potere politico-economico ufficiale vigente, iniziando così ad assumerne per suo conto le funzioni e le veci[2][3][4] Una delle prime descrizioni (la prima di un certo rilievo) del fenomeno fu nel 1838 in un documento redatto in Sicilia dal funzionario del Regno delle Due SiciliePietro Calà Ulloa, che a proposito del fenomeno scrisse:

L’unità d’Italia  Nel 1863 Giuseppe Rizzotto scrive, con la collaborazione del maestro elementare Gaspare Mosca, I mafiusi de la Vicaria, un’opera teatrale in siciliano ambientata nelle Grandi Prigioni di Palermo[8] che aveva come protagonisti un gruppo di detenuti che godevano «di uno speciale rispetto da parte dei compagni di prigione perché mafiosi, membri come tali di un’associazione a delinquere, con gerarchie e con specifiche usanze, tra le quali veri e propri riti di iniziazione»[5]. È a partire da questo dramma, che ebbe grande successo e venne tradotto in italianonapoletano e meneghino, che il termine mafia si diffonde su tutto il territorio nazionale[9]. Lo sviluppo della criminalità organizzata in Sicilia si ha anche dopo l’Unità d’Italia. Lo Stato italiano, non riusciva a garantire un controllo diretto e stabile del governo dell’isola (la cui organizzazione sociale era molto diversa da quella settentrionale); funzionari statali cominciarono a fare affidamento sulle cosche mafiose che, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale[5]. Tuttavia, con il pretesto di proteggere gli agricoltori e contadini dal malgoverno feudale e dalla nobiltà, i mafiosi costrinsero gli agricoltori a pagare gli interessi per il contratto di locazione e a mantenere l’omertà[5]. La prima analisi esaustiva in cui venne espressamente usato il termine mafia fu compiuta nel 1876 da Leopoldo Franchetti, dopo la celebre inchiesta compiuta insieme a Sidney Sonnino, che venne pubblicata con il titolo Condizioni politiche e amministrative della Sicilia.Uno dei più clamorosi processi di quegli anni fu quello tenutosi nel 1885 contro gli affiliati alla “Fratellanza di Favara“, una cosca mafiosa operante nella provincia di Agrigento che aveva un rituale di iniziazione, il quale avveniva pungendo l’indice dei nuovi membri per poi tingere con il sangue un’immagine sacra, che veniva bruciata mentre l’iniziato recitava una formula di giuramento[10]: tale cerimonia di affiliazione era tipica delle cosche mafiose di Palermo, a cui numerosi membri della “Fratellanza” erano stati affiliati nel 1879, durante la prigionia con mafiosi palermitani nel carcere di Ustica[11]. Nel 1893, in seguito al delitto Notarbartolo, l’esistenza di Cosa nostra (e dei suoi rapporti con la politica) divenne nota in tutta Italia[12].I gabellotti[6] rappresentavano il gruppo sociale nuovo nelle campagne siciliane del primo Ottocento. Essi erano i discendenti dei “servi” del feudatario e provenivano dalla corte dei signori; alcuni – pochi – fra essi guadagnavano tanto da arrivare a comprare interi feudi o parti di cui il signore si liberava; fra di loro nacquero i “baroni“, che, con la terra, compravano il titolo dai feudatari in difficoltà economiche. Erano in stragrande maggioranza “capitalisti” ma non proprietari, perché la terra era ancora in mano ai nobili; i gabellotti possedevano il denaro contante, le sementi, le macchine agricole, il bestiame; soprattutto dalle loro file uscivano i preti, gli avvocati, i medici. Erano in prima linea, insieme coi nobili, in quella usurpazione e occupazione delle terre demaniali e degli usi civici che i contadini patiranno senza avere le armi per opporsi. Era loro necessaria una violenza privata: qualcuno che sorvegliava l’andamento dei lavori, qualcuno che riscuoteva gli affitti anche con la forza, qualcuno che proteggeva fisicamente la terra; le guardie dei gabellotti, anche dai titoli, richiamavano funzioni della vecchia feudalità: curatoli, campieri e via dicendo. Gabellotti e loro dipendenti erano gli unici a cavallo ed armati nelle campagne siciliane. I gabellotti segnarono il passare del tempo nelle arcaiche comunità agrarie della Sicilia: avevano un potere enorme, fare e disfare matrimoni, dare e togliere lavoro. Dentro il feudo, ma sotto tutti – e proprio quasi dentro gli inferi – stavano i braccianti “senza fuoco, né tetto”, figli dell’abolizione della servitù della gleba iniziata nel 1781, o, nella sola Palermo, “40.000 proletari la cui sussistenza dipendeva dal caso o dal capriccio dei Grandi”: una plebe cioè dalla miseria infinita quanto infinito è lo sfruttamento che le classi superiori esercitavano. In città, l’ordine pubblico era assicurato dai gendarmi del re; tradizionale diventerà per i Borboni anche l’impiego e l’arruolamento di “malandrini” dentro la polizia, in quanto essi – cosa non sconosciuta alla Francia di Luigi Filippo – erano considerati i più adatti per arrestare i malandrini ufficiali: si tratta di una polizia molto violenta e odiata, che non usava mezze misure e che aveva rapporti “diretti” con la malavita; essa diventerà ancora più occhiuta quando i Borboni le chiederanno di sorvegliare “i politici”. In campagna imperversavano “i briganti“, nei cui ranghi confluivano i contadini inferociti dalla fame e ribelli alla loro miseria. Contro i briganti, i signori usavano “i bravi”, cioè quei loro servi bravi e addestrati nell’uso delle armi. Nel 1812 i Borboni abolirono la feudalità in Sicilia, ma stabilirono – sicuramente su imposizione dei nobili siciliani – che “tutte le proprietà, diritti e pertinenze in avanti feudali” rimanessero “giuste le rispettive concessioni” in proprietà “allodiali”, cioè in proprietà economiche individuali. Quindi il feudo, nonostante altre misure legislative del 1838, resterà in vita fino al 1860, quando nel nuovo Regno d’Italia la terra della Sicilia occidentale (PalermoTrapaniAgrigento) per il 90 per cento risulterà ancora in mani feudali. Fino al 1860, dunque, i gabellotti furono il perno dell’economia quasi esclusivamente agricola della Sicilia occidentale. In tutti questi anni, anche all’interno di una dipendenza “personale” dal signore feudale, i gabellotti seppero consolidare la loro posizione sociale, perché provvidero a tramandare all’interno delle loro famiglie e i redditi e lo stesso mestiere di gabellotto. Sempre nel 1812 i feudatari siciliani imposero al Borbone di Napoli di istituire “Compagnie d’armi” per stanare i briganti nelle campagne. Le Compagnie erano gruppi, armati e a cavallo, di privati che non facevano parte di una polizia ufficiale; essi venivano reclutati sul posto e quindi provenivano o dai bravi o dalle guardie dei gabellotti, conservandosi sotto le personali influenze dei nobili e dei gabellotti stessi. Nelle campagne siciliane sotto i Borboni si fronteggiavano tre “eserciti”: i briganti, le Compagnie d’armi, i gabellotti e i loro uomini che più direttamente proteggevano “i burgesi”, cioè gli abitanti del borgo. I rapporti fra questi tre gruppi armati furono contemporaneamente di conflitto e di comunione d’interessi; agli ammazzamenti generali si alternavano l’acquisto di bestiame e di merce rubata che il gruppo dei gabellotti faceva dai banditi; la non aggressione che i compagni d’arme garantivano ad alcune comunità previo pagamento anticipato di una congrua somma; l’incarico che poteva essere contratto con i briganti di andare a fare razzie e atti di terrorismo in altre zone e magari specificamente contro quel feudo o quel proprietario, in maniera che da quella aggressione il mandante occulto avesse i suoi vantaggi; i sequestri di persona che ai briganti fornivano lauti riscatti in denaro contante. E questa situazione generale fu tanto forte e radicata che anche i feudatari la subirono sulla propria pelle e sui propri beni. Già prima del 1840 i Borboni – signori di una “monarchia amministrativa” simile al regime asburgico – furono apertamente e specificamente informati di situazioni ormai cronicizzate. Lodovico Bianchini – alto e colto funzionario borbonico – avvertì Napoli che nelle campagne siciliane quasi tutti i proprietari pagavano “le componende”, una cifra annuale per tenere calmi i banditi. Pietro Calà Ulloa, procuratore del re a Trapani, avvisò Napoli che “vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze – specie di sette – che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente là un arciprete. Una cassa sovviene ai bisogni di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo”. In questa situazione, allora, di mafia ce n’è tanta nella Sicilia prima dell’Unità. Ma gli stessi gabellotti – pure se alcuni fra essi entrarono nel ceto dei “cavaleri”, di quelli che non si sporcano le mani per campare – non ebbero mai nella Sicilia di quegli anni uno sbocco pubblico e restarono “sotto” i feudatari e i nobili siciliani, che conservavano nelle loro mani a Palermo tutto il potere ufficiale o ufficioso, sia con incarichi governativi, sia agendo come gruppi di pressione sul viceré o contro i Borboni. Ma – come ha osservato lo storico Virgilio Titone – questi nobili e i borghesi loro assimilati fecero politica con sistemi particolari. All’ombra di studi anche pregevoli, o di incontri e discussioni accanitissime da cui sortivano “programmi e proclami”, i nobili siciliani non nascosero mai la paternità dei loro movimenti politici e coraggiosamente presero, dai Borboni, carcere e morte. Ma i nobili rifiutarono sempre di sporcarsi le mani nell’esecuzione materiale dei loro propositi. Così, nel 1860 i giovani nobili siciliani aiutarono in maniera decisiva Garibaldi, ma rimbrottarono aspramente “i sensali di cavalli” che, arruolati dagli stessi nobili, chiedevano se anche i signori sarebbero scesi in piazza.[7]

Le rivendicazioni agricole  Cartina della Sicilia dei primi anni del Novecento che mostra la densità mafiosa dei comuni siciliani

Anche se non più con un regime feudale, nelle campagne siciliane gli agricoltori erano ancora sfruttati. I grandi proprietari terrieri risiedevano a Palermo o in altre grandi città e affittavano i loro terreni a gabellotti con contratti a breve termine, che, per essere redditizi, costringevano il gabellotto a sfruttare i contadini. Per evitare rivolte e lavorare meglio, al gabellotto conveniva allearsi con i mafiosi, che da un lato offrivano il loro potere coercitivo contro i contadini, dall’altro le loro conoscenze a Palermo, dove si siglavano la maggioranza dei contratti agricoli[13].

A partire dal 1891 in tutta la Sicilia gli agricoltori si unirono in fasci, sorta di sindacati agricoli guidati dai socialisti locali, chiedendo contratti più equi e una distribuzione più adeguata della ricchezza. Non si trattava di movimenti rivoluzionari in senso stretto ma essi furono comunque condannati dal governo di Roma che, nella persona di Crispi, nel 1893 inviò l’esercito per scioglierli con l’uso della forza. Giuseppe de Felice Giuffrida, considerato il fondatore dei fasci siciliani, venne processato e imprigionato. Poco prima che fossero sciolti, la mafia aveva cercato di infilare alcuni suoi uomini in queste organizzazioni in modo che, se mai avessero avuto successo, essa non avrebbe perso i suoi privilegi; continuò però anche ad aiutare i gabellotti cosicché, chiunque fosse uscito vincitore, essa ci avrebbe guadagnato fungendo da mediatrice tra le parti[14].

Quando fu chiaro che lo Stato sarebbe intervenuto con la legge marziale, la “Fratellanza“, detta anche “Onorata Società” (due dei termini usati all’epoca per identificare Cosa nostra), si distaccò dai fasci (che avevano tentato in tutti i modi di evitare la penetrazione di mafiosi nelle loro file, spesso riuscendoci) e anzi aiutò il governo nella sua repressione. Come “vendetta” per l’azione dei Fasci, che voleva mettere in discussione il potere dei latifondisti, nel 1915 a Corleone i mafiosi uccisero Bernardino Verro, che era stato tra i più accesi animatori del movimento dei Fasci siciliani negli anni novanta del XIX secolo.

Durante la presidenza di Giovanni Giolitti si permise alle cooperative di chiedere prestiti alle banche e di intraprendere da sole, senza gabellotti, contratti diretti coi proprietari terrieri. Questo, insieme alla nuova legge elettorale del suffragio universale maschile, portò non solo alla vittoria di diversi sindaci socialisti in varie città siciliane, ma anche all’eliminazione del ruolo mafioso nella mediazione per i contratti. Tuttavia “con Giolitti la mafia, assieme ai poteri forti (massoneria deviata, vecchia aristocrazia, borghesia eroica), monopolizzò tutta la vita economica e politica dell’isola, infatti gli appalti ed i finanziamenti alle imprese industriali e agrarie erano pilotati, così come le elezioni politiche ed amministrative”[5].

Per stroncare il pericolo “rosso”, la mafia dovette allearsi con la Chiesa cattolica siciliana[15], anch’essa preoccupata per gli sviluppi dell’ideologia marxista materialista nelle campagne. Le cooperative cattoliche quindi non si chiusero ad infiltrazioni mafiose, a patto che questi ultimi scoraggiassero in tutti i modi i socialisti. Nel primo quindicennio del Novecento si iniziarono a contare le prime vittime socialiste ad opera della mafia, che assassinava sindaci, sindacalisti, preti, attivisti e agricoltori indisturbatamente[16]. Il tema delle terre negate ai contadini resterà uno dei principali motivi di scontro sociale in Sicilia fino al secondo dopoguerra.

Il rapporto Sangiorgi Al fine di contrastare il fenomeno, venne inviato in Sicilia Ermanno Sangiorgi, in veste di questore a Palermo nel 1898 mentre era in corso una guerra di mafia, iniziata due anni prima, nel 1896[17]. Indagando sui delitti commessi dalle cosche della Conca d’Oro, Sangiorgi capì che gli omicidi non erano il prodotto di iniziative individuali, ma implicavano leggi, decisioni collegiali, e un sistema di controllo territoriale. Sangiorgi scoprì inoltre che le due famiglie più ricche di Palermo, i Florio e i Whitaker, vivevano fianco a fianco con i mafiosi della Conca d’Oro, che venivano assunti come guardiani e fattori nelle loro tenute e pagati per ricevere “protezione[18].

Nell’ottobre 1899 Francesco Siino, capo della cosca di Malaspina sfuggito miracolosamente a una sparatoria tesagli dagli uomini di Antonino Giammona, capo della cosca dell’Uditore, nel contesto dalla guerra di mafia, venne messo alle strette da Sangiorgi e confessò che il suo avversario Giammona gli contendeva i racket del commercio di limoni, delle rapine, delle estorsioni e della falsificazione delle banconote. Inoltre dichiarò che la Conca d’Oro era divisa in otto cosche mafiose:

  1. Piana dei Colli,
  2. Acquasanta,
  3. Falde,
  4. Malaspina,
  5. Uditore,
  6. Passo di Rigano,
  7. Perpignano,

Sangiorgi, in base a queste dichiarazioni, firmò molti mandati di cattura. La notte tra il 27 e il 28 aprile 1900 la Questura fece arrestare diversi mafiosi, tra cui Antonino Giammona. Alla procura di Palermo, Sangiorgi inviò un rapporto di 485 pagine che conteneva una mappa dell’organizzazione della mafia palermitana con un totale di 280 “uomini d’onore”. Il processo cominciò nel maggio 1901 ma Siino ritrattò completamente le sue dichiarazioni. Dopo solo un mese, giunsero le condanne di primo grado: soltanto 32 imputati furono giudicati colpevoli di aver dato vita a un’associazione criminale e, tenuto conto del tempo già trascorso in carcere, molti furono rilasciati il giorno dopo[19].

La prima guerra mondiale e le sue conseguenze

Nel 1915 l’Italia entrò nella prima guerra mondiale; vennero chiamati alle armi centinaia di migliaia di giovani da tutto il paese. In Sicilia i disertori furono numerosi: essi abbandonarono le città e si dettero alla macchia all’interno dell’isola, vivendo per lo più di rapine. A causa della mancanza di braccia per l’agricoltura e della sempre maggiore richiesta di soldati dal fronte, moltissimi terreni vennero adibiti al pascolo.

Queste due condizioni fecero aumentare enormemente l’influenza di Cosa nostra in tutta l’isola[5]. Aumentati i furti di bestiame, i proprietari terrieri si rivolsero sempre più spesso ai mafiosi, piuttosto che alle impotenti autorità statali, per farsi restituire almeno in parte le mandrie. I boss, nei loro abituali panni, si prestavano a mediare tra i banditi e le vittime, prendendo una percentuale per il loro lavoro.

Alla fine della prima guerra mondiale, l’Italia dovette affrontare un momento di crisi, che rischiò di sfociare in una vera e propria rivolta popolare, ad imitazione della recente rivoluzione russa. Al nord gli operai scioperarono chiedendo migliori condizioni di lavoro, al sud sono i giovani appena tornati a casa a lamentarsi per le promesse non mantenute dal governo (in particolar modo quelle relative alla terra). Moltissimi quindi andarono ad ingrossare le file dei banditi, altri entrarono direttamente nella mafia e altri ancora cercarono di riformare i fasci o comunque parteciparono ai consigli socialisti siciliani. Fu in questo clima di tensione che il fascismo fece la sua comparsa.

Il fascismo iniziò una campagna contro i mafiosi siciliani, subito dopo la prima visita di Mussolini in Sicilia nel maggio del 1924. Il 2 giugno dello stesso anno venne inviato in Sicilia Cesare Mori, prima come prefetto di Trapani, poi a Palermo dal 22 ottobre 1925, soprannominato il Prefetto di ferro, con l’incarico di sradicare la mafia con qualsiasi mezzo. L’azione del Mori fu dura. Centinaia e centinaia furono gli uomini arrestati e finalmente condannati. Celebre è l’assedio di Gangi in cui Mori assediò per quattro mesi il centro cittadino, in quanto esso era considerato una delle roccaforti mafiose.

In questo periodo venne arrestato il boss Vito Cascio Ferro. Dopo alcuni arresti eclatanti di capimafia, anche i vertici di Cosa nostra non si sentivano più al sicuro e scelsero due vie per salvarsi: una parte emigrò negli USA, andando ad ingrossare le file di Cosa nostra statunitense, mentre un’altra restò in disparte. Il “prefetto di ferro” scoprì anche collegamenti con personalità di spicco del fascismo come Alfredo Cucco, che fu espulso dal PNF.

Nel 1929 Mori fu nominato senatore e collocato a riposo. I limiti della sua azione fu lui stesso a riconoscerli in tempi successivi: l’accusa di mafia veniva spesso avanzata per compiere vendette o colpire individui che nulla c’entravano con la mafia stessa, come fu con Cucco e con il generale Antonino Di Giorgio. Il carabiniere Francesco Cardenti così riferisce: “Il barone Li Destri al tempo della maffia era appoggiato forte ai briganti che adesso si trovano carcerati a Portolongone (Elba) se qualcuno passava dalla sua proprietà che è gelosissimo diceva: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti faccio levare dalla circolazione, adesso che i tempi sono cambiati e che è amico della autorità […] Non passare più dal mio terreno altrimenti ti mando al confino.”[20] I mezzi usati dalla Polizia nelle numerose azioni condotte per sgominare il fenomeno mafioso portarono ad un aumento della sfiducia della popolazione nei confronti dello Stato. Mori fu comunque il primo investigatore italiano a dimostrare che la mafia può essere sconfitta con una lotta senza quartiere, come sosterrà successivamente anche Giovanni Falcone.

La mafia non appare tuttavia sconfitta dall’azione di Mori. Nel 1932, nel centro di Canicattì, vengono consumati tre omicidi (le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti rimandano a delitti tipici di organizzazioni mafiose); intorno a Partinico, alla metà degli anni trenta, si verificarono incendi, danneggiamenti, omicidi […] a sfondo eminentemente associativo; ma si potrebbero citare molti altri episodi dei quali la stampa non parla, cui il regime risponde con qualche condanna alla fucilazione e con una nuova ondata di invii al confino.[20] Alcuni mafiosi erano membri del PNF, a conoscenza e con il favore di Benito Mussolini.

Il principe Lanza di Scalea fu uno dei candidati nelle liste del PNF per le amministrative di Palermo mentre a Gangi il barone Antonio Li Destri[21], pure candidato del PNF, era protettore di banditi e delinquenti. Mori non ha sconfitto la mafia. Altri mafiosi iscritti al PNF erano Sgadari e Mocciano.[21] Nel 1937 Genovese venne accusato di aver ordinato l’omicidio del gangster Ferdinando “Fred” Boccia, che era stato assassinato perché aveva preteso per sé una grossa somma che lui e Genovese, barando al gioco, avevano sottratto ad un commerciante[22]; per evitare il processo, Genovese fuggì in Italia, dove si stabilì a Nola. Tramite le sue frequentazioni, conobbe alcuni gerarchi fascisti, finanziando anche la costruzione di una “Casa del Fascio” a Nola,[23] inoltre si presume che Genovese fosse il rifornitore di cocaina di Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini.[24][25]

La seconda guerra mondiale, il separatismo e i moti contadini

Lo stesso argomento in dettaglio: Movimento per l’Indipendenza della Sicilia e Salvatore Giuliano.

Calogero Vizzini

Esistono teorie che affermano che il mafioso statunitense Lucky Luciano venne arruolato per facilitare lo sbarco alleato in Sicilia (luglio 1943) e su questo indagò pure la Commissione d’inchiesta statunitense sul crimine organizzato presieduta dal senatore Estes Kefauver (1951), la quale giunse a queste conclusioni:«Durante la seconda guerra mondiale si fece molto rumore intorno a certi preziosi servigi che Luciano, a quel tempo in carcere, avrebbe reso alle autorità militari in relazione a piani per l’invasione della sua nativa Sicilia. Secondo Moses Polakoff, avvocato difensore di Meyer Lansky, la Naval Intelligence aveva richiesto l’aiuto di Luciano, chiedendo a Polakoff di fare da intermediario. Polakoff, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi allora rivolto a Meyer Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri, durante i quali Luciano fornì certe informazioni[5]»

In un rapporto del 29 ottobre 1943, firmato dal capitano americano W.E. Scotten, si legge che in quel periodo l’organizzazione mafiosa «è più orizzontale […] che verticale […] in una certa misura disaggregata e ridotta a una dimensione locale» in seguito alla repressione del periodo fascista[26]. Tuttavia, dopo la liberazione della Sicilia, l’AMGOT, il governo militare alleato dei territori occupati, era alla ricerca di antifascisti da sostituire alle autorità locali fasciste e decise di privilegiare i grandi proprietari terrieri e i loro gabellotti mafiosi, che si presentavano come vittime della repressione fascista[26]: ad esempio il barone Lucio Tasca Bordonaro venne nominato sindaco di Palermo, il mafioso Calogero Vizzini sindaco di VillalbaGiuseppe Genco Russo sovrintendente all’assistenza pubblica di Mussomeli e Vincenzo Di Carlo (capo della cosca di Raffadali) responsabile dell’ufficio locale per la requisizione dei cereali[29].Infatti la Commissione Kefauver accertò che nel 1942 Luciano (all’epoca detenuto) offrì il suo aiuto al Naval Intelligence per indagare sul sabotaggio di diverse navi nel porto di Manhattan, di cui furono sospettate alcune spie naziste infiltrate tra i portuali; in cambio della sua collaborazione, Luciano venne trasferito in un altro carcere, dove venne interrogato dagli agenti del Naval Intelligence e si offrì anche di recarsi in Sicilia per prendere contatti in vista dello sbarco, progetto comunque non andato in porto[26][27]. È quasi certo che la collaborazione di Luciano con il governo statunitense sia finita qui, anche se lo storico Michele Pantaleone sostenne di oscuri accordi con il boss mafioso Calogero Vizzini per il tramite di Luciano al fine di facilitare l’avanzata americana, smentito però da altre testimonianze: infatti numerosi storici liquidano l’aiuto della mafia allo sbarco alleato come un mito perché avvenne in zone dove la presenza mafiosa era tradizionalmente assente ed inoltre gli angloamericani avevano mezzi militari superiori agli italo-tedeschi da non aver bisogno dell’aiuto della mafia per sconfiggerli[26][27][28].

Nello stesso periodo emergeva il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia, la prima organizzazione politica a mobilitarsi attivamente durante l’AMGOT, i cui leader furono soprattutto i grandi proprietari terrieri, tra cui spiccò il barone Lucio Tasca Bordonaro (in seguito indicato come un capomafia in un rapporto dei Carabinieri[5]). Infatti numerosi boss mafiosi, fra cui Calogero VizziniGiuseppe Genco RussoMichele Navarra e Francesco Paolo Bontate, confluirono nel MIS come esponenti agrari e da questa posizione ottennero numerosi incarichi pubblici e vantaggi, da cui poterono esercitare con facilità le attività illecite del furto di bestiame, delle rapine e del contrabbando di generi alimentari[5][26].

Salvatore Giuliano

Nell’autunno 1944 il decreto del ministro dell’agricoltura Fausto Gullo (che faceva parte del provvisorio governo italiano subentrato all’AMGOT) stabiliva che i contadini avrebbero ottenuto una quota più grande dei prodotti della terra che coltivavano come affittuari e venivano autorizzati a costituire cooperative e a rilevare la terra lasciata improduttiva[30][31]. L’applicazione di tale normativa produsse uno scontro sociale tra i proprietari terrieri conservatori (spalleggiati dai loro gabellotti mafiosi) e i movimenti contadini guidati dai leader sindacali, tra i quali spiccarono Accursio MiragliaPlacido Rizzotto e Calogero Cangelosi, che vennero barbaramente assassinati dai mafiosi insieme a molti altri capi del movimento contadino che in quegli anni lottarono per la terra negata[29].

Intanto nella primavera 1945 l’EVIS, il progettato braccio armato del MIS, assoldò il bandito Salvatore Giuliano (capo di una banda di banditi associata al boss mafioso Ignazio Miceli, capomafia di Monreale), che compì imboscate e assalti alle caserme dei carabinieri di BellolampoPioppoMontelepre e Borgetto per dare inizio all’insurrezione separatista; anche il boss Calogero Vizzini (che all’epoca era il rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta[32]) assoldò la banda dei “Niscemesi“, guidata dal bandito Rosario Avila, che iniziò azioni di guerriglia compiendo imboscate contro le locali pattuglie dei Carabinieri[33].

Nel 1946 il MIS decise di entrare nella legalità ma ciò non fermò il bandito Giuliano e la sua banda, che continuarono gli attacchi contro le caserme dei Carabinieri e le leghe dei movimenti contadini, che culminarono nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), contro i manifestanti socialisti e comunisti a Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), in cui moriranno 11 persone e altre 27 rimarranno ferite[33].

Infine la banda Giuliano sarà smantellata dagli arresti operati dal Comando forze repressione banditismo, guidato dal colonnello Ugo Luca, che si servì delle soffiate di elementi mafiosi per catturare i banditi: lo stesso Giuliano verrà ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale era segretamente diventato anch’egli un informatore del colonnello Luca[5][33]. In seguito Pisciotta venne arrestato ed accusò apertamente i deputati Bernardo MattarellaGianfranco Alliata di MonterealeTommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti della strage di Portella della Ginestra ma morì avvelenato nel carcere dell’Ucciardone nel 1954[33].

Nel 1950 venne varata la legge per la riforma agraria, che limitava il diritto alla proprietà terriera a soli 200 ettari ed obbligava i proprietari terrieri ad effettuare opere di bonifica e trasformazione: vennero istituiti l’ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) e numerosi consorzi di bonifica, la cui direzione venne affidata a noti mafiosi come Calogero VizziniGiuseppe Genco Russo e Vanni Sacco, i quali realizzarono enormi profitti incassando gli indennizzi degli appezzamenti ceduti all’ERAS e poi rivenduti ai singoli contadini[34][35]. La riforma agraria comportò lo smembramento della grande proprietà terriera (importante per gli interessi dei mafiosi, che dopo la riforma riuscirono a rivendere i feudi a prezzo maggiorato all’ERAS) e la riduzione del peso economico dell’agricoltura a favore di altri settori come il commercio o il terziario del settore pubblico. In questo periodo l’amministrazione pubblica in Sicilia divenne l’ente più importante in fatto di economia: dal 1950 al 1953 i dipendenti regionali passarono da circa 800 ad oltre 1 350 a Palermo (sede del nuovo governo regionale), la quale era devastata dai bombardamenti del 1943 e 40 000 suoi abitanti, che avevano avuto la casa distrutta, richiedevano nuove abitazioni[36].

Il nuovo piano di ricostruzione edilizia però si rivelò un fallimento e sfociò in quello che venne chiamato «sacco di Palermo»: infatti quegli anni vedevano l’ascesa dei cosiddetti “Giovani Turchi” democristiani Giovanni GioiaSalvo Lima e Vito Ciancimino, i quali erano strettamente legati ad esponenti mafiosi ed andarono ad occupare le principali cariche dell’amministrazione locale; durante il periodo in cui prima Lima e poi Ciancimino furono assessori ai lavori pubblici di Palermo, il nuovo piano regolatore cittadino sembrò andare in porto nel 1956 e nel 1959 ma furono apportati centinaia di emendamenti, in accoglimento di istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano uomini politici e mafiosi, a cui si aggiungevano parenti e associati)[37], che permisero l’abbattimento di numerose residenze private in stile Liberty costruite alla fine dell’Ottocento nel centro di Palermo. In particolare, nel periodo in cui Ciancimino fu assessore (195964), delle 4 000 licenze edilizie rilasciate, 1 600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l’edilizia, e furono anche favoriti noti costruttori mafiosi (Francesco Vassallo e i fratelli Girolamo e Salvatore Moncada), che riuscirono a costruire edifici che violavano le clausole dei progetti e delle licenze edilizie[38][39].

Inoltre nell’immediato dopoguerra numerosi mafiosi americani (Lucky LucianoJoe AdonisFrank CoppolaNick GentileFrank Garofalo) si trasferirono in Italia e divennero attivi soprattutto nel traffico di stupefacenti verso il Nordamerica, stabilendo collegamenti con i gruppi mafiosi palermitani (Angelo La BarberaSalvatore Greco, Antonino Sorci, Tommaso Buscetta, Pietro Davì, Rosario Mancino e Gaetano Badalamenti) e trapanesi (Salvatore Zizzo, Giuseppe Palmeri, Vincenzo Di Trapani e Serafino Mancuso), i quali incettavano sigarette estere ed eroina presso i contrabbandieri corsi e tangerini[24][40]. Nell’ottobre 1957 si tennero una serie di incontri presso il Grand Hotel et des Palmes di Palermo tra mafiosi americani e siciliani (Gaspare Magaddino, Cesare ManzellaGiuseppe Genco Russo ed altri): gli inquirenti dell’epoca sospettarono che si incontrarono per concordare l’organizzazione del traffico degli stupefacenti, dopo che la rivoluzione castrista a Cuba (195657) aveva privato i mafiosi siciliani ed americani di quell’importante base di smistamento per l’eroina[24]. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, nel 1957 il mafioso siculo-americano Joseph Bonanno (che si trovava in visita a Palermo) prospettò l’idea di creare una «Commissione» sul modello di quella dei mafiosi americani, di cui dovevano fare parte tutti i capi dei “mandamenti” della provincia di Palermo e doveva avere il compito di dirimere le dispute tra le singole Famiglie della provincia[41].

Le tensioni latenti riguardo agli affari illeciti e al territorio sfociarono nell’uccisione del boss Calcedonio Di Pisa (26 dicembre 1962), che ruppe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi palermitani del tempo[42]; l’omicidio venne compiuto da Michele Cavataio (capo della Famiglia dell’Acquasanta[43]), che voleva fare ricadere la responsabilità sui fratelli Angelo e Salvatore La Barbera (temibili mafiosi di Palermo Centro): infatti, dopo l’assassinio di Di Pisa, Salvatore La Barbera rimase vittima della «lupara bianca» su ordine della “Commissione” e ciò scatenò una serie di omicidi, sparatorie ed autobombe; Cavataio approfittò della situazione di conflitto per sbarazzarsi dei suoi avversari e per queste ragioni si associò ai boss Pietro Torretta ed Antonino Matranga (rispettivamente capi delle Famiglie dell’Uditore e di Resuttana[43]): gli omicidi compiuti da Cavataio e dai suoi associati culminarono nella strage di Ciaculli (30 giugno 1963), in cui morirono sette uomini delle forze dell’ordine dilaniati dall’esplosione di un’autobomba che stavano disinnescando e che era destinata al mafioso rivale Salvatore “Cicchiteddu” Greco (capo del “mandamento” di Brancaccio-Ciaculli[43])[42].

La strage di Ciaculli provocò molto scalpore nell’opinione pubblica italiana e nei mesi successivi vi furono circa duemila arresti di sospetti mafiosi nella provincia di Palermo: per queste ragioni, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, la “Commissione” di Cosa nostra venne sciolta e molte cosche mafiose decisero di sospendere le proprie attività illecite[32]. Nello stesso periodo la Commissione Parlamentare Antimafia iniziava i suoi lavori, raccogliendo notizie e dati necessari alla valutazione del fenomeno mafioso, proponendo misure di prevenzione e svolgendo indagini su casi particolari, e concluderà queste indagini soltanto nel 1976, dopo numerosi dibattiti e polemiche[44]. Intanto si svolsero alcuni processi contro i protagonisti dei conflitti mafiosi di quegli anni arrestati in seguito alla strage di Ciaculli: numerosi mafiosi vennero giudicati in un processo svoltosi a Catanzaro per legittima suspicione nel 1968 (il famoso “processo dei 117“); in dicembre venne pronunciata la sentenza ma solo alcuni ebbero condanne pesanti e il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente[45]; un altro processo si svolse a Bari nel 1969 contro i protagonisti di una faida mafiosa avvenuta a Corleone alla fine degli anni cinquanta: gli imputati vennero tutti assolti per insufficienza di prove e un rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia criticò aspramente il verdetto[46][47].

Nel marzo 1973 Leonardo Vitale, membro della cosca di Altarello di Baida, si presentò spontaneamente alla questura di Palermo e dichiarò agli inquirenti che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; infatti si autoaccusò di numerosi reati, rivelando per primo l’esistenza di una “Commissione” e descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l’organizzazione di una cosca mafiosa: si trattava del primo mafioso del dopoguerra che decideva di collaborare apertamente con le autorità e il caso venne citato nella relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia (redatta nel 1976)[31]. Tuttavia Vitale non venne ritenuto credibile e la sua pena commutata in detenzione in un manicomio criminale perché dichiarato “seminfermo di mente”; scontata la pena e dimesso, Vitale verrà ucciso nel 1984[48].

La «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969)  Dopo la fine dei grandi processi, venne decisa l’eliminazione di Michele Cavataio poiché era il principale responsabile di molti delitti della “prima guerra di mafia“, compresa la strage di Ciaculli, che avevano provocato la dura repressione delle autorità contro i mafiosi: per queste ragioni, il 10 dicembre 1969 un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Santa Maria di GesùCorleone e Riesi (Salvatore RiinaBernardo ProvenzanoCalogero Bagarella, Emanuele D’Agostino, Gaetano Grado, Damiano Caruso) trucidò Cavataio nella cosiddetta «strage di viale Lazio»[32][49].

Dopo l’uccisione di Cavataio, nel 1970 si tennero una serie di incontri a ZurigoMilano e Catania, a cui parteciparono mafiosi della provincia di Palermo (Salvatore GrecoGaetano BadalamentiStefano BontateTommaso BuscettaLuciano Liggio) e di altre province (Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, e Giuseppe Di Cristina, rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta subentrato al boss Giuseppe Genco Russo[50]), i quali discussero sulla ricostruzione della “Commissione” e sull’implicazione dei mafiosi siciliani nel Golpe Borghese in cambio della revisione dei processi a loro carico; Calderone e Di Cristina stessi andarono a Roma per incontrare il principe Junio Valerio Borghese per ascoltare le sue proposte ma in seguito il progetto fallì[32][51]. Durante gli incontri, venne costituito una specie di “triumvirato” provvisorio per dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo, che era composto da Stefano BontateGaetano Badalamenti e Luciano Leggio (capo della cosca di Corleone), benché si facesse spesso rappresentare dal suo vice Salvatore Riina[32][52]. Infatti nello stesso periodo il “triumvirato” provvisorio ordinò la sparizione del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), che rimase vittima della «lupara bianca» forse per aver scoperto un coinvolgimento dei mafiosi nell’uccisione di Enrico Mattei o nel Golpe Borghese[53]. Le indagini per la scomparsa del giornalista furono coordinate dal procuratore Pietro Scaglione, che il 5 maggio 1971 rimase vittima di un agguato a Palermo insieme al suo autista Antonino Lo Russo: si trattava del primo “omicidio eccellente” commesso dall’organizzazione mafiosa nel dopoguerra[38].

Gaetano Badalamenti  Nel 1974 una nuova “Commissione” divenne operativa e il boss Gaetano Badalamenti venne incaricato di dirigerla[32]; l’anno successivo il boss Giuseppe Calderone propose la creazione di una “Commissione regionale“, che venne chiamata la «Regione», un comitato composto dai rappresentanti mafiosi delle province di PalermoTrapaniAgrigentoCaltanissettaEnna e Catania (escluse quelle di MessinaSiracusa e Ragusa dove la presenza di Famiglie era tradizionalmente assente o non avevano un’importante influenza), che doveva decidere su questioni e affari illeciti riguardanti gli interessi mafiosi di più province[52]; Calderone venne anche incaricato di dirigere la «Regione» e fece approvare dagli altri rappresentanti il divieto assoluto di compiere sequestri di persona in Sicilia per porre fine ai rapimenti a scopo di estorsione compiuti dal boss Luciano Leggio e dal suo vice Salvatore Riina[32][54]: infatti Leggio e Riina compivano sequestri contro imprenditori e costruttori vicini ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti per danneggiarne il prestigio, e si erano avvicinati numerosi mafiosi della provincia di Palermo (tra cui Michele GrecoBernardo BruscaAntonino GeraciRaffaele Ganci) e di altre province (Mariano Agate e Francesco Messina Denaro nella provincia di TrapaniCarmelo Colletti e Antonio Ferro nella provincia di Agrigento, Francesco Madonia nella provincia di CaltanissettaBenedetto Santapaola a Catania), costituendo la cosiddetta fazione dei “Corleonesi” avversa al gruppo Bontate-Badalamenti[32][48].

Inoltre gli anni 197374 videro un boom del contrabbando di sigarette estere, che aveva il suo centro di smistamento a Napoli: infatti i mafiosi palermitani e catanesi acquistavano carichi di sigarette attraverso Michele Zaza ed altri camorristi napoletani[55]; addirittura nel 1974 si provvide ad affiliare nell’organizzazione mafiosa Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardellino, al fine di tenerli sotto controllo e di lusingarne le vanità, autorizzandoli anche a formare una propria Famiglia a Napoli[32][56]. Tuttavia nella seconda metà degli anni settanta numerose cosche divennero attive soprattutto nel traffico di stupefacenti: infatti facevano acquistare morfina base dai trafficanti turchi e thailandesi attraverso contrabbandieri già attivi nel traffico di sigarette e la facevano raffinare in eroina in laboratori clandestini comuni a tutte le Famiglie, che erano attivi a Palermo e nelle vicinanze; l’esportazione dell’eroina in Nordamerica faceva capo ai mafiosi palermitani Gaetano BadalamentiSalvatore InzerilloStefano Bontate, Giuseppe Bono ma anche ai Cuntrera-Caruana della Famiglia di Siculiana, in provincia di Agrigento[57][58][59]: secondo dati ufficiali, in quel periodo i mafiosi siciliani avevano il controllo della raffinazione, spedizione e distribuzione di circa il 30% dell’eroina consumata negli Stati Uniti[60].

Nel 1977 Riina e il suo sodale Bernardo Provenzano (che avevano preso il posto di Leggio, arrestato nel 1974) ordinarono l’uccisione del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, senza però il consenso della “Commissione regionale[32][42]: infatti Giuseppe Di Cristina si era opposto all’omicidio perché avverso alla fazione corleonese e quindi legato a Bontate e Badalamenti[61]. Nel 1978 Francesco Madonia (capo del “mandamento” di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta) venne assassinato nei pressi di Butera, su mandato di Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone poiché era legato a Riina e Provenzano, i quali, in risposta all’omicidio Madonia, assassinarono Di Cristina a Palermo mentre qualche tempo dopo anche Giuseppe Calderone finì ucciso dal suo sodale Benedetto Santapaola, che era passato alla fazione corleonese[50]. Nello stesso periodo Riina fece espellere dalla “Commissione” anche Badalamenti (che fuggì in Brasile per timore di essere eliminato) e venne incaricato di sostituirlo Michele Greco (capo del “mandamento” di Brancaccio-Ciaculli, che era strettamente legato alla fazione corleonese)[48].

Nel 1979, la “Commissione”, ormai composta in maggioranza dai Corleonesi, scatenò una serie di “omicidi eccellenti”: in quei mesi vennero trucidati il giornalista Mario Francese (26 gennaio), il segretario democristiano Michele Reina (9 marzo), il commissario Boris Giuliano (21 luglio) e il giudice Cesare Terranova (25 settembre); nell’anno successivo vi furono altri tre “cadaveri eccellenti”: il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio), il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio) e il procuratore Gaetano Costa (6 agosto), che venne fatto assassinare dal boss Salvatore Inzerillo per mandare un segnale ai Corleonesi, dimostrando che anche lui era capace di ordinare un omicidio “eccellente”[42].

La “seconda guerra di mafia”  L’omicidio di Stefano Bontate (23 aprile 1981  Nel marzo 1981 Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia e strettamente legato a Bontate, rimase vittima della «lupara bianca» per ordine dei Corleonesi[48]; Bontate organizzò allora l’uccisione di Riina, il quale reagì facendo assassinare prima Bontate (23 aprile) e poi anche il suo associato Salvatore Inzerillo (11 maggio)[42]. Nel periodo successivo a questi omicidi, numerosi mafiosi appartenenti alle cosche di Bontate e Inzerillo vennero attirati in imboscate dai loro stessi associati e fatti sparire; il gruppo di fuoco corleonese eliminò anche numerosi rivali nella zona tra BagheriaCasteldaccia ed Altavilla Milicia, che venne soprannominata «triangolo della morte» dalla stampa dell’epoca[62]: in quell’anno (1981) si contarono circa 200 omicidi a Palermo e nella provincia, a cui si aggiunsero numerose «lupare bianche»[50]; nel novembre 1982 furono ammazzati una dozzina di mafiosi di Partanna-Mondello, della Noce e dell’Acquasanta nel corso di una grigliata all’aperto nella tenuta di Michele Greco e i loro corpi spogliati e buttati in bidoni pieni di acido: nella stessa giornata, in ore e luoghi diversi di Palermo, furono anche uccisi numerosi loro associati per evitarne la reazione[63].

Il massacro si estese perfino negli Stati UnitiPaul Castellano, capo della Famiglia Gambino di New York, inviò i mafiosi Rosario Naimo e John Gambino (imparentato con gli Inzerillo) a Palermo per accordarsi con la “Commissione[64], la quale stabilì che i parenti superstiti di Inzerillo fuggiti negli Stati Uniti avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più in Sicilia ma, in cambio della loro fuga, Naimo e Gambino dovevano trovare ed uccidere Antonino e Pietro Inzerillo, rispettivamente zio e fratello del defunto Salvatore, fuggiti anch’essi negli Stati Uniti[65]: Antonino Inzerillo rimase vittima della «lupara bianca» a Brooklyn mentre il cadavere di Pietro venne ritrovato nel bagagliaio di un’auto a Mount Laurel, nel New Jersey, con una mazzetta di dollari in bocca e tra i genitali (14 gennaio 1982)[66].

Tra il 1981 e il 1983 vennero commessi efferati omicidi contro 35 tra parenti e amici di Salvatore Contorno, un ex uomo di Bontate che era sfuggito ad agguato per le strade di Brancaccio (15 giugno 1981)[42]; si attuarono vendette trasversali pure contro i familiari di Gaetano Badalamenti e del suo associato Tommaso Buscetta, i quali risiedevano in Brasile ed erano sospettati di fornire aiuto al mafioso Giovannello Greco, che apparteneva alla fazione corleonese ma era considerato un “traditore” perché era stato amico di Salvatore Inzerillo ed aveva tentato di uccidere Michele Greco[67]: il padre, lo zio, il suocero e il cognato di Giovannello Greco furono assassinati[68] ma anche i due figli di Buscetta rimasero vittime della «lupara bianca» e gli vennero uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti[69].

Nello stesso periodo, nelle altre province Riina e Provenzano imposero i propri uomini di fiducia, che eliminarono i mafiosi locali che erano stati legati al gruppo Bontate-Badalamenti[50][64]: infatti Francesco Messina Denaro (capo del “mandamento” di Castelvetrano) divenne il rappresentante mafioso della provincia di TrapaniCarmelo Colletti della provincia di Agrigento, Giuseppe “Piddu” Madonia (figlio di Francesco e capo del “mandamento” di Vallelunga Pratameno[50]) di quella di Caltanissetta mentre Benedetto Santapaola divenne capo della Famiglia di Catania dopo l’omicidio del suo rivale Alfio Ferlito (ex vice di Giuseppe Calderone[43]), trucidato insieme a tre carabinieri che lo stavano scortando in un altro carcere nella cosiddetta «strage della circonvallazione» (16 giugno 1982)[48][70].

L’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro (3 settembre 1982)  In queste circostanze, la “Commissione” (ormai composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e Provenzano) ordinò l’omicidio dell’onorevole Pio La Torre, che era giunto da pochi mesi in Sicilia per prendere la direzione regionale del PCI ed aveva proposto un disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di “associazione mafiosa” e la confisca dei patrimoni mafiosi di provenienza illecita: il 30 aprile 1982 La Torre venne trucidato insieme al suo autista Rosario Di Salvo in una strada di Palermo[71].

In seguito al delitto La Torre, il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e il ministro dell’Interno Virginio Rognoni chiesero al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di insediarsi come prefetto di Palermo con sei giorni di anticipo[62]: infatti il ministro Rognoni aveva promesso a Dalla Chiesa poteri di coordinamento fuori dall’ordinario per contrastare l’emergenza mafiosa ma tali poteri non gli furono mai concessi[72]. Per queste ragioni Dalla Chiesa denunciò il suo stato di isolamento con una famosa intervista al giornalista Giorgio Bocca, in cui parlò anche dei legami tra le cosche ed alcune famose imprese catanesi[73]; infine il 3 settembre 1982, dopo circa cento giorni dal suo insediamento a Palermo, Dalla Chiesa venne brutalmente assassinato da un gruppo di fuoco mafioso insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo.

Atti del Maxiprocesso  L’omicidio del generale Dalla Chiesa provocò molto scalpore nell’opinione pubblica italiana e nei giorni successivi il governo Spadolini II varò la legge 13 settembre 1982 n. 646 (detta “Rognoni-La Torre” dal nome dei promotori del disegno di legge) che introdusse nel codice penale italiano l’art. 416-bis, il quale prevedeva per la prima volta nell’ordinamento italiano il reato di “associazione di tipo mafioso” e la confisca dei patrimoni di provenienza illecita.[74]

Tutto ciò indusse i mafiosi a scatenare ritorsioni contro i magistrati che applicavano questa nuova norma: il 26 gennaio 1983 venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, il quale era impegnato in importanti inchieste sui mafiosi della provincia di Trapani e preparava il suo trasferimento alla Procura di Firenze, da dove avrebbe potuto disturbare gli interessi mafiosi in Toscana;[75] il 29 luglio un’autobomba parcheggiata sotto casa uccise Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, insieme a due agenti di scorta e al portiere del condominio.[76]

Dopo l’assassinio di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto, che lo sostituì a capo dell’Ufficio Istruzione, decise di istituire un “pool antimafia“, ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso, di cui chiamò a far parte i magistrati Giovanni FalconePaolo BorsellinoGiuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta;[77] essi, basandosi soprattutto su indagini bancarie e patrimoniali, vecchi rapporti di polizia e procedimenti odierni, raccolsero un abbondante materiale probatorio che andò a confermare le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, che avevano deciso di collaborare con la giustizia poiché erano stati vittime di vendette trasversali contro i loro parenti e amici durante la «seconda guerra di mafia»: il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura mentre quelle di Contorno altri 127 mandati di cattura, nonché arresti eseguiti tra PalermoRomaBari e Bologna[78]. Per queste ragioni, la “Commissione” incaricò il boss Pippo Calò di organizzare insieme ad alcuni terroristi neri e camorristi la strage del Rapido 904 (23 dicembre 1984), che provocò 17 morti e 267 feriti, al fine di distogliere l’attenzione delle autorità dalle indagini del pool antimafia e dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno[79].

L’8 novembre 1985 il giudice Falcone depositò l’ordinanza-sentenza di 8 000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati in base alle indagini del pool antimafia supportate dalle dichiarazioni di Buscetta, Contorno e altri ventitré collaboratori di giustizia[80][81]: il cosiddetto “maxiprocesso” che ne scaturì iniziò in primo grado il 10 febbraio 1986, presso un’aula bunker appositamente costruita all’interno del carcere dell’Ucciardone a Palermo per accogliere i numerosi imputati e avvocati[82], concludendosi il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli che vennero comminati tra gli altri a Nitto SantapaolaBernardo Provenzano e Salvatore Riina, giudicati in contumacia[83].

In seguito alla sentenza di primo grado, il 25 settembre 1988 il giudice Antonino Saetta venne ucciso insieme al figlio Stefano lungo la strada statale CaltanissettaAgrigento da alcuni mafiosi di Palma di Montechiaro per fare un favore a Riina e ai suoi associati palermitani[84]: infatti Saetta avrebbe dovuto presiedere il grado di Appello del Maxiprocesso ed aveva già condannato all’ergastolo i responsabili dell’omicidio del capitano Emanuele Basile[85]. Infatti il 10 dicembre 1990 la Corte d’assise d’appello ridusse drasticamente le condanne di primo grado del Maxiprocesso, accettando soltanto parte delle dichiarazioni di Buscetta e Contorno[86].

Gli anni novanta: le stragi e la trattativa con lo Stato italiano  Lo stesso argomento in dettaglio: Bombe del 1992-1993 e Trattativa tra Stato italiano e Cosa nostra.

La strage di Capaci (23 maggio 1992  L’avvio della stagione degli attentati venne deciso nel corso di alcune riunioni ristrette della “Commissione interprovinciale” del settembre-ottobre 1991 e subito dopo in una riunione della “Commissione provinciale” presieduta da Salvatore Riina, svoltasi nel dicembre 1991: specialmente durante questo incontro, venne deciso ed elaborato un piano stragista “ristretto”, che prevedeva l’assassinio di nemici storici di Cosa nostra (i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e di personaggi rivelatisi inaffidabili, primo fra tutti l’onorevole Salvo Lima[87].

La strage di Via D’Amelio (19 luglio 1992)  Il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò tutte le condanne del Maxiprocesso, compresi i numerosi ergastoli a Riina e agli altri boss, avallando le dichiarazioni di Buscetta e Contorno[88]. In seguito alla sentenza della Cassazione, nel febbraio-marzo 1992 si tennero riunioni ristrette della “Commissione“, sempre presiedute da Riina, che decisero di dare inizio agli attentati e stabilirono nuovi obiettivi da colpire[87]: il 12 marzo Salvo Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche; il 23 maggio avvenne la strage di Capaci, in cui persero la vita Falcone, la moglie ed alcuni agenti di scorta; il 19 luglio avvenne la strage di via d’Amelio, in cui rimasero uccisi il giudice Borsellino e gli agenti di scorta: in seguito a questa ennesima strage, il governo reagì dando il via all'”Operazione Vespri siciliani“, con cui vennero inviati 7 000 uomini dell’esercito in Sicilia per presidiare gli obiettivi sensibili e oltre cento detenuti mafiosi particolarmente pericolosi vennero trasferiti in blocco nelle carceri dell’Asinara e di Pianosa per isolarli dal mondo esterno[87][89]; il 19 settembre venne ucciso Ignazio Salvo (imprenditore e mafioso di Salemi), anche lui rivelatosi inaffidabile perché era stato legato a Salvo Lima[87].

Il 15 gennaio 1993 Riina venne arrestato dagli uomini del ROS dell’Arma dei Carabinieri[87]. In seguito all’arresto di Riina, si creò un gruppo mafioso favorevole alla continuazione degli attentati contro lo Stato (Leoluca BagarellaGiovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) ed un altro contrario (Michelangelo La Barbera, Raffaele GanciSalvatore Cancemi) mentre il boss Bernardo Provenzano era il paciere tra le due fazioni e riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in “continente”[90]: il 14 maggio avvenne un attentato dinamitardo in via Ruggiero Fauro a Roma ai danni del giornalista Maurizio Costanzo, il quale però ne uscì illeso; il 27 maggio un altro attentato dinamitardo in via dei Georgofili a Firenze devastò la Galleria degli Uffizi e distrusse la Torre dei Pulci (cinque morti e una quarantina di feriti).

Targa commemorativa della strage di via dei Georgofili (27 maggio 1993)

La strage di via Palestro (27 luglio 1993)

La notte del 27 luglio esplosero quasi contemporaneamente tre autobombe a Roma e Milano, devastando le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro nonché il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano (cinque morti e una trentina di feriti in tutto); (27 luglio 1993) il 23 gennaio 1994 era programmato un altro attentato dinamitardo contro il presidio dell’Arma dei Carabinieri in servizio allo Stadio Olimpico di Roma durante le partite di calcio ma un malfunzionamento del telecomando che doveva provocare l’esplosione fece fallire il piano omicida[91][92] (episodio ricordato come il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma). Inoltre nel novembre 1993 i boss Leoluca BagarellaGiuseppe GravianoGiovanni Brusca e Matteo Messina Denaro avevano organizzato il sequestro di Giuseppe Di Matteo per costringere il padre Santino (che stava collaborando con la giustizia) a ritrattare le sue dichiarazioni, nel quadro di una strategia di ritorsioni verso i collaboratori di giustizia[90]; infine, dopo 779 giorni di prigionia, Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido nitrico.[93][94]

A partire dal 1993 si svolse un importante processo per mafia, intentato dalla Procura di Palermo nei confronti dell’ex Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti. Alla fine di un lungo iter giudiziario la Corte di Appello di Palermo nel 2003 accerterà una «… autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980»[95], sentenza confermata nel 2004 dalla Cassazione.

Il 27 gennaio 1994 vennero arrestati i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, che si erano occupati dell’organizzazione degli attentati e per questo la strategia delle bombe si fermò[87]. In quel periodo numerosi mafiosi iniziarono a collaborare con la giustizia per via delle dure condizioni d’isolamento in carcere previste dalla nuova norma del 41-bis e dalle nuove leggi in materia di collaborazione: nel 1996 il numero dei collaboratori di giustizia raggiunse il livello record di 424 unità[96]; contemporaneamente le indagini della neonata Direzione Investigativa Antimafia portarono all’arresto di numerosi latitanti (Leoluca BagarellaPietro AglieriGiovanni Brusca ed altre decine di mafiosi)[97][98].

Gli anni duemila e l’arresto di Provenzano  Lo stesso argomento in dettaglio: Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro.  Bernardo Provenzano  A partire dagli anni novanta, Bernardo Provenzano, con l’arresto di Totò Riina e Leoluca Bagarella, diviene il capo di Cosa nostra (era l’alter-ego di Riina fin dagli anni cinquanta), circondandosi solo di uomini di fiducia, come Benedetto Spera, cambia radicalmente la politica e il modus operandi negli affari della mafia siciliana; i mandamenti (divisioni mafiose delle zone di influenza in Sicilia) più ricchi cedono i loro guadagni a quelli meno redditizi in modo da accontentare tutti (una sorta di stato sociale), evitando ulteriori conflitti.

Benché Bernardo Provenzano si trovi ad essere l’ultimo dei vecchi boss, Cosa nostra non gode più di massiccio consenso, come sino a prima degli anni novanta. Nel 2002 viene arrestato il boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che diviene collaboratore di giustizia. L’11 aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza (dal 1963), Provenzano viene catturato in un casolare a Montagna dei Cavalli, frazione a 2 km da Corleone.

Il 5 novembre del 2007, dopo 25 anni di latitanza, viene arrestato, in una villetta di Giardinello, anche il presunto successore di Provenzano, il boss Salvatore Lo Piccolo assieme al figlio Sandro.

In seguito all’arresto dei Lo Piccolo si riteneva che al vertice dell’organizzazione criminale vi fosse Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani), latitante dal 1993.

Gli anni duemiladieci e l’arresto di Settimo Mine  Nonostante la ricerca dei superlatitanti Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi da parte delle forze dell’ordine prosegue, il 4 dicembre 2018 il comando dei Carabinieri del capoluogo siciliano effettuano un’importante operazione chiamata “Cupola 2.0” che ha portato all’arresto di 46 persone per associazione mafiosa. Tra loro il gioielliere ottantenne Settimo Mineo, ritenuto il nuovo capo dei capi di Cosa Nostra tramite elezione unanime in un summit organizzato da tutti i capi regionali il 29 maggio[99]. Secondo gli inquirenti tale incontro ha posto le basi per la costituzione di una nuova commissione provinciale dopo 25 anni dall’ultima formazione da parte dei corleonesi ponendo Mineo come l’erede assoluto di Salvatore Riina.[100][101][102]

L’arresto di quest’ultimo come dichiarato dal Procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dal pm Antonio Ingroia mette in dubbio per la prima volta la posizione di potere di Matteo Messina Denaro nell’organizzazione visto che anche per tradizione il capo assoluto di Cosa Nostra non è mai stato un membro situato al di fuori della provincia di Palermo.[103][104][105]

Il 22 gennaio 2019 grazie alle rivelazioni dei due nuovi collaboratori Filippo Colletti boss di Villabate e Filippo Bisconti, capomandamento di Belmonte Mezzagno, arrestati nell’ultima operazione, vengono catturate 7 persone tra cui Leandro Greco, nipote di Michele Greco detto “il Papa” e Calogero Lo Piccolo, figlio di Salvatore, con l’accusa di riformare ed organizzare una nuova commissione provinciale dopo l’arresto di Settimo Mineo[106][107][108].

Organizzazione e struttura  Lo stesso argomento in dettaglio: Famiglia (mafia), Commissione provinciale, Commissione interprovinciale, Capodecina, Capomandamento e Mandamento (mafia).  Secondo le dichiarazioni dei numerosi collaboratori di giustizia, l’aggregato principale di Cosa Nostra è la Famiglia (detta anche cosca), composta da elementi criminali che hanno tra loro vincoli o rapporti di affinità i quali si aggregano per controllare tutti gli affari leciti e illeciti della zona dove operano; i componenti di una Famiglia collaborano con uno o più aspiranti mafiosi non ancora affiliati solitamente chiamati “avvicinati”, i quali sono possibili candidati all’affiliazione e quindi vengono messi alla prova per saggiare la loro affidabilità, facendogli compiere numerose “commissioni”, come il contrabbando, la riscossione del denaro delle estorsioni, il trasporto di armi da un covo all’altro, l’esecuzione di omicidi e il furto di automobili e moto per compiere atti delittuosi[48]. Per essere affiliati nella Famiglia, esiste un rituale particolare (la cosiddetta “punciuta“) che consiste nella presentazione dell’avvicinato ai componenti della Famiglia locale in riunione e, alla presenza di tutti, pronuncia un giuramento di fedeltà[32][48][70].

I membri di una Famiglia eleggono per alzata di mano un proprio capo, che è solo un rappresentante, il quale nomina un sottocapo, un consigliere e uno o più capidecina, i quali hanno l’incarico di avvisare tutti gli affiliati della Famiglia quando si svolgono le riunioni[48]. I rappresentanti di tre o quattro Famiglie contigue eleggono un capomandamento; tutti i mandamenti di una provincia eleggono il rappresentante provinciale, che poi nomina un sottocapo provinciale e un consigliere[48]. Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone dichiarò che «[…] originariamente a Palermo, come in tutte le altre province siciliane, vi erano le cariche di “rappresentante provinciale”, “vice-rappresentante” e “consigliere provinciale”[48]. Le cose mutarono con Salvatore Greco”Cicchiteddu” [nel 1957] poiché venne creato un organismo collegiale, denominato “Commissione“, e composto dai capi-mandamento»; anche il collaboratore Francesco Marino Mannoia dichiarò che «[…] soltanto a Palermo l’organismo di vertice di Cosa nostra è la “Commissione”; nelle altre province, vi è un organismo singolo costituito dal rappresentante provinciale»[48].

I rappresentanti della provincia sono, a loro volta, componenti della cosiddetta “Commissione interprovinciale“, soprannominata anche la “Regione”, che nomina un rappresentante regionale e si riuniva solitamente per deliberare su importanti decisioni riguardanti gli interessi mafiosi di più province che esulavano dall’ambito provinciale e che interessano i territori di altre Famiglie[32][48][52]. In quasi tutte le municipalità della Sicilia esiste almeno una cellula mafiosa di Cosa Nostra.[109]

I rapporti con lo Stato italiano Lo stesso argomento in dettaglio: Rito peloritano.«Cosa nostra è da un lato contro lo Stato e dall’altro è dentro e con lo Stato, attraverso i rapporti esterni con suoi rappresentanti nella società e nelle istituzioni.»(Pietro Grassoprocuratore nazionale antimafia[110])

Lo stesso comportamento del CSM durante il lavoro di Giovanni Falcone che inizialmente non ricandidò il giudice come presidente della commissione antimafia da lui creata fa intendere una certa tendenza a voler ostacolare un lavoro diventato troppo scomodo per certi poteri deviati all’interno dello Stato[113]. Uno dei momenti più critici è stata la trattativa stato – mafia: fu contattato Vito Ciancimino, per mezzo di rappresentanti del Ministro dell’InternoNicola Mancino fra cui il capitano del ROS Giuseppe De Donno, per far smettere la stagione delle stragi del 1992, 1993, in cambio dell’annullamento del decreto legge 41 bis e altri benefici per i detenuti mafiosi.Come si rivela dalle numerose presenze nel Parlamento e nel governo di elementi non estranei a frequentazioni mafiose[111], si fa strada negli anni novanta la tesi secondo cui lo Stato italiano nei suoi componenti politici abbia un certo rapporto di “convivenza” con questo fenomeno mai definitivamente soppresso.[112]

A proposito dei rapporti tra mafia e stato, si parlerebbe di rito peloritano per riferirsi a una situazione di particolare contiguità (per non dire addirittura coincidenza) tra uomini di mafia e presunti esponenti delle istituzioni italiane.[senza fonte]

Esiste inoltre una Commissione regionale che decide l’andamento delle cose anche dal punto di vista politico, ovvero decide per chi, le persone di una famiglia e i loro affiliati dovessero votare.[114] Per esempio Salvo Lima e Vito Ciancimino furono eletti da voti mafiosi di cittadini legati alla mafia della città di Palermo, Salvo Lima non mantenne le sue promesse elettorali e fu ucciso, invece Vito Ciancimino fu condannato per essere stato un mafioso conclamato.

Rapporti con le altre organizzazioni criminali

Cosa nostra, per via del suo carisma criminale e della sua potenza delinquenziale, ha intrattenuto, e intrattiene tuttora, rapporti con le più importanti organizzazioni criminali sia italiane sia estere.

Il processo di globalizzazione interessa anche il fenomeno criminale mafioso, la mafia di tutti i paesi del mondo si unisce e collabora, portando avanti le sue attività criminali caratteristiche, come il narcotraffico, l’esportazione illegale di armi, la prostituzione, l’estorsione e il gioco d’azzardo, rappresentando un problema per l’umanità, per l’ordine civile della società e il quieto vivere.

Cosa nostra statunitens  Lo stesso argomento in dettaglio: Cosa nostra statunitense e Pizza connection.  La prima collaborazione tra le due organizzazioni viene formalmente identificata nel mese di ottobre del 1957 quando i capi siciliani ed americani si incontrarono all’Hotel delle Palme di Palermo per ricucire i rapporti dopo l’interruzione a causa dell’usura e del divorzio, due pratiche inammissibili per un vero uomo d’onore siciliano[115], e creare un anello di congiunzione per il traffico di droga su entrambi i fronti[116]. In questo frangente sono proprio gli americani a suggerire ai siciliani l’istituzione di una struttura di vertice chiamata Commissione[117].

Questa attività era gestita secondo quanto riferisce Rudolph Giuliani da Tommaso Buscetta e Gaetano Badalamenti dove la mafia siciliana fungeva da contatto in AsiaEuropa occidentale e chi portava la merce attraverso la frontiera degli Stati Uniti per la durata di quindici anni.[118]

Nel 2003Bernardo Provenzano inviò dei suoi emissari, Nicola Mandalà di Villabate ed il giovane Gianni Nicchi per tentare di riattivare i rapporti di collaborazione con le famiglie di New York ma vennero riconosciuti e fotografati dagli agenti di polizia insieme al boss Frank Calì della famiglia Gambino[119][120][121].

Organizacija

Lo stesso argomento in dettaglio: Organizacija.

Nel 1994 viene segnalata la presenza della mafia russa sul territorio degli Stati Uniti, ad Atlanta, e sulla loro collaborazione con Cosa nostra[122].

Verso il 1998, la Solncevskaja bratva di Mosca, può contare su un proprio capo a Roma che coordina gli investimenti della mafia russa in Italia. Dall’indagine risulta che rispettabili banchieri occidentali danno al boss russo consigli molto utili su come riciclare il denaro sporco dalla Russia in Europa, in maniera legale[123].

Nel 2008 viene formalizzata la collaborazione fra mafia russa e Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra[124]. Sotto la supervisione della mafia russa le aziende agricole italiane, i trasporti delle merci: sia a livello internazionale, sia all’interno del paese. La mafia russa nel mondo conta circa 300 000 persone ed è la terza organizzazione criminale per la sua influenza, dopo l’originale italiana e le reti criminali cinesi[124].

Il 2 ottobre 2012 nel Report Caponnetto si leggono le infiltrazioni della mafia russa nella Repubblica di San Marino e in Emilia-Romagna a carattere predatorio come le estorsioni.

Mafia nigeriana  Il 19 ottobre 2015 per la prima volta in Sicilia presunti membri di un’organizzazione criminale straniera vengono accusati del reato di associazione mafiosa, in particolare viene scoperta la confraternita nigeriana dei Black Axe che gestisce lo spaccio e la prostituzione nel quartiere Ballarò di Palermo sotto l’egida di Giuseppe Di Giacomo, boss del clan di Porta Nuova, ucciso il 12 marzo 2014. Si scopre quindi un’alleanza tra il clan palermitano e l’organizzazione nigeriana[125].


Filmografia su Cosa nostra

Documentari

Cinema

Televisione

Note

  1. ^Processo Dell’Utri, Spatuzza in aula: «Graviano mi parlò di Berlusconi», su CORRIERE DELLA SERA.it, 4 dicembre 2009. URL consultato il 25 aprile 2020 (archiviato dall’url originale il 23 marzo 2015).
  2. ^Carlotta Baldi, Chi è la mafia…, in Antimafiaduemila.com. URL consultato il 28 marzo 2015 (archiviato il 25 maggio 2016).
  3. ^Paolo MieliMafia, la storia delle origini, su CORRIERE DELA SERA / CULTURA, 26 novembre 2018. URL consultato il 25 aprile 2020 (archiviato dall’url originale il 27 novembre 2018).
  4. ^Antonio Giangrande, La Mafia in Italia – Volume 200 di L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo, Antonio Giangrande, p. 60. URL consultato il 20 luglio 2019 (archiviato il 20 luglio 2019).
  5. ^abcdefghijLa genesi della mafia – Documenti della Commissione Parlamentare Antimafia VI LEGISLATURA (PDF) (archiviato il 2 maggio 2019).
  6. ^gabellotto, in Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
  7. ^
  8. ^Saverio Di Bella, Risorgimento e mafia in Sicilia: i mafiusi della Vicaria di Palermo, Pellegrini, 1991, pag. 5
  9. ^Pietro Mazzamuto, La Mafia nella letteratura, Andò, 1970, pag. 15
  10. ^Il Viandante – Sicilia 1883, su viandante.it. URL consultato il 16 febbraio 2013 (archiviato il 10 novembre 2013).
  11. ^Il Viandante – Sicilia 1885, su viandante.it. URL consultato il 16 febbraio 2013 (archiviato il 10 novembre 2013).
  12. ^Notarbartolo, il primo delitto eccellente, quasi un secolo faArchiviato il 6 ottobre 2014 in Internet Archive. Corriere della Sera, 15 marzo 1992
  13. ^
  14. ^Giovanni Tessitore, Il nome e la cosa. Quando la mafia non si chiamava mafia, FrancoAngeli, Milano, 1997, 144
  15. ^La “santa” alleanza tra chiesa e mafia, uno dei più impenetrabili misteri d’Italia, su Il blog di Luca Rota. URL consultato il 26 aprile 2020 (archiviato il 31 marzo 2016).
  16. ^Mafia e potereArchiviato il 10 novembre 2013 in Internet Archive., Cfr. nel CD “Opera Omnia”, Nuovi Orizzonti Europei
  17. ^Salvatore Lupo, Storia della mafia, Donzelli, 2004, pag. 136
  18. ^John Dickie, Cosa nostra, Laterza, 2005, pag. 95.
  19. ^Umberto Santino, Dalla Mafia alle Mafie, Rubettino, 2006, pag. 153
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  • Giuseppe Casarrubea, Fra’ Diavolo e il governo nero. Doppio Stato e stragi nella Sicilia del dopoguerra, introduzione di Giuseppe De Lutiis, Milano, Franco Angeli, 1998, 2000.
  • Hanspeter Oschwald, Einer gegen die MafiaEdizione italiana: Orlando, un uomo contro. Il sindaco antimafia, a cura di Sergio Buonadonna, traduzione di Paolo Caropreso, Genova, De Ferrari, 1999.
  • Umberto Santino, Storia del movimento antimafia: dalla lotta di classe all’impegno civile, Roma, Editori Riuniti, 2000.
  • Alfio Caruso, Da Cosa nasce Cosa. Storia della Mafia dal 1943 ad oggi, Milano, Longanesi, 2000, 2005.
  • Giuseppe Casarrubea, Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti, Milano, Franco Angeli, 2001.
  • Leone Zingales, Provenzano. Il re di Cosa nostra. La vera storia dell’ultimo padrino, Pellegrini, 2001.
  • Leone Zingales, La mafia negli anni ’60 in Sicilia. Dagli affari nell’edilizia alla prima guerra tra clan, fino al processo di Catanzaro, TEV Registri Vaccaro, 2003.
  • Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani, 1943-1947, a cura di Nicola Tranfaglia, note di Giuseppe Casarrubea, Milano, Bompiani, 2004.
  • Francesco Forgione, Amici come prima. Storie di mafia e politica nella Seconda Repubblica, Roma, Editori Riuniti, 2004.
  • Saverio Lodato, Venticinque anni di mafia. C’era una volta la lotta alla mafia, Milano, Rizzoli, 2004.
  • Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Voglia di mafia. Le metamorfosi di Cosa nostra da Capaci a oggi, prefazione di Gian Carlo Caselli, Roma, Carocci, 2004.
  • Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella delle Ginestre, introduzione di Nicola Tranfaglia, Milano, Bompiani, 2005.
  • L’amico degli amici. Perché Marcello Dell’Utri è stato condannato a nove anni in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, a cura di Peter Gomez e Marco Travaglio, Milano, Rizzoli, 2005.
  • Saverio Lodato e Marco TravaglioIntoccabili. Perché la mafia è al potere, Milano, Rizzoli, 2005.
  • Stefano Maria Bianchi e Alberto Nerazzini, La mafia è bianca, presentazione di Michele Santoro, Milano, Rizzoli, 2005.
  • Nicola Andrucci, Cosa nostra, attacco allo Stato, Montedit, 2006.
  • Saverio Lodato, Trent’anni di mafia. Storia di una guerra infinita, Milano, Rizzoli (BUR Saggi), 2006
  • Giuseppe Bascietto, Claudio Camarca, Pio La TorreUna Storia ItalianaAliberti editore, prefazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, 2008.
  • Giuseppe AyalaChi ha paura muore ogni giornoMondadori editore, 2008.

Opere di narrativa

  • Luigi Natoli (William Galt), I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano, 2 volumi, Palermo, La Gutenberg, 1925; Milano, Edizioni La Madonnina, 1949; Palermo, Flaccovio Editore, con un saggio introduttivo di Umberto Eco e note storiche e bio-bibliografiche di Rosario La Duca, 1971, 2003.
  • Luigi Garlando, “Per questo mi chiamo giovanni” Da un padre a un figlio il racconto della vita di Giovanni Falcone, prefazione di Maria Falcone, Fabbri Editori, ristampe nel 2007 3-4 2008 5-6 2009 7-8 9-10.
  • Giorgio Di VitaPeppino Impastato, vertigini di memorie, Palermo, Navarra Editore, 2010.

Voci correlate

Collegamenti esterni


 

Racconti di mafia e di mafiosi Uno spaccato di Cosa Nostra attraverso una raccolta di biografie, documenti, file audio e doc-video riguardanti  appartenenti alle cosche, pentiti, falsi pentiti, infiltrati e collaboratori.

 

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF