Giovanni Paparcuri lascia il “Bunkerino”

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Bunkerino – Il Museo FALCONE-BORSELLINO


ME NE VADO… 

RASSEGNA STAMPA  Le accuse di Paparcuri e la replica di ANM e Progetto Legalità 

 
 
 
 

di GIOVANNI PAPARCURI
Come iniziava la giornata al bunkerino.
Arrivavo verso le 7:30 e aperta la porta blindata la seconda cosa che facevo premevo quel pulsante per accendere le telecamere e i faretti, poi accendevo le luci del corridoio e cosa più importante accendevo la macchinetta del caffè che tenevamo dietro quella porta chiara, a seguire aprivo la mia stanza e mettevo in funzione le apparecchiature elettroniche. Subito dopo arrivava la signora Barbara Sanzo e apriva la stanza del dottor Falcone dove preparava i documenti che il giudice doveva lavorare, poi si apriva l’ufficio del giudice Borsellino e la sua segretaria faceva lo stesso. A seguire intervenivano gli addetti alle pulizie e velocemente facevano il loro servizio, velocemente perché il giudice Falcone non voleva trovare estranei all’interno del bunkerino. Finite le pulizie le stanze dei due giudici si richiudevano.
Il primo dei giudici che arrivava era il dott. Borsellino al quale, mentre riapriva la sua stanza, gli preparavo il caffè che prendevamo insieme. Poco dopo arrivava il giudice Falcone, suonava e io gli aprivo la porta blindata che spingeva con i piedi perché aveva le mani impegnate con i suoi due borsoni (uno acquistato in Canada) pieni di atti processuali. Dopo avergli dato il tempo di riaprire e sistemarsi nel suo ufficio, gli portavo il caffè, e anche se già l’avevo preso con il suo fraterno collega, ben volentieri lo riprendevo anche con lui. Poi ognuno, con il proprio ruolo, iniziava a lavorare all’interno del bunkerino dove un filo di luce naturale non filtrava, ma non aveva nessuna importanza, era un prezzo da pagare per una giusta causa e non pesava assolutamente. Erano belli quei giorni e prenderei mille caffè al giorno se solo servisse a farli ritornare in vita.
Così iniziava la giornata al Bunkerino. da pagina FB 2.11.2022
 
 
 


“Il sogno si è realizzato, adesso posso morire soddisfatto.  
L’altro giorno avevo espresso il desiderio di incontrare il Presidente Mattarellae oggi 21 settembre 2020 il sogno si è avverato, oggi, nel trentennale dell’uccisione del giudice Rosario LivatinoComunque il presidente non è venuto per me, ma approfittando del convegno che si è tenuto al Palazzo di Giustizia per ricordare, appunto, il giudice Livatino, è venuto a rendere omaggio ad altri due grandi giudici, il dott. Falcone e il dott. Borsellino, visitando il bunkerino. Devo dire che nei giorni precedenti pur sapendo che sarebbe venuto il capo dello Stato, non ero per nulla emozionato, ma confesso che quando l’ho visto arrivare e dopo che mi hanno presentato, quel suo sguardo, fiero, da palermitano vero, ho tremato un po’, ma non per paura, ma per l’emozione. Purtroppo non riesco a descrivere quei circa venti minuti, ma cercherò di fare del mio meglio, anche se certe emozioni non si possono descrivere. La cosa che mi ha colpito in primis è che da buon palermitano stava dandomi la mano e io prontamente gli ho detto presidente battiamoci la mano sul petto. Subito dopo gli onori di casa li ha fatti il presidente della Corte di Appello, dott. Matteo Frasca. Io sono intervenuto due, tre volte, forse più: una delle cose che ho fatto notare ai pochi presenti, tra cui al vice presidente del Csm, David Ermini, è una lettera datata 21 settembre 1988 (e oggi è anche 21), a firma del giudice Falcone, con la quale sperava che finissero le polemiche e/o le liti con il consigliere Meli: “Tale alto richiamo mi induce ad anteporre le riconosciute preminenti esigenze di servizio a qualsiasi altra considerazione, e, pertanto Le comunico di revocare la mia domanda di assegnazione ad altro incarico.” Dopo di ciò ho consegnato al presidente, a nome dell’ANM distrettuale, una targa ricordo del bunkerino, e visto che stamani si ricordava il “giudice ragazzino” ho fatto incidere una sua famosa frase: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.” Cosa ho detto al presidente rimane tra noi, comunque lo ringrazio per essere venuto, lo ringrazio perché ha seguito veramente con attenzione tutte le fasi della visita, lo ringrazio per essersi soffermato sulla figura del consigliere Rocco Chinnici, lo ringrazio per avere accettato di farsi una foto assieme, lo ringrazio se mi sono preso la licenza di avere fatto durare la visita qualche minuto in più e mi scuso per la mia esuberanza. Infine ringrazio i ragazzi (non faccio nomi per paura di dimenticarne qualcuno) addetti alla sua sicurezza, i quali la maggior parte di loro, due anni fa, liberi dal servizio, anziché andare a riposare hanno sentito il dovere di venire in questi luoghi, li ringrazio anche per avermi promosso sul campo donandomi una spilla con su scritto Presidenza della Repubblica. Li ringrazio per le parole dettemi e per i sacrifici che fanno, perché proteggere il capo dello Stato non è semplice. Ringrazio la dottoressa Giovanna Nozzetti, presidente della giunta distrettuale dell’Anm, per questa opportunità. Ringrazio per ultimo, ma non perché meno importante, Ilaria, per avere scelto la mia stanza per la foto ricordo Se dimentico qualcuno me ne scuso, e adesso voglio godermi questa giornata”. Dalla pagina FB di Giovanni Paparcuri

 

 


 

SICILIA SERA – FILIPPO CUCINA PARLA CON GIOVANNI PAPARCURI DELLA VISITA DI MATTARELLA Al BUNKERINO

Mattarella nel “bunkerino” di Falcone e Borsellino e ricorda Rosario Livatino  Il presidente della Repubblica si è recato a Palermo, dove ha votato e poi presenziato a un seminario dell’Anm.  Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha visitato il “bunkerino” che all’interno del palazzo di Giustizia di Palermo ospita, negli uffici che furono di Falcone e Borsellino, l’omonimo museo intestato ai due magistrati e allestito e curato anche grazie ad uno dei collaboratori piu’ preziosi dei due magistrati, Giovanni Paparcuri. Accolto al palazzo di giustizia di Palermo dal presidente della Corte d’appello, Matteo Frasca, dal procuratore generale, Roberto Scarpinato e dal prefetto di Palermo, Giuseppe Forlani, Mattarella ha presenziato al seminario dal titolo “Deontologia e professionalita’ del Magistrato: un binomio indissolubile”, organizzato nel trentesimo anniversario dell’omicidio di Rosario Livatino, dall’Anm.

“Ricordare la vile uccisione di Rosario Livatino – ha detto – richiama la necessita’ di resistere alle intimidazioni della mafia opponendosi a logiche compromissorie e all’indifferenza, che minano le fondamenta dello Stato di diritto”. Livatino, Sostituto Procuratore della Repubblica e poi Giudice della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Agrigento, “ha condotto importanti indagini contabili e bancarie sulle organizzazioni criminali operanti sul territorio e sui loro interessi economici. Egli ha, tra i primi, individuato lo stretto legame tra mafia e affari, concentrando l’attenzione sui collegamenti della malavita organizzata con gruppi imprenditoriali”. “Consapevole del delicato ruolo del giudice in una societa’ in evoluzione e della necessita’ che la magistratura sia e si mostri indipendente – ha aggiunto Mattarella – egli ha svolto la sua attivita’ con sobrieta’, rigore morale, fermezza e instancabile impegno, convinto di rappresentare lo Stato nella speciale funzione di applicazione della legge”. agi

 

Tre anni, già sono trascorsi tre anni.  Il 24 maggio del 2016 ho consegnato il Bunkerino, ossia gli uffici dove hanno lavorato i giudici Falcone e Borsellino, oggi museo, l’ho consegnato alle persone oneste, ai cittadini, ai bambini, agli studenti, a chi gli fu veramente amico, a chi li ha rispettati e a chi li ha sostenuti sul serio.  L’ho consegnato anche a chi tanti anni fa erano loro nemici, infatti spero che questo luogo serva specialmente a loro. 
La realizzazione non è stata facile, ma come ho sempre sostenuto le cose più belle sono proprio quelle dove si incontrano delle difficoltà.
In tre anni sono venuti circa 25.000 visitatori, non ha importanza quanti, ma sono tantissimi e li ringrazio tutti uno per uno.
Ho fatto qualche errore, ho litigato con qualcuno, ho rimproverato qualche studente, ma l’ho fatto non per farmi dei nemici, ma per fare capire che la funzione del museo, di questo museo, non è quella di mostrare degli oggetti, fotografarli ed è finita lì, o magari per potere dire semplicemente sono stato al bunkerino, o per approfittare della giornata di vacanza, ma attraverso le cose e i racconti di ciò che è stato fatto in questi luoghi, in primis il senso dello Stato, deve servire a tenere viva la memoria e farne tesoro per non commettere gli errori del passato.
Ci sono stati anche momenti di sconforto, probabilmente troppi, e voglia di mollare ma non come resa, infatti ho proseguito, né mi sono risparmiato, ma forse è arrivato il momento di scrivere la parola fine. 
Comunque ringrazio l’Associazione Nazionale Magistrati, il dr. Matteo Frasca e il dr. Gioacchino Natoli per avermi dato questo onere e onore. Giovanni Paparcuri  – 24 Maggio 2019

 


Matteo Frasca, Presidente Corte d’Appello di Palermo, già Presidente dell’ANM Palermo

Determinante per la sua realizzazione è stato il contributo di Giovanni Paparcuri, straordinario collaboratore dei due Magistrati ed “inventore” della informatizzazione, all’epoca rivoluzionaria del maxiprocesso, scampato miracolosamente all’attentato del 29 luglio 1983 in Via Pipitone Federico a Palermo, nel quale persero la vita il Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, il Maresciallo Trapassi e l’appuntato Bartolotta dei Carabinieri, nonché il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi.
Proprio dopo la “strage Chinnici” maturò la consapevolezza dell’estrema esposizione a pericolo di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino i quali già da alcuni anni si occupavano di delicatissimi processi a carico di appartenenti a Cosa Nostra, espletando le loro funzioni in uffici ubicati al piano terra del Palazzo di Giustizia facilmente accessibili a chiunque.
Per tale ragione venne deciso il loro trasferimento in un’area più riservata del Palazzo e vennero individuati, a tal fine, i locali del c.d. Bunkerino (in cui oggi si trova il Museo), ove continuarono per alcuni anni il loro lavoro, potendo fruire di una maggiore riservatezza e di qualche misura di protezione, come la porta blindata e le telecamere che consentivano di vedere dalla stanza di Giovanni chi intendeva accedere ai locali.

 


SOPRAVVIVERE AD UNA STRAGE –  Di Giovanni Paparcuri –Scrivo perché voglio fare conoscere alla gente come lo Stato tiene in considerazione un sopravvissuto ad una strage mafiosa (almeno nel mio caso). Mi trovo a sfogarmi in rete, perché non ho avuto, non ho e non avrò – purtroppo – mai delle risposte che soddisfino i miei tanti interrogativi un sopravvissuto ad una strage mafiosa (almeno nel mio caso). Mi trovo a sfogarmi in rete, perché non ho avuto, non ho e non avrò – purtroppo – mai delle risposte che soddisfino i miei tanti interrogativi. Mi sfogo in questo libro-racconto, perché in un certo qual modo mi aiuta a contrastare i tristi ricordi che mi accompagnano da 24 anni, e magari mi illudo che “finendo” il racconto, in un colpo, possano, questi ricordi, anch’essi sparire. A scanso di equivoci voglio sottolineare che la mia non è una rivendicazione economica, sindacale o qualcosa del genere, né è indirizzato contro qualcuno in particolare. Ripeto, è solo uno sfogo ai tanti bocconi amari che ho dovuto ingoiare dopo quel tragico giorno. Perché dopo 24 anni? Perché francamente mi sono stancato! Mi viene difficile continuare a sopportare e fare finta che tutto vada per il verso giusto. Così come mi riesce difficile dare una risposta razionale al comportamento, offensivo per la mia dignità , per la mia morale e per la mia intelligenza di uomo onesto, tenuto da tante persone, troppe persone istituzionalmente preposte, le quali hanno sempre finto solo meraviglia per la situazione, ma soprattutto l’interesse di risolverla non è stato mai posto in essere, escogitando di anno in anno nuovi escamotage tanto inutili quanto dannosi, lasciando le cose così come sono. Premetto anche che scriverò di getto e senza ordine cronologico, cercando di fare meno errori possibili, comunque non sono uno scrittore, né un giornalista. Sono consapevole che è effimero, ma l’idea di scrivere per ordinare e condividere con qualcuno i miei ricordi, le mie delusioni e le mie emozioni mi dà sollievo. Scrivo per riuscire a capire il perché di assurdi comportamenti da parte delle Istituzioni, comportamenti che hanno del paradossale e dell’incredibile. Scrivo perché mi aspettavo una risposta da alcuni politici ai quali ho chiesto di darmi delle plausibili spiegazioni (sic!) Scrivo perché spero che affidando il mio racconto alla rete qualcuno possa soddisfare le mie richieste. Scrivo per me stesso. Sono trascorsi 24 anni, circa un quarto di secolo, e a distanza di tutti questi anni, di recente, lo Stato, quello stesso Stato per cui ho rischiato la vita, mi tratta ancora una volta malamente. Credetemi non è facile affermare ciò, ma continuando a leggermi spero che mi darete ragione e spero anche che qualcuno mi dia una spiegazione e/o mi La chiazza di sangue che si nota in basso a sinistra della foto, mi appartiene, è il sangue che mi zampillava dalla testa, dalla mano destra e da altre parti del corpo. Per scrivere queste righe ho scelto questo giorno volutamente, oggi è il 23/05/2007, il 15° anniversario della strage Falcone. Il Giudice Falcone ho avuto modo e l’onore di conoscerlo abbastanza bene, frequentandolo per circa 10 anni, così come Borsellino, Caponnetto e tutti gli altri Giudici che hanno composto il mitico pool antimafia. Con loro ho trascorso, forse, i giorni più belli della mia vita, sono stati momenti molto faticosi, ma belli, sia dal punto di vista umano che professionale, soltanto loro sono riusciti a farmi superare i momenti di sconforto, specialmente Falcone, che usava dirmi: “‘u Signuri ciù paga” (il Signore glielo paga) Già ! Purtroppo sia Falcone che Borsellino sono stati anch’essi uccisi con la stessa metodologia terroristica. Per fortuna il Consigliere Caponnetto è venuto a mancare per cause naturali. Da loro ho ricevuto un preziosissimo regalo: hanno partecipato al mio matrimonio.


GIOVANNI PAPARCURI, TRE VITE UNA SOLA MEMORIA  26/10/2018  Era l’autista di Giovanni Falcone, il 29 luglio del 1983 andò a prendere sotto casa Rocco Chinnici. Volevano riformarlo a 27 anni, ma non si è arreso. Ecco perché.  Di Elisa Chiari  Un uomo diritto nell’anima e nel corpo, ferito ma non piegato. Lo senti parlare, lo guardi puntare quello sguardo intelligente e franco che non scappa mai e capisci che è stata la dirittura dell’anima di Giovanni Paparcuri a tenere diritto il resto. Il misto di sana rabbia (ma lui direbbe un’altra parola più colorita, più siciliana) e di ironia che sdrammatizza hanno tenuto e tengono a bada un dolore che non se ne va mai del tutto: perché sopravvivere è un po’ morire e non ci si fa mai pace. La prima vita di Giovanni Paparcuri è finita il 29 luglio del 1983. Anni prima aveva lasciato il lavoro in ferrovia, rimettendoci qualche soldo (non pochi) per seguire un desiderio: «Mi piaceva guidare veloce, in situazioni difficili». Vinse il concorso per autista giudiziario, il suo compito era guidare le blindate con i vetri da 4 centimetri su cui viaggiavano i magistrati a rischio di Palermo. Era stato a lungo autista di Giovanni Falcone, nell’estate del 1983 accompagnava Rocco Chinnici Consigliere istruttore di Palermo.

29 LUGLIO 1983  Alle 8 di mattina del 29 luglio Paparcuri arrivò in via Pipitone Federico per prelevare il giudice sotto casa, sistemò l’auto accanto a una 126. Con lui c’erano il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta. «Bartolotta quel giorno era contrariato perché doveva essere altrove, aveva coperto il turno di un collega, a un certo punto mi chiese di andare io a sistemare la ricetrasmittente nella blindata. Stavo fissandola quando vidi che mi faceva il segnale consueto che indicava che il Consigliere era per le scale. Mi fermai nell’auto ad aspettare». Quel gesto gli salvò la vita, se fosse sceso dall’auto sarebbe morto come gli altri quattro: i carabinieri, il consigliere e il portiere del palazzo Stefano Li Sacchi: «È morto per un atto di stima: attendeva il consigliere ogni mattina, la stretta di mano era il suo gesto di riconoscenza non al magistrato – niente a che vedere con il servilismo di certi docili al potere – ma all’uomo, all’immenso cuore di Rocco Chinnici che non si tirava mai indietro davanti alle persone». Giovanni Paparcuri accenna a una foto appesa nella prima stanza delle tre del bunkerino dentro il palazzo di Giustizia di Palermo, che “Papa” – come lo chiamava Giovanni Falcone – oggi custodisce come un luogo dell’anima, non come un museo, anche se il suo nome ufficiale ora è: Museo Falcone-Borsellino: «È una parola che non mi piace proprio: mi evoca oggetti inanimati e polvere. Per me questo luogo è vivo: c’è dentro la vita che ho condiviso con le persone che non ci sono più». La foto ritrae via Pipitone dopo la devastazione del primo attentato commesso con autobomba, la 126, azionata con un telecomando. Per le modalità la strage è gemella di via d’Amelio.

Paparcuri indica le chiazze sull’asfalto. È sangue: il suo. La deflagrazione gli ha danneggiato i timpani e il cristallino di un occhio; gli ha quasi staccato due dita della mano destra e gli ha lasciato in testa, in un gomito e in un ginocchio una collezione di schegge che ci sono ancora e nell’anima macerie difficili da quantificare. Per anni è andato in via Pipitone a rendere omaggio di nascosto: «C’è una domanda che mi porto dentro: Bartolotta e Tirabassi avevano nove figli in due, io ancora nessuno, perché mi sono salvato io?». Quando dopo un anno di convalescenza Paparcuri provò a tornare a lavorare, ben sapendo che l’idoneità per guidare una blindata sarebbe venuta meno, l’ospedale militare gli propose un congedo, volevano riformarlo: in pensione a 27 anni. Rifiutò: «Firmare mi sarebbe sembrata una resa, un tradimento verso me stesso, lo Stato e soprattutto le persone che erano morte nella strage che aveva ucciso anche qualcosa di me». Oggi Paparcuri chiama quella voglia di resistere con una metafora siciliana: «corna dure», che non gli hanno impedito di sentirsi un tantinello “cornuto e mazziato” quando lo Stato, prendendo atto che non voleva arrendersi al corpo segnato, – per ringraziarlo di non aver disertato né prima né dopo la strage, benché Chinnici li avesse avvisati dei rischi aggiungendo: «Se chiedete il trasferimento io non vi giudico» – non trovò di meglio che declassarlo di due livelli: dal quarto dell’autista giudiziario, al secondo del commesso. Anche se nel frattempo la sua seconda vita era cominciata, in un altro posto dove si rischiavano le corna: negli uffici in cui si istruiva quella che sarebbe diventata la prima indagine informatizzata della storia italiana, sfociata nel Maxiprocesso di Palermo. L’aveva voluto lì Paolo Borsellino perché sapeva che Paparcuri, appassionato di diavolerie elettroniche, avrebbe tenuto testa al “casciabanco” che ancora oggi abita a beneficio dei visitatori la prima stanza del bunkerino: un computer formato comò. Il gergo del Palazzo di Giustizia chiamava bunkerino le stanze, con citofono e porta blindata, in cui lavoravano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, confinati lì per prudenza dentro i meandri della Corte d’appello, dopo che un attentato all’ufficio postale adiacente aveva mostrato la potenziale penetrabilità dell’ufficio istruzione. Si fidavano di “Papa” come di uno dei loro e, alla fine dell’immane lavoro che produsse una stanza di carte processuali e centinaia di mafiosi imputati poi condannati, Giovanni Falcone volle rendergli merito del suo lavoro, ringraziandolo accanto al capo dell’ufficio istruzione Antonino Caponnetto nell’introduzione all’ordinanza sentenza del Maxiprocesso: in quel documento la qualifica “commesso giudiziario” è compresa tra le virgolette, sono il segno di protesta di Falcone nei confronti di quel declassamento. Giovanni Paparcuri è andato in pensione nel 2009 dopo 29 anni di servizio. Ma i ricordi non riposano, non se ne vanno come non se ne vanno le persone uccise che hanno segnato per prossimità la sua vicenda umana.

 


InchiostrOnline

Questo è l’articolo con cui Antonio Lamorte ha vinto la Borsa di studio Siani 2017.

Un fischio riecheggia nella testa di Giovanni Paparcuri da 34 anni. Precisamente dal 29 luglio 1983, quando nelle vesti di autista ha il compito di prelevare il giudice Rocco Chinnici dal suo stabile in via Pipitone, a Palermo. Quella mattina l’esplosione di un’autobomba uccide l’ideatore del pool antimafia, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere del palazzo Federico Stefano Li Sacchi. Paparcuri è l’unico superstite dell’attentato; si sveglia in ospedale con il gomito distrutto, schegge conficcate nel cranio e i timpani sfondati. Con quel fischio che non lo abbandonerà più.
Appena due anni dopo gli viene affidato il compito di informatizzare gli atti stesi tra le tre stanze del bunkerino del Palazzo di Giustizia di Palermo. Quei documenti li scrivono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Il dottor Falcone – ricorda Paparcuri – mi affidò la password del suo computer: Avanti». Più un manifesto programmatico che una chiave di sicurezza. Anche perché, a 25 anni di distanza delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, l’ex autista di Chinnici non traccia un bilancio positivo della lotta alla criminalità organizzata. «Purtroppo – spiega come aveva fatto già a Repubblica – è cambiato poco e niente. Basti pensare ai casi di corruzione che continuano a verificarsi in Sicilia come nel resto d’Italia, a Mafia Capitale, o ai tanti baciamano che si ripetono tutti i giorni». Potrebbe suonare cinico, ma per Paparcuri sarebbe offensivo anche nei confronti di chi ha dato la vita dire il contrario, affermare che tutto è cambiato, che tutto va bene.
Lui stesso continua comunque a impegnarsi in prima persona offrendo la sua testimonianza e il racconto di quegli anni. Ogni mattina, infatti, il fidato informatico dei giudici del pool apre le porte blindate del bunkerino per accompagnare i visitatori che arrivano dalla Sicilia e dal resto d’Italia in quello che è diventato il “Museo Falcone-Borsellino”. All’interno si trovano computer e macchine da scrivere dell’epoca a fianco alle papere che collezionava il giudice Falcone, ai suoi appunti, al giubbotto antiproiettile del giudice Borsellino. Oggetti custoditi per averne memoria, ambienti conservati per essere tramandati alle nuove generazioni. Perché è culturale, secondo Paparcuri, la lotta che si deve muovere alla criminalità organizzata. «Il problema – riflette – è la voglia di mafia. Per esempio, due settimane fa a Palermo c’è stato un omicidio al mercato del Capo. Tutti a gridare: “La mafia, la mafia, è stata la mafia”. E invece mafia non era, ma una questione privata risolta con metodo tipicamente criminale. Certo, si trattava di persone legate a famiglie mafiose, ma comunque l’episodio fa capire quanto il problema sia culturale». Un problema che si può affrontare soltanto guardando, appunto, avanti. Forse l’unica maniera per attenuare quel fischio che risuona da 34 anni.Antonio Lamorte 26.9.2017 


 


La vera storia della scatola dei sigari al bunkerino.

Si fumava in quegli uffici, eccome se si fumava, i giudici le sigarette, io il sigaro, il giudice Falcone ogni tanto anche il sigaro.
Una sera, mentre ero intento a lavorare davanti al pc, fumando il mio buon sigaro toscano che diffondeva l’aroma del tabacco Kentucky, venne il giudice Falcone e gentilmente mi disse: “me lo presta mezzo sigaro, che ho finito le sigarette?”. Al dr. Falcone gli dai mezzo sigaro? Presi lo scatolo con gli ultimi due sigari e glielo passai, pensando che ne avrebbe preso uno e mi avrebbe restituito l’altro, invece si portò tutto lo scatolo e mi lasciò solo quel mezzo sigaro che stavo fumando e che stava per finire, io non osai dirgli niente, anche perché pensavo che da lì a poco si sarebbe reso conto che mi lasciò senza e me ne avrebbe riportato almeno mezzo, invece niente, forse era talmente immerso nel suo lavoro che gli sarà sfuggito.
Le porte dei nostri uffici erano aperte, per cui quell’aroma di Kentucky che passava dalla sua stanza alla mia, mi procurò una sorta di crisi di astinenza, ma resistetti. Dopo due ore circa si fece l’ora per andare via, il giudice quando mi salutò, guardai le sue mani speranzoso di riavere almeno un mezzo sigaro, invece erano vuote. Appena andò via, di corsa andai nel suo ufficio a cercare sti benedetti sigari, perché dovevo necessariamente fumare, ma sulla scrivania non c’era nulla, nel posacenere quattro mozziconi di sigaro, ma dov’è lo scatolo? Lo trovai nel cestino, lo presi e sorridendo pensai che all’indomani l’avrei fatto sentire in colpa, ma rimase solo un pensiero, perché, il giorno dopo quando gli mostrai lo scatolo dicendogli: “ma le è sembrato giusto che si è fumato tutti i sigari?” Lui, candidamente mi rispose: “Eh, anzi mi deve ringraziare che le ho fatto risparmiare salute”.
Che potevo dirgli, se non grazie?
Quello scatolo, che per me ha una bella storia, l’ho conservato per tantissimi anni assieme ad altri oggetti e documenti che mi lasciò personalmente il giudice, poi l’ho riportato al bunkerino.
Ecco perché da sentimentale lascio mezzo sigaro nella statua che raffigura il giudice.
C’è da dire anche, che qualcuno, come al solito, ha messo in dubbio che lo scatolo non è originale dell’epoca, ma se vedete bene nella foto n. 4, la differenza tra quello di allora (dx) e quello di oggi (sx).
Comunque, questa è la vera storia.  da pagina FB di Giovanni Paparcuri

 


Palermo, 34 anni fa l’attentato a Chinnici. Ritrovata la bobina con le minacce della mafia

 


DI NUOVO NEL “BUNKERINO”  Quando nel 2016, pochi mesi prima che scattasse il 25° anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, ha preso forma l’idea di un museo nel bunkerino – aperto nel 2016 per volere della giunta distrettuale di Palermo dell’Associazione nazionale magistrati -, è diventato chiaro che quelle tre stanze vuote avrebbero potuto tornare a riempirsi in un solo modo: affidandole alle cure e alle parole di Giovanni Paparcuri che in dieci anni lì dentro ha visto vivere ogni oggetto, ogni muro, ogni riga d’inchiostro, pieni della vita e delle voci delle persone che ci lavoravano e della sua. È cominciata così la terza vita di Paparcuri. E se oggi quelle stanze si rianimano, e in qualche modo anche i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo, massacrati nel 1992, ci tornano a vivere, ogni volta che Giovanni Paparcuri apre la porta per accogliere un nuovo visitatore che vuole sapere, è perché le sue parole a volte dure, a volte ironiche, a volte amare ma sempre profondamente oneste tornano a iniettarvi il flusso della vita vissuta. La visita al bunkerino è gratuita basta prenotarsi al sito http://www.giustizia.palermo.it/MuseoFalconeBorsellino_prenotazione_visita.aspx  Giovanni, che ci infonde tanto tempo e non solo, replica a chi si meraviglia: «Si sorprendono perché non voglio “vendere” i miei ricordi, io mi sorprendo perché pensano che i miei ricordi abbiano un prezzo». In realtà un prezzo minuscolo (e salutare) da pagare c’è e ne vale la pena: è il piccolo viaggio autoanalitico che ciascuno deve compiere per compilare uno dei campi obbligatori del formulario di prenotazione, il meno scontato. Occorre scrivere il motivo della visita e conviene non barare. Ne ha bisogno Giovanni per essere sicuro che i suoi ricordi, che probabilmente gli costano più di quanto lasci trapelare, non finiscano al vento, sprecati da un uditorio indifferente. FAMIGLIA CRISTIANA


GIOVANNI PAPARCURI

 

 

 

 

Le strane sensazioni e la paura di morire. Non ho avuto paura quando sono stato assegnato al dr. Falcone, non ho avuto paura quando sono stato assegnato al consigliere Chinnici, non ho avuto paura quando si vociferava che ci sarebbe stato un attentato. Ma l’ho provata subito dopo l’esplosione e quando mi stavo risvegliando dal torpore, e subito dopo aver provato quella strana sensazione di fluttuare per aria per cercare di raggiungere una luce di un bianco intenso e poi di un rosso intenso, in un silenzio e benessere assoluto. 
Quando aprii gli occhi ero a terra e pieno di sangue, le gambe ancora dentro la blindata, mi resi conto che era successo qualcosa e le mie prime parole furono “mi ficiru fissa”, tutt’intorno macerie, c’era fumo, vedevo i vetri blindati dell’alfetta tutti lineati, ma non li vedevo a colori, li vedevo rosso sangue perché il sangue che mi zampillava dalla testa mi annebbiava la vista. Giovanni Giovanni gridava il collega Guglielmo Bologna che era giunto sul luogo dell’esplosione, ma ero io che gli dicevo di calmarsi, contemporaneamente una signora vestita di rosso (forse il mio secondo angelo) mi tamponava le ferite della testa e mi diceva che stavano arrivando i soccorsi, ma non era vero, le forze ormai mi stavano abbandonando, e solo allora ho avuto paura, ho avuto paura di morire, e quando hai paura passi in rassegna tutta la tua vita, paura di non rivedere più i tuoi, paura che a 27 anni non ce l’avresti fatta, paura che ti porti dietro per tutta la tua esistenza. Per fortuna arrivò una volante, uno dei poliziotti, marito di una mia collega, mi sollevò di peso per la cintura dei pantaloni e mi caricò in macchina, arrivai al pronto soccorso alle 8:47, in questo preciso istante capii che non sarei morto… fisicamente.

 


Il poliziotto anni dopo mi raccontò che fu rimproverato dai superiori, perché aveva sporcato di sangue i sedili della macchina della Polizia di Stato. Mai dimenticherò il terrore che mi hanno trasmesso quei vetri blindati lineati che solo un qualcosa di potente poteva ridurli in quella maniera. Poi la tua vita cambia, i colori non sono più gli stessi, desideri ascoltare il silenzio, ti fai mille domande, ti chiedi perché tu.  Giovanni Paparcuri


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In genere i soldati vincono le battaglie e i generali se ne prendono il merito.
Il giudice Falcone aveva un carattere particolare, a volte un po’ scontroso, ma aveva tantissimi pregi, uno su tutti era che ti diceva le cose in faccia, in più era molto rispettoso dei suoi collaboratori, in particolar modo rispettava il loro lavoro. Per esempio, se il risultato di una ricerca che mi aveva affidato non lo convinceva, mi faceva trovare un post-it giallo con su scritto “parlarne con Paparcuri”, mi chiedeva semplicemente perché avevo preso una determinata decisione anziché un’altra, e io da buon soldato gli spiegavo tutto. Mai mi disse io sono il capo e si fa come dico io, invece, ripeto, se ne parlava e assieme si trovava la soluzione migliore nell’interesse dell’ufficio e nell’interesse delle sue esigenze investigative. Giovanni Paparcuri

 


LA FOTO

In 37 anni della strage Chinnici ho visto diverse foto, ho visto anche quelle della polizia scientifica, tra le quali c’erano quelle impressionanti dei cadaveri all’obitorio del Consigliere Chinnici, di Bartolotta, di Trapassi e del portiere Li Sacchi, sì, mi hanno impressionato ma non scioccato come questa. Non l’avevo mai vista, da questa angolazione mai. Non c’è nulla di macabro, ma vedere com’è ridotta la macchina blindata dove mi trovavo io, mi sciocca non poco, ti rendi conto ancora di più della potenza devastante che ha distrutto vite e cose. E a fare tutto questo sono stati uomini. Poi ti fai mille domande che come al solito non avranno risposte. Poi il pensiero va a quelli che ti criticano perché non provi pietà verso i carnefici che pur ridotti a vegetali marciscono in galera. Come si fa ad accettare che un Brusca fra più di un anno sarà un uomo libero? Io non sono cattivo, ma come si fa a perdonare chi ha cambiato per sempre la tua vita. Non voglio impietosire nessuno, ho solo raccontato l’impressione che mi ha fatto sta foto, e se non lo faccio è come se mi girassi dall’altro lato per dimenticare, ma io non voglio dimenticare, né posso dimenticare.

 

E Borsellino ‘rubava’ le papere di Falcone


GIOVANNI PAPARCURI

La prima vita di Giovanni Paparcuri, oggi 65enne, è finita il 29 luglio del 1983. Anni prima aveva lasciato il lavoro in ferrovia per seguire un desiderio: «Mi piaceva guidare veloce, in situazioni difficili». Per questo partecipo’ al concorso per autista bandito dal Ministero della Giustizia e dopo averlo vinto inizio’ a guidare le auto blindate su cui viaggiavano i magistrati a rischio di Palermo. Era stato a lungo autista del giudiceGiovanni Falcone e nellestate del 1983, accompagnava Rocco Chinnici,Consigliere istruttore presso il Tribunale di Palermo. Alle 8 di mattina del 29 luglio 1983 Paparcuri arrivò in via Pipitone Federico per prelevare a casa il giudice Chinnici e sistemò l’auto accanto a una 126. Con lui c’erano gli uomini della scorta del magistrato, il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta. Nei ricordi di Paparcuri sono sempre vive le parole di Bartolotta che quel giorno era contrariato perché avrebbe dovuto essere altrove e invece aveva dovuto coprire il turno di un collega; a un certo punto proprio Bartolotta gli aveva chiesto di andare a sistemare la radio-trasmittente nellautoblindata;Paparcuri stava appunto fissandola, quando vide il consueto segnale del collega che indicava che il dott. Chinnici era per le scale. Paparcuri allora si fermo nell’auto ad aspettare e questo gesto gli salvò la vita; infatti se fosse sceso dall’auto sarebbe morto come gli altri quattro: i carabinieri, il giudice e il portiere del palazzo Stefano Li Sacchi, tutti uccisi dall’esplosione della potente bomba piazzata dalla mafia nella 126 parcheggiata nei pressi, e fatta scoppiare con un telecomando.
Dopo l’eccidio Paparcuri, rimasto gravemente ferito, passo’ un anno di convalescenza e una volta ristabilito torno’ al lavoro non piu’ come autista ma in ufficio, collaborando col giudice Giovanni Falcone e poi col giudice Paolo Borsellino che in quel periodo erano impegnati ad istruire il maxiprocesso contro Cosa Nostra negli uffici blindati del Tribunale di Palermo. In seguito dopo la morte sia di Falcone sia di Borsellino, anche loro barbaramente uccisi dalla Mafia, il bunkerino dove avevano lavorato e’ diventato il Museo Falcone-Borsellino, inaugurato il 24/5/2016.: un luogo di memoria, ideato e avviato da Paparcuri in cui si trovano tutti  gli strumenti originali dell’epoca utilizzati dai due magistrati, le macchine da scrivere, i primi computer, le sedie, le scrivanie e le copie di atti. E sono tanti coloro che, venendo da tutto il mondo, hanno visitato il Museo, comprese molti studenti e scolaresche, che ascoltavano durante la visita i racconti di Giovanni Paparcuri, l’uomo che , puo’ ben dirsi, e’vissuto due volte.
Ognuno di noi ha il proprio destino già segnato; quello di Giovanni Paparcuri è stato  di sopravvivere ad un sanguinoso attentato della mafia in modo da poter raccontare, in qualità di testimone oculare, un episodio tanto violento e vigliacco onorando la vittoria di suoi amici e colleghi onesti, coraggiosi e esemplari. Ancora oggi continua a essere impegnato alla lotta contro la mafia attraverso attività di testimonianza e di gestione di beni confiscati alla mafia dove, presso una di queste strutture, anche noi ragazzi abbiamo alloggiato nel nostro viaggio antimafia in Sicilia.

di marcolino90 (Medie Superiori) scritto il 20.10.22 LA REPUBBLICA scuola

 


Giovanni Paparcuri: “Nei miei ricordi il giudice Falcone è vivo”

L’autista sopravvissuto alla strage Chinnici, ci guida nella stanza del magistrato ucciso a Capaci, con cui ha collaborato quando non poteva più guidare le auto blindate Custodisce la memoria Giovanni Paparcuri. Lo obbligano le schegge che ha nel corpo e nell’ anima. Ma di più il bisogno di mantenere vive le persone con cui ha vissuto e rischiato di morire. Il 29 luglio 1983 guidava l’ auto che andava a prendere Rocco Chinnici. Per caso si trovava a bordo quando è esplosa l’ autobomba che ha ucciso il giudice sul marciapiede di fronte a casa, i carabinieri della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. I vetri spessi quattro centimetri hanno salvato Paparcuri, ma solo lui. Prima era stato l’ autista di Giovanni Falcone e, dopo, ha vissuto accanto a lui e a Paolo Borsellino da commesso, ruolo cui è stato declassato avendo perso per le ferite l’ abilitazione alla guida delle blindate, collaborando con i due magistrati finché non sono stati uccisi dalla mafia. L’ attenzione alle date, «deformazione professionale», dice lui, «acquisita tenendo la banca dati del maxiprocesso», quando ancora la tecnologia era avveniristica, fa sì che la sua pagina Facebook non si perda un anniversario e da quando esiste custodisce, animandolo di racconto, il Museo Falcone e Borsellino, voluto nel 2016 dall’ Associazione nazionale magistrati di Palermo nelle stanze blindate della Corte d’ appello in cui lavoravano i due giudici assassinati a Capaci e in via D’ Amelio nel 1992. Per questo «Papa», come lo chiamava «il dottore Falcone», è l’ uomo giusto per ricordarlo il 18 maggio, giorno in cui, se fosse vivo, il giudice festeggerebbe 80 anni: «Non riesco proprio a immaginarmelo, il dottore Falcone a 80 anni, per me si è fermato a 53, vivo però. Nel mio ricordo ha il sorriso della foto che c’ è di là, nella sua stanza. Quella è stata scattata dopo, a Roma, ma ha la stessa espressione di quando la sera del 16 dicembre del 1987 mi chiamò». Sicilianità e consuetudine facevano sì che si capissero a gesti e mezze parole: «Dal tono intuivo se voleva chiedermi una ricerca o condividere un caffè. Quella sera mi chiamò con un “Papa” insolitamente leggero. Mi affacciai alla sua porta e lo trovai che chiudeva una telefonata con sotto i baffii il sorriso sereno di quella foto: “Papa, abbiamo vinto”. Io lo guardai trasecolato: “Dottore, quando mai abbiamo fatto la schedina?”. Mi stava dicendo che molti imputati del maxiprocesso erano stati condannati. La soddisfazione non era per il destino di quegli uomini, ma perché finalmente una sentenza avrebbe messo l’ esistenza della mafia nero su bianco. Aveva bisogno di dirlo a qualcuno, sono fiero di essere stato io a raccogliere quel momento». Paparcuri e Falcone si erano conosciuti nel 1982: «Ero l’ autista del presidente del Tribunale, ma avevo avuto un diverbio con una segretaria e, per punizione, mi spedirono da Falcone. Quando mi chiese se ero contento – e lo ero molto perché desideravo una mansione movimentata – tentai di spiegargli che il motivo, la punizione, non mi rendeva felice, ma il lavoro sì. Il problema fu che mi fermò al “no”, senza lasciarmi tempo di spiegare e mi mandò via. Poi mi richiamò. Capii che mi aveva perdonato e mi stimava quando sua moglie, la dottoressa Morvillo, salì in macchina per la prima volta: “Francesca, ti presento Papa. Uno dei nostri”. A me spiace che non siano più sepolti vicini, che il dottore sia stato traslato a San Domenico, il Pantheon di Palermo». Paparcuri giura che in auto Falcone non era tipo da confidenze: «Mi chiedeva solo di non correre: quando cercavo di raggiungere la prima macchina di scorta davanti voleva che la lasciassi andare. Dicevano che avesse un brutto carattere ma non era vero, era solo un uomo di carattere. In fondo timido, risultava schietto, poco diplomatico. Sono stato testimone del suo isolamento. Nell’ estate del 1988 aveva chiesto di essere assegnato ad altro ufficio, poi a settembre decise di restare per senso del dovere. È tutto nelle carte desecretate del Csm. Aveva pochi veri amici: Paolo Borsellino, quasi un fratello, Peppino Di Lello, Giuseppe Ayala, Leonardo Guarnotta, Ilda Boccassini… e attorno tante, troppe invidie e gelosie». Per Paparcuri, dal suo piccolo osservatorio nella stanza del computer grande come una cassapanca, la porta del bunkerino faceva da cartina di tornasole: «Tante volte mi è capitato di sentire persone che in riunione con lui nell’ ufficio accanto, davanti gli dicevano: “Hai ragione, Giovanni” e poi non aspettavano neanche di varcare quella soglia per dirsi tra loro alle sue spalle “Ma chi si crede di essere?”. Avere idee diverse sul lavoro tra colleghi è normale, ma perché non dire apertamente non sono d’ accordo? Borsellino aveva dubbi sull’ idea della “superprocura” che Falcone sosteneva, ma glielo diceva chiaramente, da vero amico». A Paparcuri non piace quando chiamano eroi Falcone e Borsellino: «È l’ alibi che ci diamo per dirci che non siamo all’ altezza di continuare sulla loro strada. No, erano bravissimi professionisti, dotati di grande passione e senso del dovere, ma erano uomini normali. Però credo che il dottore Falcone in una cosa sia stato eroico davvero: nel sopportare i veleni di cui era circondato e di cui si accorgeva, fingendo di nulla. Filtravano nelle mie mani attraverso le carte che mi passava da scrivere. Di certo non è andato a Roma (al ministero della Giustizia, come direttore degli affari penali, ruolo riservato a magistrati ndr) per vendersi al potere politico, come si sussurrava: i risultati del suo lavoro, dalla rotazione delle sezioni per i processi di mafia in Cassazione all’ istituzione della Direzione nazionale antimafia, provano che non ha scaldato sedie. Dicevano che gli piacesse la visibilità, ma la sua fama dipendeva solo dal fatto che era un giudice preparatissimo. Penso che questo luogo blindato, eppure testimone d’ attimi di leggerezza, per lui e per Borsellino sia stato anche un rifugio: «Dopo il fallito attentato all’ Addaura in cui tentarono di ucciderlo per la prima volta, Falcone non andò a casa, venne qui».Paparcuri è stato contestato in Rete perché a volte ne racconta il lato lieve: «Se dico di quando Borsellino nascondeva una papera dalla collezione di Falcone chiedendo un “riscatto” di 5 mila lire o di quando Falcone a tavola prendeva tutti a palline di pane, qualcuno mette in dubbio. Ma che motivo avrei di inventarmi cose così?». È il modo di “Papa” di restituire loro vita e umanità: «Chissà se qualcuno ricorderebbe questi 80 anni se Falcone fosse qui? Il fatto che ne stiamo parlando, che i ragazzi delle scuole vengano qui ad ascoltare, mi fa credere che almeno non siano morti per niente, che ci sia un senso da qualche parte. Quando Falcone mi chiedeva qualcosa non mi diceva mai: “Grazie”. Mi diceva: “U Signuri t’ u paga”, il Signore te lo paga. Mi piace pensare che lo credesse». FAMIGLIA CRISTIANA 23.5.2019

 

 

 


Visse due volte  di Attilio Bolzoni  Nel 1983 resta ferito nell’attentato a Chinnici. E il 23 maggio ’92 scampa a quello in autostrada. Venticinque anni dopo, Giovanni Paparcuri ricorda la stagione delle stragi

Nella vita di Giovanni i numeri hanno sempre avuto una certa importanza. Ogni tanto ne parla con Giuseppe, un altro superstite delle guerre di Palermo. Giovanni è saltato in aria nove anni dopo di lui, si è sposato nove anni dopo di lui, è nato nove anni dopo di lui nello stesso mese e nello stesso giorno. Il 14 marzo, nel 1956 uno e nel 1947 l’altro. Le loro mogli sono nate invece lo stesso giorno, lo stesso mese e anche lo stesso anno. «Quando penso a queste corrispondenze del tempo mi manca il respiro» dice Giovanni mentre apre la porta blindata di quello che trentacinque anni fa era il bunker del pool antimafia, l’ufficio istruzione del Tribunale dove si è ideato e costruito il maxi processo a Cosa Nostra.
 Giovanni Paparcuri era l’autista di Falcone nei primi anni ‘80 e Giuseppe Costanza ha preso il suo posto il 29 luglio 1983, quando Giovanni è rimasto ferito nell’attentato contro il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Poi Giuseppe è riuscito a non morire il 23 maggio 1992, nell’inferno dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi arriva sino a Palermo. Convergenze e coincidenze, destini che si inseguono. Come raccontare i morti e i vivi di una città mattatoio, se non partendo dai numeri che ossessionano Giovanni Paparcuri ancora dopo tanto tempo e dopo tante stragi?
 Giovanni è ormai in pensione ma, in questa primavera che si prepara a ricordare il venticinquesimo anniversario della carica d’esplosivo che ha fatto tremare l’Italia, ogni mattina apre ancora quella porta blindata. Dietro ci sono le stanze di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, luoghi che – come è scritto su una targa d’ottone – sono diventati un piccolo museo visitato dai palermitani e da studenti provenienti da ogni regione. Tutto è rimasto come allora. La pesante cassaforte di ferro sotto la finestra della stanza di Falcone, il fascicolo su Filippo Marchese detto Milinciana nell’armadio di Borsellino, le papere di legno sulla scrivania di Falcone, il rapporto sul covo di via Pecori Giraldi in uno schedario di Borsellino, alcuni faldoni del maxi uno, del bis, del ter e del quater nel piccolo archivio che si affaccia nel corridoio.
 Giovanni Paparcuri inizia dal principio: «Ero in ferrovia ma volevo fare altro, così ho presentato domanda per diventare autista giudiziario, guadagnavo più di 600 mila lire e il mio primo stipendo in tribunale era esattamente la metà. Dopo un primo incarico in Corte di Appello, per punizione un giorno mi hanno spedito dove non voleva andare nessuno: assegnato al giudice Falcone». Il giudice è famoso, ha già fatto capire a Palermo che per combattere i mafiosi non si possono più fare le inchieste e i processi senza riscontri e senza prove. Le indagini sugli Spatola e sugli Inzerillo, la scoperta dell’eroina che parte per l’America e soldi che tornano nelle banche siciliane, la morfina base che i mafiosi vanno a prendere nel Sudest asiatico.
 Nell’estate del 1983 Falcone è in Thailandia per interrogatore Koh Bak Kin, un cinese di Singapore che ha deciso di “cantare”. Il giudice è dall’altra parte del mondo e l’autista Paparcuri, da qualche giorno, ha il compito di prelevare a casa il consigliere Chinnici. Anche la mattina del 29 luglio. Un’autobomba. Muore Chinnici, muore il maresciallo Mario Trapassi, muore l’appuntato Salvatore Bartolotta, muore il portiere dello stabile di via Pipitone, Federico Stefano Li Sacchi. Un tuffo al cuore: «E io resto vivo, dopo il boato prima vedo una luce bianca, poi una luce rossa e poi una luce nera, sento come un benessere che mi solleva in alto, sempre più in alto. E, alla fine, mi risveglio in ospedale». Giovanni ha appeso su una parete del bunker la foto dell’Alfetta blindata devastata dall’autobomba. «Vedi quelle due grandi chiazze sull’asfalto: sono il mio sangue».
 Torna in servizio un anno e mezzo dopo. Due dita della mano destra riattaccate, schegge conficcate nelle tempie, il gomito disintegrato, timpani perforati, un fischio che non l’avrebbe mai più abbandonato. Ha finito con la guida e con le blindate. Ma ci prova lo stesso, all’ospedale militare gli dicono però che non è “idoneo”. L’amministrazione giudiziaria lo declassa a commesso e lo destina all’ufficio “procedimenti contro ignoti”, un buco.
 A Palermo arrivano i primi computer dal ministero di Grazia e Giustizia, sono ancora tutti accatastati in un magazzino, imballati nei cartoni. Nessuno li usa perché nessuno li sa usare. Giovanni Paparcuri ne prende uno e comincia a studiarlo, dopo un paio di settimane – grazie a un Olivetti – riesce a smaltire con gran velocità le pratiche accumulate. Falcone e Borsellino lo convocano e gli chiedono: «Ma come hai fatto? Saresti in grado di informatizzare anche i nostri atti del maxi processo?». Per Giovanni Paparcuri comincia un’altra esistenza. Tutti i segreti del bunker sono custoditi nella sua stanza. Anche la password del computer di Giovanni Falcone: “Avanti”. È la stessa del data-bank che il giudice avrà sempre nelle mani qualche anno dopo.
 È il 1985. E Giovanni Paparcuri diventa un personaggio chiave in quel pool che farà storia. C’è Falcone, c’è Borsellino, c’è il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che ha sostituito Rocco Chinnici, ci sono i giudici Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. E c’è lui.  Palermo intanto ingoia altri uomini. Come Ninni Cassarà, il poliziotto che più di altri è vicino a Falcone. «Veniva qui quasi ogni giorno, portava le ultime notizie dalla sua sezione investigativa della squadra mobile…». Ricordi che si rincorrono. Anche i più lontani. Nel piccolo museo dentro il tribunale di Palermo c’è la scrivania dove lavorava Falcone, quella che era sempre coperta da montagne di assegni attraverso i quali il giudice ricostruiva le alleanze fra le “famiglie”. Giovanni l’ha ritrovata fra vecchi arredi ammucchiati nell’ala del registro generale civile. «Ce n’erano due o tre tutte uguali, l’ho riconosciuta da questo segno». Una rigatura sul legno chiaro, provocata dalle manette di un imputato. Gaetano Fidanzati, un mafioso dell’Acquasanta. «Era nella stanza di Falcone quando il giudice l’ha provocato. Gli ha detto: “ho intuito che lei sarebbe intenzionato a collaborare con noi”,  quello è diventato pazzo e ha cominciato a picchiare le mani sulla scrivania e i ferri delle manette hanno intaccato il legno».
 La seconda stanza a destra, quella di Falcone, una macchina per scrivere, una relazione sul ruolo del giudice nella lotta alla mafia («Questa l’ha corretta sua moglie Francesca. La dottoressa all’ora di pranzo scendeva nel bunker quasi sempre»), la terza stanza – sempre a destra – quella di Paolo Borsellino. Sul muro, appeso a un chiodo, un impermeabile blu. Giovanni lo mostra e spiega: «C’è una cerniera sul bavero. Qui si attaccava la blindatura. Sì, era un impermeabile blindato che il giudice Borsellino non ha mai usato per due ragioni. La prima è che era troppo lungo per lui, l’altra – più importante – è che quando i poliziotti della sua scorta hanno provato la resistenza esplodendogli contro alcuni colpi di pistola, la blindatura è andata in frantumi». Giovanni Paparcuri ritorna sulla sua Palermo, sui giudici e sui poliziotti che non ci sono più. Su Giuseppe, sulle bombe e sui numeri che hanno accompagnato le loro vite. (La Repubblica Attilio Bolzoni 12 maggio  2017)


 

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LA GIUNTA DISTRETTUALE DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI DI PALERMO HA REALIZZATO NEL PALAZZO DI GIUSTIZIA DI PALERMO IL “MUSEO FALCONE-BORSELLINO” DEDICATO ALLA MEMORIA DI GIOVANNI FALCONE E DI PAOLO BORSELLINO.  L’OPERA SI PROPONE L’OBIETTIVO DI REALIZZARE UN LUOGO DI MEMORIA PERMANENTE INDIRIZZATO NON SOLO AGLI ADDETTI AI LAVORI, MA ALL’INTERA COLLETTIVITÀ ED IN PARTICOLARE ALLE GIOVANI GENERAZIONI. LA GESTIONE DEL MNUSEO E’ AFFIDATA A GIOVANNI PAPARCURI.


 

 

3 dicembre 2018 – Progetto San Francesco al Bunkerino 

7.12.2021 – PROGETTO SAN FRANCESCO E ASSESSORATO ALLA LEGALITA’ DEL COMUNE DI CANTU’ AL “BUNKERINO” 

Per la realizzazione del “MUSEOFALCONEBORSELLINO” dedicato alla memoria dei due grandi magistrati si è rivelato determinante il contributo fornito da GIOVANNI PAPARCURI.  Giovanni, già straordinario collaboratore di Falcone e Borsellino, fu infatti l’“inventore” dell’informatizzazione all’epoca rivoluzionaria del Maxiprocesso. Il 29 luglio 1983 Paparcuri scampò miracolosamente all’attentato con autobomba in cui persero la vita il giudice Rocco Chinnici, il maresciallo Trapassi, l’appuntato Bartoletta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Dopo la “strage di via Pipitone” si maturò la consapevolezza dell’estrema esposizione al pericolo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Entrambi già da alcuni anni si occupavano dei processi a carico degli appartenenti a Cosa nostra esercitando le loro funzioni in stanze ubicate a piano terra del Tribunale e, pertanto, facilmente accessibili da chiunque. Si decise quindi il loro trasferimento in un’area più riservata del palazzo e vennero individuati, a tal fine, i locali del cosiddetto #Bunkerino. È qui che oggi l’Associazione Nazionale Magistrati, grazie al lavoro ed alla quotidiana presenza di #GiovanniPaparcuri, ha potuto realizzare e far vivere questo fondamentale luogo di memoria la cui visita per noi del Progetto San Francesco è ormai diventata una tappa obbligata.  PROGETTO SAN FREANCESCO


Nel bunker di Falcone e Borsellino  A trent’anni dalla prima sentenza del Maxi Processo alla mafia siamo andati nel bunkerino di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ad accoglierci Giovanni Paparcuri . Abbiamo parlato anche dell’appunto di Falcone ritrovato pochi giorni fa… Da oltre trentadue anni Giovanni Paparcuri apre le porte blindate del bunkerino che fu la “casa” di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino presso la Corte di Appello di Palermo. Dove prima lavorava il pool antimafia oggi troviamo un piccolo museo alla memoria dei due magistrati uccisi nel 1992. Giovanni Paparcuri ha lavorato con loro per circa 10 anni e oggi, venticinque anni dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, apre ancora quegli uffici per i ragazzi delle scuole. La Corte di Appello di Palermo, l’Associazione Nazionale Magistrati e la fondazione “Progetto Legalità Onlus”, dal 26 maggio 2016, hanno ridato vita agli uffici dei due giudici, trasformandoli appunto nel “museo Falcone e Borsellino”, e chi meglio di Giovanni Paparcuri poteva riportarli fedelmente come un tempo? “Non mi piace chiamarlo museo, – spiega Giovanni Paparcuri ad Alqamah.it – ricorda qualcosa di vecchio e di polveroso. Questo non è un luogo di morte, ma di vita. Qui si può cogliere il lato professionale ma anche quello umano, erano due uomini allegri, scherzosi e si facevano anche dispetti a vicenda”. Oggi, dopo la pensione, quasi ogni giorno accompagna gli studenti provenienti da tutta Italia all’interno del bunkerino che ormai considera la sua seconda casa: “La mia seconda casa? Direi anche la prima casa. Qui ho passato tanti momenti intensi al fianco di Falcone e Borsellino durante il lavoro con il pool antimafia e, oggi, continuo il lavoro con i ragazzi delle scuole. – racconta ad Giovanni Paparcuri – A loro vanno insegnati i veri valori della legalità, cioè essere persone oneste nella vita e rispettare sempre le regole”. Incontriamo Giovanni proprio nel mezzo di una visita guidata con una scolaresca di Barcellona Pozzo di Gotto: “Non voglio essere semplicemente un cicerone, uscendo da qui loro devono avere bene in mente cheFalcone e Borsellino non erano eroi, ma persone normali che hanno lottato per una causa giusta e che oggi bisogna continuare con le proprie idee, portando avanti i valori di legalità, a partire dalla scuola e dalle azioni quotidiane” – sottolinea ai ragazzi. “Dal giorno dell’apertura da qui sono passati 10160 persone, gran parte scolaresche e in prevalenza dal nord Italia. Qui è venuta anche una donna che in quegli anni si lamentava per le sirene delle auto di scorta dei magistrati e dei giudici di Palermo, l’ho trovata davanti la scrivania di Falcone in lacrime”. Lui però è un sopravvissuto. Porta ancora i segni di un tremendo attentato. Da autista di Falcone passa per un breve periodo alla guidare dell’auto del giudice Rocco Chinnici, ideatore del pool antimafia. Il 29 luglio del 1983 un auto imbottita con 75 kg di esplosivo, parcheggiata in via Pipitone Federico a Palermo, uccise Rocco Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta. L’unico superstite è proprio Paparcuri. “Quel giorno la mafia non uccise solo loro. – sottolinea– I due carabinieri avevano 11 figli in due. Io di quegli attimi non ricordo molto, ho iniziato a ricordare solo tempo dopo. Vedi queste macchie di sangue? – aggiunge Paparcuri mentre ci mostra la foto dei resti delle auto dopo l’attentato a Chinnici – è il mio. Ho deciso di metterla in questa stanza come memoria storica”. Di quell’attentato però porta ancora i segni: Duedita della mano destra tranciate e riattaccate, schegge di vetro ancora in testa, il gomito malconcio, danni ai timpani, una spalla deformata. Segni indelebili. “Questo è il regalo che mi ha fatto la mafia. Ricordo poco, in quel momento mi sentivo leggero, ho visto solo un tunnel di luce bianca. Nessun dolore”. Dopo l’attentato viene “declassato” di due livelli, quindi a mansioni minori. Lascia le blindate e finisce per fare altro. Ma non si arrende. Il giudice Giovanni Falcone si ricorda di lui è lo chiama ad informatizzare le carte del maxi processo nel suo bunkerino. Per lui una rinascita. “Sapevano della mia passione per l’informatica e mi chiesero di aiutarli. Fu una sorta di premio. Come essere nato una seconda volta, ma nello stesso tempo un onore e anche un onere. Così presi in mano il lavoro già avviato da una ditta esterna e iniziai a creare la banca dati, internalizzando il sistema”. Un lavoro fondamentale per la riuscita del maxi processo alla mafia siciliana. Una banca dati poi ereditata dalla Procura e che ancora oggi porta il nome di “banca dati Paparcuri”. “Ho lavorato con loro circa 10 anni. Qui dentro ho vissuto momenti difficili, intensi, ma anche belli ed emozionanti. Sono tanti i ricordi con loro, molti li tengo per me”. Nel bunkerino in quel periodo era un via vai di magistrati, poliziotti e giudici. Era il 1985, l’anno della nascita del pool antimafia di Antonino Caponnetto (che ha poi sostituito Rocco Chinnici), Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Nel bunkerino il tempo sembra essersi fermato. Paparcuri ha ricostruito gli uffici dei due giudici in modo fedele: dalle paperelle in legno di Falcone sulla scrivania (oggetto di continui scherzi di Borsellino), alle sue sigarette preferite, dalle carte originali in cui annotava gli omicidi di mafia, alle borse e cappotti originali, la cassaforte sotto la finestra, i fascicoli sul maxi processo, i floppy disk con le dichiarazioni di Buscetta, i monitor della videosorveglianza, i vecchi computer e molto altro. “Questa – spiega indicando una vecchia macchina da scrivere – è quella del giudice Borsellino, usata anche dal figlio Manfredi per scrivere la sua tesi di laurea. Ho cercato di riportare tutto come se fosse ancora un ufficio operativo. Tutto è originale”. Tutto ordinato come allora, sembra quasi che i due giudici dovessero tornare da un momento all’altro. “Io qui oltre a spiegare chi erano loro racconto anche aneddoti, gli appunti, come nasce il mandato di cattura di Buscetta, racconto la loro storia in questo posto che per noi era come un rifugio. Dopo il fallito attentato all’Addaura – aggiunge – il dottore Falcone venne qui in ufficio, qui si sentiva al sicuro, isolato. Era la nostra casa. Tra queste mura loro hanno lottato la mafia ma anche contro i veleni di alcuni colleghi, in quegli anni fu chiamato proprio il Palazzo dei veleni”. “In questi giorni, nel trentesimo anniversario della prima sentenza del maxi processo, mi viene in mente il sorriso del dott. Falcone. Lui era seduto dietro la sua scrivania, mi chiamò “papa, vieni”, lo vidi soddisfatto, felice, sorridente. “Papa, abbiamo vinto”, c’erano state le condanne del maxi processo. Subito dopo il brindisi con i colleghi del pool con l’immancabile bottiglia di Chivas. Solo per occasioni speciali” – spiega sorridente Giovanni Paparcuri. In questi giorni è tornato agli onori della cronaca un ritrovamento particolare fatto da Paparcuri tra gli appunti di Falcone. Su un foglio a quadretti ingiallito si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni a Grado e anche a Vittorio Mangano”. Il fatto è stato riportato dal giornalista de La Repubblica Salvo Palazzolo. Un appunto che torna ad accendere i riflettori su un caso ancora aperto. Il foglio, di cui molti hanno dubitato l’esistenza, esiste ed è scritto a mano da Falcone. Giovanni Paparcuri ce lo mostra e sottolinea: “Eccolo, l’appunto è questo, la grafia è di Falcone. – spiega – L’ho trovato il 17 novembre. In molti sostengono che è stato tirato fuori in un momento particolare. Ma è stato casuale. Ho trovato anche altre cose…” – aggiunge mostrandoci una vecchia carpetta e i tanti assegni sulla scrivania di Falcone che simboleggiano il cosiddetto “metodo Falcone”, ovvero la scia del denaro dell’organizzazione mafiosa. Sulla possibilità di altri appunti segreti e ancora da scoprire però taglia corto: “No, non credo. È stato trovato per coincidenza. I politici? A me non interessano. Falcone diceva sempre: ‘Se arresto un politico ne faccio felici alcuni e ne faccio scontenti altri’. Non abbiamo certo scoperto l’acqua calda. Semmai è la prova del fatto che Falcone se non c’erano riscontri non andava avanti. È solo un appunto, ma certamente non l’ha strappato. Diciamo che bisognava cercare meglio dopo la sua morte 25 ani fa, ma non è stato fatto”. “Di Borsellino ho un particolare ricordo: ci siamo conosciuti in ospedale, io stavo per entrare in sala operatoria in seguito alle conseguenze dell’attentato di via Pipitone Federico. Fermò la lettiga per farmi coraggio con una piccola pacca sul petto, ma io avevo i polmoni e il petto indolenziti per le schegge. Il dottore lo capì solo dalle mie urla. Da lì poi lo rividi qui, quanto mi chiamarono per lavorare con loro. Un altro momento che non dimenticherò mai – racconta Paparcuri ad Alqamah.it – è stato quando stavo portando mia figlia di appena un mese dalla pediatra e mi fermò il dott Borsellino in strada: Scese dalla macchina per salutarmi ma appena vide la piccola mi disse ‘ma c’è tua figlia in macchina?’. Non mi salutò più, si chinò sul sedile posteriore e la baciò sulla fronte e andò via salutandomi”. “Oppure come dimenticare il giorno del mio matrimonio. Gli ospiti neanche si accorsero degli sposi, le attenzioni erano tutte per loro che facevano cabaret, raccontavano barzellette e scherzavano con tutti. Erano molto allegri e di compagnia. Altri momenti – sottolinea – li porto dentro con me”. “Palermo oggi è sicuramente cambiata. Però adesso c’è la mafia, l’antimafia e la falsa antimafia. Cos’è cambiato non lo so. La morte di Riina? Non cambia molto. Il potere andrà nelle mani di un altro. È cambiata però la società civile, i ragazzi qui venticinque anni fa non avrebbero mai pensato di venire, e neanche voi ad intervistarmi. Prima, di certi argomenti, non si poteva parlare, adesso sì. Ogni tanto se ne straparla, come nel caso della cosiddetta finta antimafia. Ognuno di noi deve combattere nel proprio piccolo la cultura mafiosa, le raccomandazioni, le strade “facili”, perché non sono mai le strade giuste”. 29.12.2017 Emanuele Butticè


In occasione del  37° anniversario della strage di Via Pipitone Federico dove l’unico sopravvissuto fu appunto Giovanni Paparcuri. Ho voluto scrivere la sua storia perché molti non lo conoscono, perché, purtroppo, in questo Paese se muori vieni ricordato, ma se rimani in vita vieni dimenticato e addirittura diventi un peso per lo Stato. Io ho il piacere di conoscere Giovanni al quale voglio un gran bene e posso dire che è una grande persona. È un po’ lungo, ma vi consiglio di leggerlo perché è davvero interessante. GRAZIE Giovanni per quello che hai fatto insieme ai Giudici e per quello che continui a fare al Bunkerino! ❤Giovanni Paparcuri nacque a Palermo, al confine con la Magione, il 14 marzo 1956 da una famiglia umile. Il padre faceva il meccanico e grazie al padre Giovanni impara questo mestiere. Ciò gli permetterà di vincere un concorso come motorista, alle ferrovie. Ma non gli piaceva questo mestiere, a lui piacevano le sirene e la velocità, il suo desiderio era guidare le macchine di scorta. Dopo l’omicidio del procuratore Costa il ministero bandì un concorso e la sorella di Giovanni, di nascosto da lui, presenta la domanda al suo posto. Circa due mesi dopo gli arriva la chiamata dal Ministero dicendogli di aver vinto il concorso. A questo punto Giovanni lascia le ferrovie e passa al Tribunale, rimettendoci anche qualche soldo perché alle ferrovie guadagnava più di 600 mila lire, mentre il suo primo stipendio al Tribunale era la metà. Ma a lui non interessava perché finalmente poteva fare quello che aveva sempre desiderato. La sua qualifica era “agente tecnico, autista” e il suo primo incarico fu fare l’autista per il Presidente del Tribunale Giacomo Spadaro. Giovanni dopo poco litigò con la segretaria del Presidente del Tribunale, e per punizione venne affidato al Dott. Giovanni Falcone dell’Ufficio Istruzione. Era una punizione perché nessuno ci voleva andare, invece Giovanni fu l’uomo più felice del mondo perché era proprio quello che avrebbe voluto fare. Di comune accordo con un suo collega, Paolo Sammarco, avevano deciso che solo loro due avrebbero gestito le auto blindate del Dott. Chinnici e del Dott. Falcone. Giovanni Paparcuri era l’autista al Dott. Falcone nei primi anni ’80. Nell’estate del 1983 Falcone è in Thailandia per interrogatore Koh Bak Kin, un cinese di Singapore che ha deciso di parlare. Il giudice è dall’altra parte del mondo e l’autista Paparcuri, da qualche giorno, ha il compito di prelevare a casa il Consigliere Chinnici. Anche quel maledetto 29 luglio del 1983 Paparcuri aveva il compito di prelevare a casa il Consigliere Chinnici. Prima di uscire di casa, Giovanni si affacciava sempre dal balcone per decidere se mettere la giacca o meno. Quel giorno decise di non metterla e quindi di non portare neanche la pistola (anche gli autisti avevano in dotazione la pistola, ma era a spese loro). Quindi scende, va a prendere la macchina al carcere dell’Ucciardone e arriva sotto lo stabile dove abita il Consigliere, intorno alle 7:50/7:55. Arrivato posteggia la macchina davanti a una Fiat 126 verde (Giovanni non poteva sapere che quella fosse l’autobomba che da lì a poco sarebbe esplosa). Già trova l’appuntato Salvatore Bartolotta, il maresciallo Mario Trapassi, un’auto militare che aveva il compito di chiudere una traversa laterale e un’Alfa Sud che li aspettava più avanti. Giovanni Paparcuri racconta che generalmente quando lui arrivava Bartolotta aveva con sé la ricetrasmittente che andava a collocare nella macchina appena arrivata. Quel giorno Bartolotta non doveva essere in servizio ed era un po’ nervoso, e questo suo nervosismo avrebbe salvato la vita a Giovanni Paparcuri. Bartolotta chiese a Paparcuri di prendere la ricetrasmittente dall’Alfa Sud e di posizionarla nella blindata. Giovanni fece così e perse 5/6 minuti per fare i collegamenti. Ad un certo punto alza gli occhi e attraverso lo specchietto retrovisore si accorge che il Trapassi fa il solito segnale con la mano, per dire che il Consigliere stava scendendo le scale. Quindi Giovanni decide di rimanere in macchina e aspettarli. Quel segnale servì anche ai mafiosi per capire quando fare esplodere la 126 verde imbottita di tritolo. Alle 8:05 si sente un forte boato e Giovanni Paparcuri, a causa dell’onda d’urto, viene sbattuto fuori dall’auto blindata. Giovanni racconta di non aver sentito né l’esplosione né di aver provato dolore fisico all’inizio, l’unica cosa che ricorda e di aver provato una sensazione di benessere e di avere l’impressione di fluttuare nell’aria e di raggiungere una luce bianca intensa, che dopo poco si trasformò in rosso intenso e successivamente in nero. Ed è proprio in quel momento che ha cominciato a sentire dolore, ma soprattutto racconta che fu proprio in quel momento che per la prima volta lui ha avuto paura, perché sentiva che le forze lo stavano abbandonando e non riusciva a tenere gli occhi aperti. Giovanni Paparcuri rimane una settimana in coma e riporta varie lesioni, tra cui: porta una placca metallica alla mano, ha 15 schegge in testa e 5 nel gomito, ha un cristallino artificiale, ma soprattutto ha il desiderio, da 37 anni, di sentire un po’ di silenzio, perché si porta ancora i rumori di quell’esplosione e un ronzio che non lo lascia mai. Ma la ferita più grave è quella che non si vede, quella dell’anima, perché quel giorno perde degli amici, con Bartolotta e con Trapassi ormai si era instaurato un rapporto di amicizia vero e sincero, passavano alcuni momenti di felicità insieme, e sentire che erano morti è stato un dolore troppo grande per lui. Inoltre lui dice “perché sono rimasto in vita io che non sono sposato e non gli altri che avevano mogli e figli”, infatti quel giorno rimasero vedove 4 donne e 11 bambini rimasero orfani. Io penso che il destino non volle che Giovanni morisse quel giorno, perché doveva portare avanti un lavoro straordinario a fianco di GRANDI Magistrati, del calibro del Consigliere Chinnici. Dopo un anno di convalescenza il Ministero lo voleva riformare, ma lui, che aveva 27 anni, ha rifiutato. Il Ministero allora lo declasso di due livelli: dal quarto dell’autista giudiziario, al secondo del commesso giudiziario (il Ministero giustificò questa cosa dicendo che i regolamenti del Ministero erano quelli). Venne assegnato alla sezione contro ignoti. Il suo compito era compilare a mano le sentenze di quella sezione, per poi farle firmare ai vari giudici, anche del pool antimafia. Giovanni un giorno scoprì una stanza dove erano accatastate tutte le apparecchiature volute proprio da quell’ufficio per informatizzare tutto, ma che non venivano utilizzare. Siccome Giovanni era appassionato di informativa, si mise ad accendere e a provare quei macchinari e si accorse che se a mano in 10 minuti compilava 3/4 sentenze, con queste apparecchiature riusciva a compilarne anche 20 nello stesso tempo. I giudici del pool si videro depositare, dunque, nelle loro scrivanie decine e decine di sentenze in pochi giorni (molte più di prima quindi). Si arrabbiarono perché loro si dovevano occupare di mafia, di fatti molto più importanti, e chiesero chi fosse stato. In un primo momento se la presero con il Dott. Sunseri, che era il dirigente della sezione contro ignoti, ma lui disse che non era lui, ma che era l’addetto e loro gli dissero che lo volevano conoscere. Giovanni quindi va al bunkerino ed entra nella stanza del Dott. Borsellino, che appena lo vede dice “a tu si” (in dialetto palermitano, a tu sei), e Giovanni gli risponde “io…ma di che cosa” e il Dott. Borsellino gli chiese se era lui che si occupava della sezione contro ignoti e Giovanni risponde di si, a questo punto il Dott. Borsellino gli dice che se ne può andare e che poi gli avrebbe fatto sapere. Giovanni fu riconvocato, questa volta dal Dott. Caponnetto, il 16 aprile 1985, che li portò in una stanza e gli disse che quelle erano le apparecchiature che servivano per creare la prima banca dati. Giovanni racconta che era felice e che nel giro di tre ore era riuscito a recepire e a capire come funzionava tutto il sistema. Quindi per Giovanni cominciava un’altra vita insieme al pool antimafia, negli uffici in cui si istruiva quella che sarebbe diventata la prima indagine informatizzata della storia italiana, sfociata nel Maxiprocesso. Di Giovanni si fidavano tutti, lui era felice e orgoglioso di lavorare per loro e loro erano felici e orgogliosi di avere Giovanni come colui che si occupava di informatizzare il Maxiprocesso. Dopo aver terminato quell’immane lavoro, il Dott. Giovanni Falcone volle rendergli merito del suo lavoro, ringraziandolo accanto al capo dell’Ufficio Istruzione Antonino Caponnetto nell’introduzione della sentenza del Maxiprocesso. In quel documento importante, la qualifica “commesso giudiziario” è compresa tra le virgolette, come segno di protesta del Dott. Falcone nei confronti di quel declassamento immeritato. Giovanni Paparcuri è andato in pensione nel 2009 dopo 29 anni di servizio. Nel 2016 si pensò di riaprire quegli uffici che erano stati del Dott. Falcone, del Dott. Borsellino e dello stesso Paparcuri. Pochi mesi prima del 25° anniversario della strage di Capaci e di Via D’Amelio, il Museo Falcone-Borsellino venne aperto, per volere della giunta distrettuale di Palermo dell’Associazione Nazionale Magistrati. Grazie allo strepitoso lavoro di Giovanni Paparcuri e di qualche collaboratore, quelle stanze si sono riempite con gli oggetti che 20 anni prima formavano il bunkerino. Da quel 2016 Giovanni ogni giorno passa le mattinate al bunkerino, dove racconta a tutte le persone che ci vanno la vita in quelle stanze, quale aria si respirava in quel periodo, l’informatizzazione del Maxiprocesso ed anche qualche aneddoto e qualche storia sua e dei Giudici Falcone, Borsellino e Chinnici.  (Giuseppe Galeazzo, Il Fresco Profumo di Libertà) 28.7.2020


Giovanni Paparcuri, lavorava a fianco di Chinnici e adesso cura il bunkerino di Falcone e Borsellino. Giovanni Paparcuri e’ stato a fianco del giudice Chinnici e ha reso piu’ volte testimonianza della sua esperienza con il magistrato. Il primo giorno di servizio, Giovanni accompagno’ Chinnici a liceo Umberto perche’ il giudice capi’, immediatamente, l’importanza di andare nelle scuole e parlare con i ragazzi.  Attualmente Paparcuri e’ il curatore del bunkerino di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in cui ammirare i documenti redatti dai due giudici e respirare l’aria della loro immensa umanita’ e anche l’ironia che c’era fra di loro: Borsellino e Falcone erano molto amici e spesso si facevano dei simpatici scherzi.

INTERVISTA A GIOVANNI PAPARCURI  Caro Giovanni, parlare con Lei e’ davvero un onore, oltre che un piacere … Lei e’ la testimonianza vivente di qualcosa che rimarrà indelebile, avendo affiancato uomini che hanno fatto la storia.  Ci puo’ dire un ricordo riguardo al Giudice Chinnici? Il consigliere Chinnici professionalmente non lo conoscevo, poi col passare del tempo ho scoperto che era un bravissimo magistrato. Ma ho avuto modo di conoscerlo un po’ di più dal lato umano, intanto sapeva benissimo che prima o poi la mafia l’avrebbe ucciso, ma la sua più forte preoccupazione era quella che non accadesse nulla ai suoi uomini della scorta, infatti giorni prima della strage ci riunì nella sua stanza e ci disse che la mafia stava preparando un attentato, ma ancora non si sapeva se era diretto alla sua persona, in ogni caso in quella riunione ci lasciò la facoltà se continuare a stare con lui, noi non siamo stati dei vigliacchi e non l’abbiamo lasciato solo. Il consigliere tra l’altro è stato il primo magistrato in assoluto a capire l’importanza di andare nelle scuole a parlare con i ragazzi, difatti, ricordo che il mio primo giorno di servizio col consigliere fu quello di accompagnarlo non in ufficio, ma al liceo Umberto, quando arrivammo io non capivo che ci andava a fare un magistrato in un liceo, bene, sono sceso e vidi l’aula magna stracolma di studenti e il consigliere che parlava loro come se fossero tutti figli suoi Era un capo, a volte burbero, ma aveva un cuore grande così. Non dimentichiamo che le prime indagini per il maxi processo li svolse lui fino al giorno della sua uccisione, l’idea del pool nacque anche da una sua intuizione, poi il suo successore, il consigliere Caponnetto lo formalizzo, anche l’idea delle indagini bancarie e patrimoniali era sua, poi dopo la sua morte il dr. Falcone la perfezionò. Insomma era un grande magistrato, ma purtroppo se ne parla poco.

Sappiamo, inoltre, che e’ curatore del museo dedicato a Falcone e Borsellino … Che cosa si può vedere al suo interno?Intanto, non mi piace chiamarlo museo, perché sa di vecchio e polveroso, è il bunkerino: è nato così e continuo a chiamarlo in questa maniera. Purtroppo e, giustamente, quando si viene a Palermo, si va in via D’Amelio o in autostrada, a Capaci, ma quelli sono luoghi di morte, ci ricordano come sono stati trucidati i nostri giudici e i ragazzi che li proteggevano. Invece nel bunkerino, oltre a toccare con mano gli atti e i documenti lavorati dai giudici Falcone e Borsellino, si parla anche della loro umanità, gli scherzi che si facevano tra loro. Comunque non scordiamoci che in quelle stanze è nato il maxi processo. Si possono vedere le prime apparecchiature elettroniche servite per informatizzare il maxi processo, i microfilm, insomma in quelle stanze si è fatta la storia giudiziaria italiana, ed è giusto farlo conoscere a tutto il mondo. Un messaggio per tutti i giovani che non hanno, a volte, speranza e coraggio nella vita … Che dire ai ragazzi, potrei dire tante cose, ma rischio di essere banale. Ma l’unica cosa che mi sento di dire è di essere se’ stessi, intanto raccomando sempre di non chiamare eroi questi magistrati, nel senso che se li chiamano eroi si fanno l’alibi che ciò che hanno fatto i nostri giudici, loro non lo possono fare, ma non è così, tutti possiamo fare qualcosa, e poi qualsiasi cosa faranno nella vita di metterci tanta passione altrimenti sarà un peso. Altro non posso dire, anche perché ai giovani le parole servono poco, per loro ci vogliono esempi e gli esempi si chiamano Chinnici, Livatino, Costa e tanti altri, e perché no? Mi ci metto anch’io. SaraMorndi 19.12.2020


L’agente sopravvissuto all’attentato a Chinnici: “Un boato e una luce. Mi dissi, sono morto”.  Parpacuri, oggi in pensione, era stato assegnato alla scorta del magistrato. Uscito dall’ospedale, divenne uno dei collaboratori più stretti del pool del Maxiprocesso. Oggi è un testimone della grandezza di quegli uomini. “Vi dico la password di Falcone: “Avanti”». Oggi a Palermo ci sarà la parata delle autorità, per ricordare il sacrificio di Giovanni Falcone, assieme a quello di altre quattro persone: sua moglie Francesca e tre agenti della scorta. Ma Giovanni Paparcuri, che al fianco del magistrato ha vissuto quasi vent’anni, non sarà nell’aula Bunker. «Da qualche anno invitano anche me, ma mi sento a disagio nell’accomodarmi accanto a chi ha sempre osteggiato Falcone e Borsellino, finché non sono morti», racconta l’uomo, unico superstite dell’attentato ai danni di Rocco Chinnici. In quei giorni Falcone era in Thailandia per una rogatoria e Chinnici senza autista: ecco perché fu dirottato al suo servizio. Dopo la convalescenza, Paparcuri divenne uno dei collaboratori più stretti del pool del Maxiprocesso. Una figura chiave, dal 1985 in avanti. Fu lui a informatizzare l’archivio di Falcone, che si fidava al punto da renderlo l’unico in grado di accedere al suo Olivetti. La password? Avanti: diceva tutto di quello che è stato il modus operandi del magistrato. «Perché il suo metodo non valeva soltanto in procura, era uno stile di vita fatto di rigore e rispetto umano: pure nei confronti dei peggiori imputati». I segni dell’attentato sotto la pelle. Giovanni oggi è in pensione, ma la sua vita non è cambiata di molto: prima combatteva la mafia dall’interno, oggi lo fa attraverso la cultura. Paparcuri è la guida alla visita al corridoio del Palazzo di Giustizia in cui è stata scritta la storia della lotta all’organizzazione criminale siciliana. Le sue parole riecheggiano nelle orecchie del cronista a settimane di distanza dall’incontro. Lo si ascolta per sapere qualcosa in più su Falcone, ma a colpire è innanzitutto l’esperienza personale: il racconto parte dal 29 luglio 1983. «Certo che me lo ricordo, quel giorno: vidi una luce, pensai alla morte. Invece poi mi risvegliai in un letto di ospedale, mentre tutti gli altri che erano con me erano morti»: oltre a Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile in cui abitava il magistrato, Federico Stefano Li Sacchi. Doveroso dunque che nel corridoio ci sia una foto che ricordi quella strage. Osservandola, si notano due chiazze sull’asfalto. «Quello è il mio sangue», chiarisce Paparcuri, che da quell’episodio uscì ammaccato: due dita ricucite, l’udito compromesso, le schegge ancora percepibili nel gomito e sotto la tempia destra. «Quando un bambino mi chiede chi è stato Totò Riina, gli faccio toccare questi due punti: i suoi segni saranno nella carne fino all’ultimo istante della mia vita». Ma è dopo l’attentato che Paparcuri divenne un elemento nevralgico nelle indagini contro la mafia.

La carriera al fianco di Falcone  Inidoneo a continuare la carriera da agente di scorta, Paparcuri fu ricollocato dall’Amministrazione giudiziaria. Si occupava dei procedimenti contro ignoti – la sua parabola è ben raccontata anche in «Paolo Borsellino: essendo Stato»: libro, docufilm e spettacolo teatrale firmati da Ruggero Cappuccio – e della gestione di un archivio che sarebbe poi passato alla storia. Fu lui il primo a prendere dimestichezza con gli Olivetti spediti dal Ministero di Grazia e Giustizia. Falcone e Borsellino se ne accorsero e non tardarono ad arruolarlo nella squadra: si sarebbe occupato di informatizzare gli atti del Maxiprocesso, ancora oggi custoditi nella prima stanza dell’altare laico intitolato alla memoria dei due magistrati. Eccola, la seconda vita di Paparcuri. «Falcone sembrava un burbero, ma dietro quello scudo celava la sua timidezza». Sono due gli episodi che gli ricordano il carattere schivo del magistrato nato nella Kalsa, lo stesso quartiere del pentito Tommaso Buscetta. «Non lo avevo invitato al mio matrimonio, perché viveva già blindato: scortato da dodici uomini e un elicottero. Ma da Caponnetto seppi che ci era rimasto male. Così, una settimana prima di sposarmi, gli diedi la notizia e finsi di aver atteso l’ultimo momento per gli inviti più importanti. Capì subito che stavo bluffando. Assieme ai colleghi mi aveva già regalato il servizio di piatti e bicchieri e il giorno del ricevimento in chiesa fece il cabaret, assieme a Borsellino: gli invitati guardavano loro e ridevano, mica me e mia moglie». Mentre il secondo rimanda alla nascita della prima figlia, Giorgia. «Sua moglie Francesca comprò una tutina e gli chiese di darmela. Dopo una settimana, passando dai nostri uffici, rimase male perché non la ringraziai». Poi, parlando col marito, scoprì che quel regalo era rimasto nel cassetto della scrivania. «Volevo che glielo dessimo assieme», le rispose Falcone: e in quelle parole c’era tutto l’imbarazzo di chi non amava i convenevoli. Ma il regalo più bello che Falcone avrebbe potuto fare a Paparcuri è emerso l’anno scorso, quando da Roma sono giunti gli atti desecretati dell’audizione del 1988 al cospetto del Consiglio Superiore della Magistratura. «Lui e Borsellino mi difesero anche in quella occasione».

Cosa accade oggi in Sicilia?  I racconti che Paparcuri quasi ogni giorno fa nel «bunkerino» – oggi sarà all’istituto nautico «Gioeni-Trabia», lontano dai riflettori – non sono mai tra loro identici. «Parlo sempre a braccio, anche coi giornalisti. E coi ragazzi non uso mai le parole di Falcone e di Borsellino, perché due persone così l’Italia non le avrà mai più». Il «mainstream» è lontano dal verbo di quest’uomo. «Le diciottomila persone venute qui in due anni le avrei volute vedere nel 1992, accanto a loro: quando invece alcuni vicini di casa di Falcone ebbero il coraggio di chiedere il trasferimento del pool in periferia, perché la sera le sirene sotto casa disturbavano. Falcone e Borsellino non erano degli eroi, ma dei professionisti retti che non sono mai scesi a patti: né con lo Stato né con la mafia. Il loro desiderio era vivere in una Sicilia migliore. I tempi, evidentemente, non erano ancora maturi». La ferita che sanguina è quella dei silenzi, ai proiettili e alle schegge Paparcuri ci ha fatto il callo. Il riferimento è alle omissioni dei fratelli Graviano nel corso dell’incontro con Fiammetta Borsellino e al presunto dossieraggio portato avanti dall’ex paladino dell’antimafia Antonello Montante . Nelle scorse ore, Paparcuri ha pensato anche di mollare tutto. «L’operato di chi si muove nella zona grigia fa male più di un colpo di lupara. I colletti bianchi di queste persone non sono inamidati, ma sozzi di fango». A che punto è la lotta contro la mafia? «Siamo qualche metro più avanti rispetto a trent’anni fa, ma non abbiamo fatto ancora nulla. È come se avessimo vinto qualche battaglia, non la guerra. La mafia non sarà sconfitta fino a quando ci sarà la cultura mafiosa. Per scalfirla, però, non scomodiamo ancora Falcone e Borsellino. Oggi possiamo soltanto rispettarli e cercare di portare avanti le loro idee».  Con le nostre parole e senza un briciolo di retorica. 16 Giugno 2019 LA STAMPA


Lo stile dell’uomo e del magistrato di Giovanni Paparcuri  Più del metodo mi piacerebbe parlare dello stile, lo stile di uomo che faceva un mestiere difficile: il magistrato. E in questo stile bisogna aggiungerci il carattere, il modo di rapportarsi con la gente e principalmente con i mafiosi, con alcuni suoi colleghi forse ha peccato di ingenuità, cioè si è fidato di qualcuno di cui non doveva. Il metodo Falcone, comunque, era rappresentato anche dagli sguardi, da gesti e da quello che non diceva. Era coerente in tutto e per tutto, un vero uomo d’onore e come tale si comportava. Tuttavia seguire la traccia del denaro era nato col Consigliere Chinnici, poi il dr. Falcone lo perfezionò e raggiunse importanti risultati, in primis sul processo Spatola, e sempre grazie a questo metodo scoprì attraverso un assegno la vicenda del falso sequestro Sindona. Oramai è stato detto tutto sul metodo che usava il dr. Falcone, ma il suo metodo non serviva esclusivamente a scoprire intrallazzi, ma serviva pure per altro. Intanto si fidava del suo intuito e in poche battute si accorgeva se colui il quale aveva di fronte diceva la verità. Quando conduceva un interrogatorio, come mi raccontava il maresciallo dei carabinieri, che era addetto alla verbalizzazione, non andava subito sull’argomento da trattare, ma con calma li invitava a raccontare la loro vita, fino a quando non arrivavano al punto di interesse, e qui li “fregava”, infatti spesso e volentieri da semplici testi li imputava per falsa testimonianza o per favoreggiamento. Comunque valutava  sempre chi aveva di fronte, non scordando mai, anche se era un mafioso, che si trattava pur sempre di un essere umano. Basta leggere un passo di una sua intervista, se non ricordo male del 1985: “Comprendo il dramma umano di chi mi sta di fronte. Questo lavoro non può essere svolto se si è privi di umanità”. Era molto metodico, quasi maniacale, il pool antimafia si avvaleva per le indagini bancarie e patrimoniali di una squadra di sottufficiali della Guardia di Finanza diretti dal capitano Ignazio Gibilaro, struttura voluta proprio dal giudice e i loro uffici erano ubicati accanto al bunkerino, oggi Museo Falcone Borsellino. Ebbene, nonostante questo gruppo era deputato a fare ciò, il dr. Falcone spesso e volentieri controllava personalmente la documentazione bancaria e in particolar modo gli assegni, sequestrati a seguito di mandati di cattura o indagini, l’operazione più significativa e che, tra l’altro, mi riguarda personalmente fu quella denominata “Charlie”, la racconto perché mette in risalto una sfaccettatura forse poco conosciuta di un metodo che solo il dr. Falcone sapeva usare, perché non credo che altri avrebbero fatto la stessa cosa. Dunque, una mattina il dr. Falcone mi chiamò con un tono un po’ diverso, e già dal tono capii che c’era qualcosa che non andava. Entrato nella sua stanza vidi una montagna di assegni e documentazione bancaria sulla sua scrivania, sequestrati, appunto, in seguito all’operazione Charlie, io pensai che voleva essere aiutato per la solita spunta, o che magari voleva che confrontassi alcune firme attraverso verbali di interrogatorio o di sommarie informazione, quindi mi misi di fronte a lui, invece mi disse di girare e di mettermi proprio al suo fianco, nelle sue mani teneva un assegno, che subito dopo mi mostrò, chiedendomi di chi era quella firma. La firma era di mio padre. In quel momento se mi avessero tagliato le vene non sarebbe uscita una goccia di sangue, e già pensavo: “Giovanni qua è finita la tua storia”. Comunque gli dissi che quella firma era di mio padre e l’assegno fu emesso come anticipo per la compravendita di un appartamento, il sogno di ogni famiglia. Dopodiché mi domandò se c’era il compromesso, “certo dr. Falcone”. Non aggiunse altro e quell’assegno lo rimise assieme agli altri, ma io impietrito non sapevo che fare, mi aspettavo altro, fino a quando non mi disse: “ancora qua è? vada a lavorare”, mentre stavo per uscire mi fece tornare indietro e con tono ancora più severo mi disse: Signor Paparcuri (non più papa) se lei è qui un motivo c’è, vada a lavorare”. Io tornai a lavorare e quell’assegno con la relativa documentazione l’ho microfilmato e inserito in banca dati: ho fatto semplicemente il mio dovere. Per l’uomo-giudice non occorreva altro, si è fidato della mia parola e del suo istinto, il metodo Falcone era anche questo, ma guai a prenderlo in giro. Il suo metodo era anche quello di trasmettere a noi collaboratori il senso dello Stato; per noi era un punto di riferimento. Un altro aspetto del suo metodo è rappresentato anche da altro, cioè alcune volte dal mio ufficio notavo che il dr. Falcone accompagnava alla porta alcune persone che lo venivano a trovare, e dall’espressione del suo volto e da alcuni comportamenti capivo se lo aveva fatto per educazione oppure perché lo aveva mandato letteralmente a quel paese, dove stava la differenza? Se la presenza era gradita accompagnava con lo sguardo e con un sorriso quella determinata persona fino a quando non scendeva le scale, viceversa se non era gradita, aveva il viso tirato e appena il visitatore varcata la soglia della porta blindata, la chiudeva immediatamente. Ecco, con parole mie ho cercato nel mio piccolo di raccontare il metodo Falcone, all’inizio ho specificato che era fatto anche da sguardi, ma quelli non li posso descrivere con semplici e freddi caratteri, occorrerebbero dei colori, ma non ci riesco, forse perché preferisco tenerli per me. Rimane comunque il fatto che seguire la traccia del denaro è un ottimo metodo per contrastare il malaffare, ma quello del dr. Falcone, sommandolo ad altri comportamenti, era uno stile, era lo stile del dr. Falcone, prima uomo e poi magistrato.

 

 

A cura  di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco