FIAMMETTA BORSELLINO – Rassegna Stampa – 2019

 

Depistaggio sulla strage Borsellino, a Messina spuntano i verbali inediti di Scarantino 

In quei fascicoli c’è tutto il contenuto che è stato possibile trascrivere dalle 19 bobine audio-video che, in originale, la Procura di Messina nei mesi scorsi aveva recuperato non senza fatica negli archivi del Tribunale di Caltanissetta. Materiale inspiegabilmente mai trattato prima, mai depositato in un processo, e che altrimenti sarebbe rimasto in un sottoscala, impolverato, per sempre. La procedura di trascrizione era cominciata il 19 giugno al Racis di Roma, e nei giorni scorsi si è conclusa. Si è trattato di un lavoro molto complesso per i superspecialisti dei carabinieri.

In concreto il pool coordinato dal procuratore Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Vito Di Giorgio ha disposto il riversamento di 19 supporti magnetici contenenti registrazioni prodotte con strumentazioni dalla Radio Trevisan. L’operazione potrebbe aver comportato la distruzione di parte degli originali.

A giugno la Procura di Messina retta da Maurizio De Lucia aveva notificato due informazioni di garanzia come atto dovuto, per accertamenti tecnici non ripetibili, cioè le trascrizioni effettuate a Roma, all’attuale procuratore aggiunto di Catania Carmelo Petralia e ad Annamaria Palma, oggi avvocato generale della Corte d’appello di Palermo. Entrambi fecero parte del pool che a Caltanissetta indagò sull’attentato del 19 luglio 1992. Con l’accusa di calunnia in concorso con il falso pentito Scarantino, aggravata dal “vecchio” art. 7 della legge n. 203/91, ovvero quella di aver favorito Cosa nostra.

E a quanto pare nelle trascrizioni che compaiono adesso per la prima volta e sono finalmente a disposizione di due procure, Messina e Caltanissetta, ci sarebbero prevalentemente raccolte, nero su bianco, una serie di telefonate che Scarantino ebbe all’epoca con il pm Carmelo Petralia. Nell’ipotesi accusatoria, in concorso con i tre poliziotti sotto processo a Caltanissetta, ovvero Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i due magistrati indagati a Messina avrebbero depistato le indagini sulla strage.

Un depistaggio definito clamoroso nella sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, costato l’ergastolo a sette innocenti. Il reato contestato ai magistrati e ai funzionari di polizia è la calunnia perché i pm e i poliziotti avrebbero imbeccato tre falsi pentiti, costruiti “a tavolino”, tra cui Vincenzo Scarantino, suggerendo loro di accusare falsamente dell’attentato persone estranee. L’atto notificato a giugno era firmato dal procuratore capo di Messina Maurizio De Lucia, dall’aggiunto Vito Di Giorgio, e dagli altri due magistrati che compongono il pool creato dal capo dell’ufficio peloritano, i sostituti Liliana Todaro e Antonio Carchietti.

Era un passaggio obbligato da espletare per consentire agli indagati di partecipare alle operazioni di trascrizione, dopo gli accertamenti investigativi della Dia di Catania che iniziarono a gennaio scorso, quando la Procura di Caltanissetta inviò gli atti del depistaggio sulla strage, per competenza territoriale, a Messina.

Sulla strage di via D’Amelio, in quegli anni convulsi e frenetici, indagarono anche altri magistrati, come l’allora capo della Procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra, che è deceduto, e poi anche Nino Di Matteo e Ilda Boccassini. Ma allo stato, questi mesi intensi d’indagine, secondo la Procura di Messina, hanno cristallizzato solo possibili riferimenti ai magistrati Petralia e Palma. Ilda Boccassini lasciò poi il pool in polemica con l’allora capo, Giovanni Tinebra, proprio per via della gestione di Vincenzo Scarantino.

E in questi mesi, a Messina, è stato svolto parecchio lavoro per ricongiungere pezzi probabilmente ancora inediti di questa storia. Sono state sentite numerose persone informate sui fatti. Anche Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato ucciso, oppure lo stesso Scarantino, o ancora, in trasferta dagli Stati Uniti, il pentito Francesco Marino Mannoia. E di recente, a quanto pare, anche il magistrato Nino Di Matteo, all’epoca nel pool che indagava a Caltanissetta e oggi siede a Palazzo dei marescialli come componente del Csm.

Intanto al processo sul depistaggio che si sta celebrando a Caltanissetta è un continuo susseguirsi di colpi di scena, rivelazioni, passi indietro. E si ipotizza persino la trasmissione di atti alla procura per una eventuale incriminazione di un poliziotto per le dichiarazioni rese in aula. Un altro filone, uno dei tanti, su quanto accadde prima e dopo la strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Che viaggia in parallelo con il processo d’appello del cosiddetto Borsellino “quater” che oggi arriva a sentenza. Alla sbarra ci sono tre poliziotti che facevano parte del gruppo investigativo “Falcone e Borsellino”, il gruppo di poliziotti che hanno indagato sul dopo stragi.

Si tratta di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, tutti accusati di calunnia in concorso aggravata dall’avere favorito Cosa nostra. Sono sempre presenti in aula, non perdono una sola udienza per seguire l’evolversi del dibattimento. L’ultimo colpo di scena è arrivato la scorsa settimana, quando un poliziotto, Angelo Tedesco, che finora aveva sempre negato di avere fatto un sopralluogo con l’ex pentito Vincenzo Scarantino a Palermo, dopo la strage Borsellino, cambia versione e annuncia di essersi ricordato “solo in questi ultimi anni” di avere fatto un sopralluogo con l’ex collaboratore di giustizia. L’ennesima rivelazione.

Già nelle scorse udienze, un altro poliziotto, Giampiero Valenti, aveva rivelato di avere avuto l’ordine di bloccare le intercettazioni di Scarantino.“Mi ordinarono di interrompere la registrazione di Scarantino perché il collaboratore doveva parlare con i magistrati”, aveva detto. E venerdì scorso la nuova rivelazione di un altro poliziotto che, però, rischia di trasformarsi per l’agente in una incriminazione per falsa testimonianza o, addirittura, per depistaggio.

Angelo Tedesco nel maggio 2016, deponendo al processo Borsellino quater, aveva negato di avere mai fatto un sopralluogo con l’ex pentito Vincenzo Scarantino rispondendo con un secco “no” al pm Stefano Luciani. Ma adesso il cambio di direzione. “Sì, mi sono ricordato che nel 1994 facemmo un sopralluogo a Palermo con Vincenzo Scarantino. Me lo sono ricordato solo dopo tempo. Ma sono passati tanti anni…”. Una deposizione piena di “non ricordo”, quella di Angelo Tedesco, che ha prestato servizio a Palermo negli anni delle stragi. Per questo motivo rischia una incriminazione della Procura nissena per i reati di falsa testimonianza oppure, addirittura, di depistaggio. Nuccio Anselmo 15.11.2019 GAZZETTA DEL SUD



BORSELLINO SI ALZERA’ IL SIPARIO SU COLLUSIONI & CONNECTION PER IL DEPISTAGGIO? 
Borsellino, ci si avvia al quinto processo. Incredibile, da un lato, perché occorrono ben 5 processi dopo la strage di via D’Amelio, per provare a portare in un’aula di giustizia la vera storia di quel massacro fino ad oggi impunito e sperare che vengano finalmente sbattuti in galera i depistatori di Stato. Il procuratore generale Lia Sava. In alto il processo Borsellino quater Una fortuna, dall’altro, perché è la prima volta che ci si avvicinerà alla verità, una verità atroce, perché potranno essere finalmente inchiodati alle loro responsabilità coloro i quali hanno ucciso Paolo Borsellino e la sua scorta per la seconda volta. E, fatto ancora più grave, non si tratterà in questo caso di mafiosi e capi cosca, ma di personaggi delle istituzioni, alte cariche fino ad oggi rimaste regolarmente a volto coperto. Tutto ciò emerge a chiare lettere dalla sentenza d’Appello al Borsellino quater e, soprattutto, dalle dichiarazioni del procuratore generale Lia Sava all’esito, appunto, della sentenza. Ma vediamo i tasselli dell’ennesimo mosaico: speriamo uno degli ultimi prima che venga fatta, una buona volta, giustizia su uno dei più atroci buchi neri nella storia del nostro Paese, per di più condito con il più grosso depistaggio di Stato, come è successo solo nell’omicidio di Ilaria Alpi Miran Hrovatin.


 

15.11.2019 – APPELLO BORSELLINO QUATER CONFERMA LE CONDANNE – FIAMMETTA BORSELLINO: “SENTENZA? DAL CSM SILENZIO INDEGNO”  Denuncia “un silenzio indegno” da parte “del Consiglio superiore della magistratura” perché “non si è saputo assumersi la responsabilità di un procedimento, ma ha fatto da scaricabarile”. E’ la denuncia di Fiammetta Borsellino, la figlia minore, del giudice Paolo Borsellino, dopo la sentenza d’appello che ha confermato le condanne all’ergastolo dei due boss mafiosi Vittorio Tutino e di Salvino Madonia e dei due pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. “Un silenzio non degno dei ruoli di questo organismo”. E rivela anche di avere avuto un incontro “informale” con il vicepresidente del Csm David Ermini. “Dopo una intervista rilasciata a Fazio dice – Ermini mi ha chiamata e mi ha detto che voleva avere un incontro e voleva che restasse informale. In quella occasione cominciò a dare giustificazioni varie, tra cui che l’ex Procuratore generale della Cassazione Fuzio, che non aveva fatto l’istruttoria dopo che io, un anno prima ero stata da Fuzio. E poi lo scorso 18 luglio lo stesso Fuzio mi fece una lettera aperta vergognosa”. Riccardo Fuzio, dopo aver lasciato il suo incarico perché il suo nome era comparso nelle carte dei pm che indagano su Luca Palamara, scrisse una lettera alla figlia minore del giudice. Nel documento sosteneva di non aver fatto in tempo ad aprire l’azione disciplinare contro i suoi colleghi indagati per depistaggio. “Doveva produrre atti e lavorare invece aveva altro da fare – dice oggi Fiammetta – tanto è vero che è stato coinvolto nella vicenda del Csm.”. “Ermini voleva che questo nostro incontro restasse informale – dice – ma non posso perché il silenzio del Csm è stato arricchito ora da chi ha preso parte a quella anomalia…”. “Lo abbiamo ben chiaro che c’è stato il depistaggio, ma è frustrante dovere constatare che tutte le anomalie che sono state portate avanti dagli uomini delle istituzioni e che sono stati funzionali al depistaggio, oggi non sono chiarite. O, comunque, sono stati avviati dei procedimenti. Auspichiamo che si possa andare più a fondo”. “Alla luce di tutto questo – dice – c’è la conferma che si possa arrivare a un approfondimento” anche se continuiamo a constatare il silenzio indegno del Csm…”. “Mi aspetto che ci sia un accertamento di responsabilità a più livelli, morale e giudiziaria. C’è la responsabilità disciplinare e gli accertamenti vanno fatti a più livelli“. E torna a parlare di Riccardo Fuzio, ex procuratore generale della Cassazione: “Non è stato capace di avviare una istruttoria che desse impulso al Csm – conclude – . Anche Ermini mi ha detto che se avesse avuto impulso dalla Procura generale potevano fare qualcosa”.

Fiammetta Borsellino, ‘frustrante che uomini Stato furono funzionali a depistaggio’  “Lo abbiamo ben chiaro che c’è stato il depistaggio ma è frustrante dovere constatare che tutte le anomalie che sono state portate avanti dagli uomini delle istituzioni e che sono stati funzionali al depistaggio, oggi non sono chiarite. O, comunque, sono stati avviati dei procedimenti. Auspichiamo che si possa andare più a fondo”. Così, all’Adnkronos, Fiammetta Borsellino, la figlia minore di Paolo Borsellino, commentando la sentenza d’appello del processo che ha confermato il depistaggio sulla strage. “Alla luce di tutto questo – dice – c’è la conferma che si possa arrivare a un approfondimento” anche se continuiamo a constatare il silenzio indegno del Csm…”.ADNKRONOS


DALLA CORTE D’ASSISE LA CONFERMA DEL MAXI-DEPISTAGGIO La Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta ha confermato in pratica la sentenza di primo grado e, accogliendo la richiesta della Procura Generale, ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia Vittorio Tutino, il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage di via D’Amelio. Condannati a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta Calogero Pulci, accusati di calunnia. E prescritto, sempre per il reato di calunnio, Vincenzo Scarantino, il personaggio chiave di tutta la vicenda. Ricordiamo che proprio sulle false accuse di Scarantino si sono basati i due primi processi taroccati, il Borsellino 1 e il Borsellino 2. Arnaldo La Barbera Abbiamo più volte disegnato quello scenario. Il falso pentito Scarantino venne letteralmente costruito a tavolino, per fare in modo di trovare subito il mostro da sbattere in prima pagina. Anzi sette mostri, visto che proprio in base alle sue accuse vennero condannati in primo secondo e terzo grado (e liberati dopo aver scontato 16 anni) sette innocenti, mafiosi che comunque niente avevano a vedere con quella strage. Ad organizzare il tutto, secondo le accuse, che ora si stanno traducendo in un altro processo sempre in corso a Caltanissetta, alcuni poliziotti (quattro per la precisione) che all’epoca dei fatti avrebbero agito sotto la supervisione dell’ex questore di ferro Arnaldo La Barbera, che militava anche tra i servizi segreti. Ma La Barbera a quelle accuse non può più rispondere, perché è deceduto 15 anni fa. Sotto processo, quindi, i componenti del suo team di polizia, che costruirono il falso pentito Scarantino, minacciando lui e i suoi familiari, e insegnandogli a memoria il copione che avrebbe dovuto recitare in aula processuale. E così fu. Scarantino recitò quel copione, gli imputati vennero condannati. E solo le seguenti verbalizzazioni di Gaspare Spatuzza, molti anni dopo, hanno consentito di smontare quei castelli di bugie, false accuse, ricostruzioni del tutto inventate. Tanto per trovare colpevoli qualunque usa e getta e, soprattutto, costruire quel mostruoso depistaggio. Ed è stato poi lo stesso Scarantino a ricostruire in aula dettagli e tappe di quel taroccamento, facendo anche i nomi dei magistrati coinvolti in quella scientifica, perversa architettura giudiziaria.

IL MISTERO DELL’AGENDA ROSSA Ma eccoci alla terza inchiesta in corso alla procura di Messina. Riguarda appunto i magistrati che – di tutta evidenza – hanno coordinato le prime inchieste che hanno portato a quegli aberranti risultati del Borsellino   del Borsellino 2. Perché è chiaro che se la polizia si è mossa, non poteva farlo di sua spontanea iniziativa, ma erano necessari dei precisi imput da parte dei magistrati inquirenti. Elementare. E così, sotto i riflettori della procura di Messina, sono finiti i primi pm del caso, Anna Maria Palma Carmine Petralia.  Nino Di Matteo E’ sfuggito per un pelo Nino Di Matteo, l’attuale icona antimafia, perché si è aggiunto solo in un secondo momento al team investigativo (e comunque la figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, l’ha tirato in ballo). Il nome di Anna Maria Palma rimbalza anche nel giallo dell’agendina rossa di Paolo Borsellino, forse il più grosso mistero nel mistero. La famiglia Borsellino è convinta che lì si trovi una delle chiavi di tutto, che non sia mai sparita e che ad esserne in possesso siano ad oggi personaggi delle istituzioni. A fornire una lettura della story è stata, due anni fa, la giornalista d’inchiesta Roberta Ruscica, autrice del libro “I Boss di Stato”. Nel corso della presentazione del suo libro a Napoli, infatti, raccontò di aver conosciuto proprio in quegli anni a Palermo Anna Maria Palma, la quale le aveva raccontato di quelle indagini e, soprattutto, del fatto di essere entrata in possesso di quella agenda rossa. Oggi più bollente che mai. Come mai Palma non ha mai fornito una esauriente spiegazione su questa vicenda?

E IL CSM TACE Ma torniamo alle ultime del processo d’appello che si è appena concluso a Caltanissetta. A Vincenzo Scarantino è stata riconosciuta (e si tratta di una ulteriore prova del depistaggio) l’attenuante di essere stato “indotto a mentire”. Nella sentenza si parla di “suggeritori esterni”. “Soggetti i quali, a loro volta, avevano appreso informazioni da ulteriori fonti rimaste occulte”. Una fitta rete di complicità, collusioni, connection e via delinquendo. Commenta a caldo il legale di Scarantino, Antonio Balsamo: “Il dispositivo non ci coglie di sorpresa perché siamo consapevoli del fatto che sarebbe stata necessaria una gran dose di coraggio per assolvere Scarantino. Probabilmente i tempi non sono ancora maturi per dichiarare una simile verità. Prendiamo atto della sentenza e attendiamo le motivazioni per decidere sul da farsi”. Eccoci alle molto attese dichiarazioni del pg Lia Sava: “Ci sono ulteriori sviluppi delle indagini che possono portare ad un Borsellino quinquies”. E poi: “Secondo la procura generale lo sviluppo delle indagini sta via via delineando altre strade che, se ovviamente riscontrate, possono far individuare altri soggetti che hanno potuto contribuire alle stragi”. Oppure a depistare le indagini stesse, come fa capire: “I magistrati devono continuare a raccogliere prove certe di responsabilità penali che consentano di addivenire a sentenze definitive di condanna per tutti coloro, anche in ipotesi, esterni a Cosa nostra, che possono aver concorso, a qualunque titolo, e per qualsivoglia scopo, alla realizzazione della strage di via D’Amelio e che, successivamente ai tragici eventi, possono avere mosso i fili, in maniera da determinare il colossale depistaggio delle relative indagini”. Commenta uno dei legali della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, marito della figlia Lucia: “Questa è una pietra miliare perché si afferma che Scarantino è stato indotto a depistare le indagini”. Poi: “il depistaggio è come aver ucciso Paolo Borsellino una seconda volta, è più grave della strage medesima, perché che i mafiosi fossero nemici del giudice si sapeva, che un tradimento di questi tipo potesse venire da uomini delle istituzioni la famiglia certo non se lo aspettava”. Anche se, pochi giorni prima di essere ammazzato, Borsellino diceva alla moglie: “A tradirmi saranno degli amici”. Ribadisce l’avvocato Roberto Avellone, legale dell’unico agente sopravvissuto, Antonino Vullo: “E’ una ulteriore conferma che il depistaggio è stato perpetrato da uomini dello Stato, creando l’occultamento della verità”. Durissime, nei confronti del Consiglio Superiore della Magistratura, le parole della figlia, Fiammetta Borsellino: “Un silenzio indegno. Il Csm non si è saputo assumere la responsabilità di un procedimento, ma ha solo fatto da scaricabarile”. Ancora: “Lo abbiamo ben chiaro che c’è stato un depistaggio, ma è frustrante dover constatare che tutte le anomalie portate avanti dagli uomini delle istituzioni e funzionali al depistaggio oggi non sono ancora chiarite”. VOCE DELLE VOCI 16.11.19   



16.10.2019 – Interviste tratte dallo speciale ” PAOLO BORSELLINO, depistaggio di Stato” – video

24.09.2019 – Fare Luce su Giammanco

21.07.2019 –  La famiglia Borsellino controllata a vista durante le indagine

19.07.2019 – Rassegna stampa – Fiammetta Borsellino – 27° Anniversario Via D’Amelio

19.07.2019 – Mi vergogno di questo Stato  Una lettera firmata dall’ormai ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, alla vigilia del 27° anniversario della strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta, è stata inviata ieri a Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992.   «L’ultimo affronto (la lettera di Riccardo Fuzio, ndr), da parte di uno Stato che non ha mai voluto fare niente per individuare i veri colpevoli del depistaggio sulla morte di mio padre» rivela al Quotidiano del Sud Fiammetta Borsellino che da anni ha  intrapreso una battaglia per avere verità e giustizia sulla morte di suo padre.  «Una lettera – sottolinea Fiammetta –  che vengono i brividi a leggerla, che mi indigna e che indignerebbe anche mio padre e tutti i magistrati che fanno e che hanno fatto il loro dovere». Fiammetta Borsellino, indignata e amareggiata, rivela al Quotidiano del Sud di aver ricevuto proprio ieri la lettera di Fuzio (che si è dimesso dopo essere stato indagato dalla Procura di Perugia per rivelazione del segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sull’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara). Una lettera che, dice ancora Fiammetta Borsellino, è la dimostrazione di uno Stato incapace di cercare la verità. Ma non è tutto, Fiammetta Borsellino spara a zero anche contro la Commissione nazionale antimafia e contro il Parlamento che «strumentalizzano», a fini mediatici, e in occasione del 27° anniversario della morte di suo padre, desecretando atti del Csm e della stessa Commissione antimafia. «Una vergogna» dice Fiammetta Borsellino. Ma cosa le ha scritto l’ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio? «Una lettera incredibile e vergognosa, nella quale dice di non essere riuscito a far nulla per avviare una indagine per l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio, indagati dalle procure di Messina e Caltanissetta: una indagine che avrebbe dovuto portare ad individuare i magistrati responsabili del depistaggio». Mi spieghi, cosa non ha fatto l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio? «Un anno fa io e mia sorella Lucia siamo state convocate da Fuzio, al quale abbiamo portato carte, documenti testimonianze ed altro, e lui ci aveva assicurato un suo intervento per promuovere l’azione disciplinare. Perché che ci siano dei magistrati responsabili del depistaggio sull’inchiesta di mio padre, non lo diciamo noi figli di Paolo Borsellino, ma l’ultima sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta. Adesso questa lettera, scritta tra l’altro con i piedi, ci indigna ancor di più, perché dopo un anno Fuzio sostiene di non avere avuto il tempo di occuparsi di questa vicenda perché era impegnato in altre vicende giudiziarie. Quali lo abbiamo scoperto in queste ultime settimane, perché era occupato a pilotare con Luca Palamara  le nomine dei procuratori di Roma,Torino ed altre procure. Una vera e propria indecenza, si è consumato da solo». Insomma, è sempre più difficile ottenere la verità sulla morte di suo padre e dei suoi angeli custodi,  i cinque poliziotti che morirono con lui? «Sono passati 27 anni ed i risultati, quelli dal punto di vista processuale, dicono che  siamo con una sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta che prova il depistaggio ed un’altra inchiesta dove ci sono due magistrati indagati e non c’è stato nessun avvio  di provvedimenti, dopo evidenti anomalie. C’è stata  una totale presa in giro da parte della Procura generale della Cassazione». Cosa chiede allo Stato?  «Semplicemente di fare il proprio dovere. Questa è una storia molta amara, se ognuno avesse fatto il proprio dovere, di non girarsi dall’altra parte,  non avremmo magistrati indagati e poliziotti indagati. Semplicemente fare il proprio dovere dare un contributo di onestà da parte delle istituzioni».


17.07.2019 – Su indagini tante omissioni e irregolarità – Video

26.06.2019 –  I giudici che hanno lasciato solo mio padre

12.06.2019 –  Annacquata la memoria del sacrificio di mio padre in TV

23.05.2019 – Non abbassare la guardia!  Abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo Borsellino sull’importanza di far rimanere alta l’attenzione sulla mafia e sulla necessità di far conoscere queste vicende alle nuove generazioni con un nuovo messaggio di speranza. Oggi ricorre la giornata della legalità, 27mo anniversario dalla Strage di Capaci che vide la morte del Giudice Giovanni Falcone, della moglie, Francesca Morvillo e degli agenti della scorta avvenuto il 23 maggio del 1992. In questa giornata si commemorano quelle che sono state le grandi figure istituzionali e non, che hanno fatto della lotta alla mafia la loro ragion di vita e proprio per quest’ultima motivazione sono stati uccisi. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992 ci fu la Strage di Via d’Amelio, in cui rimase ucciso il Giudice Paolo Borsellino, che di Falcone era amico e con lui era stato protagonista del pool antimafia. Abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo Borsellino, sul significato che hanno oggi queste ricorrenze alla luce delle domande rimaste ancora senza risposta, sull’importanza di far rimanere alta l’attenzione sulla mafia e sulla necessità di far conoscere queste vicende alle nuove generazioni con un nuovo messaggio di speranza.  
Signora Borsellino, oggi ricorre il 27° anniversario dell’attentato a Giovanni Falcone, al quale seguì, il 19 luglio, quello a suo padre, Paolo Borsellino. Dopo 27 anni quanto ancora non si sa di questi attentati? Nel 2017 c’è stata una sentenza che ha stabilito come la strage di Via D’amelio sia stata una dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana. Sono stati anni di processi, ancora oggi si sta disperatamente cercando di capire chi ha cercato per tutti questi anni l’allontanamento della verità. Non è ancora chiaro chi che sono effettivamente i mandanti di quella terribile strage nella quale perse la vita mio padre. Una delle cose che ha impedito la scoperta della verità è stata sostanzialmente una serie di indagini, di processi fatti male, anche da parte delle istituzioni, che ha avuto come effetto principale l’occultamento e l’allontanamento della verità.  
Alla luce dei depistaggi emersi dall’inchiesta sulla strage di via D’amelio, secondo lei, la mafia è solo un’esecutrice, il cui mandante è da cercare altrove? Ci sono delle indagini in corso, quindi, diciamo che non è opportuno trarre delle conclusioni. È molto probabile che ci siano state delle menti esterne a Cosa Nostra che si sono servite dell’odio che questi criminali avevano nei confronti dei magistrati. In questo senso possiamo dire che Cosa Nostra, quale mano armata, è stata “utilizzata” da chi all’esterno voleva l’eliminazione di queste persone.  
Se un bambino dovesse fermarla per strada chiedendole cos’è la mafia, cosa risponderebbe? La mafia è un’organizzazione criminale fatta di regole, di rituali. Un’organizzazione simile ad uno Stato. Ha una mentalità che si basa sull’oppressione. È una mentalità che trae le sue fondamenta da una concezione della vita come affermazione del potere.   
La mafia sembra essere un’argomento che torna di moda solo in occasione di questi anniversari, sembra che si voglia far passare l’idea che sia ormai un problema risolto o per lo meno divenuto marginale. Qual è il pericolo in questo atteggiamento? Il problema delle organizzazioni criminali, delle mafie è molto complesso, perché sono molto abili anche nel muoversi, hanno una buona capacità di organizzarsi, quindi, cedere alle semplificazioni ritenendo la mafia vinta è un’atteggiamento che fa male al contrasto alla criminalità organizzata. È un problema troppo complesso, per tanto non si deve e non si può cedere alle semplificazioni, perché quando si abbassa la guardia si può dare agio a queste organizzazioni di agire. Ed è molto pericoloso. Bisogna diffidare da tutti coloro che pensano e che dicono che vogliono delle risoluzioni, perché il problema è di una complessità tale che non è facilmente risolvibile.   
Quanto è importante la sensibilizzazione delle giovani generazioni e l’inserimento di questa storia nei libri scolastici? Far comprendere queste problematiche attraverso la storia degli uomini che l’hanno vissute è fondamentale perché la potenza criminale delle organizzazioni criminali si basa sul consenso dei giovani. Mio padre diceva sempre: “Quando le giovani generazioni le negheranno il consenso saremo avanti nella lotta alle mafie”. Questo problema si combatte con la cultura. Uno dei primi modi che hanno i giovani di contrastare la criminalità organizzata è studiare. È lo studio che ti dà consapevolezza dei tuoi diritti e dei tuoi doveri e anche di quelle che sono le proprie responsabilità. Se si ha questa consapevolezza, si è fatto già un primo passo nella lotta alla mafia. Paolo Borsellino diceva sempre che in qualunque caso, in qualunque luogo si sarebbe dovuto parlare della mafia: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”. Punto e a Capo 23.5.2019


19.05.2019 –  IL DEPISTAGGIO? GRAVE OFFESA PER LA MIA FAMIGLIA E PER L’ITALIA INTERA   Abbiamo avuto indagini e processi fatti male. Oggi si sta cercando di capire grazie all’attività di nuove Procure perché tutto questo sia avvenuto. È ovvio che questo depistaggio, per quanto grossolano, è veramente un’offesa non soltanto all’intelligenza della nostra famiglia ma dell’intero popolo italiano”. “Nel 2017 c’è stata una sentenza, quella conclusiva del Borsellino quater che ha definito quello di via D’Amelio il più grave e grande depistaggio della storia giudiziaria di questo Paese. Il depistaggio anche nella sua grossolanità ha avuto l’effetto che doveva avere, cioè il passare del tempo. E il passare del tempo in questi casi è deleterio, compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità, ma non per questo si deve smettere di tendere ad essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. E questo noi non lo riteniamo ammissibile”.


5.05.2019  FIAMMETTA BORSELLINO : “PERCHE’ I MAGISTRATI NON PARLANO?”  La pista “mafia-appalti” per capire le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Torna a ribadirla con sempre maggior forza Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato coraggio che conFalcone stava indagando sui grandi lavori pubblici entrati nel mirino della delinquenza super organizzata, a partire da quelli per l’allora nascente Alta Velocità. Punta l’indice, Fiammetta, su quell’ultima bollente riunione che si svolse alla procura di Palermo cinque giorni prima del tritolo di via D’Amelio. Al centro della rovente discussione proprio l’inchiesta “mafia-appalti”, mai ufficialmente assegnata ai due magistrati, Giovanni Falcone Paolo Borsellino, ma da loro sempre seguita con grande attenzione per via delle enormi esperienze maturate sul campo. QUELLA RIUNIONE DEI MISTERI“. Cosa successe in quella riunione? Cosa si dissero i magistrati che vi parteciparono?”, si chiede con tormento Fiammetta. “Interrogativi ai quali non è mai stata data una risposta. Da nessuno di quei magistrati che vi presero parte. E’ ora che qualcuno parli”. Si sa che alla fine di quella riunione Borsellino era su tutte le furie. E poi quasi rassegnato, il viso rigato dal pianto. Parole dure come pietre, quelle della figlia Fiammetta. Chissà se riusciranno a smuovere il gigantesco macigno relativo al movente, quello vero, che ha armato le mani mafiose in grado di eseguire ordini più ‘alti’. Perché anche Borsellino, dopo Falcone, “Doveva morire”. “In quella maxi indagine mafia-appalti c’erano dentro politici, imprenditori, mafiosi”, ricorda Fiammetta, e tanti magistrati – oltre una mezza dozzina – si sono passati la patata bollente, senza imprimere peraltro una efficace svolta giudiziaria a quella mole di lavoro investigativa già svolta dal ROSdei carabinieri per ordine proprio di Falcone. Un’inchiesta che si sgonfierà come un palloncino praticamente “intempo reale”. Tutto in un baleno. A poche ore da quella infuocata riunione, Il 13 luglio di quel maledetto 1992, la procura di Palermo chiede infatti l’archiviazione. A firmare la richiesta i sostituti procuratori Guido Lo Forte Roberto Scarpinato. Il procuratore Pietro Giammanco (“perchè mai interrogato su quei fatti?”, si chiede Fiammetta) la controfirma quando il cadavere di Borsellino è ancora caldo, a tre giorni dall’eccidio di via D’Amelio. L’archiviazione definitiva si verifica dopo meno di un mese, alla vigilia di ferragosto, un periodo leggermente “atipico”. E’ il 14 agosto ‘92, infatti, quando il gip di Palermo Sergio La Commare mette una pietra tombale su quell’inchiesta che avrebbe fatto tremare l’Italia. Perché – si chiede oggi Fiammetta – nessuno vuol parlare di quella riunione e di quella decisione? Perché neanche una sillaba su quella archiviazione lampo, da guinness dei primati nella storia giudiziaria del nostro martoriato Paese?

MAFIA-APPALTI, L’INCHIESTA BOMBA.  Ma torniamo all’inchiesta Mafia-Appalti che stava tanto a cuore di Falcone e Borsellino. I quali avevano deciso da tempo di percorrere “il cammino dei soldi”, come rammentavano spesso. In questa chiave si spiegano le incursioni svizzere di Falcone e Borsellino, la visita di Carla Dal Ponte all’Addaura, compreso il fallito attentato. Fu Falcone, in particolare, ad ordinare al Ros di Palermo una approfondita indagine per appurare i legami di imprese siciliane – paravento di interessi mafiosi – con pezzi medio grandi dell’imprenditoria nazionale. E’ nel 1989 che Falcone esclama – quando viene a conoscenza dalle prime anticipazioni sulle connection siciliane della Calcestruzzispadi Ravenna made in Ferruzzi– “la mafia è entrata in Borsa!”. E’ poi la volta di altre imprese nazionali che hanno significativi referenti siciliani: per fare solo alcuni nomi la napoletana Icla-Fondedile, la trentina Rizzani De Eccher, la Saiseb. E’ così che, con il passar dei mesi, il dossier Mafia-Appaltisi ingrossa, un vero fiume in piena. 890 pagine, 44 personaggi di spicco e altrettante imprese citate nel rapporto come anelli di congiunzione tra la mafia e il potere politico, una super bomba in grado di rappresentare la vera, prima, autentica Tangentopoli: altro che i tric trac successivi griffati Mani pulite. Per la precisione, è questa la scansione temporale. Il Rosconsegna a Falcone una prima informativa a luglio 1990, poi una seconda un mese dopo, 5 agosto. Le stesse memorie vengono recapitate anche al sostituto procuratore di Palermo Guido Lo Forte. Falcone studia le carte e a settembre chiede al Ros di approfondire alcune piste investigative. Ed è così che il rapporto finale approda sulla scrivania del magistrato a febbraio 1991, la data clou. Ci sarà anche il tempo per una pilotata fuga di notizie, tanto per informare in anticipo gli indagati eccellenti: altro tassello mai chiarito del giallo. Per continuare nella scaletta temporale, il potente Dc Salvo Lima viene ucciso a marzo ‘92, poi a giugno e luglio le stragi di Capaci e via D’Amelio. Come non leggere in quelle date l’escalation stragista? Gli avvertimenti politico-mafiosi in quella tempistica? Di tutta evidenza Falcone e Borsellino dovevano essere fermati ad ogni costo. Anche di stragi che avrebbero richiamato l’attenzione del mondo.

FALCONE E BORSELLINO DOVEVANO MORIRE  Di tutti questi scenari e soprattutto delle connection che stanno alla base delle stragi di Capaci e via D’Amelio, hanno scritto nel profetico “Corruzione ad Alta Velocità” Ferdinando Imposimato Sandro Provvisionato. Un j’accuse firmato esattamente 20 anni fa e che poneva al centro di quella stagione stragista proprio gli appalti, ed in particolare quella in fase di ebollizione ormai da un paio d’anni, appunto la TAV, oggi al centro delle querelle gialloverdi. In quel libro Imposimato e Provvisionato dettagliavano i protagonisti politici dell’affaire TAV, a cominciare dal presidente IRI e poi capo ulivista Romano Prodi, il padre di tutte le sciagurate privatizzazioni made in Italy. Per continuare con i magistrati che hanno insabbiato le prime inchieste sull’Alta Velocità, in pole position Antonio Di Pietro che non solo decapita il filone milanese ma anche – previa avocazione – quello romano,  coprendo le responsabilità dell’uomo “A un passo da Dio” che tutto conosceva sulle maxi tangenti Enimont e l’alta velocità, il finanziere italo elvetico Francesco Pacini Battaglia. VOCE delle VOCI 5.5.2019


13.04.2019 – CSM NON HA FATTO NULLA . I TOPI STANNO MANGIANDO I FALDONI DELLE STRAGI RASSEGNA STAMPA


LE PAROLE DI GRAVIANO CHE RIAPRONO LA PARTITA  A far ripartire le indagini su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per le stragi di mafia tentate e riuscite del 1993-94 a Roma, Firenze e Milano, sono state le famose intercettazioni di Giuseppe Graviano. Il 10 aprile del 2016 il boss è a passeggio con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi nel carcere di massima sicurezza di Ascoli. Il siciliano ricorda quando era stato chiamato a confermare le accuse del pentito Francesco Di Carlo, che aveva parlato anche di presunti investimenti del padre di Graviano a Milano: “Nel dicembre 2009 al processo Dell’Utri c’erano i giornalisti di tutto il mondo, te lo ricordi che si preoccupava?”. Graviano si era avvalso della facoltà di non rispondere ma leggeva nel pensiero di Marcello Dell’Utri, presente in aula: “si preoccupava, dice … si chistu pa… a mia m’arrestano subito”. Graviano quel giorno del 2016 poi spiega di essere adirato per il trattamento subito e propone ad Adinolfi di far arrivare un messaggio minaccioso mediante un intermediario. A chi? Il boss non lo dice ma secondo l’accusa del processo Trattativa, si parlerebbe di Berlusconi. Graviano dice ad Adinolfi che bisognerebbe mandare un uomo a portare un messaggio a un terzo soggetto: “all’uomo ci si fa sapere: dici a Tizio che si comincia a presentare con tutto quello che sa lui”. Adinolfi è scettico. Capisce i rischi dell’operazione. Graviano prima di fargli la proposta di trovare un messaggero spiega al detenuto campano il contesto, partendo da molto lontano. Graviano spiega che il nonno materno, Filippo Quartararo avrebbe investito nel 1975 insieme a un suo amico e altri soci in un’attività. Nel 1982, quando muore il padre, Michele Graviano, ucciso dai fedeli di Bontate, Giuseppe comincia a esser messo a parte dei segreti di questi investimenti: “morto mio padre io sapevo qualcosa ma non sapevo tutto” finché il nonno vicino alla morte, quando il nipote è già latitante, nel 1985 gli disse tutto. A QUESTO PUNTO, Graviano dice: “Io avevo i contatti, giusto? Adesso passiamo a una fase molto delicata (…) a Roma lui voleva già scendere, ‘92 già voleva scendere e voleva tutto ed era disturbato per acchianari (cioè per salire, ndr) lo volevano indagare”. Adinolfi lo interrompe e con fare interrogativo dice: “Misi i luglio”, cioè sembra chiedere al boss: ‘La cortesia che ‘lui’ ti ha chiesto è riferita al mese di luglio 1992?’. Graviano (secondo l’interpretazione dei periti della Corte d’Assise, contestata dalla difesa Dell’Utri) dice: “Berlusca mi ha chiesto sta cortesia ….per questo è stata l’urgenza”. Poi il boss di Brancaccio passa a parlare di un politico: “Io credevo in questa situazione la popolazione era con noialtri, era innamorata” e in dialetto siciliano ripete: “iddru voliva scinniri in quel periodo c’erano i vecchi, elezioni ri vecchi, e iddru mi dissi ci vulissi una bella cosa”. Il senso sarebbe “lui voleva scendere in politica era disturbato dai vecchi e mi disse: ‘ci vorrebbe una bella cosa’”. Nessuno può sapere esattamente quale sia il senso di questa frase, a parte Graviano, ma un’ipotesi formulata dal pm Antonino Di Matteo, è che “quando Graviano parla di cortesia, teoricamente è possibile pensare che si riferisca a un eccidio, via d’Amelio, in cui è stato uno dei protagonisti principali. Mi rendo conto che sono ipotesi”, ammette il magistrato, ricordando però che “tanti tasselli ci fanno ritenere che la strage di via D’Amelio possa essere stata eterodiretta da ambienti e soggetti estranei a Cosa nostra”. La Procura di Caltanissetta, competente sulle stragi del 1992, però non ha iscritto Berlusconi dopo aver acquisito le intercettazioni sulla ‘cortesia del 92’ fatta da Graviano. SCELTA DIVERSA ha fatto Firenze per le stragi del 1993. Le parole di Graviano sono difficili da interpretare. Il boss potrebbe mentire volutamente per inviare messaggi depistanti. Nato nel 1963, Graviano è stato arrestato il 27 gennaio del 1994 a Milano con il fratello maggiore Filippo e da allora entrambi sono reclusi in isolamento. Boss precoce, scelto come capo del mandamento di Brancaccio scavalcando il primo e il secondogenito, era nel cuore del corleonese Riina nonostante fosse un palermitano. Il padre, Michele Graviano, era diventato ricco quando i suoi terreni agricoli avevano cambiato destinazione.  A Fiammetta Borsellino, che andò a trovarlo a Terni in carcere nel dicembre 2017 sperando di riuscire a smuoverlo, Graviano si raccontò così: “Vengo da una famiglia di possidenti, avevamo una concessionaria Renault a Brancaccio, Motel Agip, attività e terreni. Io andavo a scuola e contemporaneamente lavoravo, avevamo un terreno per costruire, eravamo una famiglia benestante, a 48 anni è morto mio padre … avevo 18 anni”. Fiammetta Borsellino gli chiede: “Come trascorreva la sua vita?”. Il boss replica “io ero latitante (…) non voglio raccontare cose… mi sono trasferito al Nord”.Sostiene che faceva “commercio di carne con dei prestanomi”. Poi spara: “Frequentavo delle persone tra cui Baiardo Salvatore di Omegna sul lago D’Orta dove trascorrevo la latitanza. Frequentavo anche commercianti, familiari e avvocati e personaggi politici, tra cui anche quello … lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi ….. più che io era mio cugino che lo frequentava … facevo una vita normale”. Come se fosse normale per un boss stragista frequentare Berlusconi. L’avvocato Niccolò Ghedini, quando svelammo l’intercettazione su www.iloft.it ci disse: “Nessuno ci ha mostrato questa conversazione. Comunque sapeva di essere registrato e potrebbe avere depistato. Non risulta nessun incontro di Berlusconi con Graviano o con qualcuno legato a lui. Tanto meno con un su o cugino”.  MARCO LILLO sul Fatto del 02/10/2019


30.10.2019 – Fiammetta Borsellino: «Mio padre e Falcone non avrebbero liquidato l’ergastolo ostativo in modo così semplicistico»  L’intervento al festival della comunicazione sulle pene e sul carcere. «Penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno va… «È stata la cultura dell’emergenza, la rabbia che sicuramente in quegli anni richiedeva una risposta immediata, che ha dato luogo al grande inganno di via d’Amelio, una storia di menzogne che hanno dato luogo a innocenti condannati all’ergastolo tramite falsi pentiti costruiti a tavolino tramite torture e processi caratterizzati da gravissime anomalie». È Fiammetta Borsellino, figlia più piccola dell’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio, a parlare durante il secondo incontro intitolato “Paure e gabbie. Perché la giustizia non subisca le infiltrazioni della vendetta”, nell’ambito del Secondo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere a Milano. Una vera e propria spina nel fianco del coro granitico di una certa antimafia, la figlia di Borsellino, la quale – come ha detto Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, nel presentarla – «è una fra le poche persone che ha avuto il coraggio di non entrare nel coro sui temi dell’antimafia e di avere un pensiero complesso che ha messo in discussione tutto, anche il ruolo di alcuni magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine». Si è affrontata la questione scottante dell’ergastolo ostativo e della recente senza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale quella parte del 4 bis che subordina la concessione o meno del permesso premio alla collaborazione. «Io penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato così come viene fatto in questi giorni la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo, perché loro ci hanno insegnato che questi problemi sono dei problemi complessi, che non possono essere semplificati in questo modo», ha risposto Fiammetta. «Sicuramente io non sono una esperta in questo settore – ha continuato la figlia di Borsellino -, ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. Non bisogna confondere dei provvedimenti che sono stati pensati ventisette anni fa sull’onda di una gravissima emergenza, bisogna anche pensare a quello che è il contesto attuale. Sicuramente bisogna diffidare delle semplificazioni». Fiammetta Borsellino ha sottolineato che si tratta di «un problema molto complesso, che va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni come ‘ la mafia ha perso’ o ‘ la mafia ha vinto’ o anche ‘ la mia antimafia è migliore della tua’, perché fanno male. Io sono convinta che il problema invece andasse affrontato e che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quelle giusta, quella che va incontro a quell’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre». Parole lucide, di alto spessore e soprattutto umane che ha creato commozione tra i presenti, soprattutto i detenuti come Pasquale Zagari e l’ergastolano Roberto Cannavò con dietro una storia di mafia, di morte e poi di rinascita. Ornella Favero ha poi chiesto a Fiammetta se è vero che la sentenza della Consulta abbia ucciso una seconda volta il padre. «A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi: è stato il tradimento di alcuni uomini delle Istituzioni che oggi tra l’altro, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Csm si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto», ha risposto Fiammetta Borsellino. Ma, alla sollecitazione posta dal professore Davide Galliani, ha anche aggiunto che parlare in nome delle vittime della mafia è sbagliato, perché ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti.  30 OTTOBRE 2019  IL DUBBIO



      16.10.2019 – Interviste tratte dallo speciale ” PAOLO BORSELLINO, depistaggio di Stato” – video


24.09.2019 – Fare Luce su Giammanco


Luglio 2019 – FIAMMETTA BORSELLINO: «SAPEVO CHE MIO PADRE POTEVA MORIRE OGNI GIORNO». L’INCONTRO. Nel 1992 Paolo Borsellino fu ucciso dalla mafia insieme alla sua scorta. La figlia minore gira l’Italia per ottenere la verità: «Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse sparato avrebbe colpito me al posto suo»

Era la piccola di casa, è diventata la testimone più ingombrante. Era la più attaccata a suo padre, ogni volta che lui diceva «Esco» lei si accodava, «Vengo anch’io», ma quando tutto s’è consumato era la più lontana, addirittura in un altro continente.

Sembrava la più debole, s’è rivelata la più determinata nella ricerca della verità. Certamente la più esposta. «Ma noi eravamo e siamo una famiglia», precisa. «Quella di Paolo e Agnese Borsellino, i nostri genitori; di mia sorella Lucia e di mio fratello Manfredi, dei nostri figli. Eravamo la forza di mio padre, siamo la nostra».

ÒFiammetta Borsellino è l’ultima figlia del magistrato ucciso dalla mafia – e forse non solo dalla mafia – ventisette anni fa, insieme ai cinque agenti di polizia che gli facevano da scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Era il 19 luglio 1992, la strage di via D’Amelio, nemmeno due mesi dopo quella di Capaci che aveva portato via Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre uomini della scorta. Fiammetta aveva 19 anni quando suo padre saltò in aria. Oggi ne ha 46, ed è diventata un’infaticabile accusatrice del depistaggio che ha inquinato e continua a inquinare la verità su quella bomba: bugie di Stato servite a infliggere sette ergastoli contro altrettanti innocenti (oltre alle 26 condanne confermate) e coprire qualche colpevole mai individuato. Un mistero nel mistero che questa donna ha cominciato a denunciare da un palco televisivo nel venticinquesimo anniversario della strage, e da allora non s’è più fermata. Cominciando un cammino che l’ha portata nei tribunali e nelle aule delle commissioni d’inchiesta, ma anche nelle scuole, nelle parrocchie e ovunque la chiamino per ascoltare la sua domanda di giustizia, fino al carcere dove ha incontrato due carnefici di suo padre. Un percorso lungo e accidentato, ricostruito in questo racconto che è uno sfogo ma anche un segnale di speranza.

Io e mio padre. «In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr). Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse spa rato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me. Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati».

La tragedia dietro l’angolo. «Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre. Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra. La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo. «Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile. E lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita».

Il 19 luglio 1992. «L’estate del ‘92 volevo andare in Africa, ma un po’ per le apprensioni di mio padre e un po’ per la tragedia di Giovanni Falcone trovammo un compromesso: mi lasciò partire per l’Indonesia insieme alla famiglia del suo migliore amico, Alfio Lo Presti. Un altro spicchio di normalità, ritagliato nel momento più buio. Telefonavamo a casa ogni volta che potevamo, ma spesso non lo trovavamo, per lui erano giorni di lavoro incessante. Ho ancora davanti a me l’immagine di Alfio chiuso in una cabina che sbatte la cornetta contro il telefono e scoppia in lacrime, quando venimmo a sapere della strage. Poi l’incubo del ritorno verso casa. Il giorno in cui morì eravamo riusciti a parlare con papà quando in Italia era ancora molto presto, ma nella mia mente i ricordi si sovrappongono. Di sicuro ho cominciato a pensare, e lo penso ancora oggi, che quel viaggio potrebbe avermi salvato la vita. Perché se fossi stata a Palermo, dopo la domenica trascorsa al mare, probabilmente l’avrei accompagnato dalla nonna, e sarei morta con lui. Invece sono sopravvissuta, e per essere la donna che sono diventata ho dovuto affrontare un lungo percorso, seguendo il principale insegnamento di papà: fare il proprio dovere. Ho continuato a studiare, ho costruito il mio futuro gettando le basi per mettere su una famiglia. A 19 o 20 anni non puoi avere gli strumenti per comprendere appieno quello che ti sta accadendo intorno, il che non significa delegare ad altri la domanda di verità: noi quella l’abbiamo sempre chiesta, a partire dal 20 luglio 1992. Ma ci sono consapevolezze che si acquisiscono nel tempo».

Le mie due vite  «Dopo la strage ho terminato gli studi all’università, ho cominciato a lavorare con una dedizione che non mi concedeva molto spazio per l’impegno civile. Insieme ai miei fratelli abbiamo seguito mia madre nella sua lunga malattia, e siamo rimasti in rispettosa attesa nei confronti delle istituzioni giudiziarie che dovevano darci delle risposte. In fondo anche questo è stato un insegnamento di nostro padre: avere fiducia nell’amministrazione della giustizia. C’erano i processi, abbiamo aspettato che si concludessero. Nel frattempo ho messo al mondo due bambine, Felicita e Futura, che oggi hanno 8 e 6 anni e rappresentano il mio paradiso: sono loro a darmi la forza di guardare l’inferno che s’è spalancato davanti ai miei occhi quando ho scoperto i depistaggi fabbricati da alcuni investigatori, di fronte ai quale i magistrati non hanno sorvegliato o si sono voltati dall’altra parte. Ora che le mie figlie sono cresciute mi posso permettere di dedicarmi anche ad altro, la mia famiglia mi concede il tempo e il sostegno necessario a studiare le carte processuali e girare l’Italia per denunciare uno scandalo di cui ancora non si vede la fine. Forse in passato qualcuno ha scambiato la nostra educazione e il nostro rispetto verso le istituzioni per superficialità e buonismo, ma ha sbagliato i suoi calcoli. Prima la nostra casa era sempre piena di amici, falsi amici, mitomani, controllori che volevano verificare le nostre reazioni e tenerci buoni; adesso non ci cerca più nessuno, siamo soli. Ma non importa, abbiamo ugualmente la forza per andare avanti».

I depistaggi e le denunce. «A forza di studiare verbali, perizie e sentenze mi sono fatta una certa competenza, e posso dire che la responsabilità dei depistaggi portati alla luce dal pentito Gaspare Spatuzza nel 2008 (si autodenunciò per la strage smascherando il falso pentito Vincenzo Scarantino, ndr) non è solo degli investigatori che hanno costruito a tavolino una falsa verità. I pubblici ministeri che negli anni Novanta hanno condotto le indagini e sostenuto l’accusa nei processi, non hanno visto o non hanno voluto vedere. A parte il balletto delle ritrattazioni e controritrattazioni, dopo un confronto tra Scarantino e un collaboratore del calibro di Salvatore Cancemi che implorava i magistrati di non credere alle bugie di quel personaggio, hanno evitato di depositare le trascrizioni lasciando che il depistaggio proseguisse. E chi s’è accorto che qualcosa non andava s’è limitato a un paio di lettere messe agli atti. Mio padre nel 1988 denunciò pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia, e per questo rischiò di finire sotto processo disciplinare davanti al Csm; è stato lui a insegnare a me, ma prima ancora ai suoi colleghi, che le ingiustizie vanno svelate. Il male non lo commette solo chi uccide, anche l’indifferenza è colpevole. Sulla strage di via D’Amelio c’è stata una regia occulta per sviare le indagini agevolata dalle sentinelle rimaste in silenzio. È come se un medico vedesse una cartella clinica palesemente falsa e non dicesse nulla. La cosa più incredibile di questa vicenda non è che qualcuno abbia depistato, perché questo purtroppo è accaduto più volte nella storia d’Italia, ma che nessuno si sia messo di traverso nonostante le carte parlassero da sole, fin da subito. Nella migliore delle ipotesi i magistrati sono stati funzionali al depistaggio con la loro incapacità o insipienza, e ancora oggi non ho sentito nessuno ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa».

L’incontro con gli assassini. «Quando ho chiesto e ottenuto di incontrare in carcere i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (due dei capimafia responsabili della strage di via D’Amelio, ndr) l’ho fatto per l’urgenza emotiva di condividere il dolore non solo con le persone vicine e affini, ma anche con chi quel dolore ha provocato. Guardarli e farmi vedere in faccia. E seppure non ci sono stati risultati tangibili, penso che per loro trovarsi di fronte a una vittima qualche effetto l’abbia provocato. Giuseppe è stato arrogante e quasi offensivo chiamando Paolo Borsellino “la buonanima di suo padre”, e ho notato una certa strafottenza mentre si vantava del figlio che è riuscito ad avere durante il “carcere duro”. Ma sono convinta che ad uscire rafforzata da quei colloqui sono stata io, non loro; loro sono i veri morti di questa storia, non io che vivo insieme a mio padre in ogni momento della mia esistenza. Ho fatto un salto nel buio che è servito a farmi sentire più forte, più determinata a chiedere spiegazioni. Io non cerco altre risposte precostituite, voglio solo ricostruire gli anelli di una catena. Lo ritengo un mio dovere, se ognuno avesse fatto il suo in questi anni oggi non saremmo a questo punto. Mio padre ha fatto tutto ciò che ha potuto non solo per processare i mafiosi ma anche per sconfiggere la cultura mafiosa, senza mai smettere di parlare ai giovani che sono la speranza per il futuro. È quello che provo a fare anch’io, perché in fondo pure le coperture e l’omertà istituzionale che hanno avallato i depistaggi rientrano nella cultura mafiosa.

La verità. «Ma non impiccherò la mia vita a questa storia, non voglio rimanere inchiodata all’ingiustizia subita. La verità sulla strage di via D’Amelio e quello che è successo dopo non riguarda solo la nostra famiglia, ma l’intero Paese. E anche se non arriveremo a ricostruirla per intero, e dopo 27 anni so bene che è molto difficile, avrò comunque la consapevolezza di non dovermi rimproverare nulla. A differenza di altri”. di Giovanni Bianconi Corriere della Sera Luglio 2019


19.07.2019 – Mi vergogno di questo Stato  Una lettera firmata dall’ormai ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, alla vigilia del 27° anniversario della strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta, è stata inviata ieri a Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992.   «L’ultimo affronto (la lettera di Riccardo Fuzio, ndr), da parte di uno Stato che non ha mai voluto fare niente per individuare i veri colpevoli del depistaggio sulla morte di mio padre» rivela al Quotidiano del Sud Fiammetta Borsellino che da anni ha  intrapreso una battaglia per avere verità e giustizia sulla morte di suo padre.  «Una lettera – sottolinea Fiammetta –  che vengono i brividi a leggerla, che mi indigna e che indignerebbe anche mio padre e tutti i magistrati che fanno e che hanno fatto il loro dovere». Fiammetta Borsellino, indignata e amareggiata, rivela al Quotidiano del Sud di aver ricevuto proprio ieri la lettera di Fuzio (che si è dimesso dopo essere stato indagato dalla Procura di Perugia per rivelazione del segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sull’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara). Una lettera che, dice ancora Fiammetta Borsellino, è la dimostrazione di uno Stato incapace di cercare la verità. Ma non è tutto, Fiammetta Borsellino spara a zero anche contro la Commissione nazionale antimafia e contro il Parlamento che «strumentalizzano», a fini mediatici, e in occasione del 27° anniversario della morte di suo padre, desecretando atti del Csm e della stessa Commissione antimafia. «Una vergogna» dice Fiammetta Borsellino.

Ma cosa le ha scritto l’ex procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio? «Una lettera incredibile e vergognosa, nella quale dice di non essere riuscito a far nulla per avviare una indagine per l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio, indagati dalle procure di Messina e Caltanissetta: una indagine che avrebbe dovuto portare ad individuare i magistrati responsabili del depistaggio».

Mi spieghi, cosa non ha fatto l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio? «Un anno fa io e mia sorella Lucia siamo state convocate da Fuzio, al quale abbiamo portato carte, documenti testimonianze ed altro, e lui ci aveva assicurato un suo intervento per promuovere l’azione disciplinare. Perché che ci siano dei magistrati responsabili del depistaggio sull’inchiesta di mio padre, non lo diciamo noi figli di Paolo Borsellino, ma l’ultima sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta. Adesso questa lettera, scritta tra l’altro con i piedi, ci indigna ancor di più, perché dopo un anno Fuzio sostiene di non avere avuto il tempo di occuparsi di questa vicenda perché era impegnato in altre vicende giudiziarie. Quali lo abbiamo scoperto in queste ultime settimane, perché era occupato a pilotare con Luca Palamara  le nomine dei procuratori di Roma,Torino ed altre procure. Una vera e propria indecenza, si è consumato da solo».

 Insomma, è sempre più difficile ottenere la verità sulla morte di suo padre e dei suoi angeli custodi,  i cinque poliziotti che morirono con lui? «Sono passati 27 anni ed i risultati, quelli dal punto di vista processuale, dicono che  siamo con una sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta che prova il depistaggio ed un’altra inchiesta dove ci sono due magistrati indagati e non c’è stato nessun avvio  di provvedimenti, dopo evidenti anomalie. C’è stata  una totale presa in giro da parte della Procura generale della Cassazione».

Cosa chiede allo Stato?  «Semplicemente di fare il proprio dovere. Questa è una storia molta amara, se ognuno avesse fatto il proprio dovere, di non girarsi dall’altra parte,  non avremmo magistrati indagati e poliziotti indagati. Semplicemente fare il proprio dovere dare un contributo di onestà da parte delle istituzioni».


17.07.2019 – Su indagini tante omissioni e irregolarità – Video


 

17.7.2019 – FIAMMETTA BORSELLINO: «HANNO TRADITO PAPÀ ANCHE DA MORTO»  La figlia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992 ricorda la figura paterna e denuncia i depistaggi. «Per me quella di via D’Amelio fu una strage di stato. Non a caso la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta del 2017 dice che indagini e processi sono stati caratterizzati da gravissime anomalie»La verità sulla strage di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta è ancora nascosta nel buio fitto di un mistero infinito. Da quella tragica domenica (era il 19 luglio 1992), diventata la data di uno dei più sanguinosi attentati mafiosi, la famiglia del magistrato diventato il simbolo, con Giovanni Falcone, della lotta contro Cosa Nostra, continua a cercare la verità. Una verità disattesa e forse “scomoda”, che sarebbe purificatrice delle coscienze e sedimento civile per onorare il sacrificio di uomini che hanno servito lo Stato.  Fiammetta Borsellino, 46 anni, porta nell’animo lacerato il profondo dolore per la morte di suo padre e le inquietudini, i turbamenti per una giustizia talvolta inquinata e perversa, non sempre fedele ai principi di equità e uguaglianza. «Le indagini e i processi sono stati caratterizzati da depistaggi e da gravissime anomalie sia da parte di alcuni poliziotti che di certi giudici», dice la figlia più piccola del magistrato che nel maggio scorso ha ricevuto a Massafra, in provincia di Taranto, il premio “Eccellenza Franco Salvatore” nell’ambito del Magna Grecia Awards, un progetto ideato e diretto dallo scrittore regista Fabio Salvatore, giunto alla sua 22esima edizione. «La sentenza Borsellino quater, nel 2017, pronunciata dalla Corte di Assise di Caltanissetta, ha definito quella di via D’Amelio (per me una strage di Stato) uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria del Paese», puntualizza Fiammetta Borsellino. «Questa è una grande offesa non soltanto della nostra famiglia ma anche dell’intero popolo italiano. Ma non bisogna arrendersi. Oggi grazie al lavoro di nuove Procure, come quelle di Messina e di Caltanissetta, si sta cercando di dipanare l’ingarbugliata matassa e di capire attraverso ulteriori approfondimenti e accertamenti perché tutto questo sia avvenuto. C’è stato un tradimento nei confronti di mio padre quand’era in vita che poi è continuato anche dopo la sua morte». Paolo Borsellino lasciato solo, come lo fu anche Giovanni Falcone. «Le menti raffinate della mafia avevano deciso di colpire mio padre, ma chi doveva fungere da sentinella della giustizia per proteggerlo, mi riferisco ai magistrati e ai poliziotti, non lo ha fatto. Non c’è stato solo il braccio armato a compiere la strage, ma anche elementi esterni a Cosa Nostra come alcuni politici. Tutto questo getta ombre inquietanti sull’intera vicenda. Mio padre ripeteva spesso: “La mafia mi ucciderà quando mi avranno isolato”. Una consapevolezza sconvolgente, quasi un segno premonitore di quello che poi sarebbe accaduto». Giovanni Falcone e Paolo Borsellino insieme ai colleghi magistrati del pool, con coraggio e determinazione, allargarono il fronte delle indagini sul malaffare squarciando il velo omertoso sulle connessioni tra mafia e politica per la gestione della cosa pubblica. «Nello Stato italiano, parallelamente alle istituzioni, cammina una parte malata e malvagia che si nutre di un indissolubile connubio tra la politica, poteri forti, potentati economici e mafia. Mio padre diceva che “la mafia e la politica sono due poteri che agiscono per il controllo dello stesso territorio; di conseguenza o si fanno la guerra oppure si mettono d’accordo attraverso il voto di scambio e la gestione illegale degli appalti”. Il mafioso da tempo si è introdotto nelle istituzioni. Cosa Nostra non va più identificata con la coppola e la lupara. Ormai ha assunto una sua elevata capacità di occupare posti chiave all’interno della pubblica amministrazione allargando da tempo i suoi interessi anche nel Nord Italia. Di fatto ha raggiunto un altissimo livello di continuità e di contiguità con il potere politico ed economico». Le organizzazioni criminali alzano il tiro per incrementare gli affari illeciti. Si alimentano e proliferano facendo proseliti tra i giovani che spesso vivono nell’emarginazione e nel disagio sociale. «La lotta alla criminalità organizzata richiede un forte impegno civile da parte di tutti. Dopo la morte di Falcone e di mio padre è sbocciata quella rivoluzione culturale e morale che lui stesso auspicava. Solo quando le nuove generazioni negheranno il consenso alla mafia, ci saranno più possibilità per sconfiggerla». Fiammetta Borsellino, che ha dedicato il premio Magna Grecia Awards a insegnanti e docenti, è diventata la paladina di una battaglia civile per la giustizia e l’equità. «Cerco di trasmettere ai giovani l’esempio di mio padre. Condivido con loro la mia esperienza personale che sento come un dovere civile. La scuola è un importante avamposto educativo dove far lievitare la consapevolezza della legalità e del rispetto delle regole. Quando parlo ai ragazzi colgo la loro attenzione, il loro desiderio di costruire una società migliore. Vado spesso anche nelle parrocchie che aprono le loro porte ai cittadini perché credo sia indispensabile poter dialogare nella maniera più ampia possibile per scuotere le coscienze e arrivare al cuore della gente. Bisogna abbattere il muro dell’omertà, della paura». L’eredità lasciata da Paolo Borsellino ha tracciato un solco indelebile per edificare un futuro migliore, nell’attesa che venga fatta chiarezza sui punti oscuri che ancora avvolgono la strage di via D’Amelio. Fiammetta con un filo di emozione dice: «I lunghi anni delle indagini e dei processi hanno scandito l’inesorabile passare del tempo, che in casi come questo compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità. Ma non si deve smettere di tendere a essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. Non è ammissibile. Mio padre era un cristiano vero, un fervente cattolico, ma soprattutto era una persona credibile, che ha fatto dell’impegno costante e quotidiano nell’antimafia la sua ragione di vita. Io porto dentro i valori positivi che mi ha insegnato: il senso di giustizia, la legalità, la comprensione dell’uomo.   FAMIGLIA CRISTIANA 17.7.2019

23.05.2019 – NON ABBASSARE LA GUARDIA!  Abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo Borsellino sull’importanza di far rimanere alta l’attenzione sulla mafia e sulla necessità di far conoscere queste vicende alle nuove generazioni con un nuovo messaggio di speranza. Oggi ricorre la giornata della legalità, 27mo anniversario dalla Strage di Capaci che vide la morte del Giudice Giovanni Falcone, della moglie, Francesca Morvillo e degli agenti della scorta avvenuto il 23 maggio del 1992. In questa giornata si commemorano quelle che sono state le grandi figure istituzionali e non, che hanno fatto della lotta alla mafia la loro ragion di vita e proprio per quest’ultima motivazione sono stati uccisi. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992 ci fu la Strage di Via d’Amelio, in cui rimase ucciso il Giudice Paolo Borsellino, che di Falcone era amico e con lui era stato protagonista del pool antimafia. Abbiamo intervistato Fiammetta Borsellino, figlia minore di Paolo Borsellino, sul significato che hanno oggi queste ricorrenze alla luce delle domande rimaste ancora senza risposta, sull’importanza di far rimanere alta l’attenzione sulla mafia e sulla necessità di far conoscere queste vicende alle nuove generazioni con un nuovo messaggio di speranza.  
Signora Borsellino, oggi ricorre il 27° anniversario dell’attentato a Giovanni Falcone, al quale seguì, il 19 luglio, quello a suo padre, Paolo Borsellino. Dopo 27 anni quanto ancora non si sa di questi attentati? Nel 2017 c’è stata una sentenza che ha stabilito come la strage di Via D’amelio sia stata una dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana. Sono stati anni di processi, ancora oggi si sta disperatamente cercando di capire chi ha cercato per tutti questi anni l’allontanamento della verità. Non è ancora chiaro chi che sono effettivamente i mandanti di quella terribile strage nella quale perse la vita mio padre. Una delle cose che ha impedito la scoperta della verità è stata sostanzialmente una serie di indagini, di processi fatti male, anche da parte delle istituzioni, che ha avuto come effetto principale l’occultamento e l’allontanamento della verità. 
Alla luce dei depistaggi emersi dall’inchiesta sulla strage di via D’amelio, secondo lei, la mafia è solo un’esecutrice, il cui mandante è da cercare altrove? Ci sono delle indagini in corso, quindi, diciamo che non è opportuno trarre delle conclusioni. È molto probabile che ci siano state delle menti esterne a Cosa Nostra che si sono servite dell’odio che questi criminali avevano nei confronti dei magistrati. In questo senso possiamo dire che Cosa Nostra, quale mano armata, è stata “utilizzata” da chi all’esterno voleva l’eliminazione di queste persone. 
Se un bambino dovesse fermarla per strada chiedendole cos’è la mafia, cosa risponderebbe? La mafia è un’organizzazione criminale fatta di regole, di rituali. Un’organizzazione simile ad uno Stato. Ha una mentalità che si basa sull’oppressione. È una mentalità che trae le sue fondamenta da una concezione della vita come affermazione del potere. 
La mafia sembra essere un’argomento che torna di moda solo in occasione di questi anniversari, sembra che si voglia far passare l’idea che sia ormai un problema risolto o per lo meno divenuto marginale. Qual è il pericolo in questo atteggiamento? Il problema delle organizzazioni criminali, delle mafie è molto complesso, perché sono molto abili anche nel muoversi, hanno una buona capacità di organizzarsi, quindi, cedere alle semplificazioni ritenendo la mafia vinta è un’atteggiamento che fa male al contrasto alla criminalità organizzata. È un problema troppo complesso, per tanto non si deve e non si può cedere alle semplificazioni, perché quando si abbassa la guardia si può dare agio a queste organizzazioni di agire. Ed è molto pericoloso. Bisogna diffidare da tutti coloro che pensano e che dicono che vogliono delle risoluzioni, perché il problema è di una complessità tale che non è facilmente risolvibile. Quanto è importante la sensibilizzazione delle giovani generazioni e l’inserimento di questa storia nei libri scolastici? Far comprendere queste problematiche attraverso la storia degli uomini che l’hanno vissute è fondamentale perché la potenza criminale delle organizzazioni criminali si basa sul consenso dei giovani. Mio padre diceva sempre: “Quando le giovani generazioni le negheranno il consenso saremo avanti nella lotta alle mafie”. Questo problema si combatte con la cultura. Uno dei primi modi che hanno i giovani di contrastare la criminalità organizzata è studiare. È lo studio che ti dà consapevolezza dei tuoi diritti e dei tuoi doveri e anche di quelle che sono le proprie responsabilità. Se si ha questa consapevolezza, si è fatto già un primo passo nella lotta alla mafia. Paolo Borsellino diceva sempre che in qualunque caso, in qualunque luogo si sarebbe dovuto parlare della mafia: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”. Punto e a Capo 23.5.2019


19.05.2019 –  IL DEPISTAGGIO? GRAVE OFFESA PER LA MIA FAMIGLIA E PER L’ITALIA INTERA   Abbiamo avuto indagini e processi fatti male. Oggi si sta cercando di capire grazie all’attività di nuove Procure perché tutto questo sia avvenuto. È ovvio che questo depistaggio, per quanto grossolano, è veramente un’offesa non soltanto all’intelligenza della nostra famiglia ma dell’intero popolo italiano”. “Nel 2017 c’è stata una sentenza, quella conclusiva del Borsellino quater che ha definito quello di via D’Amelio il più grave e grande depistaggio della storia giudiziaria di questo Paese. Il depistaggio anche nella sua grossolanità ha avuto l’effetto che doveva avere, cioè il passare del tempo. E il passare del tempo in questi casi è deleterio, compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità, ma non per questo si deve smettere di tendere ad essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. E questo noi non lo riteniamo ammissibile”.


18.5.2019 Scarantino: «Su via D’Amelio solo Ilda Boccassini capì le mie menzogne»  Ilda Boccassini, l’allora pm di Caltanissetta, che indagò sulle stragi mafiose del 1992 mise in dubbio le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino «Scaranti’, io non le credo», questo disse nel 1994 l’allora pm di Caltanissetta Ilda Boccassini che indagò sulle stragi mafiose del 1992 a Vincenzo Scarantino per un colloquio investigativo, il quale da qualche mese collaborava con i magistrati per raccontare alcuni retroscena sulla strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Dichiarazioni che poi si riveleranno farlocche, ma riconosciute tali solo dopo diversi anni e grazie al Borsellino quater il quale certificò che l’indagine sulla strage di Via D’Amelio fu il più grande depistaggio della storia. A raccontare questo retroscena in aula, al processo sul depistaggio sulle indagini della strage di 27 anni fa, è proprio Vincenzo Scarantino. Non ha chiarito se si trattava di un interrogatorio formale o un colloquio ma ha ricordato che alla fine dell’incontro, Ilda Boccassini lo osservò e, guardandolo fisso negli occhi, gli disse quella frase: «Scaranti’, io non le credo». Di più non ha aggiunto l’ex picciotto della Guadagna, al secondo giorno di deposizione nel processo che vede alla sbarra tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, che facevano parte del Gruppi investigativo “Falcone e Borsellino” guidato dall’allora capo della Squadra mobile Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. I tre, ricordiamo, sono accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra. Nel dicembre del 2015 Ilda Boccassini, deponendo in videoconferenza al processo Borsellino quater, aveva ripetuto le sue perplessità sulla credibilità di Scarantino che però era stato creduto da poliziotti e pm. «Il pentimento di Scarantino? La prova regina della sua inaffidabilità», aveva detto. E ancora: «Verificare quello che diceva Scarantino non era mio compito, io stavo per andarmene ed ero impegnata in altre attività e quelle spettavano ad altri pm». Perplessità che furono oggetto anche di una lettera inviata alle Procure di Caltanissetta e Palermo. Scarantino, durante la sua deposizione, ha aggiunto altri dettagli per quanto riguarda i motivi per il quale era stato indotto a confessare e accusare persone del tutto estranee alla strage dove perse la vita Borsellino. «Io ero un ragazzo – ha raccontato Scarantino, anche ieri coperto da un paravento per non farsi vedere – E se non combaciavano le cose che dovevo dire, loro mi dicevano di non preoccuparmi. Io andavo dei magistrati e ripetevo, quando ci riuscivo, quello che mi facevano studiare». Scarantino si riferisce al periodo del 1995, quando l’ex pentito si presentò per la prima volta davanti a una corte d’assise al processo per la strage di via D’Amelio. «Ma non sempre riuscivo a spiegare ai magistrati o alla corte quello che mi insegnavano. Loro mi dicevano. “Quando non sai una cosa basta che dici ai magistrati che devi andare in bagno, tu ti allontani e poi ci pensiamo noi. Ti diciamo noi quello che devi dire”. Quando andavo alle udienze dicevo che dovevo fare la pipì, andavo nella stanza e mi dicevano loro cosa dire. E io poi in aula cercavo di ripetere le cose che mi dicevano». Poi, il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, che rappresenta l’accusa con il pm Stefano Luciani, gli ha chiesto del periodo trascorso da Scarantino a Imperia dove viveva sotto protezione con la sua famiglia. «Veniva il dottor Bo con una carpetta – ha detto Scarantino -, c’era Mattei che consegnava dei fogli e loro mi tranquillizzavano. Mi dicevano sempre di stare tranquillo ma la mia coscienza non mi permetteva di avere questa tranquillità che loro mi volevano trasmettere». E ha parlato di ‘ minacce psicologiche’ che avrebbe subito da un altro poliziotto, Vincenzo Ricciardi. «Gli dissi che ero innocente, lui mi ha fatto questa minaccia psicologica che ero lontano da mia moglie e dai miei figli che, per me, erano la cosa più importante della mia vita e quando toccavano questo tasto io rischiavo di impazzire».


7.5.2019 Fiammetta Borsellino: «L’ergastolo va rivisto: più educatori e meno agenti»  Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso nella strage di Via D’Amelio, ha partecipato a due incontri in Calabria Verità, diritto alla conoscenza, depistaggi e difesa dello Stato di diritto. Queste le parole chiave del ciclo di incontri, organizzati dall’associazione Yairaiha Onlus, che si sono conclusi la settimana scorsa e che hanno visto la partecipazione di Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo il 19 luglio del 1992. Nei due incontri, il primo a Catanzaro, alla facoltà di Sociologia e il secondo al Comune di Rende, presso la sala Tokyo del Museo Del Presente, non si è parlato dell’antimafia come di solito avviene nei convegni sponsorizzati dai mass media, dove molto spesso la narrazione non coincide con lo Stato di diritto, evocando teorie della cospirazione che – divenute una spada di Damocle – frenano qualsiasi governo nel rivedere quelle misure emergenziali divenute nel frattempo ordinarie. Si è parlato della ricerca della verità sulle stragi, in particolar modo quella che ha coinvolto Borsellino. Così come sono stati trattati i temi del sistema penitenziario, che assume a volte forme più vendicative che non di reinserimento del detenuto nella società, e del giusto processo, da tutelare perché garantito dalla Costituzione. La verità sulla strage di via D’Amelio, infatti, è stata insabbiata dal depistaggio certificato, dopo 26 anni, grazie alla sentenza del Borsellino quater. Depistaggio avvenuto non solo per la conduzione delle indagini, ma reso possibile anche grazie l’irritualità dello svolgimento dei primi processi. «ll vero aiuto che avremmo dovuto avere da parte dello Stato non era una pacca sulla spalla, ma risposte precise», ha esordito Fiammetta Borsellino durante il primo incontro. Ma non solo. «Si parla sempre dell’agenda rossa di mio padre – ha spiegato Fiammetta -, ma nessuno dice della scomparsa dei tabulati telefonici del suo cellulare, unico oggetto rimasto integro dopo la strage». Ma la causa della morte del padre? Un quesito posto da Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, che ha sottolineato come solo pochi giornalisti– incappando in querele – ricordino ad oggi la vecchia storia del dossier mafia- appalti. Fu un’operazione condotta dai Ros e depositata in Procura a Palermo nel ’ 91 su spinta di Giovanni Falcone. Un dossier che poi interessò molto Paolo Borsellino. Ed è la figlia che risponde, ribadendo che la concausa della morte del padre è da ritrovarsi nel suo interessamento sul dossier di mafia- appalti. Ricordiamo che questa indagine è stata presa in considerazione, con sentenza definitiva emessa il 21 aprile del 2006, da parte della Corte d’Assiste d’Appello di Catania. Scrivono, infatti, i giudici che Falcone e Borsellino erano «pericolosi nemici» di Cosa Nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti. Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale motivazione sarà poi ripresa anche nel Borsellinoquater, dove furono acquisite anche le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè, secondo cui «il dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti”, appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che ha portato all’uccisione di Falcone e Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno». Nella decisione di eliminare i due magistrati, quindi, aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione del Borsellino quater -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura».  Fiammetta Borsellino ha ribadito l’importanza del dossier e ha chiesto lumi sulla richiesta di archiviazione, che fu depositata dopo tre giorni dalla morte del padre. Ha aggiunto la figlia del giudice, a proposito dei giornalisti che vengono querelati, l’importanza del diritto all’informazione e ha approfittato per ricordare che è a rischio la chiusura di Radio Radicale, «perché se non ci fosse stata lei che segue tutti i processi, noi oggi non sapremmo nemmeno di cosa si sta parlando». Fiammetta poi è ritornata su mafia- appalti e ha aggiunto qualcosa di inedito. Il 14 luglio, cinque giorni prima dell’attentato, ci fu una riunione alla Procura di Palermo avente come oggetto anche la questione del dossier mafia- appalti, proprio perché i giornali montarono delle polemiche circa la conduzione dell’inchiesta. Vi partecipò Paolo Borsellino. La figlia, durante il primo convegno alla facoltà di Catanzaro, ha quindi posto una domanda: «Qualcuno tra magistrati e componenti del Csm, saprà dirmi cosa disse mio padre quel giorno?». Durante il convengo di Rende, parliamo della seconda e ultima giornata del ciclo di incontri, interessante l’intervento del sociologo Ciro Tarantino che parte dalla domanda posta dalla locandina dell’evento “Chi è Stato”, con un duplice significato dal “chi è stato” l’esecutore delle stragi a chi è Stato con la maiuscola. «Gianni Rodari – ha spiegato Tarantino – dava valore cambiando la minuscola con la maiuscola, quindi qual è questa parte di Stato che si è reso responsabile della strage di via D’Amelio?». Il sociologo ha sottolineato che nella storia repubblicana tale domanda si pone inevitabilmente sempre dopo le stragi, esattamente quando si fanno i funerali, appunto, di Stato. «Ed è proprio in quel momento – ha aggiunto – che si verifica lo scarto tra lo Stato ideale che noi vogliamo, da quello reale». Tarantino ha puntato sul diritto alla verità e quindi l’importanza della memoria collettiva. «Gianni Rodari – ha concluso – sosteneva che la verità è una malattia e oggi assistiamo ad una molteplicità di verità prive di sapere. La memoria collettiva deve invece essere alimentata dalla duplice volontà di sapere». Si è affrontato anche il ripristino del 41 bis, così come la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara. È intervenuto a tal proposito il presidente della camera Penale di Cosenza, avvocato Maurizio Nucci: «I diritti del soggetto non vengono garantiti, la Costituzione è violata perché viene a mancare il diritto alla speranza». Poi c’è Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaha, ha posto delle riflessioni in merito all’ergastolo ostativo e al carcere duro: «Ci sono persone condannate all’ergastolo, a cui è stata rubata la vita al pari delle vittime delle stragi. È necessario un regime carcerario che anche l’Onu considera tortura? Serve ad ottenere la verità?». Fiammetta Borsellino ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano «in quell’inferno del 41 bis», così come ha voluto sottolineare. «Sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato!», ha affermato Fiammetta. E ha aggiunto: «Bisogna rivedere l’ergastolo! Più personale di sostegno, psicologi, educatori, sociologi, meno guardie carcerarie». La figlia di Borsellino ha così concluso il suo pensiero: «lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta non serve». 


19.4.2019 San Benedetto, Fiammetta Borsellino coinvolge studenti Liceo Classico ”Leopardi”

“Una giornata che vi porterete dentro tutta la vita”. Questa è stata la frase con cui il professor Fabio Giallombardo, docente del Liceo Classico “Leopardi” di San Benedetto del Tronto, ha concluso l’incontro con la dottoressa Fiammetta Borsellino. Tale incontro si è inserito nell’ambito del progetto “Giu la maschera” ideato dallo stesso professor Giallombardo a cui, come ha anche ricordato il dirigente scolastico Maurilio Piergallini, “hanno partecipato 37 ragazzi che hanno iniziato un percorso di cittadinanza attiva, di educazione al sano e al buon comportamento, un progetto che è diventato un vero e proprio pilastro per l’educazione alla legalità”. Una frase, quella del professore, che sintetizza l’incontro che si è tenuto nella mattinata di martedì 16 aprile al teatro Concordia con la figlia del giudice assassinato dalla mafia il 19 luglio 1992. Preziosa è stata la testimonianza di una donna vera, che, dopo la morte del padre, ha vissuto una vita da ragazza normale e non da figlia di un giudice, che ha affrontato la vita mossa da quell’amore e da quella serenità che hanno portato lei e la sua famiglia a fare delle domande, ad affrontare con tutti i mezzi possibili il depistaggio, arrivando addirittura ad avere un colloquio con i fratelli Graviano, due dei mandanti. La Borsellino, infatti,  non ha vissuto la sua esistenza con rabbia e non è mai stata mossa da quell’odio reiterato che altri parenti di vittime continuano a provare, perché indignarsi è qualcosa che dura un attimo, invece la ricerca della verità è qualcosa che ti anima per tutta la vita.  “Quello che sto facendo è un mio dovere di figlia e di cittadina” inizia così a parlare ai ragazzi, ai docenti, alle vere persone da premiare che lavorano in silenzio e spesso senza mezzi così come ha fatto suo padre, alle forze dell’ordine presenti e a tutti coloro che erano lì a tratteggiare attraverso le parole di una figlia, l’immagine di un padre diverso da quello dei libri, delle fiction o dei giornali; un padre la cui morte è ancora un puzzle irrisolto ma la cui vita è ricordata da tutti con grande ammirazione. “Mio padre giocava a calcio con i figli dei mafiosi ma ha deciso di cambiare strada. Palermo non gli piaceva e per questo ha deciso di amarla perché il vero amore è amare le cose che non ci piacciono e cambiarle. Mio padre era quello che ogni sera si guardava allo specchio e si chiedeva se quel giorno avesse meritato lo stipendio”. Di certo era l’ultima persona che se lo sarebbe dovuto chiedere. Una persona che insieme a Giovanni Falcone ha cambiato il metodo di contrasto alla criminalità, che ha trasformato il suo lavoro in una missione, guidata da umiltà e semplicità, priva di ogni burocratismo ma ricca di umanità perché “qualsiasi lavoro assume una qualità diversa quando si va oltre un rapporto formale”.  Quelle di Fiammetta Borsellino e di Fabio Giallombardo sono due testimonianze di figlia e di storico, ma soprattutto di due di quei tanti palermitani e siciliani che, dopo quell’evento, hanno preso coscienza di quello che era successo e della volontà di cambiare perché, se i siciliani hanno permesso che si diffondesse la malattia, hanno anche provveduto a diffondere l’antidoto con una strenua lotta all’organizzazione mafiosa. Tale lotta oggi continua con il tentativo di comprendere la spirale di meccanismi che muovono il “Depistaggio”, seguito alla strage, che ha trovato un punto di svolta nella sentenza del “Borsellino Quater”. Ai tanti perché, ai tanti dubbi, la dottoressa Borsellino risponde con la serenità che la caratterizza: “Il percorso di verità è stato disatteso. È avvenuto tutto questo per indifferenza, perché molti si sono girati dall’altra parte per non avere problemi, per paura di opporsi al sistema, per ansia di carriera, per trovare subito una risposta usando anche la scorciatoia più breve. Noi possiamo soltanto chiedere che si faccia chiarezza”. Se un giudice muore non è soltanto colpa della criminalità organizzata, ma muore anche perché è rimasto solo, perché esiste una parte malata dello Stato che scende a patti con la criminalità, perché ci sono persone che potevano e dovevano fare qualcosa ma non l’hanno fatto, forse per incapacità, forse per disattenzione.“Quando si vede qualcosa di storto bisogna denunciare pubblicamente” ha ripetuto più volte la dottoressa Borsellino sottolineando che l’antimafia non deve essere delegata alla magistratura ma deve essere portata avanti dalla collettività perché, come dicevano sempre soddisfatti Falcone e Borsellino, “La gente fa il tifo per noi”. Questo è stato uno dei messaggi dell’incontro: fare sempre il tifo per loro, per quella sana magistratura, per quello stato sano a cui Paolo Borsellino è rimasto fedele e anche Fiammetta, nonostante tutto, rimane fedele. La mitezza e la pace di una donna che ha vissuto momenti indescrivibili hanno stupito tutto l’uditorio: “Così come mio padre ci ha insegnato ad affrontare la paura col sorriso, io faccio la stessa cosa. Parlo di lui alle mie figlie. Parlo di mio padre come se fosse una persona ancora viva perché i veri morti sono altri, chiusi nel loro mutismo, chiusi nella loro fedeltà alla mafia”.  Parole di speranza, parole che svegliano la propria coscienza, il tribunale più rigido al cui esame tutti dovranno sottoporsi. Parole che spingono la cittadinanza e la scuola a non perdere la memoria, a non ricordare soltanto il 23 maggio o il 19 giugno; ma sono parole che spingono tutti a pretendere risposte sempre mossi da quei valori per i quali uomini come Paolo Borsellino hanno dato la propria vita. Smettiamo di avere paura perché, come diceva Giovanni Falcone, “chi ha paura muore ogni giorno e chi non ha paura muore una volta sola”. PICENO TIME


26.3.2019 – Fiammetta Borsellino: «Se per quelle indagini su via D’Amelio si fosse usato il metodo di mio padre…»  Fiammetta, figlia di Paolo «non sono tutti morti, c’è ancora chi, tra gli appartenenti alle istituzioni, non, darà il suo contributo alla verità «Tutto è stato disatteso dalla parte poco sana delle istituzioni: mio padre è stato tradito da vivo e da morto». Sono alcune delle parole, forti e appassionate, di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. Parole seguite da scroscianti applausi da parte delle centinaia di studenti al Teatro Massimo di Cagliari, durante l’incontro della settimana scorsa “La verità è un diritto’, organizzato dall’Osservatorio per la giustizia. Prima dell’incontro, nella mattinata, Fiammetta Borsellino si è recata a Sestu per deporre una corona di fiori sulla tomba di Emanuela Loi, una dei componenti della scorta di Borsellino, uccisa nella strage di via D’Amelio. Ha incontrato Maria Claudia, la sorella dell’agente di scorta, e si sono abbracciate. La prima cittadina Paola Secci, nell’occasione, ha voluto ringraziare l’avvocato Patrizio Rovelli, Presidente dell’Osservatorio per la giustizia, che ha reso possibile l’incontro. Poi è arrivato il pomeriggio, ed è lì che al teatro Massimo di Cagliari ha preso il via il primo incontro. La sala era gremita e l’emozione ha coinvolto tutti i partecipanti.  «Sono qui – ha esordito Fiammetta – per condividere con voi il ricordo di mio padre e con l’auspicio che assuma un ruolo diverso, perché diventi il patrimonio di un popolo: parliamo di un uomo che è morto nell’esercizio del dovere per senso di fedeltà allo Stato, come salvaguardia dei diritti e delle libertà». La figlia più piccola di Paolo Borsellino parla del coraggio di portare avanti la scelta da che parte stare «anche quando c’è il pericolo: la paura non è grave – sottolinea Fiammetta -, purché ci sia il coraggio. Mio padre – ha raccontato – prima di andare a letto si guardava sempre allo specchio per capire se lo stipendio se lo fosse meritato». Fiammetta era giovanissima quando il padre era ancora in vita e istitutiva il maxi processo, ricorda la scrupolosità che utilizzava per le indagini. «Metodo di indagine – ha raccontato – non avvenuto però per l’accertamento dei responsabili sulla strage di Via D’Amelio». Parliamo del più grande depistaggio della storia, come sentenziato dal Borsellino Quater. «Se oggi sappiamo qualche verità – ha spiegato Fiammetta – è perché nel 2008 Spatuzza ha detto la verità, e cioè che non era stato Scarantino che non aveva organizzato la strage». La figlia di Paolo Borsellino ha sottolineato: «Il problema è che Scarantino è stato indotto, da chi lo gestiva, e questo lo stabilisce la sentenza Borsellino Quater». Poi ha aggiunto: «Lui era di infimo spessore ma facilmente manovrabile, perché è stato gestito in primis dai poliziotti e poi dai magistrati che avevano governato le indagini». Il moderatore dell’incontro, l’avvocato Patrizio Rovelli, presidente dell’Osservatorio per la giustizia, ha approfittato per ricordare il ruolo fondamentale dell’avvocato e ha fatto proprio l’esempio della gestione dei pentiti, perché «con loro la prudenza e l’attenzione deve essere massima». Interessante l’intervento della giornalista della Rai Barbara Romano. La domanda posta è stata secca: «Noi abbiamo una sentenza che punta il dito accusando i magistrati e i poliziotti. Da giornalista colpisce l’attacco nei confronti dei magistrati, secondo lei è colpevole insabbiare la verità?». Fiammetta Borsellino ha risposto che un atteggiamento di omissione deve essere accertato. «Prima di tutto dalla magistratura – ha spiegato – e poi dalle autorità disciplinari. Alcuni di questi magistrati – ha sottolineato – erano anche amici della mia famiglia: noi all’inizio, frastornarti, siamo stati in silenzio e in attesa; poi, quando abbiamo iniziato ad alzare la cresta, siamo stati isolati». Barbara Romano ha citato una frase di Borsellino che molto spesso viene riportata a metà. «C’è questa frase, quando suo padre disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i magistrati a permettere che ciò potesse accadere. Cosa direbbe oggi suo padre?». Fiammetta ha risposto: «Non è facile rispondere a questa domanda. Immagino oggi mio padre come una persona che ha raggiunto la sua serenità. Mi piace vederlo non più tormentato come lo era nei 57 giorni dopo che era morto Falcone. Non sono tutti morti, c’è ancora chi, tra gli appartenenti alle Istituzioni e non, darà il suo contributo alla verità e chi dovrà fare i conti con la propria coscienza». L’avvocata del foro di Milano Simona Giannetti ha ricordato di quando era al primo anno di università di Giurisprudenza proprio dopo le stragi, con l’animo di chi aveva un senso di ricerca della giustizia che avevano lasciato le stragi dell’estate 1992. «Volevo fare l’avvocato non il magistrato, perché sentivo di essere una garantista come in fondo lo erano Falcone e Borsellino. Loro avevano un metodo, cioè usavano i riscontri alle dichiarazioni dei pentiti e le consideravano solo il punto di partenza non di arrivo». L’avvocata Giannetti ricorda di come Falcone e Borsellino non erano amati in vita. «Loro davano un po’ fastidio – ha ricordato-, infatti Falcone nel 1991 a ottobre fu costretto a presentarsi davanti al Csm a dare spiegazioni per un esposto che gli fecero i politici di allora e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: gli contestavano di “tenere le carte nei cassetti” come a dire che non faceva i processi, peccato solo che non fossero come i due magistrati e quindi non potevano comprendere quello che Falcone disse al Csm in audizione. Disse che per processare qualcuno, servono i riscontri, perché poi un processo ha delle conseguenze».Quindi Simona Giannetti fa l’inevitabile paragone con il depistaggio. «La sentenza del Borsellino Quater, poco fa già citata, parla delle indagini e le addita per “irritualità” e “anomalie”, quelle che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Ma nel processo – sottolinea- noi sappiamo che forma è sostanza, che il rito è ciò che legittima un atto. Irritualità è un termine che attiene alla sfera processuale, che non è quella dei poliziotti. E allora viene in mente che oggi Fiammetta è suo padre, cerca la verità, con coraggio, come lui le ha insegnato. Se posso dirlo: buon sangue non mente! Fiammetta cerca la verità!». L’avvocata Giannetti poi ha proseguito: «Perché suo padre è morto? Cosa stava facendo prima di morire? Fiammetta, ricordo, è andata da Fabio Fazio e ha detto che non si può fare a meno di cercare nell’indagine mafia- appalti di cui Paolo Borsellino si stava occupando. Sì, il 19.7.1992 alle ore 7 di una domenica mattina Pietro Giammanco, morto a dicembre scorso e mai sentito dagli inquirenti, chiamò a casa Borsellino e diede al Procuratore aggiunto la delega per occuparsi dell’indagine, che fu iniziata da Falcone. Borsellino era solo. Lo ha detto anche oggi Fiammetta: dobbiamo cercare la verità perché è un diritto e solo la verità rende liberi». Poi Giannetti ha ricordato il ruolo essenziale dell’avvocatura nell’accertamento sulla verità. «L’Avvocatura è quella che difende le garanzie costituzionali della difesa e del giusto processo. L’avvocato – ha spiegato Simona Giannetti – è quello che si occupa di evitare che le dichiarazioni di un pentito vengano considerate oro colato dalla Procura per impedire che ci siano i depistaggi». Poi ha aggiunto: «È su Radio Radicale, e permettetemi di dire “ Salviamo Radio Radicale”, che ascoltiamo il processo che è in corso a Caltanissetta nei confronti dei poliziotti che avrebbero materialmente realizzato il depistaggio svolgendo le indagini su Via D’Amelio. In queste registrazioni che, diciamolo, ci sono le difese degli imputati, con i loro esami e controesami, sono quelle che fanno emergere le circostanze più interessanti per tracciare un solco in cerca della verità». Fiammetta Borsellino, sentendo queste ultime parole è intervenuta e ha confermato che le difese sono quelle che fanno le domande che lei stessa ritiene più utili dal punto di vista per la ricostruzione della verità. L’incontro si è chiuso con l’intervento dell’avvocato di Cagliari Fabrizio Rubiu sul ruolo del difensore e sul diritto alla difesa oggi sempre più bisognoso di essere preservato. Un evento unico e raro, dove è emerso per la prima volta che la lotta alla mafia è imprescindibile dalla lotta per lo stato di diritto.


24.3.2019 – LA LOTTA ALLA MAFIA É UN LAVORO DI TUTTI   Faccia a faccia con una donna che tutti i giorni si impegna per fare la differenza e che, proprio come suo padre, non ha paura di esporsi. In questo mondo c’è chi lavora per vivere e chi muore per lavorare. O meglio: chi è morto perché ha fatto del proprio lavoro una missione di vita ed integrità. Fiammetta Borsellino è la terza figlia di uno di questi uomini: il magistrato palermitano Paolo Borsellino. Grazie all’operato di suo padre, conclusosi drammaticamente con la cosiddetta strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, esistono un «prima e un dopo» nella lotta a quel cancro italiano chiamato mafia.

Incontriamo Fiammetta Borsellino in occasione di un incontro sul tema della legalità organizzato dal Gruppo Scout Agesci Fidenza 2.

È solo uno dei tantissimi appuntamenti che la vedono continuamente in giro tra scuole, università e associazioni per portare la propria testimonianza. Una testimonianza senza cenni di autocommiserazione, non da «figlia della vittima», ma da persona combattiva, temprata dagli eventi, che contrasta ogni giorno omertà e silenzio lottando per una società e uno Stato liberi dalla mafia, ma anche per una verità (quella sulla morte del padre), ancora oggi negata.

Non ama essere definita come qualcuno che sta facendo qualcosa di speciale (anche se è così) e non ama parlare con le persone stando lontano su un palco (ma a volte le tocca farlo). Fiammetta, classe 1973, vive con la valigia in mano e non si ferma mai anche se è stanca e se questo sottrae più tempo di quanto vorrebbe al compagno e alle due figlie. Se si cerca il suo nome su Google la si trova solo in veste di «figlia di», associata ad affermazioni dai toni importanti.

Dall’immagine online, e alla luce dei fatti storici, ci si aspetterebbe qualcuno di indurito e rancoroso, invece appena la si incontra l’impressione netta è quella del calore del Sud, della passione sincera e di un sereno e consapevole baricentro. «La rabbia c’è, ma ho trovato il mio equilibrio, mi sono fatta la mia famiglia e se ci fosse solo quella la darei vinta a chi non lo merita».

Laureata in giurisprudenza, prima di dedicarsi interamente alla sua attività di «sensibilizzazione» e condivisione della propria esperienza personale, ha lavorato per 17 anni come dirigente all’interno della pubblica amministrazione nel Comune di Palermo, occupandosi dell’attivazione di servizi per tutte le fasce deboli. «Un’esperienza bellissima e interessante», ricorda.

Cosa è cambiato da quel pomeriggio del 1992, quando suo padre fu ucciso, ad oggi? Si sono fatti passi avanti nella lotta alla mafia o è solo apparenza?  «Persone come mio padre sono morte semplicemente per aver compiuto con onestà il loro dovere e questo in un Paese normale non può accadere. In Italia accade perché la piaga della criminalità organizzata dal Sud al Nord è stata sempre esistente dal dopoguerra e chi la combatte incorre in chiari pericoli. Questo anche perché non si è abbastanza incoraggiati e protetti dallo Stato, dove, anzi, la criminalità ha spesso trovato terreno fertile, soprattutto in alcuni apparati. La lotta alla mafia in Italia è difficile e chi l’ha combattuta è morto perché è restato solo. Le stragi del ’92, però, hanno sicuramente segnato un giro di boa. Da quella data in poi qualcosa è cambiato, a partire dalla coscienza civile e dalla percezione collettiva. Se prima il problema sembrava appartenere solo agli addetti ai lavori dopo via D’Amelio c’è stato un sentire diverso da parte di tutti. Questo primo grande obiettivo è stato raggiunto, non dimentichiamo che tantissimi giovani italiani decisero di fare il magistrato proprio sull’onda di quanto successo. Oggi si denuncia di più e ci si volta meno dall’altra parte, ma non dobbiamo abbassare la guardia perché l’organizzazione criminale ha una capacità di riorganizzazione enorme, con controllo direttamente sul Pil del Paese. È un equilibrio molto sottile e non si deve mai parlare per slogan».

 Per questo non apprezza particolarmente giornate dedicate ed eventi sul tema?  «Non è che non le apprezzi, le rispetto, però sì, sinceramente ritengo molto più utile un impegno giornaliero e slegato da proclami od eventi. Insieme alle giornate dedicate e alle manifestazioni deve esserci un impegno costante. Io mi sento solo una persona che fa semplicemente il proprio dovere, niente di eccezionale, solo la condivisione di una testimonianza di vita. La mia è una forma di contrasto indiretta alla mafia, perché promuovere la cultura della legalità e del bene comune significa diffondere valori in contrasto alla mafia. La lotta a questo fenomeno deve coinvolgere tutti».

Da dove dobbiamo partire per fare la differenza?  «Se le nuove generazioni hanno il coraggio di urlare ogni giorno il loro no alla mafia, la mafia finirà, perché la mafia è fatta di uomini. Per combatterla non ci vogliono le conoscenze giuste, ma la giusta conoscenza, quella che si impara a scuola. La prima cosa da fare quindi è studiare, avere consapevolezza dei propri diritti e doveri, come la casa, un lavoro, la bellezza. Sapere sempre innanzitutto che avere queste cose non deve essere una sorta di favore concesso da terzi a condizioni illecite: parliamo di diritti. Considerare uno Stato come amico e non come nemico, non cedendo all’indifferenza e denunciando quando qualcosa non va. La lotta alla mafia, come dicevo, è di tutti, non bisogna essere necessariamente dei magistrati e anche un magistrato se non è coadiuvato da una rete che lo appoggia non riesce a fare il proprio lavoro. Non basta appiccicare un bollino in negozio dicendo “io non pago il pizzo”, bisogna sempre pretendere da chi dice di lottare contro la mafia esempi concreti e azioni tangibili».

Lei vieni dal Sud Italia, dove una grande percentuale di donne non è autonoma e non lavora, ma è una di quelle che cerca di fare la differenza: come legge questo problema?  «Si tratta sicuramente di un problema culturale. Quando le donne assumono un ruolo sul lavoro, in politica od economia sanno sempre dare una direzione innovativa alle cose. Lo stesso ruolo lo hanno avuto anche molte donne all’interno delle organizzazioni mafiose, sia in negativo proteggendo mariti e familiari, sia in positivo mostrando tantissimo coraggio nel combatterle. Io credo che questo ruolo fondamentale che ha la donna spesso spaventi l’uomo, culturalmente spinto ad affermare su di essa la propria supremazia. È un problema difficile da scardinare, ma l’unico modo per farlo è uscire dal silenzio. Ne è un esempio la recente testimonianza di una biologa siciliana che ha fatto richiesta d’assunzione al Nord e che per sbaglio ha ricevuto una mail delle due datrici di lavoro che si scambiavano commenti pregiudizievoli sul fatto che venisse da Palermo. Il fatto che questa ragazza abbia avuto il coraggio di denunciare l’accaduto ha fatto la differenza. Certi tabù possono essere scardinati solo a partire dalla rottura del silenzio».  VANITY FIRE


5.2.2019 – La figlia di Borsellino: “Perché avete archiviato mafia-appalti?”  La denuncia della figlia del magistrato ucciso a via d’Amelio svela in tv il più grande depistaggio della giustizia italiana «Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione». Le parole, durissime, sono di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino ucciso dalla mafia a via D’Amelio nel 1992, che domenica sera è stata ospite di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Una lunga intervista, quella di Fazio, preceduta dalle terribili immagini di quel tragico 19 luglio 1992. «Come mai – le ha chiesto il conduttore – ha deciso di parlare proprio ora?». Fiammetta ha risposto partendo da quanto avvenuto un paio di anni fa, ovvero la fine di un processo che non era riuscito ancora a fare piena luce su quanto avvenuto. «Nell’aprile del 2017 – ha raccontato Fiammetta Borsellino – il bilancio è stato amarissimo. C’è stata una sentenza che svelava il grande inganno di Via D’Amelio, in quello che poi verrà definito il depistaggio più grave della storia di questo Paese». Fiammetta ha poi spiegato che le indagini e i processi sono stati una storia di bugie. Borsellino non si è risparmiata e ha fatto nomi e cognomi delle persone coinvolte nel grande depistaggio. «La Procura di Caltanissetta – ha detto – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto».  Fiammetta Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco – morto lo scorso dicembre -, ex Capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto Sostituti Procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato, oltre a chiedere misure di sicurezza eccezionali per prevenire nuove stragi. Al suo posto – il 15 gennaio del 1993 – arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros capitanati dal generale Mario Mori.Il biennio di Giammanco – ricordiamo – fu un periodo caldissimo. Stragi, inchieste delicate, gravi accuse nei suoi confronti poi definitivamente archiviate. L’unica certezza è che gli attriti all’interno della Procura non mancavano. A partire dal disagio di Giovanni Falcone, cristallizzato negli stralci del suo diario pubblicati dal Sole24ore dopo l’attentato di Capaci. Tanti sono i passaggi che evocavano il suo malessere per spiegare la sua decisione di lasciare la Sicilia per il ministero: «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni? O soltanto per fornire un alibi?».Gli stralci dei diari furono confermati da Paolo Borsellino durante la sua ultima uscita pubblica a Casa Professa. Ma anche quest’ultimo era sofferente. Una sofferenza che ritroviamo narrata in un articolo di Luca Rossi pubblicato sul Corriere della Sera il 21 luglio, due giorni dopo la strage di Via D’Amelio ( l’intervista era del 2 luglio precedente – come confermò nella testimonianza a Palermo del 6.7.2012). Vale la pena riportarla, soprattutto quando l’eroico magistrato gli ammise testualmente: «Devo reggere il mio entusiasmo con le stampelle». Borsellino gli disse che stava seguendo delle indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Quale? «Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». Il riferimento era all’inchiesta sul dossier mafia- appalti. Ma ritorniamo all’intervista della figlia più piccola di Paolo Borsellino e della sua decisione di rompere il silenzio in occasione del 25esimo anniversario delle stragi del ’ 92, fino a quel momento «dettato da una rispettosa attesa». In quell’occasione ci fu una diretta Rai condotta proprio da Fazio. «Quella sera sono rimasta fino alla rimozione dell’ultima transenna – racconta Fiammetta Borsellino -. Provai un grande senso di vuoto. Non fui avvicinata da nessuno, se non da alcuni ragazzi che erano venuti apposta dalla Campania e dall’unico superstite di quella strage, Antonio Vullo».Continua con le sue considerazioni sul depistaggio. «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi – ha aggiunto Fiammetta Borsellino -. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. Fu un depistaggio grossolano perché le indagini furono totalmente delegate ad Arnaldo La Barbera, una persona che era un poliziotto da un lato e dall’altro pare che ricevesse buste paga dal Sisde per condurre una vita dissoluta in giro per l’Italia». Fiammetta poi racconta la vicenda di Scarantino che «fu vestito da mafioso» e che si prestò per far condannare persone poi rivelatesi innocenti. Fiammetta non risparmia L nessuno, oltre ai poliziotti, anche i magistrati che «evitarono confronti che avrebbero fatto crollare immediatamente l’impianto accusatorio». Sappiamo che l’anno della svolta è il 2008, quando parlò Spatuzza: dopo gli opportuni riscontri, i magistrati hanno avuto chiari i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Fiammetta Borsellino parla proprio dell’incontro che lei ha avuto con i fratelli Graviano al 41 bis. «Questa esigenza è venuta fuori da un percorso privato – ha detto Fiammetta Borsellino -. Avevo la necessità di dare voce a un dolore profondo che era stato inflitto non solo alla mia famiglia ma alla società intera. Lo chiamo il mio viaggio nell’inferno dei silenzi, dei cancelli. È stato però un viaggio di speranza. Io dico sempre alle mie figlie che non bisogna mai smettere di sognare. Forse quando intrapresi quel viaggio ero io stessa quella bambina che spera nel cambiamento, nel cambiamento delle coscienze». E quando Fazio le domanda se c’è qualcuno del quale si fida, lei risponde: «Né io né tutta la mia famiglia – risponde Fiammetta – pensiamo di avere dei nemici, neanche i peggiori criminali che attualmente stanno scontando delle pene».  Poi aggiunge: «Credo di non fidarmi di chi dà le pacche sulle spalle, mentre mi fido di chi essendo esposto al peggiore pericolo svolge il suo lavoro con sobrietà e in silenzio. Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia per la devozione dei devoti». Fazio le chiede su che cosa stava lavorando suo padre, cosa c’era di così di indicibile tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». A quanto detto occorre solo fare una piccola precisazione sulla sequenza degli atti che importarono l’archiviazione dell’indagine aperta con il deposito della nota informativa “mafia appalti” da parte dei Ros su insistenza di Giovanni Falcone. Occorre rammentare che dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip nello stesso 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte».

 

FIAMMETTA BORSELLINO A CHE TEMPO CHE FA

Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo, torna a parlare e questa volta lo fa in televisione, a Che tempo che fa, ospite di Fabio Fazio su Rai Uno. L’intervista è stata preceduta dalle immagini del 19 luglio 1992 relative alla strage di via D’Amelio, mentre il pubblico ha poi accolto con applausi l’ospite, a cui Fazio ha chiesto perché abbia deciso di intervenire proprio ora. La figlia di Paolo Borsellino ha parlato del bisogno di verità, che sull’uccisione di suo padre non è ancora stata fatta fino in fondo. “Non bisogna mai smettere di sognare, io sono quella bambina che spera in un cambiamento vero, quello delle coscienze”, ha detto la donna. Dai depistaggi nelle indagini che hanno seguito la strage, passando per i processi condotti in maniera opinabile, fino alle persone che hanno ostacolato che la verità emergesse. La testimonianza di Fiammetta Borsellino si è rivelata tanto toccante, quanto spunto di riflessione. Fiammetta Borsellino ha invitato a fare chiarezza e a farla presto: “Dopo 25 anni, compromettendo la possibilità di avere la verità, non si può far passare neanche un altro giorno”.  “Il Depistaggio su via d’Amelio è un’offesa per tutto il popolo italiano”, ha detto ancora Fiammetta Borsellino nel corso dell’intervista. Un popolo che, nella serata del 3 febbraio, si è stretto attorno a lei per dimostrare quanto ancora ci sia voglia di “fare rete” e lottare per la legalità. Legalità per cui la figlia del magistrato si batte da tempo e rievocata sovente nei suoi discorsi pubblici, come quello tenuto recentemente presso la Libreria Feltrinelli di Palermo in un incontro-dibattito con il presidente della Commissione regionale antimafia, Claudio Fava. “Il processo? Assisto a delle udienze ignobili […] Qualsiasi Procura illuminata non può portare avanti un’impresa (la scoperta della verità sulla strage di via D’Amelio, ndr) che appare ciclopica se non c’è una collaborazione di chi è stato protagonista in quegli anni. Parlo di poliziotti, magistrati, ministri”, aveva ribadito la donna anche in quell’occasione.

CHE TEMPO CHE FA –  TESTIMONIANZA DI FIAMMETTA BORSELLINO (VIDEO)

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3.02.2019 – VICE PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA, JOLE SANTELLI e capogruppo di Forza Italia, Luigi Vitali, hanno chiesto al presidente della Commissione Nicola Morra, di ascoltare in commissione plenaria, Fiammetta Borsellino. “Le sue parole – dice Santelli – meritano il rispetto e la considerazione delle istituzioni e non possono passare in cavalleria”  Il silenzio della famiglia Borsellino finora “è stato dettato dalla fiducia nello Stato, la principale eredità morale che ci ha lasciato mio padre” ma “fin dai primi minuti” dopo l’attentato “non ci fu la volontà di preservare il luogo del’eccidio: la borsa per esempio fu consegnata senza avere cura di verificare l’identità delle persone a cui si dava” ha detto ieri sera Fiammetta Borsellino ospite della trasmissione Che tempo che fa, condotta da Fabio Fazio. In un altro passaggio, Fiammetta Borsellino ha accusato il fatto che i processi “sono stati caratterizzati da fortissime anomalie” con le indagini affidate a Tinebra, molto vicino alla massoneria e a magistrati che dicevano apertamente che non avevano le competenze necessarie o erano alle prime armi”. E ancora, la figlia di Borsellino ha accusato il fatto che le indagini furono delegate ad Arnaldo La Barbera “che da un lato era un poliziotto, dall’altra riceveva buste paga dal Sisde”. Rispondendo ad una domanda di Fazio se avesse avuto risposta ad alcuni degli interrogativi posti tempo fa sul quotidiano La Repubblica, Borsellino ha detto di non avere “avuto alcuna risposta neppure quando ho sollecitato il Csm. Eppure ho dato io stessa un contributo personale. Dopo 25 anni è stata quasi compromessa per sempre la possibilità di avere una verità, non si può lasciar passare neppure un giorno. Mi fido di chi ci darà risposte concrete, di chi, essendo esposto, svolge il suo lavoro con sobrietà. Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia”. Tra i possibili motivi per i quali Paolo Borsellino è stato vittima dell’attentato, per la figlia c’è il fatto che fu tra coloro che istruirono il maxi-processo ma forse anche le sue indagini sugli appalti “questo dossier però fu archiviato il 20 luglio”, ovvero subito dopo l’attentato. “Sicuramente fu un ingenuo quando disse che sapeva chi aveva ucciso il suo amico Falcone, non fu mai ascoltato dalla procura di Caltanissetta”, ha aggiunto la figlia. Infine sull’incontro con i fratelli Graviano in carcere, la figlia del magistrato ha detto che “il motore di quell’incontro è stata la necessità di dare voce ad un dolore profondo inflitto alla famiglia ma anche alla società, lo chiamo il mio viaggio nell’inferno. Il sentimento prevalente non è stata la rabbia ma solo la tristezza e il dolore di chi non riesce a far fare il passo in più che dà dignità alla persona. Riparare un danno non può voler dire stare in carcere muto”. RASSEGNA STAMPA


 

La vice presidente della Commissione parlamentare antimafia, Jole Santelli, insieme al capogruppo di Forza Italia, Luigi Vitali, hanno chiesto al presidente della Commissione Nicola Morra, di ascoltare in commissione plenaria, Fiammetta Borsellino. “Le sue parole – dice Santelli – meritano il rispetto e la considerazione delle istituzioni e non possono passare in cavalleria”. – La vice presidente della Commissione parlamentare antimafia, Jole Santelli, insieme al capogruppo di Forza Italia, Luigi Vitali, hanno chiesto al presidente della Commissione Nicola Morra, di audire in commissione plenaria, Fiammetta Borsellino, LEGGI TUTTO

20 Gennaio 2019 – Fiammetta Borsellino: “Basta slogan e passerelle e il Viminale apra gli archivi” – Nella lotta alla mafia non mi piacciono le passerelle, e diffido dagli slogan. Piuttosto, ci vogliono gesti concreti. Li aspettiamo ancora”. Lo dice, in un’intervista SEGUE – RASSEGNA STAMPA

FIAMMETTA BORSELLINO CON FAVA E SCARPINATO A PALERMO – RASSEGNA STAMPA 9 GENNAIO 2019

 

 

RASSEGNA STAMPA Incontri 

 

17 DICEMBRE 2019 – TAIO – CLES – TRENTO –  Fiammetta Borsellino e la verità su via D’Amelio

·       TGR TRENTO video

12 DICEMBRE 2019 – MARTINA FRANCA (TA) – Fiammetta Borsellino a “Paolo Borsellino, il coraggio della legalità”

·       NOI NOTIZIE 12.12.2019

3 DICEMBRE 2019 – COSENZA – Fiammetta Borsellino alla 10ª Edizione di MUSICA CONTRO LE MAFIE

 

27 NOVEMBRE 2019 – CAMPI SALENTINA Fiammetta Borsellino a IusMundi Eventi a Lecce – 

14 NOVEMBRE 2019- DUSSELDORF Incontro con Fiammetta Borsellino. Incontro organizzato con la collaborazione della città di Düsseldorf.

·       AISE 19.10.2019

7 NOVEMBRE 2019 – SALERNO – PROGRAMMA pomeriggio con Nova Juris e l’Ordine dei giornalisti sul tema: ” Diritto alla verità e deontologia della strage di Via D’Amelio al             giustizialismo mediatico” 

 

7 NOVEMBRE 2019 – SALERNO –

30.10.2019 – PIAZZA ARMERINA – Incontro con Fiammetta Borsellino all’Istituto Professionale Boris Giuliano – 

29 OTTOBRE 2019 – BARI   Fiammetta Borsellino a Bari: «Ragazzi, non seguite le ‘liturgie’ dell’antimafia» La figlia di Paolo Borsellino ha incontrato gli studenti dell’istituto Marconi del capoluogo e del Fiore di Modugno

·       LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO

·       VIVA MODUGNO

28 OTTOBRE 2019 – BARI- “Dall’antimafia giudiziaria all’antimafia sociale” Fiammetta Borsellino inaugura la nuova biblioteca sull’antimafia sociale del centro culturale Casa del popolo in via Celentano.

·       BARI VIVA

25 OTTOBRE 2019 – MILANO – Fiammetta Borsellino al festival della Comunicazione dal carcere

16 OTTOBRE 2019 – REGGIO CALABRIA – Fiammetta Borsellino a Reggio non tace

9 OTTOBRE 2019 PALERMO – Festival delle letterature migranti Presentato il libro “Inchiesta a Ballarò” (Navarra editore).

2 OTTOBRE 2019 – MODENA – Fiammetta Borsellino a UNIMORE – 

1 OTTOBRE 2019 – VICENZA – Fiammetta Borsellino a L’EREDITA’ DI FALCONE E BORSELLINO  

28 SETTEMBRE 2019 – FORLI’ – Incontro con Fiammetta Borsellino 

13 GIUGNO 2019- PALERMO allo Steri, nella Chiesa di Sant’Antonio Abate: presidente dell’Antimafia regionale, Claudio Fava e Fiammetta Borsellino

 

31 MAGGIO 2019 – PALAZZOLO –  Fiammetta Borsellino a scuola con la famiglia Fava a parlare di legalità

·       IBLEI NEWS 31.5.2019

23 MAGGIO 2019 – PALERMO – 27° Anniversario Strage di Capaci Fiammetta Borsellino, si è unita al corteo che dall’Aula bunker dell’Ucciardone si ritroverà davanti l’albero Falcone per ricordare, alle 17.58, la strage di Capaci. Borsellino ha sfilato accanto alla sorella di Giovanni Falcone, Maria, il magistrato assassinato a Capaci il 23 maggio ’92. (ANSA)

 

 

18 MAGGIO  2019 TEATRO COMUNALE MASSAFRA (TA) –“TU CHE MI CAPISCI” Premio a Fiammetta Borsellino dal Magna Grecia Awards RASSEGNA STAMPA

 

10 MAGGIO 2019 – CASA DI RECLUSIONE DI PADOVA  Giornata nazionale di studi vai allo speciale La cultura della prevenzione, l’incultura dell’emergenza Giornata nazionale di studi Venerdì 10 maggio 2019 con Fiammetta Borsellino

 

9 MAGGIO 2019 – MOLFETTA – Fiammetta Borsellino al Liceo Leonardo da Vinci

 

8 MAGGIO 2019 – TERLIZZI – Fiammetta Borsellino al FESTIVAL PER LA LEGALITÀ dedicato a

Paolo Borsellino e Rosario Livatino

 

3 – 4 MAGGIO 2019 – Fiammetta Borsellino in Calabria

 

15-16 APRILE 2019 – SAN BENEDETTO DEL TRONTO e MARINA DEL TRONTO – Fiammetta Borsellino incontra detenuti e studenti

 

12 APRILE 2019 – PALERMO – FURTI DI VERITA’ con Fiammetta Borsellino, Roberto Scarpinato, Attilio Bolzoni

 

10 APRILE 2019 – CREVOLADOSSOLA e  DOMODOSSOLA, incontro con le scuole aderenti al progetto – IS Marconi Galletti Einaudi, Liceo G. Spezia, Ist. Prof.le Alberghiero Rosmini 

 

9 APRILE 2019 – MONTECRESTESE  – Fiammetta Borsellino inaugura la piazza intitolata a Falcone e Borsellino

 

8 APRILE 2019 COMO –  Fiammetta Borsellino alla cerimonia di intitolazione a suo padre della Biblioteca comunale di Como

 

19 MARZO 2019 CAGLIARI – LA VERITA’ E’ UN DIRITTO con Fiammetta Borsellino 

 

14 MARZO 2019 – PARTINICO  – FIAMMETTA BORSELLINO, incontra gli studenti dell’ISTITUTO ORSO MARIO CORBINO di PARTINICO.

 

3 FEBBRAIO 2019 – FIAMMETTA BORSELLINO a CHE TEMPO CHE FA

 

 

25 GENNAIO 2019 – PATTI – FIAMMETTA BORSELLINO INCONTRA GLI STUDENTI DEL BENIAMINO JAPPOLO 

·       98Zero 25.1.2019

 

24 GENNAIO 2019 – PATTI – FIAMMETTA BORSELLINO INCONTRA GLI STUDENTI DEL BORGHESE FARANDA 

 

20 GENNAIO 2019 PALERMO Aula Bunker – Premiazione degli studenti vincitori del concorso”Quel fresco profumo di libertà”. 

 

19-20 GENNAIO 2019  – PALERMO –  MOSTRA SU 20 VOLTI DI PALERMO – NELLA CHIESA DI SAN GIOVANNI DECOLLATO, DA FIAMMETTA BORSELLINO A STEFANIA PETYX

 

17 GENNAIO 2019 – PARMA – Fiammetta Bollino all’ISTITUTO BADONI

 

9 GENNAIO 2019 – PALERMO – RELAZIONE FINALE COMMISSIONE ANTIMAFIA REGIONE SICILIA   Incontro pubblico con Fiammetta Borsellino, Claudio Fava, Roberto Scarpinato 

·       VIDEO e RASSEGNA STAMPA