FIAMMETTA BORSELLINO a SPECIALE MAFIA

FIAMMETTA PAOLO

 FIAMMETTA PAOLO

Ore 21.15 il 28 Aprile su La7

 

PAOLO BORSELLINO: se é pur vero che la  mafia lo ha materialmente ucciso, ancora non si é andati oltre a questa verità processuale per scoprire chi ha permesso che questo potesse succedere. Sulla strage di Via D’Amelioche oltre alla sua eliminazione anche quella dei suoi cinque angeli custodi, dopo 29 anni, quattro processi, tre appelli, tre sentenze di Cassazione e commissioni varie d’inchiestanon si é ancora giunti ad una convincente e definitiva verità. 

I clamorosi depistaggi più volte denunciati dalla figlia Fiammetta dallo scorso anno sono stati autorevolmente “certificati” dalla Sentenza del Borsellino Quater ed hanno  innescato un nuovo processo a carico dei presunti depistatori. Vedremo se la conclusione di questo processo fornirà alcune importanti risposte alla base del procedimento.

Nel frattempo, ecco comparire sulla scena il killer “pentito” Giuseppe Avola le cui “inedite”  rivelazioni hanno però già trovato formale smentita da parte della Procura di Caltanisetta attraverso il comunicato stampa ufficiale che pubblichiamo in pagina.


SPECIALE MAFIA LA RICERCA DELLA VERITA’ CONDOTTO DA ENRICO MENTANA CON FIAMMETTA BORSELLINO, MICHELE SANTORO, ANDREA PURGATORI, ANTONIO DI PIETRO

VIDEO


Le “rivelazioni” del killer “pentito” MAURIZIO AVOLA

 

13.5.2021 – IL PENTITO FARLOCCO DELLA STRAGE BORSELLINO E LA SCENEGGIATA NAPOLETANA. Gli autori della patacca mi chiedono conto e ragione dell’inattendibilità del pentito Maurizio Avola. Mossa furbesca ma con il fiato corto: sono loro- dopo 400 pagine senza una sola verifica – a dover dimostrare l’attendibilità di una fonte così screditata. E non il contrario. Lo “straordinario” riscontro della credibilità di Avola: il gesso largo. Bagni e stragi, tintarella e tritolo. Ecco la lettera che mi manda Guido Ruotolo. Segue la mia risposta.

«Anche oggi il quotidiano Domani, con un editoriale di Attilio Bolzoni, commenta “Nient’altro che la verità” scritto da Michele Santoro con la mia collaborazione. E dopo Enrico Deaglio e Claudio Fava anche Bolzoni denuncia l’inattendibilità di Maurizio Avola, l’ex killer di Cosa nostra della famiglia di Catania. Bolzoni non spiega da quando e perché Avola é una «grande patacca». Nella requisitoria al processo su Matteo Messina Denaro, conclusa il 17 luglio del 2020, il pm di Caltanissetta Gabriele Paci, ha pronunciato questo giudizio sull’ex killer Maurizio Avola: «Si richiamano le dichiarazioni rese dal collaboratore Avola… A riscontro delle quali, si rammenti che, in attuazione della strategia elaborata nelle riunioni di Enna, venne eseguito il 2 novembre ‘91 l’attentato dinamitardo che distrusse la villa di Pippo Baudo, ubicata in Santa Tecla, nei pressi di Acireale».Gli autori delle recensioni del nostro libro, e Domani che le ha pubblicate, dovrebbero spiegare finalmente perché Avola non è attendibile. Naturalmente non basta un comunicato della Procura di Caltanissetta, una forma irrituale che non può essere considerata una sentenza, per bollare dal punto di vista giudiziario l’inattendibilità di un collaboratore le cui dichiarazioni hanno fatto condannare finora gli autori e i mandanti di almeno trenta omicidi. In attesa delle vostre prossime puntate, senza ovviamente dare la parola agli interessati, cordiali saluti Guido Ruotolo». 

«È assai singolare e anche un po’ obliquo che mi venga chiesto di spiegare l’inattendibilità di Avola. Dopo quelle 400 pagine in cui il mafioso catanese vomita “confessioni” sulla strage Borsellino e dopo le smentite secche della procura di Caltanissetta, dovrebbero essere proprio gli autori a dimostrare l’attendibilità della fonte. E non il contrario. Sono loro che hanno messo la firma su “Nient’altro che la verità” manifestando così tanto entusiasmo per Avola. 

Quali verifiche hanno fatto Santoro e Ruotolo prima di dare alle stampe la loro opera? C’è un testimone – uno solo – che ha confermato la versione del mafioso catanese? Chi ha visto Avola a Palermo alle 16,59 del 19 luglio del 1992? Chi può fornire un dettaglio, un piccolo segno della sua presenza in via D’Amelio quella domenica di ventinove anni fa? 

Basterebbe un indizio. Ma c’è niente, il vuoto, c’è solo uno sproloquio a scoppio ritardato, ci sono solo “clamorose rivelazioni” rese in interrogatorio quasi un trentennio dopo e smontate dagli inquirenti per totale mancanza di riscontri. È una mossa furbesca quella di pretendere spiegazioni, quando Ruotolo e Santoro non ne hanno fornita nemmeno una pur avendo divulgato le panzane di Avola con una spregiudicatezza da mettere i brividi. 

Costretto a tornare sulla questione ribadisco che quel titolo, “Nient’altro che la verità”, è protervo e trasporta un’incultura profonda davanti a una vicenda così complessa come l’uccisione del procuratore Borsellino. Il resto è pura sceneggiata napoletana. 

È lo stesso Ruotolo che ce lo conferma sul suo profilo Facebook, a proposito dell’ingessatura al braccio che Avola portava nel luglio ‘92. Qualcuno chiede: «Come lo spieghi il braccio ingessato?», Ruotolo risponde: «Era un gesso molto largo che si sfilava per andare a mare o fare omicidi e stragi». Bagni e bombe, tintarella e tritolo. Ecco lo straordinario riscontro di Nient’altro che la verità: il gesso largo». ATTILIO BOLZONI

 

4.5.2021 tutto il rispetto che la sua storia impone, senza dileggiare il ragionatore, prassi divenuta usuale quando non si riesce a contrastare il ragionamento, vorrei mettere sul terreno i fatti, che rendono il racconto, affidato a Michele Santoro, dal killer catanese , Maurizio Avola, ex collaboratore di giustizia, non credibile.  Maurizio Avola, dopo 30 anni si autoaccusa di aver imbottito di tritolo la 126 fatta esplodere in Via D’Amelio spiegando che lo fa solo adesso perchè temeva di non essere creduto e, forse, anche ucciso.Mi chiedo: come mai nel 1996 non esitò a rilasciare dichiarazioni ai Pm, rivelatesi infondate, molto più compromettenti e rischiose, indicando Cesare Previti-ai tempi Ministro della Difesa- implicato in un traffico di armi ed esplosivo e il banchiere Pacini Battaglia come riciclatore di denaro della mafia,?

Le sue giustificazioni non reggono; viene, invece, il legittimo dubbio che adesso, dopo essere stato estromesso dal sistema di protezione perché nel corso della sua collaborazione aveva commesso gravi reati, per rientrare nelle grazie della Giustizia, si autoaccusi di uno dei fatti più gravi della nostra storia giudiziaria, guarda caso, andando a riempire il solo francobollo mancante per completare il puzzle dell’esecuzione della strage di via D’Amelio. Ora, soltanto ora, che sono pubblici gli atti dei processi e che è possibile a chiunque raccontare un pezzo di storia sulla base delle conoscenze e degli atti che si rinvengono, agevolmente, sui siti internet: insomma basta fare un ricerca su google e chiunque può accreditarsi davanti all’opinione pubblica dicendo di sapere qualcosa. Ma ben altro sono le indagini giudiziarie e le indefettibili attività di riscontro che possono accreditare la credibilità di un dichiarante. Non un libro, non un giornalista, per quanto si voglia.

DI COSA STIAMO PARLANDO?  La Procura di Caltanissetta, prima guidata da Sergio Lari, ora dal facente funzione, Gabriele Paci, ha svelato il grande depistaggio eseguito da Scarantino con le sue false dichiarazioni, all’epoca raccolte dalla stessa Procura ma quando, al suo vertice, c’era Tinebra, riscontrando, puntualmente, e,meticolosamente, la ricostruzione degli atti preparatori fatta dal collaboratore Gaspare Spatuzza che ha confessato di essere stato lui ad aver rubato la 126, indicandone il luogo, il proprietario, il garage nel quale la portò e, soprattutto, rivelando un dettaglio inedito, quello di avervi messo le pasticche nuove dei freni. Spatuzza non disse mai di aver visto nel garage in cui imbottirono la macchina di esplosivo un agente dei servizi segreti, bensì che c’erano i mafiosi Tinnirello e Tagliavia, e un altro uomo che escludeva potesse appartenere a Cosa Nostra.

Sulla mancata identificazione di tale persona, circostanza assai nota, si inserisce Avola che dice: quello che Spatuzza non riconobbe ero io oppure Ercolano, non ci conosceva perchè Spatuzza non era uomo d’onore. Senza aggiungere alcun altro elemento. Un po’ poco per screditarlo, visto che a Spatuzza, Cosa Nostra aveva affidato il compito di rubare la 126 che sarebbe servita per far saltare in aria il giudice Borsellino e la sua scorta e, poco dopo di reperire, assembrare e trasportare in continente l’esplosivo per le bombe di Roma, Firenze e Milano, insomma, non era proprio uno che non contava nulla. E, ancora. E’ credibile che Cosa Nostra utilizzi il catanese Ercolano, vice del boss Santapaola, ai tempi sorvegliato speciale e, dunque, con l’obbligo di esse sempre reperibile, con il rischio reale che, semmai rintracciato dalla polizia, lontano dalla sua città, avrebbe messo a repentaglio la riuscita della strage?

Santoro, domenica, a Non E’ L’Arena, incalzato da Massimo Giletti ha detto: “mettessero a confronto i 7 componenti del commando indicati da Avola per vedere se c’è qualcuno che lo riconosce”. E chi dovrebbe farlo, Tinnirello, Tagliavia, Giuseppe Graviano, Ercolano, che non sono collaboratori di giustizia, o Matteo Messina Denaro, latitante dal 93?

COSA RACCONTA SANTORO NEL LIBRO?  Racconta che, oltre un anno fa, dopo avergli consegnato la “verità” taciuta, Avola si è recato a rendere dichiarazioni a Caltanissetta, su sua insistente richiesta: “Quando è arrivata la telefonata di Guido Ruotolo ho tirato un sospiro di sollievo e ho sentito il dovere di dare forza a un uomo che ha fatto della verità il mezzo per riprendersi la dignità perduta…”

…“Michele ce l’abbiamo fatta, l ho convinto. Va dal magistrato e racconta tutto” Santoro:”E’ una bellissima notizia…facciamogli sentire che non è solo”.

Ma Santoro non può non sapere che andare dal magistrato non equivale ad affermare che ciò che racconta sia vero,perchè ai fatti occorre trovare i riscontri e, questo, ripeto, è compito della Procura. Come mai, allora,in più di un anno, né Santoro, né Ruotolo, prima della pubblicazione hanno contattato i magistrati per verificare se quanto raccontato da Avola avesse un qualche fondamento? Sarebbe bastato chiederlo al suo avvocato.

COSA DICE AVOLA ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA?  Offre una versione dei fatti diversa da quella che verrà pubblicata nel libro “Niente altro che la verità” e nell’intervista video. Ai magistrati, Avola in presenza del suo avvocato, e fissato da un registratore, racconta di essersi recato a Palermo venerdì 17 luglio e di esservi rimasto fino al giorno della strage, domenica 19 luglio. Glielo chiedono più volte e lui dà sempre la stessa versione. Fatto che non supera il vaglio del riscontro perchè gli uomini della Dia scoprono che sabato 18, Avola non era a Palermo, bensì a Catania dove era stato fermato per un controllo dalla Polizia. Quando glielo contestano, lui, balbettando, cerca di trovare una toppa per rimediare al buco. E quando i pm gli contestano anche di aver taciuto di avere il braccio sinistro ingessato, lui risponde che si era dimenticato, che non aveva alcuna frattura e che quel gesso gli serviva come alibi perchè avrebbe dovuto eseguire un omicidio. Peccato che Avola, non essendo mancino, e, sparando con la destra, avesse il gesso sul braccio sinistro che, di certo, si sarebbe rivelato un alibi fallace. E peccato, anche che la frattura fosse vera. Fatti, questi, che tace a Santoro e che rivela solo dopo quando gliene chiede conto spiegando-così riferisce Santoro a Non E’ L’Arena-che era un gesso mobile che metteva e toglieva e che la frattura al polso sinistro se l’era procurata appositamente. Ora, come si sa, la verità per essere vera deve anche essere credibile e un gesso, non una fasciatura o un tutore che si leva e si mette non lo è. Così come nell’intervista, aggiustando il tiro, e smentendo di essere stato sempre a Palermo, dice di essere andato diverse volte avanti e indietro nella settimana antecedente la strage.

Sempre ai magistrati racconta che quel giorno in via D’Amelio indossava la divisa della polizia, ma non specifica quale, tenendo in mano una borsa con la scritta polizia. Ora il 17 Luglio del 2019, la polizia indossava la divisa estiva, camicia maniche corte e che avrebbe lasciato scoperto il gesso e non è credibile che un poliziotto che si aggirava in via D Amelio con il braccio ingessato sarebbe passato inosservato, così come inosservato non sarebbe passato un poliziotto con la divisa invernale con 30 gradi. Sì, certo però a Santoro dice, sempre dopo, che il gesso, essendo mobile, per l’occasione l’aveva tolto. Ecco un’altra toppa mentre il buco diventa una voragine. Avola racconta che il garage dove ha imbottito la 126 di tritolo si trova in via Villasevaglios, come già indicato da Spatuzza, nome facilmente reperibile su internet, però non sa dove sia, non sa arrivarci. Avola racconta anche che lui e Graviano erano posizionati sul lato opposto di via D’Amelio da quello ricostruito nelle sentenze anche grazie al racconto del collaboratore Tranchina, autista di Graviano. Tranchina dice che Giuseppe Graviano gli aveva chiesto di trovare una casa in affitto nei pressi di Via D Amelio e che lui intuendo che si sarebbe trattato di qualcosa di grosso, dopo pochi giorni gli risponde che case disponibili non si trovavano. Graviano gli dice, non importa, mi sistemerò sul prato nel giardinetto in via D’Amelio, dove c’è un muretto. Fatto, che ,come ricorda Giletti a Santoro, viene confermato da Totò Riina che,con Lorusso in carcere commenta: “minchia, per poco l’esplosione non fa crollare il muretto addosso a Graviano”. E dove ha dormito Avola venerdì e sabato notte a Palermo? In una casa, certamente,un po’ poco.

PERCHE AVOLA DECIDE DI DIRE LA “SUA VERITA”?  Non si può escludere che, uscito dal carcere nel novembre scorso, senza soldi e senza protezione, visto che era stato estromesso dal programma di protezione, possa aver deciso, o qualcuno gli abbia suggerito, di autoaccusarsi di aver imbottito la 126 di esplosivo, di dire che quella persona presente nel garage che Spatuzza non riconosce come uomo di Cosa Nostra era lui o Ercolano e non qualcuno dei Servizi Segreti per un doppio fine.

Il Primo: essere riammesso nel programma di protezione.  Il Secondo: sgomberare il campo dalla complicità dei Servizi o di altri soggetti nelle stragi.

Avola, in un certo senso, è come se stesse recitando la parte del “normalizzatore” che riporta nell’alveo mafioso, una stagione di stragi e bombe che hanno insanguinato e messo in ginocchio il Paese . Un modo per dire: fu solo farina del sacco di Cosa Nostra, magistrati, smettetela di indagare ancora sui mandanti esterni, lo Stato ha bisogno di essere rassicurato. E se per questo occorre infangare la memoria degli agenti di scorta di Paolo Borsellino definendoli inesperti che non l’hanno saputo proteggere, Avola lo fa senza alcuna esitazione. Ed io non riesco a capire come un giornalista del livello di Michele Santoro possa aver fatto suo questo aberrante pensiero. A Massimo Giletti che riferiva il dolore e l’offesa di Vullo, l’agente sopravvissuto, Santoro ha chiesto: “Stiamo parlando come giornalisti o come moralisti? Come giornalista mi spieghi come sia possibile che sotto la casa della madre di Borsellino che era l’obbiettivo principale non fosse stata fatta zona rimozione ?” Come se la responsabilità di ciò fosse degli agenti di scorta e non dello Stato, ha bene risposto Giletti. Caro Michele Santoro, uno come te non può attribuire la responsabilità della mancata zona rimozione in via D’Amelio, a questi angeli custodi che hanno dato la vita per proteggere un magistrato che lo Stato, non è riuscito o, non ha voluto salvare.

Siamo giornalisti, sì, che per essere tali, fanno inchieste, pongono domande senza rinunciare ad avere il cuore sempre a portata di mano. Da domenica non fa che tornarmi in mente il viso di Emanuela Loi e quella sua dolcezza offuscata dalla preoccupazione e, perchè no, anche dalla paura, quando, pochi giorni prima della strage, mi disse che si sarebbe dovuta sposare ma che aveva posticipato le nozze perchè il suo capo, a cui si rivolgeva con l’affetto di una figlia, era in pericolo e non poteva abbandonarlo. Di lei, quando sono arrivata in via D’Amelio, ho visto un brandello del braccio infilzato sulla ringhiera e lo Stato, quello che reclama “normalizzazione” inviò il conto del trasporto della bara che racchiudeva quel poco che restava del suo corpo dilaniato dalla bomba, alla famiglia in Sardegna. Hai anche aggiunto che il comunicato della Procura di Caltanissetta ha dato la stura ad attacchi che stanno esponendo Avola che vive libero, il suo avvocato e anche te e Ruotolo. Vorrei dirti che il comunicato non ha dato alcuna stura, ha solo, doverosamente, precisato che “…gli accertamenti finalizzati a vagliare l’attendibilità delle dichiarazioni di Avola allo stato non ha trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Dalle indagini, sono emersi per contro rilevanti elementi di segno contrario che inducono a dubitare tanto della spontaneità quando della veridicità del suo racconto…”  E tutto con buona pace di quelle parole, che, invece, continuano a pesare come pietre, che mi furono consegnate da Agnese Borsellino, in una delle sue rare interviste e, purtroppo la sua ultima: “Finchè questo Paese sarà popolato da ricattati e ricattatori, non avremmo mai la verità e senza verità non sarà mai un Paese libero” E la verità, caro Michele Santoro e Guido Ruotolo, stando a quanto riscontrato fin qui dalla Procura di Caltanissetta, diretta, ora, da un magistrato serio, competente, di certo non affetto da protagonismo qual è Gabriele Paci, non è quella che Maurizio Avola vi ha consegnato e, questo non contribuisce a “normalizzare” il Paese ma a destabilizzarlo sempre più  SANDRA AMURRI

 

 

1.5.2021 – FIAMMETTA BORSELLINO: SULLA STRAGE DI VIA D’AMELIO NIENT’ALTRO CHE LA VERITA’ Fiammetta Borsellino, nella trasmissione di Enrico Mentana su la7 ha parlato del dossier “mafia-appalti”, contestualizzando fatti e testimonianze  Dovevano essere le rivelazioni, dichiarate però inattendibili dalla procura di Caltanissetta, del pentito Maurizio Avola a essere l’oggetto principale dello “Speciale mafia” di la 7, condotto da Enrico Mentana, ma a rubare la scena e spostare l’attenzione sulle cause della strage di via D’Amelio che hanno portato all’uccisione di Paolo Borsellino, è stata la figlia Fiammetta Borsellino. Per la prima volta, in prima serata, si è parlato del dossier mafia-appalti e della sua gestione da un punto di vista totalmente inedito. A farlo, appunto, non sono stati i giornalisti presenti, Michele Santoro (autore del libro “Nient’altro che la verità”, uscito ieri) e Andrea Purgatori che sposa in toto il teorema trattativa e la caccia alle “entità” non meglio definite, ma una donna che ha deciso di andare controcorrente, non adeguarsi alla narrazione unica di una certa antimafia, ma semplicemente attenendosi ai fatti riscontrati nel tempo. L’unica a sostenerla, visto che ne è stato testimone, è stato l’ex giudice di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Ed è lui che ha ricordato il fatto che Paolo Borsellino gli chiese di fare presto per collegare le indagini siciliane con quelle di tangentopoli. Parliamo di grossi gruppi imprenditoriali del nord che erano collegati nella gestione mafiosa degli appalti. Ribadendo che in più occasioni il capitano dei Ros De Donno si rivolse a lui perché si interessasse del dossier mafia-appalti, dal momento che la procura di Palermo lo ignorava. Non solo.

Contestualizzate le testimonianze di Agnese Borsellino Per la prima volta, grazie al suo accorato e coraggioso intervento, Fiammetta Borsellino ha contestualizzato le testimonianze della madre, Agnese, su ciò che le disse Paolo Borsellino. Testimonianze che nel tempo sono state forzate, adattate al teorema giudiziario, manipolando anche taluni passaggi. Una su tutte quella che riguarda i magistrati: ma diversi giornalisti e taluni pm dimenticano di riportarla nella sua interezza. Ci ha pensato Fiammetta Borsellino a ricordarlo, creando un palpabile imbarazzo in studio. Ricordiamo la vicenda. A ventiquattr’ore dai fatti di via d’Amelio, Borsellino passeggiava senza scorta sul lungomare di Carini. Con lui, soltanto Agnese, sua moglie. «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere». Queste parole esatte di Agnese furono messe a verbale in sede giudiziaria il 18 agosto 2009, preceduta da una frase: «ricordo perfettamente». In un Paese normale dovrebbe essere compito dei giornalisti d’inchiesta a riportare i fatti, ma a farlo ci ha dovuto pensare la figlia di Paolo Borsellino.

Borsellino quando era a Marsala già conosceva il dossier mafia-appalti  Altro scoop televisivo, ma sempre di Fiammetta Borsellino e non dei giornalisti presenti. Spiega che c’è un passaggio della sentenza trattativa che riporta il falso. Quale? Ecco cosa scrisse la Corte nella sentenza: i giudici spiegano come non vi è la «certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio». Ebbene, Fiammetta Borsellino contesta aspramente questo passaggio, e lo fa con dati oggettivi. Ricorda che suo padre, quando era ancora alla procura di Marsala, ha subito voluto copia del dossier tanto da trovare spunto per sviluppare un filone di indagine sugli appalti di Pantelleria. Oltre a ciò, Borsellino stesso ha inviato il suo filone di indagine alla procura di Palermo pregando che confluisse nel dossier principale.

Uno degli imprenditori citati in mafia-appalti aveva i verbali di interrogatorio di Leonardo Messina  A quanto pare sarebbe rimasta lettera morta, tanto che Borsellino lo ha ribadito nuovamente durante la sua ultima riunione del 14 luglio. Senza parlare del suo interrogatorio al pentito Leonardo Messina nel quale ha riscontrato ciò che era già scritto nel dossier mafia-appalti: il presunto rapporto del gruppo Ferruzzi – Gardini con la mafia di Totò Riina, tramite i fratelli Buscemi. Ed ecco che Fiammetta Borsellino, durante lo speciale di Enrico Mentana, lancia un altro scoop. Un fatto singolare mai riportato da alcun giornale, né tantomeno negli innumerevoli servizi giornalistici d’inchiesta. È accaduto che uno degli imprenditori che compaiono nel dossier mafia-appalti, è stato fermato dai Ros e gli hanno rinvenuto nello zaino i verbali di Leonardo Messina che erano riservati. Chi gliel’ha dati? Di certo non Paolo Borsellino. Ma com’è detto gli animi, durante la trasmissione tv, si sono surriscaldati e Purgatori ha mosso delle obiezioni a Fiammetta Borsellino sul fatto che i Ros avrebbero inviato i nomi dei politici in un secondo momento. Ed ecco cheviene rispolverata la teoria della doppia informativa. A questo punto per decostruire questa storia, trita e ritrita, basterebbe citare ciò che scrisse la Corte d’appello che ha assolto Calogero Mannino relativamente al processo stralcio sulla presunta trattativa Stato- mafia. Vale la pena riportarne qualche passaggio, perché è relativa proprio alla tesi dell’accusa per far credere che i Ros volessero proteggere i politici, in funzione della trattativa. «Non può tacersi il fatto che – scrive la Corte in merito a mafia appalti – un riverbero della grande rilevanza dell’indagine si ha in numerosi atti presenti nel processo (…) E deve inoltre osservarsi che la ricostruzione dell’organo dell’accusa appare in contrasto logico irrimediabile col fatto che i magistrati che dirigevano l’indagine dovevano tenere il controllo e la direzione, appunto, degli atti degli investigatori da loro delegati, ivi comprese quelle intercettazioni che si afferma non essere state inserite nell’informativa presentata alla Procura, e che in ogni caso avrebbero dovuto gestire e garantire anche successivamente il più adeguato sviluppo di una così significativa investigazione, che coinvolgeva il sistema corruttivo delle spartizione degli appalti pubblici in Sicilia».

La procura di Caltanissetta: non trovati riscontri sulle dichiarazioni di Avola Poi va sul punto rispolverato da Purgatori: «È noto altresì che il Gip di Caltanissetta,  investito della questione della gestione di quella indagine, arrivò alla conclusione di escludere l’ipotesi della doppia informativa». Tutto scritto nero su bianco. Nel frattempo, a proposito dello scoop di Michele Santoro, la procura di Caltanisetta conferma che l’anno scorso, Avola, sentito in un interrogatorio, ha riferito della sua presenza in via D’Amelio, «a distanza di oltre 25 anni dall’inizio della collaborazione con l’autorità giudiziaria». Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Gabriele Paci ha subito iniziato l’indagine, alla ricerca di riscontri: «I conseguenti accertamenti –scrive ieri la procura nissena – finalizzati a vagliare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie, non hanno trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Sono per contro emersi – precisano i pm – rilevanti elementi di segno opposto, che inducono a dubitare». Quindi Santoro ha preso probabilmente un abbaglio, ma gli va dato atto che – al di là di Avola -, ha riportato la mafia nella sua reale dimensione. Non eterodiretta, nessun terzo livello, ma autonoma e indipendente da qualsiasi altro potere. In fondo, è quello che Giovanni Falcone cercava di spiegare nei libri e nei suoi innumerevoli interventi. IL DUBBIO DAMIANO ALIPRANDI

 

30.4.2021 – Il racconto di Fiammetta Borsellino Che fine ha fatto il dossier Mori, i dubbi sulla Procura di Palermo Durante lo speciale di Enrico Mentana su La Sette, nonostante i presenti in studio abbiano cercato di deviare il discorso, Fiammetta Borsellino ha mantenuto il punto concentrandosi sulle cause della strage di Via D’Amelio, ma soprattutto sulle anomalie che sarebbero avvenute all’interno dell’allora procura di Palermo retta da Pietro Giammanco. L’unica a sostenerla è stato l’ex magistrato Antonio Di Pietro, testimone di alcuni fatti ben circostanziati riguardanti il dossier mafia-appalti redatto dai Ros e nato su spinta di Giovanni Falcone. Dossier archiviato subito dopo la morte di Borsellino. Ed è stata Fiammetta che ha esordito: «Nella sentenza trattativa si dice una menzogna, una bugia. Si dice che mio padre fosse addirittura disinteressato al dossier ‘Mafia e appalti’ o che non lo conoscesse: ma non è vero, perché lo conosceva benissimo». Una denuncia forte, tanto da far rabbrividire i presenti in studio abituati al racconto a senso unico sulla presunta trattativa. Di fatto, è stato violato un dogma di una certa Antimafia che, per dirla come Sciascia, è diventata uno strumento di potere. Il passaggio della sentenza trattativa, com’è detto, riguarda il fatto che Borsellino non avrebbe fatto in tempo nemmeno a leggere il contenuto del dossier. Ma Fiammetta è stata categorica: è una menzogna. E per corroborare la sua affermazione ricorda una circostanza documentata. Ricorda che suo padre chiese copia del dossier quando era ancora alla procura di Marsala. Ed è vero.In un verbale di assunzione di informazione, il capitano Raffaele Del Sole ha raccontato che, su richiesta di Borsellino, ha accompagnato presso la procura di Marsala l’allora collega Giuseppe De Donno in un periodo poco successivo al deposito del dossier mafia- appalti alla procura di Palermo. «Ricordo che nel corso dell’incontro – ha spiegato Del Sole – il procuratore Borsellino chiarì al De Donno i motivi per cui chiedeva copia del rapporto riconducendoli sostanzialmente alla pendenza di indagini che la procura di Marsala stava effettuando su alcuni appalti a Pantelleria. Fatti che erano stati ritenuti connessi alle indagini espletate dai Ros». Sempre il capitano Del Sole ha aggiunto che nel corso di tale incontro c’era anche il maresciallo Carmelo Canale, il quale avvalorò quanto riferito da Borsellino definendo con espressione metaforica il dossier mafia- appalti come il “cacio sui maccheroni”.  Leonardo Berneri — 30 Aprile 2021 IL RIFORMISTA

 
29.4.2021 CLAUDIO FAVA (1)  SU AVOLA: NIENT’ALTRO CHE LA MENZOGNA  “Non mi affaccio più su Facebook per ragioni mie. Lo faccio oggi per necessità. Perché Maurizio Avola, un signore con ottanta omicidi sulla coscienza, ha tirato in causa i morti e i vivi per raccontare le sue ridicole verità. E qualcuno gli ha perfino creduto. Avola afferma di aver ammazzato Giuseppe Fava. Dice di aver caricato di esplosivo l’auto bomba di via D’Amelio. Sostiene di essere l’ultimo ad aver visto vivo il giudice Borsellino e di aver dato lui il segnale per far saltare in aria l’auto. Dice di sé, e degli altri compari, un mucchio di strampalate e supponenti falsità che hanno avuto l’onore della cronaca televisiva (ieri sera sulla 7) e la consacrazione letteraria sul libro che gli ha dedicato un giornalista esperto – ma stavolta assai superficiale – come Michele Santoro. Avola dice che c’era sempre lui, ovunque si dipanasse la storia oscura e vigliacca di Cosa Nostra. A Catania come a Palermo. Lo racconta con ventisette (!) anni di ritardo dall’inizio della sua collaborazione con lo Stato. Lo fa mescolando suggestioni grossolane e presunte inoppugnabili verità. Una per tutte: dietro la morte di Paolo Borsellino c’è solo la mafia, nient’altro che la mafia. Complicità istituzionali? Nessuna! Servizi segreti? Paranoie! Depistaggi? Letteratura giornalistica… Chi era il tipo in giacca e cravatta, notato da Spatuzza e mai visto prima, mentre in un garage palermitano si imbottiva la 126 di esplosivo? Uno sconosciuto mafioso catanese, altro che servizi! Chi ha voluto la morte di Fava? La mafietta locale, che c’entrano i cavalieri! Avola mente. Grossolanamente. Un rapido e onesto lavoro di verifica giornalistica avrebbe permesso di rendersene conto prima di dedicargli un libro che già nel titolo, “Nient’altro che la verità”, appare come uno sputo in faccia ad ogni verità. È agli atti dei processi celebrati a Caltanissetta che Avola, nei giorni della strage di via D’Amelio, stava a Catania con un braccio ingessato. Verificarlo era semplice. È scritto nella sentenza del Borsellino Quater che le auto della scorta di Borsellino arrivarono in via D’Amelio a sirene spente (pag. 127, deposizione della teste Cataldo) mentre Avola racconta che lui era lì, come Achille fieramente in attesa del suo Ettore, e li sentì arrivare “a sirene spiegate”. È nelle carte del processo Orsa Maggiore la ricostruzione dell’omicidio di Giuseppe Fava, e poco o nulla del racconto di Avola corrisponde a verità (una per tutte: “la redazione dei Siciliani stava al primo piano”: falso, lavoravamo in uno scantinato sotto il livello della strada). La domanda però è un’altra: chi manda Avola ad avvelenare i pozzi? Chi si vuole servire della sua sgangherata ricostruzione per fabbricare un altro depistaggio su via D’Amelio? Chi continua ad aver paura, trent’anni dopo, di chiunque s’avvicini alla verità su quegli anni e su quei fatti? E chi li difende questi nostri morti, così strapazzati da mani villane?”.  (1)  Presidente Commissione Antimafia Regione Sicilia

28.4.2021 FIAMMETTA BORSELLINOLe anomalie che hanno caratterizzato le indagini e i processi sulla strage di via D’Amelio costiuiscono la più grande offesa al popolo italiano”. Lo ha detto Fiammetta Borsellino nello speciale Mafia di Mentana. “Quello che è stato definito in sentenza il più grave depistaggio […] Le anomalie che hanno caratterizzato le indagini e i processi sulla strage di via D’Amelio costiuiscono la più grande offesa al popolo italiano”. Lo ha detto Fiammetta Borsellino nello speciale Mafia di Mentana. “Quello che è stato definito in sentenza il più grave depistaggio della storia giudiziaria del paese – dice – E un paese che dopo 30 anni non riesce a fare luce su questo e altri misteri, per me è un paese che non ha possibilità di futuro. La verità non riguarda solo me e i miei familiari, un paese che non fa luce non può progredire”. ADNKRONOS


28.4.2021 – Fiammetta Borsellino, ‘dopo morte di mio padre volutamente si è guardato altrove’ Giammanco non informò mio padre dell’arrivo del tritolo?”. E’ la denuncia di Fiammetta Borsellino nello speciale Mafia di Mentana su La7. “L’informativa del generale Subranni era datata il 19 giugno del 1992 .- dice – e mio padre lo apprese solo per caso dopo un incontro con Salvo Andò. E il 28 giugno mio padre litigò con Giammanco e fece volare i tavolini per aria. Tornato a casa ci disse che la sua condotta era stata irresponsabile e imperdonabile”. ADNKRONOS


28.4.2021 – Fiammetta Borsellino, “I magistrati di allora dovevano indagare bene ma non lo hanno fatto”. E’ la denuncia di Fiammetta Borsellino intervenuta allo speciale Mafia di Mentana su La7. “Ci sono una serie di eventi che hanno caratterizzato gli ultimi mesi di vita di mio padre – dice – all’interno della Procura di Palermo retta da Pietro Giammanco. Elementi che dovevano dare adito a sviluppi investigativi, soprattutto nei primi dieci anni, che sono cruciali ma volutamente si è guardato altrove” . Adnkronos


28.4.2021 – Fiammetta Borsellino, “Nella sentenza trattativa si dice una menzogna, una bugia. Si dice che mio padre fosse addirittura disinteressato al dossier ‘Mafia e appalti’ o che non lo conoscesse ma non è vero, perché lo conosceva benissimo”. E’ la denuncia di Fiammetta Borsellino, la figlia minore di Paolo Borsellino nello speciale Mafia di Enrico Mentana su La7. “La cosa grave è che il 14 luglio 1992 (cinque giorni prima della strage ndr) mio padre fece una riunione con i suoi sostituti in cui chiese come mai l’indagine di sua competenza non fosse confluita nel dossier Mafia e appalti”. Adnkronos


Fiammetta Borsellino, ‘anomalie processo la più grande offesa al popolo italiano’ Le anomalie che hanno caratterizzato le indagini e i processi sulla strage di via D’Amelio costiuiscono la più grande offesa al popolo italiano”. Lo ha detto Fiammetta Borsellino nello speciale Mafia di Mentana. “Quello che è stato definito in sentenza il più grave depistaggio della storia giudiziaria del paese – dice – E un paese che dopo 30 anni non riesce a fare luce su questo e altri misteri, per me è un paese che non ha possibilità di futuro. La verità non riguarda solo me e i miei familiari, un paese che non fa luce non può progredire”

 

 COMUNICATO STAMPA DELLA PROCURA DI CALTANISETTA SUL KILLER AVOLA


29.4.2021  i pm di Caltanissetta bocciano l’ex pentito Avola: “Non era a Palermo ma a Catania con il braccio ingessato” Le dichiarazioni nel libro di Michele Santoro, rilanciate nello speciale mafia di Mentana su “La 7”. Anche Fiammetta Borsellino dice: “Di depistaggio ne abbiamo già subito uno” Ieri sera, durante lo speciale mafia di Enrico Mentana andato in onda su “La 7”, Fiammetta Borsellino aveva subito espresso le sue riserve sul racconto dell’ex boss catanese Maurizio Avola, che nel libro intervista di Michele Santoro (“Nient’altro che la verità”) sostiene di aver partecipato alla strage di via d’Amelio, il 19 luglio 1992: “Di depistaggio ne abbiamo già subito uno”. Lapidarie le parole della figlia del giudice Paolo. Ora, arriva un comunicato della procura di Caltanissetta per smentire senza mezzi termini le parole di Avola, che nel 1994 aveva iniziato a collaborare con la giustizia, confessando 80 omicidi, fra cui quello del giornalista Pippo Fava, qualche anno dopo venne espulso dal programma di protezione perché sorpreso a fare rapine in banca con altri due pentiti. Di recente, l’ex killer del clan Santapaola è tornato a fare dichiarazioni, parlando delle stragi del 1992, del delitto del sostituto procuratore generale della Cassazione Scopelliti e del superlatitante Messina Denaro. La procura di Caltanisetta conferma che l’anno scorso Avola, sentito in un interrogatorio, ha riferito della sua presenza in via D’Amelio, “a distanza di oltre 25 anni dall’inizio della collaborazione con l’autorità giudiziaria”. Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Gabriele Paci ha subito iniziato l’indagine assieme alla Dia di Caltanissetta, alla ricerca di riscontri: “I conseguenti accertamenti – scrive oggi la procura nissena – finalizzati a vagliare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie, non hanno trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Sono per contro emersi – precisano i pm – rilevanti elementi di segno opposto, che inducono a dubitare fortemente tanto della spontaneità quanto della veridicità del suo racconto”. La procura cita un riscontro negativo, “fra tanti”: “L’accertata presenza di Avola a Catania, addirittura con un braccio ingessato, nella mattina precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore, egli, giunto a Palermo nel pomeriggio di venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di un’abitazione sita nei pressi del garage di via Villasevaglios, pronto su ordine di Giuseppe Graviano a imbottire di esplosivo la Fiat 126”. Aggiunge la procura: “Colpisce, peraltro, che Avola, anziché mantenere il doveroso riserbo su quanto rivelato a questo ufficio, abbia preferito far trapelare il suo asserito protagonismo nella strage di via D’Amelio, oltrechè quello di Messina Denaro, Graviano e altri, attraverso interviste e la pubblicazione di un libro. E lascia altresì perplessi – prosegue il comunicato – che egli abbia imposto autonomamente una sorta di discovery, compromettendo così l’esito delle future indagini, dopo che l’ufficio aveva provveduto a contestargli le numerose contraddizioni del suo racconto e gli elementi probatori che inducevano a dubitare della veridicità di tale sua ennesima progressione dichiarativa”. Le “future indagini” sono quelle su Avola, i magistrati vogliono capire cosa c’è dietro le sue nuove dichiarazioni. Solo il desiderio di un ex pentito di rietrare nel programma di protezione o un disegno ancora tutto da scoprire per minare i processi già conclusi sulle stragi? Fra le dichiarazioni di Avola, ci sono pure parole pesati su Gaspare Spatuzza, l’ex fedelissimo dei Graviano che nel 2008 ha svelato la grande impostura del falso pentito Vincenzo Scarantino. Avola sostiene che Spatuzza non era uomo d’onore e che non poteva conoscere i segreti di Giuseppe Graviano, l’organizzatore della strage di via D’Amelio. Dichiarazioni smentite da tanti collaboratori di giustizia, che hanno raccontato come Spatuzza sia stato al vertice del clan di Brancaccio alla metà degli anni Novanta, dopo l’arresto dei Graviano.

Interviene anche il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, che dice: “Avola è un inquinatore di pozzi e mi meraviglia che un giornalista come Santoro, con il suo libro, si sia prestato a dare fiato a un personaggio del genere. Già in passato, con le sue dichiarazioni, Avola ha delineato la strategia dei falsi pentiti di mafia: mischiare verità e bugie per minare la credibilità dei veri pentiti”. di Salvo Palazzolo LA REPUBBLICA



IL DOSSIER MAFIA&APPALTI E L’ELIMINAZIONE DI PAOLO BORSELLINO


 


GIUSEPPE AVOLA, IL KILLER DAGLI OCCHI DI GHIACCIO…

 

” … prima di un omicidio o di una rapina, mi sentivo un rigorista ad una finale dei mondiali. Affrontare una giornata da killer è un’eccitazione che pochi sperimentano. In tutta onestà, io amavo quella sensazione. Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole, e non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite…”


 Qualcosa non torna… MAURIZIO AVOLA, killer catanese “pentito” di Cosa nostra é il protagonista delle nuove rivelazioni sulla STRAGE di VIA D’AMELIO, al centro dello SPECIALE MAFIA La ricerca della verità, in onda su LA7 mercoledì 28 aprile. Al processo “Borsellino Ter” negò di sapere di un eventuale coinvolgimento delle famiglie catanesi nell’assassinio del dottor Borsellino. Oggi, invece, fa sapere di essere stato lui a dare il segnale per il via alla strage… 




Qualcosa non torna… MAURIZIO AVOLA, killer catanese “pentito” di Cosa nostra é il protagonista delle nuove rivelazioni sulla STRAGE di VIA D’AMELIO, al centro dello SPECIALE MAFIA La ricerca della verità, in onda su LA7 mercoledì 28 aprile. Al processo “Borsellino Ter” negò di sapere di un eventuale coinvolgimento delle famiglie catanesi nell’assassinio del dottor Borsellino. Oggi, invece, fa sapere di essere stato lui a dare il segnale per il via alla strage… 


26.4.2021 Il pentito di mafia catanese Maurizio Avola: «Così diedi il segnale per uccidere Paolo Borsellino» Il sicario del clan Santapaola che si è accusato di decine di omicidi per conto di Cosa nostra, si chiama per la prima volta in causa tra gli autori della strage di Via d’Amelio  «Sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino, prima di dare il segnale per fare quella maledetta esplosione. Mi accendo la sigaretta, lo guardo, mi soffermo, mi rigiro e faccio il segnale». Così il sicario del clan Santapaola, Maurizio Avola, che si è accusato di decine di omicidi per conto di Cosa nostra, si chiama per la prima volta in causa tra gli autori della strage di Via d’Amelio in un video pubblicato dal l giornale online Tpi.it. Le sue dichiarazioni, rese alla Procura di Caltanissetta, fanno parte del libro del giornalista Michele Santoro, “Nient’altro che la verità”, in uscita il 29 aprile per Marsilio. La presenza di Avola, condannato anche per l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava a Catania, a Palermo per l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non era ancora emersa in sede di processi per la strage di Via D’Amelio e le sue dichiarazioni sono al vaglio della Dda Nissena. Il pentito Gaspare Spatuzza, teste chiave del nuovo processo dopo la revisione di quello nato dalle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, non ha mai parlato della presenza di Avola sul luogo dell’attentato. LA SICILIA



MAURIZIO AVOLA da killer dagli ‘occhi di ghiaccio a pentito  L’ex uomo d’onore di Cosa nostra, uomo di Benedetto Santapaola, diventato collaboratore di giustizia nel 1994.   Una vita tra gli agi e la fama della malavita, ma con le mani sporche di sangue. Primo omicidio, degli ottanta commessi,  a vent’anni. . Scaltro e privo di scrupoli. Maurizio Avola è riuscito a infiltrarsi anche nella super villa protetta dei fratelli Salvatore e Giuseppe Marchese, i parenti del super pentito Antonino Calderone, ed ucciderli nella cucina della loro lussuosa depandance. Era il 1992. Ha ucciso anche il suo migliore amico, Pinuccio Di Leo. Qualcosa faceva pensare che avrebbe “tradito” la famiglia, scegliendo la strada della collaborazione della giustizia. E questo dubbio Di Leo lo ha pagato con la vita. Un appuntamento con la morte direttamente all’indirizzo di Maurizio Avola. Ad attenderlo, appena ha varcato l’uscio, le pallottole. “Su ordine della ‘famiglia’, lo convocai a casa mia. Lo eliminò un amico poliziotto sparandogli due colpi alla nuca”.  Avola ha raccontato di aver schiaffeggiato il cadavere dell’amico. Di aver urlato: “È colpa tua!”. Non c’è spazio per la pietà nella mafia.  Nitto Santapaola lo aveva condannato a morte. II killer per salvare la sua pelle e quella dei suoi familiari ha deciso, nel 1994, di vuotare il sacco ai magistrati. Ha fatto nomi e cognomi di boss, gregari, soldati di Cosa nostra. Le sue confessioni hanno rappresentato uno dei pilastri del maxi processo Orsa Maggiore. Il processo più importante della storia della mafia catanese. Avola ha anche raccontato dei rapporti di Santapaola con esponenti della politica, dell’imprenditoria, delle istituzioni. Ha rivelato anche i legami con Marcello Dell’Utri, numero 1 di Pubblitalia e fidato di Silvio Berlusconi. Ma nei verbali di Avola si trovano anche riferimenti ai servizi segreti deviati e alla massoneria. Il killer ha confidato ai pm del progetto di attentato nei confronti del magistrato Antonio Di Pietro, che nei primi anni Novanta faceva parte del pool di “mani pulite” alla Procura di Milano. Poi il piano è sfumato. Nel 1997 Maurizio Avola è stato arrestato a Roma per una serie di rapine in banca. “Rapinatori-pentiti” hanno titolato i giornali dell’epoca. Con lui, infatti, sono finiti in manette altri due pentiti siciliani. Fu buttato fuori dal programma di protezione. Non sono mancate le polemiche sul trattamento che lo Stato riservava ai collaboratori di giustizia. Avola, forse spinto dalla moglie che gli diceva di tenere duro, ha chiesto un’altra chance allo Stato.



Io, killer della mafia, uccidevo per piacere”La prima volta, anche per un mafioso, è dura. Col tempo diventerà un killer senz’anima, ma il battesimo di sangue, quello non se lo scorderà più. Maurizio Avola, cresciuto nel perimetro violento di una Catania in balia di Cosa nostra, ricorda come un incubo la prima volta in cui la famiglia di Nitto Santapaola, il suo mito, gli chiese di uccidere un uomo: «Si chiamava Andrea Finocchiaro; la sua unica colpa era di essere vicino all’onorevole Salvo Andò, uno dei politici più in vista della Sicilia». Un uomo indifeso che non sospettava minimamente quel che gli sarebbe accaduto: sembrava facile, fu terribile. «Iniziai a sparare, il silenziatore già inserito, ma ero teso. Con i primi due colpi lo ferii ad un fianco e ad un braccio». Lui, con un piede già nella fossa, provò a salvarsi: «Lasciami vivere: ho moglie, bambini, non faccio del male». Passarono pochi secondi. «Tre, quattro, cinque, cento, impossibile dirlo. Lui che continuava ad implorarmi, a guardarmi. Lo finii con tre colpi alla testa. E poi rimasi a fissarlo stupefatto». Qualche minuto dopo, Maurizio Avola, vomitò l’anima: «Ah, la coscienza. Che problema, eh Maurizio?», gli sussurrò Aldo, un altro picciotto. Sì, la coscienza poteva essere un problema, ma solo all’inizio: «Guarda che anche i migliori la prima volta vomitano», gli spiegò l’amico, più esperto. È proprio così, ci racconta il killer, arrestato nel ’93, oggi pentito e detenuto in un carcere del Sud (almeno fino all’anno prossimo, quando potrebbe ottenere gli arresti domiciliari). Col tempo uccidere diventò una professione, la sua, la sua specialità: Avola ha ammazzato 80 persone, una più una meno, e alla lunga ha smarrito la contabilità esatta di questo cimitero, arrivando a confondere nomi e numeri. Una storia che affiora in tutta la sua crudezza nel libro appena pubblicato da Fazi: Mi chiamo Maurizio sono un bravo ragazzo ho ucciso ottanta persone, firmato a quattro mani da Roberta Gugliotta e Gianfranco Pensavalli. Avola ci riporta a ritroso nel tempo, a cavallo fra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta. E ci descrive la vita paranoica di un killer: a Catania in quel periodo si moriva per un nonnulla e spesso la famiglia Santapaola affidava l’incarico a lui. «Come sempre, prima di un omicidio o di una rapina, mi sentivo un rigorista ad una finale dei mondiali. Affrontare una giornata da killer è un’eccitazione che pochi sperimentano. In tutta onestà, io amavo quella sensazione. Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole, e non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite». Avola uccide piccoli mafiosi, che hanno compiuto qualche sgarro, e personaggi famosi come il giornalista Pippo Fava. Un giorno gli affidano il compito di far cadere in trappola Saro, un traditore. Per tre settimane Avola si guadagna la fiducia della futura vittima: gli prospetta la possibilità di compiere una rapina insieme. Saro abbassa la guardia e finisce nella rete: «Mi sentivo una spia… Ti fai amico un tizio e dopo un po’ lo uccidi. Era lavoro». Lavoro che passava attraverso la tortura: «Prendemmo sotto le ascelle Saro e lo portammo in un’altra stanza, dove c’erano le armi, lo legammo alla sedia, cominciammo a interrogarlo per farci dire se era un confidente della polizia. «Tradire l’organizzazione… che minchia ti sei messo in testa?… Estrassi dalla pistola tutti i proiettili tranne uno, girai il tamburo e iniziai a premere il grilletto con la canna puntata alla sua testa. C’era un silenzio glaciale. Mentre ero piazzato davanti a lui e continuavo con la mia bella roulette russa, la prima a cedere fu la sua vescica. Prima gli colorò i pantaloni, poi il pavimento». Saro implora Maurizio: «Darei qualsiasi cosa per farmi perdonare. Non uccidermi, ti prego…». Il killer che la prima volta aveva esitato e vomitato l’anima, si commuove. Ma alla maniera di Cosa nostra: «Strano a dirsi, mi impietosì, e lasciai gli altri a strangolarlo. Quando lo ammazzarono mi trovavo nella stanza accanto. Il cadavere venne avvolto in una coperta e bruciato in campagna. L’auto di Saro venne poi guidata fino a Catania e consegnata ad un rottamaio per essere “tagliata”». Questa era la Catania dei Santapaola. Con una media, all’inizio degli anni Novanta, di tre omicidi al giorno. E una ferocia cinematografica che non ammette confronti, non solo con i classici come Il padrino, ma nemmeno con le pellicole più truci: «Turi e Melo furono uccisi perché Santapaola non si fidava più di loro. Dopo essere stati strangolati furono gettati dentro un porcile. Per stimolare i maiali, i cadaveri furono tagliati all’altezza del ventre, e sul sangue i suini si avventarono, sotto lo sguardo compiaciuto dei presenti». Così si moriva e si muore nel «regno» di Cosa nostra.Il giornale Stefano Zurlo –  25/09/2008 

AVOLA Maurizio Inserito con la qualifica di uomo donore” nella famiglia” catanese di COSA NOSTRA che ha il suo capo indiscusso in SANTAPAOLA Benedetto, era persona assai vicina a DAGATA Marcello, consigliere della predetta famiglia” e, quindi, uno dei personaggi più autorevoli della medesima, di cui aveva contribuito a deliberare le più importanti strategie criminose. Peraltro, limportanza dello AVOLA allinterno di questa struttura criminale era anche legata alla sua diretta partecipazione con il ruolo di killer a numerosi omicidi, tra cui è sufficiente ricordare in questa sede, per lelevato spessore criminale delle persone che vi erano coinvolte nella fase deliberativa ed esecutiva, quello verificatosi nel 1982 ai danni del giornalista Giuseppe FAVA, a quel tempo una delle voci più nobili ed anche più isolate levatasi a denunciare con grande fermezza e lucidità lampiezza e la pericolosità del fenomeno mafioso ed il devastante effetto inquinante che esso stava esercitando su tutti i settori della società, da quello politico a quelli istituzionali ed economici. La scelta collaborativa dello AVOLA, intrapresa dopo circa un anno dal suo arresto, operato nel marzo del 1993, costituisce uno dei primi casi verificatisi tra gli uomini donore” di Catania, dopo quello storico di CALDERONE Antonino e quello di SAMPERI Severino Claudio, che iniziò a collaborare con lA.G. nel gennaio del 1993, al momento stesso del suo arresto. Da qui la notevole importanza delle dichiarazioni dello AVOLA, che hanno consentito di ricostruire numerose delle più importanti vicende criminali di cui si era resa protagonista la famiglia” catanese di COSA NOSTRA nellarco di circa un decennio. E se è vero che la sua collaborazione ebbe inizio quando già vi erano nei suoi confronti gravi indizi di reità per lomicidio del consociato DI LEO Giuseppe, deve anche evidenziarsi che lo AVOLA non ha manifestato alcuna remora a confessare le proprie responsabilità in circa una cinquantina di omicidi per i quali nessun elemento probatorio vi era a suo carico, mostrando la medesima determinazione, priva di calcoli e di qualsiasi esitazione, con la quale aveva intrapreso ancor giovane la via del crimine. La vicenda collaborativa dello AVOLA mostra con solare evidenza la necessità di scindere la questione dellattendibilità intrinseca delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia da quella della ricerca delle eventuali motivazioni etiche di tale scelta, come già si è detto nel secondo paragrafo del primo capitolo della Parte prima di questa sentenza. Da una parte costituiscono indubbiamente fattori di affidabilità delle sue dichiarazioni la mancanza da parte dello AVOLA del tentativo di cercare alibi o giustificazioni al proprio operato, di attenuarne la cruda realtà criminale e la gravità, di centellinare con mentalità ragionieristica le proprie dichiarazioni per ritrarne il massimo vantaggio con il minor danno personale, come pure hanno fatto altri soggetti esaminati in questo processo, dallaltra parte sembra di avvertire nella stessa fredda lucidità, priva di qualsiasi partecipazione emotiva, con cui egli ha riferito i più impressionanti episodi di violenza che lo videro protagonista, langosciante sensazione di affacciarsi su di un abisso profondo ed oscuro, quello di un animo deprivato di gran parte della sua sensibilità umana e della capacità di orientare il suo comportamento secondo un sistema di valori etici. In tale situazione si associa ad una generale affidabilità del dichiarante, da verificare comunque sempre episodio per episodio secondo i già evidenziati criteri di valutazione, una sua pericolosità sociale, che può indurlo, al verificarsi di determinate condizioni, a commettere ulteriori reati anche dopo la scelta collaborativa, come è successo nel caso dello AVOLA, resosi autore con laltro collaboratore SAMPERI Severino Claudio di una serie di rapine, come ammesso dallo stesso imputato in procedimento connesso. Ma tali circostanze, per le ragioni testé menzionate, non possono automaticamente screditare le sue dichiarazioni, così come più in generale ogni valutazione sulla portata probatoria delle propalazioni di un collaboratore di giustizia e sulla possibilità di applicare la diminuente di cui allart. 8 del D.L. n. 152/1991 non dovrebbe meccanicamente refluire, senza la considerazione di altri elementi, sulle decisioni in materia di libertà personale dello stesso. Nellambito del presente processo sono state anche acquisite ex art. 238 c.p.p. le dichiarazioni rese dallo AVOLA nelludienza del 14.3.1996 del giudizio di primo grado per la strage di Capaci. Le indicazioni complessivamente fornite dal collaborante sono apparse adeguate al suo livello di adesione alla vita dellassociazione mafiosa, che lo vedeva escluso dalla partecipazione alle deliberazioni strategiche ma che lo trovava coinvolto a vario titolo e più o meno direttamente nellesecuzione di molti crimini. In particolare di notevole rilievo per la qualificazione della fonte e la diretta conoscenza dei fatti riferiti hanno assunto le propalazioni del collaborante sullorganigramma di COSA NOSTRA nella provincia catanese e sui rapporti intercorsi tra questa provincia e quella di Palermo anche nel periodo in cui venivano deliberate prime e poi poste in essere le stragi del 1992 e del 1993.



Maurizio Avola: il pentito che riscrive la storia dell’AntimafiaIn altri tempi, la fine del secolo scorso, sarebbe caduta Sagunto. C’è un pentito della vecchia generazione che dopo un quarto di secolo si sveglia dal letargo e decide di riscrivere la storia dell’Antimafia.  Ne ha tutto il diritto, in tempi in cui si processa una certa Antimafia, come l’ex presidente degli industriali siciliani, Montante, che ha trascinato nel fango funzionari della Dia, poliziotti e agenti segreti al suo servizio. E persino i paladini dell’Antimafia dura e pura, come il pm Nino Di Matteo con i colleghi Anna Palma e Lello Petralia rischiano l’incriminazione a Messina, se già non è stata formalizzata, per calunnia con l’aggravante di aver favorito Cosa nostra, per la gestione, ai tempi in cui erano alla Procura di Caltanissetta, del pentito Vincenzo Scarantino e delle sue dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio (Paolo Borsellino e la sua scorta). E allora chi ha voglia di farsi ipnotizzare dalla riscrittura della stagione stragista di Cosa nostra, sia pronto a rimettere in discussione il dogma dei dogmi dell’Antimafia: la presenza di mandanti esterni a Cosa nostra nelle stragi di Capaci, via D’Amelio, Firenze, Roma e Milano, che per molti si identificano in entità pubbliche e istituzionali. E che invece nella ricostruzione di Maurizio Avola non esistono. Cosa ha detto di così scandaloso il pentito del secolo scorso, catanese, autore di una ottantina di omicidi, il giornalista Pippo Fava in testa? Che i mandanti e anche esecutori delle stragi palermitane del 1992 sono stranieri, è la famiglia Gambino della Cosa nostra americana. Che mandò a Palermo un suo uomo d’onore esperto in esplosivi e telecomandi, per insegnare a lui (e a Giovanni Brusca) come maneggiare i congegni nuovi, l’esplosivo e i telecomandi che dovevano coprire una distanza di sei, settecento metri dal detonatore. E che gli americani indicarono modalità e obiettivi dell’offensiva stragista dei Corleonesi per mandare un messaggio preciso agli “amici” di Falcone e dello “sbirro” Gianni De Gennaro che stavano processando la famiglia Gambino nella loro New York. Avola sembra rilanciare la palla nel campo di Giovanni Brusca che nulla ha mai detto sull’artificiere americano. E ha rivelato che i siciliani avrebbero dovuto assassinare il governatore di New York Mario Cuomo, del Partito Democratico, che nel novembre del 1992 avrebbe dovuto visitare Messina. E che la sua visita siciliana fu bloccata pochi giorni prima, lasciando intuire, Avola, che i Servizi segreti furono allertati da una “soffiata” dell’ala moderata di Cosa nostra catanese, Santapaola in testa, che non voleva stragi o omicidi eccellenti a casa sua. Eppure Nitto Santapaola ha “sacrificato” suo figlio per l’omicidio del giudice reggino Antonino Scopelliti, che doveva sostenere l’accusa in Cassazione al maxi processo contro Cosa nostra. Un omicidio eccellente, il primo atto della dichiarazione di guerra allo Stato, dell’offensiva eversiva e stragista. Furono i catanesi con Matteo Messina Denaro a eseguire l’omicidio del magistrato reggino. Avola si è autoaccusato e ha accusato i mandanti e gli autori dell’omicidio. Ha fatto trovare il fucile sepolto in provincia di Catania. Ora sono in corso le perizie balistiche e dovranno passare un paio di mesi per avere la conferma che il fucile “è compatibile” con l’arma dell’omicidio. Di verità scomode, scandalose, al limite indimostrabili e dunque non vere anche se verosimili, ieri Maurizio Avola ne ha raccontate tante nell’aula bunker di Firenze, dove si celebrava davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta il processo contro il boss trapanese Matteo Messina Denaro per la strage di via D’Amelio. Aula bunker deserta, solo una decina di avvocati. Per tutto il pomeriggio fino a tarda sera il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, ha tentato di non danneggiare le indagini “delicatissime” in corso a Reggio Calabria e Caltanissetta sulle dichiarazioni inedite che da un anno sta centellinando il pentito catanese. Per tutto il giorno il tarlo non ha smesso di tormentare con dubbi e sospetti le certezze sedimentate in tanti anni di indagini e processi. Questa, proposta da Avola, è una nuova trama noir. Ecco riaffiorare la Falange Armata, una sigla che da un certo momento in poi Cosa nostra avrebbe dovuto utilizzare per rivendicare gli attentati. In tutti i processi che lo hanno visto imputato, Avola ha avuto riconosciuti i benefici premiali per la collaborazione. Trent’anni da scontare in carcere. È lui li ha vissuti senza protestare. Ha avuto uno sconto di cinque anni di pena per la buona condotta in carcere ma ancora oggi è detenuto, in carcere per le ultime briciole di detenzione carceraria. Ritenuto sempre attendibile dai giudici anche se negli anni i magistrati di diverse procure non gli hanno creduto su alcune vicende che ha raccontato. Anche ieri ha chiamato in causa per esempio l’avvocato forzista ed ex ministro Cesare Previti. Anche ieri, a proposito di un attentato all’allora pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, se ne è uscito con un omicidio che dovevano eseguire per fare un favore ai socialisti. Ma poi ha raccontato appunto dei misteri degli omicidi Scopelliti e del giudice trapanese Ciaccio Montalto: «A me che esternai delle perplessità sul coinvolgimento di Matteo Messina Denaro nell’omicidio Scopelliti, il consigliere della famiglia catanese, Marcello D’Agata, mi rispose che Messina Denaro aveva già partecipato a un omicidio eccellente, quello del giudice trapanese Ciaccio Montalto, insieme a Marcello D’Agata, Aldo Ercolano (famiglia catanese, ndr) e a Mariano Agate». In oltre cinque ore di interrogatorio, Maurizio Avola ha ripercorso un quarto di secolo di storia di Cosa nostra. Dal ruolo di Salvo Lima, che svela all’organizzazione che Falcone si stava adoperando per il buon esito del maxi processo, in Cassazione, discutendone con il giudice Scopelliti. Accenna, di passaggio, anche allo scenario del nuovo mondo che si prepara con l’avvento di una nuova forza politica. Ma non c’è tempo per parlarne. L’interrogatorio si concentra sul ruolo di Matteo Messina Denaro, il figlioccio di Totò Riina, nelle stragi e non solo. E si sofferma, il pentito catanese, anche sul tentativo fallito di eliminare Falcone all’Addaura con un modellino di elicottero imbottito di tritolo che avrebbe dovuto alzarsi in volo e, come se fosse un drone antelitteram, telecomandato fino ad esplodere in presenza di Falcone. Un progetto fallito per l’impossibilità dell’elicottero di alzarsi in volo per il suo peso. Per chi ha raccontato questi anni di inchieste e tormenti, processi e assoluzioni, Maurizio Avola sembra riproporre gli stessi titoli. Ma in realtà stravolge il senso di marcia della storia raccontata fino a ieri. Non è solo un vecchio killer che si avventura in un labirinto da cui si esce con difficoltà. È stato un killer che nei suoi dieci anni di appartenenza alla famiglia catanese (il vero boss, dice il fedelissimo, era Aldo Ercolano e non Nitto Santapaola) è riuscito a diventare anche capodecina reggenteQuelle di ieri sono state le prime dichiarazioni pubbliche delle nuove rivelazioni di Avola. L’udienza finisce a tarda sera.uscendo dall’aula bunker viene spontanea una domanda: ma perché Avola che ha (quasi) finito di scontare i suoi anni di carcere ha deciso solo oggi di riscrivere la storia? Di autoaccusarsi di omicidi eccellenti e di stragi? Di chiamare in causa protagonisti, comprimari e comparse che hanno affollato quel tragico palcoscenico del secolo scorso? MICHELESANTORO.IT di Guido Rotolo 6.4.2019

L’ex killer sentito al processo che vede imputato il super latitante per le stragi ’92  A Firenze ascoltati anche Tranchina, Ferro e Patti  La strategia stragista parte dopo la sentenza d’appello del maxi processo e si doveva fare la Cassazione. Mi rintraccia Aldo Ercolano e mi dice che si doveva compiere un omicidio di urgenza ad un magistrato, Antonino ScopellitiSi doveva fare subito perché se ne stava andando da Reggio e a Roma non si poteva fare“. Per la prima volta, da quando è stata resa nota la riapertura delle indagini sull’omicidio del giudice ucciso in Calabria il 9 agosto 1991, il pentito Maurizio Avola, che ha permesso di ritrovare un fucile calibro 12 su cui sono in corso accertamenti, ha deposto in un’aula di giustizia. Il processo è quello a carico del superlatitante di Castelvestrano, Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato il mandante delle stragi del ’92. Davanti alla corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, l’ex killer catanese ha confermato il ruolo di Messina Denaro nell’organizzazione del delitto: “L’omicidio Scopelliti era il primo omicidio eccellente ma si sa anche che un gruppo palermitano, assieme a Messina Denaro, era partito per uccidere Falcone a Roma. Marcello D’Agata mi raccontò di una riunione a Castelvetrano, in presenza di Francesco e Matteo Messina Denaro, dove per Catania erano presenti Eugenio Galea ed Aldo Ercolano. C’erano anche altri ma non mi furono fatti i nomi e si decise di colpire Scopelliti. Così poi ci siamo adoperati. La presenza di Messina Denaro per organizzare l’omicidio era indispensabile”. Il motivo per cui si doveva colpire il giudice era chiaro: Aldo Ercolano mi diceva che Falcone lo stava ‘consumanno’, istigandolo sul maxi processo. Falcone faceva sempre più di quello che doveva fare. Così andammo avanti. Chi girò la notizia? Sempre Ercolano mi disse che a portare le informazioni sugli spostamenti di Scopelliti fu l’onorevole Lima, che era amico nostro prima che fosse assassinato. L’informazione arrivò a Messina Denaro o a chi per lui”.

Il coinvolgimento nella morte di Giangiacomo Ciaccio Montalto  Ma non era certo quello il primo omicidio eccellente a cui il capomafia trapanese avrebbe partecipato. Infatti Avola ha anche raccontato che D’Agate gli parlò del coinvolgimento del superlatitante nell’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto“A me, che esternai delle perplessità sul coinvolgimento di Matteo Messina Denaro nell’omicidio Scopelliti, Marcello D’Agata, consigliere della famiglia catanese, mi rispose che Messina Denaro aveva già partecipato ad un omicidio eccellente nel 1983, quello del giudice trapanese Ciaccio Montalto, insieme a Marcello D’AgataAldo Ercolano e Mariano Agate. E’ proprio in questa occasione che D’Agata divenne uomo d’onore”.

Gli incontri con Messina Denaro. Avola ha poi aggiunto di essersi incontrato personalmente con la primula rossa che a Catania si era recato più volte. “Una prima volta era venuto per ‘aggiustare’ il processo sull’omicidio di Vito Lipari. Il D’Agata mi disse che i Messina Denaro avevano una certa influenza sulla massoneria del luogo e conoscevano magistrati. Si diceva che Francesco Messina Denaro fosse un massone. Poi ci incontrammo a febbraio-marzo del 1992. I palermitani dovevano andare ad uccidere Martelli e Falcone a Roma e avevano bisogno di armi. Proprio Messina Denaro venne a Catania a ritirare una macchina dove avevo messo due kalashinkov, un bazooka usa e getta, due bombe a mano due calibro novex21. Erano armi che venivano dall’ex Jugoslavia”. Avola ha anche detto che in quel giorno Messina Denaro si presentò con un uomo che non gli fu presentato come Cosa nostra (“Era sfrontato, vestito elegante, con occhiali da sole ed un’altezza di un metro e settanta”).
Il teste ha anche riferito che nel 1989 vi era stata una possibilità di uccidere Falcone a Catania, prima dell’attentato all’Addaura: “I corleonesi dicevano che Falcone aveva favorito la discesa dall’America di Contorno che si era messo ad uccidere uomini d’onore. Era tutto pronto, sapevamo dove doveva andare a mangiare ma poi non si fece nulla. Per l’Addaura invece ci eravamo mossi tramite Marcello D’Agata per mettere a disposizione un elicottero telecomandato caricandolo di esplosivo. Avevamo un allarmista all’avanguardia, Alberto Torre. Fu lui che modificò i telecomandi presumibilmente usati per la strage a Capaci. Poi non si fece più niente perché dissero che ci avrebbero pensato i palermitani”.

Il ruolo nella strage di Capaci  Se negli anni Novanta Avola aveva parlato delle stragi, solo ammettendo di aver portato dell’esplosivo T4 a Termini Imerese senza sapere quale sarebbe stato il suo utilizzo, nell’ultimo anno il pentito catanese, che si trova in carcere da 22 anni, ha riferito ulteriori dettagli indicando anche le proprie responsabilità. “Per aggiustare l’esplosivo per l’attentato dovevamo essere o io o Pietro Rampulla – ha detto venerdì in aula – Arrivò pure una persona che era di fuori di Catania che ci ha imparato una tecnica moderna di come maneggiare questo tipo di esplosivo”. Immediatamente sul punto è stato stoppato dal pm Paci che ha evidenziato come “vi sono delle indagini in corso”. Ma rispondendo ad un’altra domanda è emerso che questo soggetto “era un appartenente alla famiglia Gambino di Cosa nostra americana”. “D’Agata mi disse che l’interesse degli americani c’era perché anche loro avevano avuto un processo con Falcone in mezzo. Un’indagine patrimoniale” ha aggiunto il teste.
Avola ha poi continuato il racconto del trasporto dell’esplosivo nell’aprile ’92: “Caricai i panetti in dei contenitori per le olive. Poi con D’Agata abbiamo fatto una steffetta. Nel caso vi fosse stata qualche pattuglia di stradale si faceva fermare lui con una brusca manovra. Abbiamo consegnato la roba nel primo rifornimento a Termini Imerese dove c’erano due che conosceva D’Agata. Io sono sceso e sono andato nella Fiat uno di D’Agata”. Per quanto riguarda i telecomandi utilizzati per la strage di Capaci il teste ha confermato che furono portati in un secondo momento da Vincenzo Galea ma ha anche spiegato che furono fatti dei test: “Per sicurezza io, Aldo Ercolano D’Agata ce ne siamo fatti fare un altro e l’abbiamo testato nella strada della scogliera fra Lido Acquarium e l’entrata di Aci Castello. La distanza era più o meno 700 metri. Del resto ai palermitani serviva coprire una distanza di un chilometro. Abbiamo messo in una macchina il detonatore senza dinamite. Funzionò e poi consegnammo gli altri telecomandi”.

Paura della massoneria. Alla luce dei molteplici episodi riferiti per la prima volta da Avola, come ad esempio anche un altro omicidio di un soggetto vicino a Giuseppe Ferrara (uomo d’onore cugino di Santapaola) che nel 1989 aveva avuto un problema con Messina Denaro e che al contempo parlava male di Nitto Santapaola, il pm Paci non ha potuto fare a meno di chiedere il motivo per cui solo oggi, dopo tanti anni, si è deciso a riferire certi episodi. “Quando collaboravo nel ’94 non mi sentivo pronto. Avevo i bambini piccoli e mi ero autoaccusato di omicidi di secondo piano” ha detto in un primo momento il teste, anche se già si era autoaccusato del delitto del giornalista Pippo Fava. Quando il pm gli ha fatto notare che tra le sue dichiarazioni vi erano anche quelle su figure importanti come Cesare Previti e Marcello Dell’Utri, Avola ha proseguito: “Ma anche se parlavo di Dell’Utri io non lo paragono a Messina Denaro. I ventidue anni di carcere mi hanno fatto riflettere e non ho mai avuto benefici. Ho deciso di parlare di tutto quello che so con i magistrati”. Paci ha poi letto un passaggio del verbale del 17 dicembre 2018 in cui ai pm di Reggio Calabria aveva riferito: “Io non ho mai parlato della riunione di Trapani perché temevo, e temo molto i circuiti massonici in cui i Messina Denaro sono collocati. Sono molto potenti ed hanno a loro servizio numerosi soggetti delle istituzioni”. Avola ha così confermato ed aggiunto che “sono queste persone che fanno paura perché portano le notizie su dove si trova chi è sotto protezione. Hanno amicizie nei servizi centrali. Ci sono personaggi dello Stato che fanno il doppio gioco. E l’operazione di un mese fa, che ha visto coinvolti soggetti della massoneria di Trapani non mi ha smentito”.

Una Falange Armata per le stragi. Come aveva fatto anche in altri processi Avola ha anche parlato degli attentati in Continente, spiegando di essere stato a sua volta inviato nel 1992 a Firenze per visionare qualche monumento da colpire (“individuai il Donatello finto, che sta nella piazza. Ma doveva essere un attentato dimostrativo, di notte. Anche le stragi di Firenze, Milano e Roma non dovevano colpire civili ma poi non è stato così”) ed ha anche spiegato che gli attentati negli anni delle stragi dovevano essere tutti rivendicati con la misteriosa sigla della Falange Armata (“C’era un mezzo parente dei Santapaola che era centralinista e telefonava i giornali per rivendicare anche cosa che non aveva fatto Cosa nostra come la strage dei fratelli Savi, quella del Pilastro a Bologna. Ma Marcello D’Agata mi diceva che si doveva rivendicare tutto”). Inoltre ha anche raccontato dei progetti di morte contro Salvo Andò ed Antonio Di Pietro, anche se quest’ultimo non rientrava nella strategia delle stragi ma doveva essere un favore a un imprenditore del nord che aveva problemi con Mani Pulite. Attentati che poi non furono fatti “perché ci fu anche l’avviso di qualcuno dei Servizi segreti o della polizia. O almeno noi credevamo così”. Tra gli attentati da compiere vi erano anche quelli a Costanzo, di cui si occuparono i palermitani, e quello a Pippo Baudo, reo di aver parlato contro la mafia. “Facemmo saltare la villa perché fece delle trasmissioni al ‘Costanzo show’. Lo volevamo uccidere ma Santapaola disse di far saltare solo la villa. Così mi organizzai con i ragazzi di Acireale”.

Le testimonianze di Tranchina-Ferro e Patti. A salire sul pretorio, oltre ad Avola, sono stati anche sentiti i collaboratori di giustizia Fabio Tranchina, Giuseppe Ferro ed Antonio Patti. In particolare Tranchina, ex membro della famiglia di Brancaccio, ha riferito di un episodio accaduto durante un pranzo al ristorante “U pescaturi” a Mazara al quale partecipò insieme a Giuseppe Graviano (di cui era autista), Vincenzo Sinacori, e Matteo Messina Denaro. Quest’ultimo in particolare, una volta sedutosi a tavola insieme agli altri boss, “sbiancò in faccia improvvisamente quando vide entrare una persona. Successivamente ci fece uscire tutti di fretta e furia dal ristorante e ce ne andammo senza nemmeno mangiare”. Una volta fuori, Giuseppe Graviano “mi disse che la persona che era entrata nel ristorante era il dottor Rino Germanà spiegandomi che Messina Denaro non lo poteva vedere perché lo convocava sempre in Questura”. Sempre su Germanà, Tranchina ha riferito di un altro episodio accaduto verso la fine dell’estate del 1992, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, quando accompagnò Graviano in una villetta per incontrare Matteo Messina Denaro. I due capi mafia si “isolarono per un’oretta”“Al loro ritorno Graviano era stravolto – ha rammentato il teste -, era come se avesse visto il diavolo e ripeteva ‘è andata male, è andata male, è rimasto vivo’. A quel punto capii che avevamo sparato a qualcuno e che non era morto”. Tempo dopo Tranchina dedusse che la persona “sopravvissuta” era proprio il questore Rino Germanà, miracolosamente scampato ad un agguato del commando mafioso formato da Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e da Matteo Messina Denaro. Anche Tranchina ha raccontato che il gruppo di Brancaccio, tra la fine del 1991 e gli inizi del 1992, preparò un’auto caricandola di armi. “Era la macchina di Fifetto Cannella e la caricammo con pistole, mitragliatrici, fucili a pompa e giubbotti antiproiettile”, preparate di tutto punto da un gruppo numeroso di boss di alto livello. Tra questi “Matteo Messina Denaro, i fratelli GravianoFifetto Cannella (Cristoforo), Vincenzo Sinacori, Pietro Lo Bianco, un certo Pilo che custodiva le armi e forse Franco Geraci. Quel vasto arsenale, secondo la memoria di Tranchina, “serviva per un’azione molto pericolosa ed eclatante che dovevano fare a Roma, sentì parlare di un ristorante”. Il teste, così come aveva fatto anche in altri processi ha anche ricostruito alcune fasi di preparazione dell’attentato in via d’Amelio quando, in più occasioni, si era trovato a passare proprio per quella strada con Giuseppe Graviano“Mi aveva anche chiesto di affittare un appartamento proprio sulla via. Voleva che pagassi in contanti senza passare dalle agenzie. Non lo feci e lui disse ‘mi arrangio con il giardino’”.
Per concludere nella trasferta fiorentina è stato sentito anche Giuseppe Ferro, ex capo mandamento di Alcamo succeduto al boss Vincenzo Milazzo, ucciso da Ferro stesso insieme a Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella nel luglio 1992. E proprio sull’omicidio Milazzo si sono concentrate le domande del pm Gabriele Paci, alle quali, in sostanza, Ferro ha risposto che è stato assassinato in quanto era considerato “una carogna” e una mina vagante fuori dal controllo di Cosa Nostra, Totò Riina in primis. Circostanza in parte smentita da un altro collaboratore di giustizia, Armando Palmeri che, ascoltato nei giorni scorsi, ha ricondotto l’omicidio di Vincenzo Milazzo alla sua non volontà di “sposare la strategia stragista”.ANTIMAFIA DUEMILA 07 Aprile 2019  di Aaron Pettinari, Davide de Bari e Karim El Sadi

Caso Scopelliti, chi è Maurizio Avola, il pentito che ha fatto riaprire l’indagine  – Un killer seriale con decine di assassini in curriculum ha portato i magistrati sulle tracce dell’arma che, secondo lui, ha ucciso il giudice calabrese  Un sicario spietato. Un viveur. Un pentito importante, ma capace di far saltare il programma di protezione per tornare alle rapine. Nel corso della sua vita, Maurizio Avola, il collaboratore che ha dato nuove gambe alle indagini sull’omicidio Scopelliti, è stato molte cose. Tante sono state ricostruite, altrettante le ha raccontate lui stesso, dentro e fuori dalle aule di giustizia. Autore reoconfesso di più di 80 omicidi, in grado di freddare senza esitazione, né rimpianti, giornalisti, boss, e persino il suo migliore amico, negli anni di piombo catanesi, a lui il boss Nitto Santapaola affidava le più delicate missioni di morte con la certezza che non avrebbe né sbagliato, né parlato. Perché uccidere gli piaceva. «Le persone che mi passavano di fianco per strada mi sembravano così piccole. Non lo sapevano, mentre io ero il padrone delle loro vite» ha detto più volte in udienza.

È irrisolto l’omicidio che nel 1991 in Calabria diede inizio alla stagione delle stragi. Ora un’inchiesta indaga sui lati oscuri del magistrato. E dello Stato Collaboratore dal ‘94, non ha mai esitato a toccare argomenti sensibili. Ha fatto il nome di Cesare Previti e Marcello Dell’Utri come uomini al servizio delle mafie ed è stato il primo a mettere in relazione la stagione degli attentati continentali con Silvio Berlusconi e Forza Italia. Si è autoaccusato di omicidi eccellenti, ha indicato mandanti ed esecutori di attentati che hanno fatto rumore e di altri solo progettati, ha rivelato la riunione di Enna servita per progettare quelle leghe regionali che avrebbero dovuto regalare ai clan una nazione.  Per gli altri pentiti è uno che sa, perché aveva il ruolo e il rango per essere informato. Ne parlano in tanti e ne ricordano la ferocia. Nessuno si è mai azzardato a definirlo un uomo dominato dalla paura. Eppure, per l’ex sicario dagli occhi di ghiaccio diventato collaboratore di giustizia, la vita numero tre, è iniziata con un’implicita richiesta di aiuto. 
«Temevo e temo molto i circuiti massonici a cui Matteo Messina Denaro e la sua famiglia sono legati. Sono molto potenti e hanno al servizio numerosi esponenti delle istituzioni» dice ai magistrati per spiegare come mai sulla primula nera di Castelvetrano non abbia mai proferito verbo. «Sono queste le persone che mi fanno paura, non il mafioso o il delinquente. Persone che portano le notizie, che hanno rapporti con i servizi centrali, che possono individuare un soggetto anche sotto protezione perché ci sono uomini dello Stato che fanno il doppio gioco». Per questo, ammette, lui ha scelto il silenzio su Messina Denaro e la sua rete come assicurazione sulla vita. Poi, dice, «ho deciso di non nascondere più nulla perché lo dovevo ai miei figli».
In realtà, ragiona chi sta vagliando le sue dichiarazioni, probabilmente ha capito che gli investigatori si stavano avvicinando e le indagini avrebbero finito per coinvolgerlo, perchè la confidenza affidata ad un compagno di cella era arrivata all’orecchio dei magistrati. Lo ha realizzato quando il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, gli si è seduto davanti e gli ha rivolto una sola domanda: «cosa mi sa dire dell’omicidio del giudice Scopelliti?». Avola ha capito che sulla primula rossa di Cosa Nostra non avrebbe potuto più tacere. E ha iniziato a parlare.  
In oltre un quarto di secolo, dal 1992 fino alle udienze dei processi in corso, i collaboratori di giustizia hanno dato varie versioni sulla morte del pm della Cassazione. Brani scelti da un labirinto dove la giustizia si è smarrita 
Ha raccontato di quell’estate catanese del ’91, iniziata fra spiagge, locali e discoteche e interrotta da una richiesta arrivata direttamente da Aldo Ercolano, nipote del boss Nitto e numero 2 della famiglia Santapaola. «Mi dice che bisognava fare un omicidio d’urgenza e che dovevo esserci io». La vittima designata era il giudice Scopelliti. Un bersaglio eccellente per il quale è stato messo insieme un commando eccellente. «Io dovevo portare la motocicletta a Vincenzo Salvatore Santapaola» rivela Avola, che poi aggiunge che in Calabria «c’era anche Messina Denaro, che ha commesso con me materialmente l’omicidio».  Dalla Sicilia, partono il killer più affidabile dei catanesi, il figlio del boss che nell’89 aveva detto no ai corleonesi che progettavano di uccidere Falcone a Catania e il capo di uno dei due gruppi di riservati alle dirette dipendenze di Totò Riina. Il tempo era poco, toccava organizzarsi in fretta. La morte del giudice era stata decisa da tempo, «ad aprile, maggio» durante una riunione a Castelvetrano «a cui avevano partecipato – racconta Avola -Aldo Ercolano, Matteo Messina Denaro, suo padre e altre persone di cui non mi hanno fatto il nome». Ma condizioni e occasione per l’omicidio sono maturate solo ad agosto «perché Scopelliti se ne stava andando da Reggio per tornare a Roma e era necessario ucciderlo nella località in cui si trovava in Calabria». Perché? «Nella capitale non si poteva fare perché non volevano un omicidio eccellente là, anche quello di Falcone – racconta il collaboratore –  è saltato per lo stesso motivo».  Indicazioni di Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia, intimo del “Divo” Giulio e referente di Cosa Nostra. «Lui era un uomo nostro. D’Agata mi ha detto che è stato lui a dare notizie sulle mosse di Scopelliti. Al giudice, lo ha rovinato Falcone. Ercolano mi disse che Falcone aveva continuato a interessarsi al maxi, per i mafiosi faceva di più di quello che avrebbe dovuto fare. Si era incontrato con il dottore Scopelliti, gli aveva parlato, lo aveva indicato per la Cassazione».  La successione degli eventi nazionali e internazionali che portano dal bipolarismo Usa-Urss a Tangentopoli e alla Seconda Repubblica Altro ad Avola non hanno detto. Ma a lui forse è bastato per capire che quello non era un omicidio come gli altri, che il fucile utilizzato non andava distrutto, ma conservato in un luogo sicuro. Per sicurezza. Lo ha fatto ritrovare agli investigatori della Mobile di Reggio Calabria nell’agosto scorso, sepolto in un fondo agricolo del catanese, accuratamente avvolto in una felpa e conservato in una borsa insieme ai proiettili.  Dopo anni sotto terra, il calcio era in pezzi e la stoffa quasi fusa alla canna, ma i periti sono fiduciosi. Qualcosa si può recuperare. Gli accertamenti sono in corso e pesano come una spada di Damocle sui 18 indagati del terzo fascicolo sull’omicidio Scopelliti. Quello che potrebbe finalmente restituire verità ad un omicidio che da 30 anni non ha colpevoli, né spiegazione. 06 maggio 2019 L’ESPRESSO

4.1.2015 – LE PAROLE DI MAURIZIO AVOLA: LA MORTE DI PIPPO FAVA? “VOLUTA DA IMPRENDITORI AMICI DEI BOSS”“ Con la stampa si andava d’amore e d’accordo e qualche ‘incomprensione’ giornalistica da allora si risolse senza bisogno di minacce. Fava invece non era più controllabile. Uccidendolo, Cosa nostra ha tutelato anche i propri interessi economici”. Lo dice – in un’intervista a Repubblica attraverso il suo avvocato – Maurizio Avola, collaboratore di giustizia, che il 5 gennaio dell’84 uccise il giornalista Pippo Fava. Avola, dopo 31 anni, spiega che “l’omicidio Fava è servito allo scopo della mafia e dei Cavalieri” di cui “Fava ne aveva scritto molto, parlando, in particolare, della mafia dai colletti bianchi”. “Il giornalista – prosegue – aveva messo in crisi un equilibrio che si è subito ristabilito. Andava bene così a tutti, anche ai giornalisti. Poi nel 1992, quando i corleonesi hanno imboccato la linea stragista anche la stella di Santapaola è tramontata. Lui diceva che con lo Stato non ci si doveva scontrare, ma camminare insieme. Così a maggio del 1993 i suoi uomini più fidati lo hanno di fatto consegnato alle forze dell’ordine, forse per salvargli la vita”. (ANSA)

 

VIA D’AMELIO, IL PENTITO AVOLA SI AUTOACCUSA DELLA STRAGE IL GIORNALISTA GUGLIOTTA, CHE HA SCRITTO UN LIBRO SU DI LUI, “HA DECISO DI LIBERARSI LA COSCIENZA, MA DELLA ‘PISTA AMERICANA’ AVEVA GIÀ PARLATO IL BOSS COSTA NEL 1994”. PROBABILI NUOVE RIVELAZIONI   Roberto Gugliotta, il giornalista che con il collega Gianfranco Pensavalli scrisse nel 2008 il libro “Mi chiamo Maurizio sono un bravo ragazzo ho ucciso ottanta persone” dedicato al pentito catanese Avola, commenta così le ultime dichiarazioni di colui il quale si è autoaccusato, tra gli altri, dell’omicidio, nel 1984, di Giuseppe Fava.

Avola, che in luglio compirà sessant’anni, ha dichiarato: “Sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino, prima di dare il segnale per fare quella maledetta esplosione. Mi accendo la sigaretta, lo guardo, mi soffermo, mi rigiro e faccio il segnale”.

Le sue dichiarazioni, rese alla Procura di Caltanissetta, fanno parte del libro del giornalista Michele Santoro, “Nient’altro che la verità” che sta per uscire e del quale sono state fornite delle anticipazioni.

La presenza di Avola a Palermo per l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non era ancora emersa in sede di processi per la strage di Via D’Amelio e le sue dichiarazioni sono al vaglio della Dda Nissen

I mandanti, aveva raccontato Avola, appartenevano alla famiglia Gambino della Cosa nostra americana. Che mandò a Palermo un suo uomo d’onore esperto in esplosivi e telecomandi, per insegnare a lui (e a Giovanni Brusca) come maneggiare i congegni nuovi, l’esplosivo e i telecomandi che dovevano coprire una distanza di sei, settecento metri dal detonatore.

La finalità dei Gambino era quello di mandare un messaggio preciso ai giudici “amici” di Falcone e Borsellino che stavano processando la famiglia a New York.

Il pentito Gaspare Spatuzza, teste chiave del nuovo processo dopo la revisione di quello nato dalle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, non ha mai parlato della presenza di Avola sul luogo dell’attentato.

“Con me invece – racconta Gugliotta -, si scusò, dopo aver parlato della ‘pista americana’ davanti ai giudici nisseni, spiegando che non mi aveva riferito questi fatti quando lo avevo intervistato per il libro per evitare che potessi venire ucciso”.

“In realtà – spiega Gugliotta – io ero a conoscenza della ‘pista americana’ da tempo, visto che avevo intervistato il pentito messinese Gaetano Costa, ex capo della mafia peloritana noto per aver ucciso il suo rivale in carcere a coltellate, già nel 1994. Costa mi aveva detto che ‘il rumore delle bombe di Palermo doveva arrivare fino in America’”.

“E’ verosimile dunque – ha aggiunto Gugliotta – che, come dicevo, Maurizio Avola abbia deciso di liberarsi la coscienza. E questo potrebbe far luce anche su altri episodi ancora oscuri, come gli incontri a Catania tra Avola e Graviano. E poi il ruolo dell’uomo dei Gambino arrivato dall’America, un esperto di esplosivi che addestra Avola, al quale sarebbe stato affidato il compito di portare l’ordigno esplosivo”.

“Credo – conclude Gugliotta – che siano probabili nuove rivelazioni”. QDS 27.4.2021 – Giuseppe Lazzaro Danzuso

 

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco