PAPARCURI E IL BUNKERINO – PIERO MELATI: “Per solidarietà non ritiro il premio Recalmare”

 

Così è morta per sempre l’Antimafia 

21.8.2022 – Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino. C’è bisogno che dica chi è? No, lo conoscono migliaia di persone in tutta Italia, quelle che in questi anni sono andate a visitare l’unico “museo” che, a detta di tutti, ricorda senza retorica il sacrificio di Falcone e Borsellino, quelle che lo hanno sentito parlare, sempre semplice e diretto, sincero, se stesso fino in fondo.

Perché lascia? Ha scritto: non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma devo farlo perché sono stanco, e ha parlato di ipocrisia, falsa solidarietà, invidia, sospetti, lamentele. Aveva chiesto un incontro con i vertici, “definitivo e risolutorio”, ha ricevuto in cambio silenzio assoluto e “solo rare telefonate di rimprovero”. L’ultimo colloquio? Gli hanno detto: tu sei padrone di niente, sei solo egocentrico. “Mi hanno rubato anche i ricordi, cento cani intorno a un osso” ha commentato amaramente.
Per me così è morta definitivamente l’Antimafia, non me ne parlate più, tenetevela per voi e le vostre fandonie. La presenza di Giovanni in quel velenoso panorama costituiva una delle ultimissime ragioni per sopportare quella baracca maleodorante, che insulta ogni giorno la memoria dei caduti e delle vittime.
Il 27 prossimo sarei dovuto andare a Grotte, al premio Racalmare fondato da Leonardo Sciascia a ritirare un riconoscimento che la giuria ha generosamente riconosciuto al mio libro “Paolo Borsellino per amore della verità”, il cui capitolo “Senza tante cerimonie” era dedicato proprio al museo del bunkerino e a Giovanni Paparcuri, in rappresentanza di quei collaboratori veri e diretti del pool dei giudici antimafia di Palermo che mai vengono invitati alle cerimonia ufficiali. Alla presentazione del libro, il 4 luglio scorso alla facoltà di Giurisprudenza con Fiammetta Borsellino, Giovanni era venuto, non per me, ma per tributo alla memoria del magistrato.
Ebbene, scriverò alla cortese giuria ringraziandola, ma aggiungerò che non mi sento di ritirare il premio per solidarietà con Giovanni Paparcuri. Mi auguro che vorranno leggere pubblicamente la breve nota che invierò.
Ora vedrete che qualcuno correrà ai ripari, per evitare il danno di immagine. E qualcun altro farà invece il duro, perché la baracca ha bisogno di espellere definitivamente i Paparcuri per poter funzionare come funziona, ovvero per pura immagine.
Per quanto mi riguarda il danno è fatto. Se non dobbiamo arrenderci, come ci invita Giovanni, per la memoria oppure per la legalità o per quello che volete, dovremo trovare un altro luogo, altri ambiti, altri contesti, che non siano mai più la cosiddetta “Antimafia”, almeno per quanto mi riguarda.
Ce ne ricorderemo di questo Trentennale. Sono stati toccati i punti più alti di un ridicolo e mefistofelico disegno che va avanti da decenni: fare carriere e avere potere e successo calcando un teatrino di guitti e falsari che prevede di pasteggiare sulla memoria dei caduti.

22.8.2022-Non è che si abbandona oppure mai si abbandona la Sicilia, è che la Sicilia ti perseguita comunque. In tutti quei modi sofisticati e strani che somigliano alla carta moschicida, e noi ad insetti che ci caschiamo dentro.
La questione primaria è la Sicilia, non la mafia. La mafia sta dentro la Sicilia. Poi ci sono quelli che la rimuovono dal quadro. E poi quegli altri che la rimettono, anche quando non c’è più come prima. E dentro questi giri vorticosi ci stanno i siciliani.
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Ieri ho scritto di getto sul caso di Giovanni Paparcuri che lasciava amareggiato il museo del bunkerino di Palermo. Ho detto che per solidarietà con lui non sarei andato a ritirare il premio di Racalmare a Grotte, per il libro su Paolo Borsellino, in cui un capitolo importante è oltretutto dedicato proprio a Paparcuri e ai “testimoni di memoria” dimenticati dall’Antimafia ufficiale. Ho aggiunto anche che l’Antimafia è morta.
Alcuni amici, al contrario, mi hanno chiesto di andare ugualmente e di parlare del caso in quella sede siciliana e prestigiosa (il premio è stato istituito da Leonardo Sciascia, che in queste storie di mafia e antimafia, come ben sapete, c’e voluto entrare eccome; chissà cosa avrebbe detto oggi, così io mi stavo zitto).
Giovanni Paparcuri è stato in questi anni, credo non solo per me, un riferimento. E lo è ancora. Una specie di previsione meteorologica della temperatura di una certa Palermo, un google maps delle strade da imboccare o da evitare. A volte non ero d’accordo con le sue opinioni, ma non è stato mai questo l’importante, credo in virtù della rarità della persona, che avrà pure una montagna di difetti, ma se ripenso alla frase di Paolo Borsellino sul profumo della libertà, immediatamente mi viene in mente lui.
Nulla sapevo, quando ieri ho scritto, dei motivi specifici che lo hanno portato a lasciare quel piccolo luogo di “memoria”, oggi visitato da migliaia di persone che solo per questo scopo vengono a Palermo da tutto il mondo. Normale: quella di Falcone e Borsellino è una delle storie più potenti del secolo passato. Oggi dell’affaire se ne sa di più, tra post, articoli,comunicati, controrepliche, ma credo anche che in questo caso i torti o le ragioni non siano decisivi. E nemmeno i dettagli. Può anche darsi che un domani la frattura addirittura si ricomponga. Lo invocano in parecchi. Ma per me non è così. Non mi si ricompone nulla. E non per colpa di nessuno. Un fatto simbolico è accaduto, piccolo per i più, significativo per tanti, totalizzante per un uomo per bene, un sopravvissuto, una vittima, un collaboratore leale prima di Falcone e Borsellino, poi del loro ricordo e dei loro insegnamenti. Non sarà facile per nessuno rimettere insieme i pezzi, quando si è spezzato il meglio che aveva dentro un uomo. Ma sono già certo cosa accadrà: si farà finta niente.
Il vero cuore del problema è un altro. Il colpo veniva da lontano, e non dalle circostanze che hanno determinato questa faccenda. Posso sbagliarmi, ma penso che il disagio di Giovanni Paparcuri avesse vecchie radici e non fosse, e non sia, solo il suo.
Ho cercato di raccontarlo nel capitolo del libro: lui rappresenta tutti quei testimoni diretti di quei fatti, a volte come lui sopravvissuti per miracolo agli attentati, altre volte sempre come lui al lavoro per anni gomito a gomito con Falcone e Borsellino, che poi non vengono mai invitati alle cerimonie ufficiali e ai rituali della memoria, che non hanno mai un posto. Perché? In questo c’è qualcosa che accomuna in qualche modo Giovanni Paparcuri ai figli di Borsellino. Quando le istituzioni, dopo una mutilazione, non ti legittimano, si limitano a tollerarti o ti tengono ai margini per varie ragioni, spesso inconfessabili, proprio come nel caso dei figli di Borsellino, il danno di cui sei vittima diventa doppio e a volte insostenibile. E questa volta ad arrecartelo non è più stata la mafia, ma uomini delle istituzioni.
Così ieri la vicenda di Giovanni mi è sembrata un punto di non ritorno e un caso mefiticamente esemplare. Da trent’anni la mafia, arrestati e morti i corleonesi, non ci attenta più. I “nuovi” attentati sono stati solo virtuali. Non sappiamo neppure con certezza se l’era post-corleonese sia coincisa con la scomparsa definitiva di Cosa Nostra siciliana, ormai soppiantata da altre mafie, oppure se essa si sia trasformata per metamorfosi in qualcosa d’altro di cui nulla sappiamo. Indagini e sentenze che perennemente ci dividono hanno un difetto: la testa rivolta solo al passato.
L’Antimafia, le procure, gli apparati dello Stato, le questure, le caserme, gli ordini degli avvocati eccetera eccetera sono sempre stati anche (per fortuna non solo) covi di veleni e intrighi, quando non di giochi di ombre. Ma in passato si doveva tenerne conto e tollerarlo, perché c’era da combattere un potente nemico. Ma adesso? Non ditemi, per favore, che il potente nemico assedia ancora oggi – con la stessa invulnerabilità di ieri – Stalingrado. E che siamo tutti chiamati alla nuova resistenza. Quindi, cosa rimane oggi veramente dell’Antimafia? I veleni, gli interessi, la burocrazia, le carriere, l’esposizione mediatica totalitaria, una idolatria cieca pari a quella di cui usufruiscono le star della TV, mistiche religiose, posizioni talebane, la vanità, i piccoli o grandi privilegi eccetera eccetera eccetera. Ma anche, diciamolo chiaro e tondo, il business.
Ah, e poi ci siamo anche noi, ultime ruote del carro, che schizofrenici ondeggiamo dall’unanimismo più letale (per carità, mai criticare pubblicamente una fondazione, una associazione, un prelato, un pm, una procura, una candidatura elettorale, un giudice scrittore più prolifico di Camilleri: sarebbe lesa maestà) alle risse forsennate, purché sempre e solo tra di noi, tra i senza potere, a ogni nuova sentenza, guardandoci in cagnesco perché un nemico alla fine bisogna sempre averlo.
Infine, c’è una voce di corridoio dal sen fuggita che
dice: quel Paparcuri durante le visite del pubblico al bunkerino, avrebbe avanzato critiche non gradite verso qualcuno di “importante”. Non posso crederci che ci sarebbe anche questo nel mazzo. Non voglio crederci. Anzi, non ci credo. Perché altrimenti, che lezioni di moralità vengono poi a darci?
Così, pur costandomi, e anche restando molto dispiaciuto per non aver seguito il consiglio di persone che stimo moltissimo, non andrò a ritirare il premio a Grotte. E non andrò per Giovanni Paparcuri. Mi imbarazza non poco doverlo scrivere e spiegare a una giuria che troppo generosamente mi ha premiato. Ma lo sento come un obbligo. Non tanto per i motivi specifici che hanno portato Giovanni Paparcuri a lasciare il museo del bunkerino (anch’io spero che tutto si ricomponga e lui ci ripensi) ma perché la cosiddetta Antimafia, nata negli anni ’80, senza che persone come Paparcuri – che ne sono il cuore – vi abbiano un ruolo e una voce, autorevole e riconosciuta almeno al pari delle altre, non ha più senso di esistere ed è morta. Senza cuore, solo con le strategie e le tattiche, i rapporti di forza o il marketing, alla fine si distrugge tutto.
Forse si dovrebbe tornare a quella “cosa” più antica che fu dei Dolci, Pantaleone, Consolo, Sciascia, e di certi registi neorealisti, che non dettero alcuna etichetta e nessuna particolare sigla alle loro antiche lotte per la Sicilia, ma invece semplicemente le hanno fatte.
 
 

Piero Melati rinuncia al premio Racalmare. “Solidarierà con Paparcuri”

L’addio polemico di Giovanni Paparcuri, custode della memoria di Falcone e Borsellino, al “bunkerino” del palazzo di giustizia causa uno strascico anche in campo culturale: Piero Melati, giornalista, autore del libro “Paolo Borsellino. Per amore della verità” ha anninciato di rinunciare al premio racalmare che gli era stato attribuito. La cerimonia del premio si svolgerà sabato a Grotte e, per la sezione narrativa vedrà in lizza Ugo Cornia, Andrea Vitali e Antonio Manzini.

Con una lettera alla giuria, Melati, che al caso Paparcuri, autista giudiziario di Rocco Chinnici, sopravvissuto alla strage di via Pipitone dell’83, ha spiegato la rinuncia al premio. “Nei giorni scorsi Paparcuri è stato costretto a dimettersi dall’incarico, pronunciando amarissime parole. Ne è nato un caso che ha rimesso al centro del dibattito la questione della memoria, chi ne sono i suoi veri testimoni, che senso abbia oggi una Antimafia che, a trent’anni dalle stragi siciliane, somiglia sempre di più ad una passerella della vanità e a una scorciatoia per le carriere, come ebbe a scrivere Sciascia nel suo famoso e profetico articolo sul “Corriere della Sera” del 10 maggio del 1987. Nel libro avevo già cercato di raccontare come il malessere di Paparcuri venisse da lontano. Lui stesso sopravvissuto a un attentato, amico e collaboratore di due “eroi” riconosciuti in tutto il mondo, non ha mai trovato il posto che gli spetta nelle ricorrenti cerimonie ufficiali. La stessa gestione del piccolo museo lo ha visto spesso sopperire a carenze varie di tasca propria, in un percorso costellato da invidie e diffidenze. Fino alla decisione finale di mettersi da parte”.

Conclude Melati: “Caro presidente e cari membri della giuria, oggi non ritiro il premio per solidarietà piena e convinta a Giovanni Paparcuri, uno dei protagonisti principali del libro che qui avete insignito. Si tratta di un piccolo gesto, ma che faccio lucidamente, dopo tormentata riflessione e pur se gravato dal peso di farvi una scortesia. Ma lo sento come un obbligo e un dovere”.

La cerimonia di premiazione sarà condotta da Elvira Terranova.  


27 agosto 2022. La mafia uccide, il silenzio pure. Invece l’Antimafia ti spegne lentamente.

Rispetto tutti coloro che con affetto ritenevano dovessi andare a ritirare lo sciasciano premio Racalmare ed esprimere da quel palco la mia solidarietà a Giovanni Paparcuri. Così però non avrei lasciato alcun segno concreto né rinunciato a nulla (e invece ogni cosa per incidere deve costare un prezzo) e, anziché limitarmi a ringraziare, come si usa quando si ritira un riconoscimento, avrei anche dovuto fare un lungo comizietto, in un contesto che non ha alcuna responsabilità rispetto alla vicenda. Diverso sarà – se vorranno – leggere una nota che ho inviato alla giuria, che aprirà e chiuderà una breve parentesi, senza guastare più di tanto una festa.
A chi interessa tutto questo? A pochi. E si sbaglia. Perché, a prescindere da me, questa è una bellissima e amarissima e attualissima storia sciasciana. Sono queste le storie che fanno della Sicilia, nel bene e nel male, uno specchio e una metafora, persino dell’agire umano. In queste ore, per esempio, Giovanni Paparcuri è diventato per molti (che si limitano però solo a sussurrarlo e suggerirlo) una persona egocentrica, affetta da protagonismo. Ma perché lo si dice improvvisamente del solo Paparcuri? Potremmo fare un lunghissimo elenco di individui verso cui si potrebbe nutrire un simile sospetto. Perché allora dirlo solo di lui? Mi pare come quando fu detto alla sola Fiammetta Borsellino che i parenti delle vittime sono affetti da “incontinenza verbale”. Perfetto, sono d’accordo. A volte, anziché limitarsi a testimoniare sulla propria tragedia, brandendo il proprio dolore e il rispetto che si aspettano da noi come un’arma, scavandosi un ruolo nel senso di colpa collettivo, i parenti delle vittime discettano di elezioni politiche, equilibri internazionali, riforme della giustizia. Ma allora, perché muovere questa critica solo ed esclusivamente a Fiammetta (che per altro di temi così generali non ha parlato mai)? Non ci sarebbero, semmai, anche altri nomi da indicare prima di lei? E a parte i parenti, quanti protagonisti della giustizia esulano spessissimo da temi loro propri? Questa selezione preventiva tra chi viene bollato di protagonismo e chi invece non lo viene mai suona come molto interessata.
Altro elemento sciasciano: l’ex ispettore Pippo Giordano, in una intervista a Sandra Figliuolo, in cui ha chiesto a Paparcuri di ripensarci, ha dissentito sulla morte dell’Antimafia, citando le migliaia di giovani e la sete di giustizia. Vorrei tanto dissentire anch’io da me stesso. Anch’io sento come una ferita questi due aspetti. Ma non posso perpetrare ancora una volta la logica (che ci rese ciechi sui casi Montante e Saguto, come sul depistaggio Scarantino) di non gettare via il bambino con l’acqua sporca. Non sono più i tempi dello stragismo corleonese, che richiedeva sempre e comunque un fronte comune, e nemmeno quelli successivi in cui a dare patenti di legalità era Montante, ma non lo si poteva denunciare per non guastare tutto. Non ripetiamo gli errori del passato. Certo che ci sono migliaia di giovani e che c’è bisogno di giustizia, ma oggi l’impegno sincero di tanti viene cavalcato da personaggi che hanno fatto dell’Antimafia una vetrina della vanità, un business, un trampolino per fare carriera. E questo secondo aspetto ha cannibalizzato il primo. Ragion per cui dico che l’Antimafia è morta sul caso Paparcuri.
E in tale sciascianamente paludoso contesto (ecco il lato disumano) questi “professionisti dell’Antimafia” se ne sbattono altamente del doppio danno, inflitto tanto a Paparcuri che ai figli di Borsellino. Il primo è sopravvissuto a una strage, i secondi alla mutilazione di un’altra. Ma dopo, anziché essere pienamente accolti e legittimati dalle istituzioni, ne vengono respinti e isolati. Non riesco a concepire nulla di più perverso. È un modo di spegnere lentamente, tramite sofferenza ulteriore inflitta, chi già è una vittima.
Infine c’è il silenzio. Di tanti. Di troppi. Meglio non schierarsi, non sbilanciarsi, non inimicarsi mai nessuno, essere prudenti e accomodanti, quando saltano fuori i casi più scottanti. Non costa nulla oggi dire “la mafia è una montagna di merda” oppure “io sto con Gratteri”. Ma un passo o due dentro le segrete stanze dell’Antimafia ufficiale pare sia diventato più pericoloso che avere a che fare con i vecchi boss o i servizi deviati. E questo ha un olezzo antico e tutto siciliano. Nell’Isola c’è sempre un santuario da non mai violare.
Sulla Sicilia è inutile scrivere racconti. La Sicilia si scrive da se stessa. Disprezza l’invenzione. Pretende di incidere le storie direttamente nella carne e nel sangue. Persino nella pietra. Perciò la Sicilia tante volte è incomprensibile. Finché non accetteremo che è solo letteratura, continueremo a confondere la realtà con i sogni.

Il premio letterario Racalmare Leonardo Sciascia della città di Grotte (Agrigento), 27 agosto 2022.

 
Caro presidente e cari membri della giuria,
devo anzitutto ringraziarvi per il prestigioso riconoscimento che avete voluto attribuire con generosità al libro “Paolo Borsellino Per amore della verità” e per le motivazioni che lo hanno accompagnato. Tanto più perché il premio è legato alla figura di Leonardo Sciascia. Ma è anzitutto in virtù del suo magistero che sono costretto a rinunciarvi. E lo faccio con dolore e scusandomi profondamente con voi, cercando di spiegarne le ragioni.
Appresa la notizia del riconoscimento, lo avevo subito dedicato a Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, i figli del giudice Paolo Borsellino, alla cui figura e al cui esempio il libro è ispirato. E avevo intenzione di limitarmi a dire questo dal vostro illustre palco.
Poi è accaduto qualcosa. Uno dei capitoli del libro parla di Giovanni Paparcuri. Era negli anni Ottanta l’autista giudiziario del consigliere istruttore Rocco Chinnici, sopravvissuto per miracolo e con danni permanenti alla strage con autobomba di via Pipitone Federico del 29 luglio 1983, nella quale perirono lo stesso Chinnici, Mario Trapassi, Salvatore Bortolotta e Stefano Li Sacchi. Successivamente Paparcuri venne riassegnato agli uffici giudiziari, dove fino alle stragi del 1992 è stato uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, costruendo con i due magistrati una comunanza di intenti fatta di lealtà, fiducia e affetto, che prescindeva dal semplice rapporto professionale. In particolare con Borsellino e con i figli si era creato un legame che, da parte dello stesso Paparcuri, non esito a definire di religiosa devozione.
Dal maggio del 2016 Paparcuri era diventato un custode della memoria, avendo messo in piedi dal nulla, con grandi sacrifici e con le sue forze, coadiuvato da Manfredi Borsellino e dal compianto Vincenzo Mineo, un piccolo museo all’interno degli uffici-bunker dove aveva lavorato insieme ai due magistrati. Il museo è stato visitato in questi anni da oltre trentamila persone provenienti da tutto il mondo e dal presidente della Repubblica Mattarella, in occasione del trentennale dell’uccisione del giudice Rosario Livatino. Troverete su internet numerosi commenti dei visitatori. La testimonianza viva di Paparcuri, dentro quegli uffici ricostruiti con i veri oggetti di lavoro e personali dei magistrati, è stata per molti una esperienza indimenticabile.
Nei giorni scorsi Paparcuri è stato però costretto a dimettersi dall’incarico, pronunciando amarissime parole. Ne è nato un caso che ha rimesso al centro del dibattito la questione della memoria, chi ne sono i suoi veri testimoni, che senso abbia oggi una Antimafia che, a trent’anni dalle stragi siciliane, somiglia sempre di più ad una passerella della vanità e a una scorciatoia per le carriere, come ebbe a scrivere Sciascia nel suo famoso e profetico articolo sul Corriere della Sera del 10 maggio del 1987.
Nel libro avevo già cercato di raccontare come il malessere di Paparcuri venisse da lontano. Lui stesso sopravvissuto a un attentato, amico e collaboratore di due “eroi” riconosciuti in tutto il mondo, non ha mai trovato il posto che gli spetta nelle ricorrenti cerimonie ufficiali. La stessa gestione del piccolo museo lo ha visto spesso sopperire a carenze varie di tasca propria, in un percorso costellato da invidie e diffidenze. Fino alla decisione finale di mettersi da parte.
Caro presidente e cari membri della giuria, oggi non ritiro il premio per solidarietà piena e convinta a Giovanni Paparcuri, uno dei protagonisti principali del libro che qui avete insignito. Si tratta di un piccolo gesto, ma che faccio lucidamente, dopo tormentata riflessione e pur se gravato dal peso di farvi una scortesia. Ma lo sento come un obbligo e un dovere. A futura memoria, se la memoria avrà ancora un futuro.
PIERO MELATI
(Questa lettera è stata letta da Elvira Terranova, che ringrazio, nel corso della serata)

 

30.8.2022 – Quanto vale un simbolo? E quanto vale un uomo?

Lo sfregio ad alcuni simboli della “Palermo che cambia” ha comportato l’immediata e unanime mobilitazione dei più visibili rappresentanti dell’Antimafia nazionale. Eppure, nelle stesse ore, lo sfregio a un uomo, Giovanni Paparcuri, non ha comportato analoga mobilitazione, ma soltanto solidarietà (e moltissima) da parte della cosiddetta “gente comune”. Anzi, il caso dei simboli ha finito per coprire il caso dell’uomo, e comunque tra i due casi si registra una ben differente visibilità.
Attenzione, facciamo i doverosi distinguo: per tantissime persone non c’è stata alcuna differenza tra il solidarizzare con Paparcuri e condannare nello stesso tempo lo sfregio vandalico. Non solo: qualche importante solidarietà diretta a Paparcuri è anche arrivata, in questi giorni, anche se non pubblicamente. Ma qui pongo altra questione: perché tutti i nomi rilevanti scesi in campo contro lo sfregio ai simboli, nelle stesse ore non hanno invece detto o scritto una parola sul caso Paparcuri? Forse perché non lo ritengono uno sfregio? Forse perché uno come lui, “iddu”, non è neppure degno di essere preso in considerazione?
Devo ricordare qui, ancora una volta, alcuni fondamentali: sopravvissuto a una strage, per anni collaboratore fedele di Falcone e Borsellino, fondatore e animatore del museo del bunkerino. Se uno come lui, se uno così, non trova posto fisso nell’Antimafia ufficiale, nei suoi riti, nelle sue commemorazioni, nelle sue cerimonie, non significa che c’è qualcosa che non va? E poi, peggio mi sento: il suo caso non sarebbe il solo, bensì la punta di un malessere che avrebbe radici antiche, profonde e collettive.
Dunque, chiedo ancora: quanto vale un simbolo? E quanto vale un uomo? Gli antichi greci hanno trattato questa materia nella tragedia su Ifigenia. Trasformare una persona in un simbolo, per sacrificarla, ebbe come risultato una ingiustizia infinita, più tremenda e sanguinaria del male a cui si voleva porre rimedio con quel sacrificio. Neppure in nome degli dei, pensavano i Greci, una persona può essere imprigionata dentro un simbolo, ed essere considerata soltanto tale. Chissà cosa avrebbero pensato di un’epoca in cui i simboli sono diventati addirittura più importanti delle persone.
Senza arrivare, a proposito di un uso “disumano” e distorto dei simboli, al veterotestamentario Vello d’Oro, al barbarico concetto di idolatria o all’uso del mito a fini politici nella propaganda nazista, vorrei solo far presente che, proprio perché maneggiamo per lo più parole o simboli, non dovremmo mai trascurarne l’intima potenza. Se male o inavvertitamente utilizzata, può infatti trasformare in un attimo una vittima nell’ennesimo carnefice. Metaforicamente parlando, ovviamente. PIERO MELATI