ARCHIVIO 🟧 LEONARDO MESSINA: arrestato a Como, BORSELLINO lo interroga fino a due giorni prima di essere ammazzato

Dall’ “AGENDA GRIGIA” del dottor Borsellino 


 

 

 

AUDIO – “Poco prima di essere ammazzato Borsellino mi disse: è arrivata la mia ora, non ci vedremo più”


 Martedì 30 giugno 1992 In un appartamento segreto dello SCO a Roma Paolo Borsellino, Vittorio Aliquò ed Antonio Manganelli iniziano a stilare un verbale delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Messina. Sarà il primo di una serie di interrogatori che effettuerà il giudice Borsellino tra giugno e luglio 92.
Messina illustra la centralità degli appalti pubblici nel sistema che lega in Sicilia i mafiosi, i politici e gli imprenditori. In questo settore un ruolo chiave è rivestito da Angelo Siino, detto “il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”. Inoltre Messina cita esplicitamente il gruppo Ferruzzi come uno dei punti referenti imprenditoriali di Cosa Nostra: “Riina è interessato alla Calcestruzzi spa, che agisce in campo nazionale.”.


Sottoposto a fermo a Como nell’aprile del 1992 per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di armi, nel giugno dello stesso anno iniziò a collaborare con l’A.G.


Verbale interrogatorio di Paolo Borsellino 30.6.1992



La sentenza primo grado del processo Leopardo può essere visionata al seguente link

SENTENZA LEOPARDO 1° GRADO


5.12.1992 – LEONARDO MESSINA: «Potevano evitare le stragi di mafia»


“Borsellino mi disse: è la mia ora”

Leonardo Messina fu arrestato nel ’92 e cominciò a collaborare col magistrato poi ucciso in via D’Amelio “Lo vedevo nervoso e gli chiesi: che c’è, dottore? Rispose: non ci vedremo più. Due giorni dopo, l’attentato”

 

Leonardo Messina nato San Cataldo e collaboratore di giustizia, ha contribuito all’arresto di 200 mafiosi collaborando con il giudice PaoloBorsellino. Soprannominato “Narduzzo”, già a 23 anni fu condannato a 4 anni per furto.
Diventato uomo d’onore, fu uomo di fiducia di Giuseppe Madonia, e venne spesso incarcerato per vari reati. Rimase comunque a lavorare in una miniera fino al 1984 quando venne accusato di essere il mandante di un omicidio, accusa dalla quale venne assolto nel 1991. Tornato a svolgere la routine mafiosa (tra traffico di droga e agguati ad altri uomini d’onore) fu arrestato nel 1992 e iniziò a collaborare con la giustizia: grazie al suo contributo Paolo Borsellino mise in atto l’Operazione Leopardo che mise in carcere 200 mafiosi. L’operazione Leopardo fu coordinata da Giovanni Tinebra, Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta, operazione fatta nel mese di novembre del 1992, 4 mesi dopo la morte di Paolo Borsellino. 
Fu il primo a nominare mafioso l’onorevole Giulio Andreotti e la Stidda, concorrente di Cosa Nostra nella Sicilia meridionale. Era inserito sin dall’aprile del 1982 nella qualità di “uomo d’onore” nella “famiglia” mafiosa di S. Cataldo di COSA NOSTRA, nella quale prima di lui avevano militato da varie generazioni i suoi ascendenti per linea paterna e materna, ad eccezione del padre. 
Aveva raggiunto nell’ambito di tale “famiglia” la carica di capodecina e poi di vice rappresentante ed aveva avuto stretti rapporti personali con i più autorevoli esponenti di COSA NOSTRA delle provincie di Caltanissetta, Agrigento ed Enna, anche se le persone cui era maggiormente legato si erano trovate in contrasto con la linea di MADONIA Giuseppe, rappresentante della provincia di Caltanissetta.  Sottoposto a fermo a Como nell’aprile del 1992 per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di armi, nel giugno dello stesso anno iniziò a collaborare con l’A.G., facendo luce su varie vicende criminali che avevano interessato COSA NOSTRA sia all’interno della provincia nissena che in ambito territoriale più vasto. Sulla base degli elementi disponibili appare ragionevole ritenere che la scelta collaborativa del MESSINA non sia stata determinata in misura prevalente dall’intento di avvalersi dei benefici premiali, atteso che egli non era indagato per reati della gravità di quelli di cui si è spontaneamente accusato, tra i quali alcuni omicidi. Piuttosto può sostenersi che abbiano influito notevolmente sul collaborante le vicende interne al suo sodalizio mafioso, che gli avevano fatto sperimentare in modo assai pesante, con la perdita di amici a cui era assai legato e con le stesse critiche che gli erano state mosse dall’interno, le conseguenze della fitta trama di congiure e complotti che si nasconde sotto il velo ufficiale della solidarietà del gruppo mafioso.
La stessa uccisione di MICCICHE’ Liborio, esponente di spicco di COSA NOSTRA nell’Ennese, avvenuta a Pietraperzia tredici giorni prima dell’arresto del MESSINA per opera dello stesso sodalizio mafioso anziché di rivali esterni, doveva aver accentuato la crisi di quest’ultimo ed averlo indotto a ritenere che non fosse il caso di sacrificare la propria libertà personale, dopo l’esperienza già fatta nel 1984/85, sull’altare di una solidarietà criminale che probabilmente non avrebbe sottratto neanche lui al concreto pericolo di vita.  
Si è sostenuto da parte di taluni difensori che il MESSINA non potesse essere a conoscenze delle vicende interne al sodalizio denominato COSA NOSTRA perché in realtà inserito nel gruppo rivale degli “stiddari”, costituito da fuoriusciti della prima organizzazione. In realtà, tale tesi fa leva sulla vicinanza del MESSINA a persone che non erano allineate con la corrente dominante all’interno della provincia mafiosa nissena e gravitante intorno al MADONIA ma propone dei fatti una lettura non condivisibile alla stregua delle complessive emergenze processuali. E, invero, nell’ambito delle province in cui operava COSA NOSTRA non esistevano solo i gruppi che alla medesima si contrapponevano, spesso costituiti da ex affiliati a quest’ultima associazione, bensì anche fazioni che dall’interno di essa cercavano in modo più o meno occulto di opporsi all’egemonia della corrente filocorleonese, che nelle varie province aveva assunto non senza contrasti il controllo delle “famiglie” mafiose, forte dell’appoggio della provincia di Palermo, in cui i corleonesi avevano l’assoluto predominio. Gli omicidi di taluni esponenti di spicco delle provincia di Agrigento, come ad esempio quello di COLLETTI Carmelo, del quale hanno riferito nel presente processo vari collaboratori in modo uniforme, riconducendolo ad elementi interni a COSA NOSTRA di quella provincia, puniti per tale iniziativa adottata senza l’intervento dell’organismo interprovinciale, o quello dello stesso MICCICHE’ Liborio della provincia ennese, costituiscono solo alcuni degli esempi dei contrasti esistenti all’interno di COSA NOSTRA nelle varie province. Da tali contrasti non era certamente immune la provincia di Caltanissetta, dove storicamente aveva ricoperto un ruolo di preminenza DI CRISTINA Giuseppe, legato alle correnti palermitane anticorleonesi dei BONTATE e degli INZERILLO e strenuo oppositore del ruolo egemonico che stava assumendo il RIINA all’interno di COSA NOSTRA dietro il paravento di GRECO Michele, formalmente capo della commissione provinciale di Palermo, nonché di quella regionale dopo CALDERONE Giuseppe, ma in realtà succube del RIINA. Quest’ultimo anche all’interno dello stesso mandamento di Ciaculli, in cui il GRECO era inserito, aveva potuto contare per lungo tempo sull’appoggio determinante di uno spietato esecutore dei più orrendi misfatti decisi dal RIINA quale GRECO Giuseppe, inteso “Pino scarpuzzedda” o “scarpa”.
Il DI CRISTINA aveva finito per pagare con la vita questa sua contrapposizione all’egemonia corleonese, essendo stato ucciso a Palermo il 30 maggio 1978, ma all’interno della sua provincia erano molti i personaggi anche di spicco che gli erano rimasti legati e che non avevano gradito l’avvento al potere del filocorleonese MADONIA Giuseppe, figlio del boss mafioso di Vallelunga MADONIA Francesco, ucciso per iniziativa del DI CRISTINA l’8 aprile 1978, dopo che quest’ultimo era scampato ad un primo attentato ai suoi danni nel quale avevano perso la vita il 21 novembre 1977 DI FEDE Giuseppe e NAPOLITANO Carlo, compagni di lavoro del DI CRISTINA. Non tutti coloro che erano vicini al DI CRISTINA avevano scelto, come il RIGGIO, la strada dell’uscita da COSA NOSTRA e della formazione di gruppi contrapposti, riconducibili alla denominazione degli “stiddari”, in quanto altri avevano preferito rimanere all’interno delle “famiglie” di appartenenza, come i CALI’ (legati al MESSINA da vincoli di parentela) di San Cataldo, paese questo in cui la base degli “uomini d’onore” che costituivano quella “famiglia” non era affatto devota al Madonia e, infatti, aveva preferito eleggere come capodecina il MESSINA per meglio controllare il rappresentante della “famiglia”, più vicino invece al MADONIA.
Né era casuale il fatto che dopo l’omicidio di TERMINIO Nicolò, avvenuto poco prima dell’affiliazione del MESSINA a COSA NOSTRA, il mandamento, che prima era retto dalla “famiglia” di San Cataldo, fosse stato assegnato a quella di Mussomeli, ritenuta più controllabile dal MADONIA e che in epoca ancora successiva la “famiglia” di San Cataldo ebbe a transitare nel mandamento retto dalla “famiglia” di Vallelunga. A differenza dei CALI’ il MESSINA aveva però saputo evitare aperti contrasti col MADONIA, che aveva quindi preferito tenerlo vicino per non esasperare il conflitto con gli “uomini d’onore” di San Cataldo. 
Il MESSINA era, quindi, certamente in condizione di conoscere nel dettaglio le vicende interne di COSA NOSTRA della provincia di Caltanissetta e di quelle limitrofe e le sue circostanziate dichiarazioni in tal senso hanno già superato positivamente il vaglio del giudizio di primo e secondo grado nel processo “Leopardo”, nei confronti di affiliati alle “famiglie” di quella provincia, almeno nei casi in cui è stato possibile acquisire dei riscontri esterni, in mancanza dei quali le sole dichiarazioni del chiamante in correità, pur se intrinsecamente attendibili, non possono supportare un’affermazione di responsabilità, secondo i criteri di valutazione della prova già sopra evidenziati.
Nel presente processo sono state anche acquisite le dichiarazioni rese dal MESSINA all’udienza del 24.2.1996 nel giudizio di primo grado per la strage di Capaci ed il suo contributo deve ritenersi rilevante per quanto concerne la conoscenza dell’organigramma mafioso della provincia nissena ed i rapporti tra questa provincia e le altre in cui operava COSA NOSTRA – intrattenuti anche mediante quell’organismo di raccordo costituito dalla commissione regionale – hanno trovato la conferma di altre convergenti dichiarazioni. Per quanto poi riguarda le dichiarazioni del MESSINA sulla riunione tenutasi in provincia di Enna nel febbraio del 1992, si rinvia alla trattazione svolta nella sede specifica.
Trattativa Stato-mafia, Leonardo Messina: “Borsellino mi disse che era arrivata la sua ora”In udienza il collaboratore di giustizia parla anche di Giulio Andreotti definendolo “punciutu” “La mia crisi è anche di tipo morale nonostante già mio nonno e molti parenti fossero uomini d’onore non mi riconosco più nell’organizzazione e quando ho sentito in televisione la vedova dell’agente di scorta, Vito Schifani, parlare e pregare gli uomini della mafia, le sue parole mi hanno colpito come macigni e ho deciso di uscire da questa organizzazione nell’unico modo che è possibile, cioè collaborando con la giustizia”. Era il 30 giugno 1992 quando Leonardo Messina rilasciava queste dichiarazioni ai pm di Palermo che lo stavano interrogando.
Nei giorni successivi lo stesso Messina aveva chiesto di essere sentito direttamente da Paolo Borsellino. E così era stato. “Borsellino mi disse: a noi serve solo la verità, non le congetture o i pensieri. E così ho iniziato a collaborare parlando per ore mentre lui mi stava ad ascoltare”. Ed è esattamente ricordando quell’ultimo interrogatorio del 17 luglio 1992, appena due giorni prima della strage di via D’Amelio, che lo stesso “Narduzzo” ha fatto rivivere in aula la tensione del giudice dei giorni prima della strage. “Quel giorno – ha raccontato il collaboratore durante l’udienza al processo sulla trattativa – il dottore Borsellino era molto nervoso, fumava in continuazione. Accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: ‘signor Messina, non ci vediamo più, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto’. Sapeva di morire…”. Seduto tra i banchi c’era anche il fratello del giudice, Salvatore Borsellino. Nel sentire quelle parole è rimasto assorto nei suoi pensieri. L’immagine di Paolo Borsellino che, con piena consapevolezza, affronta la morte ha preso forma. DIARIO CIVILE ROBY GRECO


Pentito Leonardo Messina, il 17 luglio Borsellino mi disse che era arrivata la sua ora

 


Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie XVIII Legislatura  (dal 23 marzo 2018)

 

  • Pubblicazione dell’audio integrale relativo al resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA del 4 dicembre 1992 – Commissione Antimafia XI Legislatura
  • Nel corso del ciclo delle audizioni svolte in plenaria dalla Commissione Parlamentare Antimafia, in ambito della XI Legislatura, Presidente onorevole Luciano Violante, il 4 dicembre, viene audito il collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA
  • Una deposizione storica dinanzi alla Commissione Antimafia del pentito che il 30 giugno 1992, iniziava la collaborazione con il giudice Paolo Borsellino, interrotta pochi giorni dopo a seguito della strage di via d’Amelio. L’uomo d’onore della famiglia mafiosa di San Cataldo si sofferma sui legami tra mafia e politica e sui rapporti da lui intrattenuti con il SISDE a partire dal 1986, con particolare riferimento alle indicazioni che dichiara di aver fornito su come catturare gli esponenti della “Commissione mondiale di Cosa Nostra riunita”, ovvero i vertici di Cosa nostra e di alcune sue ramificazioni a livello internazionale.
  • L’audizione in Commissione Antimafia riprende in qualche modo, nelle forme proprie dell’inchiesta parlamentare, il filo interrotto della collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.

Il primo interrogatorio di Leonardo Messina, 30 giugno 1992

 

È il 30 giugno 1992. Sono trascorse cinque settimane dalla strage di Capaci. Leonardo Messina, mafioso e uomo di fiducia del boss Giuseppe Madonia, ha deciso di diventare un collaboratore di giustizia. Sono le 12:30 quando, il dottor Paolo Borsellino e il dottor Antonio Manganelli della Polizia di Stato, incontrano Messina a Roma, presso un domicilio protetto.

“Signor giudice quei due delitti, la morte di Salvo Lima e di Giovanni Falcone, sono stati decisi in quella riunione, sono anelli di un’ unica strategia. La commissione interprovinciale, quella che noi chiamiamo Regione, non si riunisce per niente, si riunisce soltanto per decidere cose di gravità eccezionale. Solo adesso ho capito, signor giudice: ad Enna, in quel giorno di febbraio, hanno deciso tutto. Solo ora sono in grado di mettere insieme cose diverse, solo ora ho capito. Ascolti, le voglio raccontare tutto”.

Il dottor Borsellino interrompe Messina. Vuole capire la sua storia all’interno dell’organizzazione, le sue motivazioni alla collaborazione prima di continuare l’interrogatorio. Messina inizia a raccontarsi. Dopo una breve pausa per il pranzo, verso le 16:00, l’interrogatorio riprende.l quanto stretti. C’era uno della nostra famiglia, uno che faceva il macellaio – Vincenzo Burcheri (ndr) – che avevamo posato. Che significa? Significa che era stato sostanzialmente emarginato dalla famiglia, nessuno gli diceva più niente, nessuno lo prendeva più in considerazione. Poi d’improvviso vedo che uno dei consiglieri di Piddu Madonia comincia a frequentare la macelleria di Burcheri. Che cosa stava succedendo? Vengo a sapere che Piddu aveva deciso di tenere di nuovo in conto il macellaio perché aveva in mano i siracusani e che noi utilizzavamo i siracusani per compiere dei delitti nella nostra zona. Poi, vengo arrestato. Nel carcere di Caltanissetta Giuseppe Di Benedetto mi confermò questi buoni rapporti. Mi disse che il capomandamento di Riesi, Pino Cammarata, uomo fidatissimo di Piddu, e Cataldo Terminio, che era un soldato della mia famiglia e anche consigliere provinciale di Caltanissetta, avevano chiesto ai siracusani due telecomandi. Sì, due telecomandi per esplosivo. Questi telecomandi, mi fu detto, erano stato procurati da Agostino Urso. Sì, quello che hanno ucciso due giorni fa. Cammarata e Terminio avevano contattato Urso attraverso Valentino Salafia, fratello di Nunzio Salafia”.

Il dottor Borsellino conosce bene tutte le persone indicate da Messina.

“Ma è quello che è successo, in carcere, dopo la strage di Capaci che mi ha dato la certezza che quei due telecomandi erano serviti per far saltare in aria il dottor Falcone. La sera di quel 23 maggio, appena in carcere sapemmo della morte di Falcone, ci fu come un boato. Ci furono grida di gioia. Esultavano tutti. Furono proprio gli uomini d’onore di Cosa Nostra a intervenire per calmare i più agitati, per calmare quella gioia. Volevamo evitare provvedimenti disciplinari, tutto qui. Ce ne volevamo stare tranquilli. Tutto qui. Quando tornò la calma, nella mia cella, erano sei gli uomini d’onore, brindammo. Ricordo che c’erano Emanuele Argenti, il figlio di Guido, Maurizio Argenti. Poi uscimmo nel corridoio che si attraversa per andare all’aria. Mi venne incontro Giuseppe Di Benedetto. Mi abbracciò per congratularsi, mi baciò. Pensava che l’attentato a Falcone fosse stato commesso utilizzando quei telecomandi e con il concorso della mia famiglia. Quel Di Benedetto la sapeva lunga, aveva notizie di prima mano perché era in cella con un altro Agostino Urso, il cugino di quell’ Agostino Urso ucciso al Sayonara. E d’altronde non mi meravigliai che i siracusani avessero dei telecomandi, dispongono di un gran quantitativo d’ armi, hanno anche tre bazooka”.

Grazie alle dichiarazioni di Leonardo Messina, il dottor Paolo Borsellino riuscì a metter in atto l’Operazione Leopardo, che porto in carcere oltre duecento mafiosi. L’Operazione Leopardo fu coordinata da Giovanni Tinebra, Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta e si concretizzò nel mese di novembre del 1992, 4 mesi dopo la strage di via d’Amelio nella quale morirono il dottor Paolo Borsellino e la sua scorta.  (Roby Greco – DIARIO CIVILE


Paolo Borsellino interroga Leonardo Messina,… Leonardo Messina, mafioso e uomo di fiducia del boss Giuseppe Madonia, ha deciso di diventare un collaboratore di giustizia. Sono le 12,30 quando il dottor Paolo Borsellino e il dottor Antonio Manganelli, della Polizia di Stato, lo incontrano a Roma, presso un domicilio protetto È il 30 giugno 1992. Sono trascorse cinque settimane dalla strage di Capaci. Leonardo Messina, mafioso e uomo di fiducia del boss Giuseppe Madonia, ha deciso di diventare un collaboratore di giustizia. Sono le 12,30 quando, il dottor Paolo Borsellino e il dottor Antonio Manganelli della Polizia di Stato, incontrano Messina a Roma, presso un domicilio protetto. “Signor giudice quei due delitti, la morte di Salvo Lima e di Giovanni Falcone, sono stati decisi in quella riunione, sono anelli di un’ unica strategia. La commissione interprovinciale, quella che noi chiamiamo Regione, non si riunisce per niente, si riunisce soltanto per decidere cose di gravità eccezionale. Solo adesso ho capito, signor giudice: ad Enna, in quel giorno di febbraio, hanno deciso tutto. Solo ora sono in grado di mettere insieme cose diverse, solo ora ho capito. Ascolti, le voglio raccontare tutto”. Il dottor Borsellino interrompe Messina. Vuole capire la sua storia all’interno dell’organizzazione, le sue motivazioni alla collaborazione prima di continuare l’interrogatorio. Messina inizia a raccontarsi. Dopo una breve pausa per il pranzo, verso le 16, l’interrogatorio riprende. “Già sapevo, signor giudice, che i rapporti della famiglia di Caltanissetta con i siracusani, che non sono uomini d’ onore, erano stretti, ma non pensavo quanto stretti. C’era uno della nostra famiglia, uno che faceva il macellaio – Vincenzo Burcheri (ndr) – che avevamo posato. Che significa? Significa che era stato sostanzialmente emarginato dalla famiglia, nessuno gli diceva più niente, nessuno lo prendeva più in considerazione. Poi d’improvviso vedo che uno dei consiglieri di Piddu Madonia comincia a frequentare la macelleria di Burcheri. Che cosa stava succedendo? Vengo a sapere che Piddu aveva deciso di tenere di nuovo in conto il macellaio perché aveva in mano i siracusani e che noi utilizzavamo i siracusani per compiere dei delitti nella nostra zona. Poi, vengo arrestato. Nel carcere di Caltanissetta Giuseppe Di Benedetto mi confermò questi buoni rapporti. Mi disse che il capomandamento di Riesi, Pino Cammarata, uomo fidatissimo di Piddu, e Cataldo Terminio, che era un soldato della mia famiglia e anche consigliere provinciale di Caltanissetta, avevano chiesto ai siracusani due telecomandi. Sì, due telecomandi per esplosivo. Questi telecomandi, mi fu detto, erano stato procurati da Agostino Urso. Sì, quello che hanno ucciso due giorni fa. Cammarata e Terminio avevano contattato Urso attraverso Valentino Salafia, fratello di Nunzio Salafia”. Il dottor Borsellino conosce bene tutte le persone indicate da Messina. “Ma è quello che è successo, in carcere, dopo la strage di Capaci che mi ha dato la certezza che quei due telecomandi erano serviti per far saltare in aria il dottor Falcone. La sera di quel 23 maggio, appena in carcere sapemmo della morte di Falcone, ci fu come un boato. Ci furono grida di gioia. Esultavano tutti. Furono proprio gli uomini d’onore di Cosa Nostra a intervenire per calmare i più agitati, per calmare quella gioia. Volevamo evitare provvedimenti disciplinari, tutto qui. Ce ne volevamo stare tranquilli. Tutto qui. Quando tornò la calma, nella mia cella, erano sei gli uomini d’onore, brindammo. Ricordo che c’erano Emanuele Argenti, il figlio di Guido, Maurizio Argenti. Poi uscimmo nel corridoio che si attraversa per andare all’aria. Mi venne incontro Giuseppe Di Benedetto. Mi abbracciò per congratularsi, mi baciò. Pensava che l’attentato a Falcone fosse stato commesso utilizzando quei telecomandi e con il concorso della mia famiglia. Quel Di Benedetto la sapeva lunga, aveva notizie di prima mano perché era in cella con un altro Agostino Urso, il cugino di quell’ Agostino Urso ucciso al Sayonara. E d’altronde non mi meravigliai che i siracusani avessero dei telecomandi, dispongono di un gran quantitativo d’ armi, hanno anche tre bazooka“. Grazie alle dichiarazioni di Leonardo Messina, il dottor Paolo Borsellino riuscì a metter in atto l’Operazione Leopardo, che portò in carcere oltre duecento mafiosi. L’Operazione Leopardo fu coordinata da Giovanni Tinebra, Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta, e fu attuata nel mese di novembre del 1992, 4 mesi dopo la strage di via d’Amelio nella quale morirono il dottor Paolo Borsellino e la sua scorta.

 La potenza di Cosa Nostra nel nissenoLa deposizione di Leonardo Messina si è protratta attraverso un excursus storico che ha aperto uno spaccato importantissimo sulla potenza della mafia del nisseno. “Sono uomo d’onore che ha giurato due volte, la prima da uomo d’onore riservato con Luigi Calì, successivamente c’è stata una guerra di mafia, mi hanno richiamato e ho dovuto giurare pubblicamente con la famiglia San Cataldo nel 1982”. “Dall’82 fino a quando ho collaborato con la giustizia ho rivestito degli incarichi in Cosa Nostra a Caltanissetta. Nel 1985 fui nominato sotto capo”, sottolinea ulteriormente. Nel suo racconto c’è pure un aspetto legato alla sua prima relazione sentimentale. “Sono nato e cresciuto nell’ambiente di Cosa Nostra, in particolare con gli uomini d’onore di Caltanissetta.  Quando mi sono sposato nel 1978 abbiamo fatto con mia moglie un giuramento in chiesa, davanti a Dio, in cui abbiamo giurato di onorare la mafia tutta la vita”. Proseguendo nella sua deposizione l’ex boss ha ricordato di aver vissuto “il trapasso tra la vecchia Cosa Nostra e quella voluta dai corleonesi. Ho assistito al cambiamento – ha specificato – e alla distruzione di Cosa Nostra”.

Andreotti “punciutu”  Nel racconto del collaboratore di giustizia è stata ulteriormente approfondita la reazione dei boss mafiosi in merito alla Corte di Cassazione che doveva occuparsi del Maxi processo. “In Cosa Nostra – ha sottolineato Messina –, durante il Maxi processo veniva detto che tutto si sarebbe ridotto in una bolla di sapone. Non ci sarebbero state grandi condanne e tutto sarebbe andato bene”. “Ci veniva detto – ha proseguito – che in Cassazione avrebbero buttato tutto giù. Si riteneva che sarebbe finito in barzelletta. Lillo Rinaldi, che frequentava Piddu Madonia, disse che Andreotti era ‘punciutu’ (punto, cioè affiliato formalmente, ndr), mentre c’era chi diceva che Andreotti fosse il figlio di un Papa”. “Salvo Lima e Andreotti – ha quindi ribadito il collaboratore – erano i politici che dovevano garantire tutto questo e che poi il maxi processo sarebbe stato assegnato al giudice Carnevale in Cassazione e non ci sarebbero stati problemi”. “L’ottimismo cessa quando i politici si allontanano e non riescono a far assegnare il processo al giudice Carnevale – ha spiegato successivamente Messina –. Iniziano le recriminazioni di Cosa Nostra nei confronti del vertice politico nazionale. C’è stato un momento in cui in Cosa Nostra fu deciso di non votare per la Democrazia cristiana ma per i socialisti”. “Io – ha aggiunto – ho ricevuto l’ordine preciso di votare e far votare per i socialisti. L’onorevole Martelli quando è arrivato al potere, scavalcando l’ala craxiana, non ha mantenuto i patti. Io non partecipavo alle riunioni ma venivo messo a conoscenza delle decisioni prese”, ha quindi evidenziato.

L’ombra della Lega “Io ero con Borino Miccichè – ha proseguito Messina – e altri uomini d’onore e mi è stato detto chiaramente, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, che c’era una commissione nazionale che deliberava tutte le decisioni più importanti. Una commissione in cui sedevano i rappresentanti di altre organizzazioni criminali e il cui capo era Totò Riina”. “Un giorno c’era Umberto Bossi a Catania. Dissi a Borino Miccichè: ‘questo ce l’ha con i meridionali, vado e l’ammazzo’. Mi disse di fermarmi: ‘questo è solo un pupo. L’uomo forte della Lega è Miglio (Gianfranco, ndr) che è in mano ad Andreotti’. Si sarebbe creata una Lega del Sud e la mafia si sarebbe fatta Stato”. Di tutto ciò Leonardo Messina aveva già parlato ai magistrati in quella famosa inchiesta denominata “Sistemi criminali”, successivamente archiviata, i cui fascicoli sono stati acquisiti al processo sulla trattativa Stato-mafia. Nei faldoni del 2001 c’erano già le sue dichiarazioni nelle quali l’ex uomo d’onore di San Cataldo aveva fatto riferimento a svariate riunioni tra i capi dell’organizzazione, tenutesi tra il ’91 ed il 92, nel corso delle quali discutevano proprio di un “progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all’interno di una separazione dell’Italia in tre Stati. In tal modo Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria. Lo stesso Messina aveva parlato anche di una “Lega Sud”, che sarebbe stata risposta naturale alla Lega Nord. Quest’ultima avrebbe visto proprio Gianfranco Miglio quale suo vero artefice. Dietro di lui spuntavano le ombre di Gelli e Andreotti. E proprio Miglio avrebbe poi raccontato, nel ’99, di essersi trovato a Villa Madama, a trattare di nascosto con Andreotti. Da evidenziare che molte dichiarazioni rilasciate da esponenti di diverse organizzazioni criminali, oltre Cosa Nostra, quali ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita convergono proprio su questi punti. Di fatto Cosa Nostra sembrava a tutti gli effetti intenzionata a sfruttare il successo politico della Lega Nord in modo da favorire la secessione della Sicilia e delle regioni meridionali in genere, con lo scopo di gestire con maggior facilità, a livello politico, gli interessi illeciti della criminalità. “Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra”. Era il 14 dicembre 1992 quando Leonardo Messina rendeva queste dichiarazioni davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia. A distanza di 21 anni quelle parole sono tornate ad echeggiare in un’aula di giustizia.

Potere economico e potere punitivo Parlando della forza della mafia l’ex boss Messina ha specificato che non ha eguali in quanto detiene “potere economico e potere punitivo”. Sugli spalti ad ascoltare attentamente erano presenti diversi studenti palermitani, alcuni dei quali del Liceo Classico Umberto I; alcuni esponenti delle Agende Rosse (anche da altre parti d’Italia) e dell’associazione studentesca ContrariaMente. Decisamente molto interessante è stato il riferimento del collaboratore di giustizia all’avvocato Raffaele Bevilacqua. Immediatamente è tornata alla memoria la recente inchiesta giudiziaria (successivamente archiviata nel 2004) sull’ex vicepresidente diessino dell’ARS, Vladimiro Crisafulli, sorpreso da un’intercettazione ambientale a parlare di politica e affari proprio con l’avvocato Bevilacqua, già rappresentante di Cosa Nostra nell’ennese, nonché ex consigliere provinciale DC. L’ennesima dimostrazione dello strettissimo connubio Mafia e politica. Del tutto inquietante l’accenno alla “nave piena di armi” nella disponibilità di Cosa Nostra, armi che servivano ad “un sistema” per “fare la guerra”. Ed è proprio nei confronti di quel “sistema criminale” che si continuerà a cercare di fare luce. Le prossime udienze dei giorni 11, 12 e 13 dicembre saranno dedicate all’audizione di Giovanni Brusca in trasferta a Milano. ANTIMAFIA DUEMILA di Lorenzo Baldo – 5 dicembre 2013 POST > 30 giugno 1992


Corte assise Caltanissetta 26 settembre 1997 –  MESSINA Leonardo Era inserito sin dall’aprile del 1982 nella qualità di “uomo d’onore” nella “famiglia” mafiosa di S. Cataldo di COSA NOSTRA, nella quale prima di lui avevano militato da varie generazioni i suoi ascendenti per linea paterna e materna, ad eccezione dei genitori. Aveva raggiunto nell’ambito di tale “famiglia” la carica di capodecina e di vice rappresentante ed aveva avuto stretti rapporti personali con i più autorevoli esponenti di COSA NOSTRA delle provincie di Caltanissetta, Agrigento ed Enna, anche se le persone cui era maggiormente legato si erano trovate in contrasto con la linea di MADONIA Giuseppe, rappresentante della provincia di Caltanissetta. Sottoposto a fermo a Como nell’aprile del 1992 per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di armi, nel giugno dello stesso anno ha iniziato a collaborare con l’A.G., facendo luce su varie vicende criminali che avevano interessato COSA NOSTRA sia all’interno della provincia nissena che in ambito territoriale più vasto. Sulla base degli elementi disponibili appare ragionevole ritenere che la scelta collaborativa del MESSINA non sia stata determinata in misura prevalente dall’intento di avvalersi dei benefici premiali, atteso che egli non era indagato per gravi reati e si è, invece, autoaccusato di omicidi ed altri gravi delitti. Piuttosto può sostenersi che abbiano influito notevolmente sul collaborante le vicende interne al suo sodalizio mafioso, che gli avevano fatto sperimentare in modo assai pesante, con la perdita di amici a cui era assai legato e con le stesse critiche che gli erano state mosse dall’interno, le conseguenze della fitta trama di congiure e complotti che si nasconde sotto il velo ufficiale della solidarietà del gruppo mafioso. La stessa uccisione di MICCICHE’ Liborio, esponente di spicco di COSA NOSTRA nell’Ennese, avvenuta a Pietraperzia tredici giorni prima dell’arresto del MESSINA per opera dello stesso sodalizio mafioso anziché di rivali esterni, doveva aver accentuato la crisi di quest’ultimo ed averlo indotto a ritenere che non fosse il caso di sacrificare la propria libertà personale, dopo l’esperienza già fatta nel 1984/85, sull’altare di una solidarietà criminale che probabilmente non avrebbe sottratto neanche lui al concreto pericolo di vita. Si è sostenuto da parte di taluni difensori che il MESSINA non potesse essere a conoscenze di vicende interne al sodalizio denominato COSA NOSTRA perché in realtà inserito nel gruppo rivale degli “stiddari”, costituito da fuoriusciti della prima organizzazione. In realtà, tale tesi fa leva sulla vicinanza del MESSINA a persone che non erano allineate con la corrente dominante all’interno della provincia mafiosa nissena e gravitante intorno al MADONIA ma propone dei fatti una lettura non condivisibile alla stregua delle complessive emergenze processuali. E, invero, nell’ambito delle province in cui operava COSA NOSTRA non esistevano solo i gruppi che alla medesima si contrapponevano, spesso costituiti da ex affiliati a quest’ultima associazione, bensì anche fazioni che dall’interno di essa cercavano in modo più o meno occulto di opporsi all’egemonia della corrente filocorleonese, che nelle varie province aveva assunto non senza contrasti il controllo delle “famiglie” mafiose, forti dell’appoggio della provincia di Palermo, in cui i corleonesi avevano l’assoluto predominio. Gli omicidi di taluni esponenti di spicco delle provincia di Agrigento, come ad esempio quello di COLLETTI Carmelo, del quale hanno riferito nel presente processo vari collaboratori in modo uniforme, riconducendolo ad elementi interni a COSA NOSTRA di quella provincia, puniti per tale iniziativa adottata senza l’intervento dell’organismo interprovinciale, o quello dello stesso MICCICHE’ Liborio della provincia ennese, costituiscono solo alcuni degli esempi dei contrasti esistenti all’interno di COSA NOSTRA nelle varie province. Da tali contrasti non era certamente immune la provincia di Caltanissetta, dove storicamente aveva ricoperto un ruolo di preminenza DI CRISTINA Giuseppe, legato alle correnti palermitane anticorleonesi dei BONTATE e degli INZERILLO e strenuo oppositore del ruolo egemonico che stava assumendo il RIINA all’interno di COSA NOSTRA dietro il paravento di GRECO Michele, formalmente capo della Commissione Provinciale di Palermo e di quella Regionale, ma in realtà succube del RIINA, che anche all’interno dello stesso mandamento di Ciaculli, in cui il GRECO era inserito, aveva potuto contare per lungo tempo sull’appoggio determinante di uno spietato esecutore dei più orrendi misfatti decisi dal RIINA quale GRECO Giuseppe, inteso “Pino scarpuzzedda” o “scarpa”. Il DI CRISTINA aveva finito per pagare con la vita questa sua contrapposizione all’egemonia corleonese, essendo stato ucciso a Palermo il 30 maggio 1978, ma all’interno della sua provincia erano molti i personaggi anche di spicco che gli erano rimasti legati e che non avevano gradito l’avvento al potere del filocorleonese MADONIA Giuseppe, figlio del boss mafioso di Vallelunga MADONIA Francesco, ucciso per iniziativa del DI CRISTINA l’8 aprile 1978, dopo che quest’ultimo era scampato ad un primo attentato ai suoi danni nel quale avevano perso la vita il 21.11.1977 tali DI FEDE e NAPOLITANO, a lui vicini. Non tutti questi personaggi vicini al DI CRISTINA avevano scelto la strada dell’uscita da COSA NOSTRA e della formazione di gruppi contrapposti, riconducibili alla denominazione degli “stiddari”, in quanto altri avevano preferito ed erano riusciti a rimanere all’interno delle “famiglie” di appartenenza, come i CALI’ (legati al MESSINA da vincoli di parentela) di San Cataldo, paese questo in cui la base degli “uomini d’onore” che costituivano quella “famiglia” non era di stretta osservanza filo – Madonia e, infatti, aveva preferito eleggere come capodecina il MESSINA per meglio controllare il rappresentante della “famiglia”, più vicino al MADONIA. Né era casuale il fatto che dopo l’omicidio di TERMINIO Nicolò, avvenuto poco prima dell’affiliazione del MESSINA a COSA NOSTRA, il mandamento, che prima era retto dalla “famiglia” di San Cataldo, fosse stato assegnato a quella di Mussomeli, ritenuta più controllabile dal MADONIA e che in epoca ancora successiva la “famiglia” di San Cataldo ebbe a transitare nel mandamento retto dalla “famiglia” di Vallelunga. Il MESSINA era, pertanto, in condizione di conoscere nel dettaglio le vicende interne di COSA NOSTRA della provincia di Caltanissetta e di quelle limitrofe e le sue circostanziate dichiarazioni in tal senso hanno già superato positivamente il vaglio del giudizio di primo grado nel processo “Leopardo”, nei confronti di affiliati alle “famiglie” di quella provincia, laddove ovviamente hanno trovato il conforto di riscontri esterni, in mancanza dei quali le sole dichiarazioni del chiamante in correità, pur se intrinsecamente attendibili, non possono supportare un’affermazione di responsabilità, secondo i criteri di valutazione della prova già sopra evidenziati. Nel presente processo le dichiarazioni del MESSINA in ordine al funzionamento degli organi di vertice di COSA NOSTRA a livello regionale hanno trovato la conferma di altre convergenti dichiarazioni, mentre quelle concernenti la riunione tenutasi in provincia di Enna nel febbraio del 1992 saranno specificamente esaminate più avanti nella sede propria.


Pubblicazione dell’audio integrale relativo al resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA del 4 dicembre 1992 – Commissione Antimafia XI Legislatura

 

Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie XVIII Legislatura (dal 23 marzo 2018)

  • Pubblicazione dell’audio integrale relativo al resoconto stenografico dell’audizione del collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA del 4 dicembre 1992 – Commissione Antimafia XI Legislatura
  • Nel corso del ciclo delle audizioni svolte in plenaria dalla Commissione Parlamentare Antimafia, in ambito della XI Legislatura, Presidente onorevole Luciano Violante, il 4 dicembre, viene audito il collaboratore di giustizia Leonardo MESSINA
  • Una deposizione storica dinanzi alla Commissione Antimafia del pentito che il 30 giugno 1992, iniziava la collaborazione con il giudice Paolo Borsellino, interrotta pochi giorni dopo a seguito della strage di via d’Amelio.L’uomo d’onore della famiglia mafiosa di San Cataldo si sofferma sui legami tra mafia e politica e sui rapporti da lui intrattenuti con il SISDE a partire dal 1986, con particolare riferimento alle indicazioni che dichiara di aver fornito su come catturare gli esponenti della “Commissione mondiale di Cosa Nostra riunita”, ovvero i vertici di Cosa nostra e di alcune sue ramificazioni a livello internazionale.
  • L’audizione in Commissione Antimafia riprende in qualche modo, nelle forme proprie dell’inchiesta parlamentare, il filo interrotto della collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.

 

File audio estratto resoconto

VERBALE AUDIZIONE


Il pentito Leonardo Messina: «Nelle logge per avere coperture e più potere»

Ciò, ovviamente, non consente alcuna criminalizzazione delle obbedienze in quanto tali che, nella loro qualità di associazioni di diritto privato, rimangono, sino a prova contraria, compagini sociali lecite meritevoli di tutela giuridica.

Ma se l’analisi lascia il campo delle occasionali devianze, del resto penalmente sanzionate, per spostarsi su quello della “normalità” dell’estrinsecarsi della massoneria, intesa, dunque, come una delle tante espressioni del legittimo associazionismo, allora diventa necessario chiedersi se essa si sia dotata di un sistema di “anticorpi” volto a salvaguardare la propria stessa sopravvivenza, oltre

che il prestigio, e se abbia forgiato le proprie caratteristiche in modo da evitare che possano risolversi in elementi di agevolazione all’infiltrazione mafiosa.

Il sistema dei controlli massonici

L’inchiesta parlamentare ha accertato che dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze, la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (come medici, avvocati, ingegneri e commercialisti), dell’imprenditoria, ma anche del pubblico impiego, con una certa presenza anche di forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, anche di taluni magistrati e politici.

Si è rilevato, inoltre, che diversi di tali professionisti massoni hanno svolto la propria attività presso enti pubblici “sensibili”, talvolta sciolti proprio per infiltrazioni mafiose.

Scarsa è, invece, la partecipazione alla massoneria delle categorie di soggetti riconducibili ai mestieri più umili o al novero dei disoccupati (salvo, ovviamente, una certa quota di giovani).

La massoneria rappresenta, dunque, un consesso in cui si ritrova l’élite delle professioni ed è il luogo, anche fisico, in cui è possibile incontrare alti burocrati, imprenditori, politici, e confidare, anche grazie al vincolo di fratellanza massonico, di trattare con costoro inter pares.

Lo diceva già il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “Molti uomini d’onore quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria (..) perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra.”

Lo stesso concetto è stato ribadito alla Commissione, con riferimento ai primi anni del 2000, da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Campanella, nella sue pregresse qualità di politico, massone e mafioso.

Anche nelle più recenti indagini giudiziarie, calabresi e siciliane, ricorre la medesima affermazione che appare ancor più vera alla luce del mutamento delle mafie, ormai propense, come è noto, al metodo collusivo/corruttivo seppur collegato alla propria capacità di intimidazione, cioè a quella “riserva di violenza” accumulata in decenni di omicidi, stragi e crimini efferati.

Anzi, proprio in questo peculiare momento in cui la mafia tende più ad “accordarsi che a sparare”, deve altresì considerarsi il dato oggettivo del continuo aumento del numero degli iscritti alla massoneria, in Sicilia e Calabria, come emerso dalle audizioni e dagli atti acquisiti e come stigmatizzato anche dagli stessi appartenenti alla massoneria.

A fronte di questa invincibile vis attractiva della massoneria nei confronti della mafia, vis che, per di più, provoca un numero crescente di adesioni, si è chiesto, durante l’indagine parlamentare, se la stessa massoneria, “preda” secolare delle depredazioni mafiose, avesse finalmente adottato sistemi di prevenzione volti alla tutela della propria identità.

La situazione rappresentata dai gran maestri, nelle loro audizioni a testimonianza, potrebbe apparire del tutto rassicurante.

E’ stato evidenziato, infatti, che il massone può essere tale solo se è, al contempo, un buon cittadino, sottoposto in primis alle leggi statali e ai connessi doveri civici. Proprio per questo, è la stessa massoneria, così come affermato all’unisono, a svolgere serrate verifiche per selezionare, prima, i nuovi adepti in maniera rigorosa e per controllare, poi, che costoro mantengano, nel corso del tempo, le originarie qualità morali, presupposto indispensabile per l’accesso e la permanenza nelle associazioni massoniche.

Per tale ragione è stato sottolineato, anche attraverso la produzione degli statuti di ciascuna obbedienza, che, per ammettere un nuovo fratello, viene puntualmente accertato che costui non sia stato colpito da procedimenti penali e da sentenze di condanna per fatti di una certo allarme sociale, mentre, qualora si scopra che uno degli iscritti, nelle more della sua appartenenza ad una loggia, si sia reso responsabile di un reato di particolare rilievo, egli viene immediatamente sottoposto al “processo massonico” che può concludersi, finanche, con il depennamento.

Si è però constatato che, in concreto, il preteso rispetto delle leggi da parte della massoneria, con tutte le conseguenze che da ciò essa ne farebbe derivare in termini di ammissione e di espulsione, in diversi casi si è rivelato più apparente che reale.

Va detto, innanzitutto, che la richiesta dei certificati penali e dei carichi pendenti da parte di talune obbedienze, nonostante le gravi vicende del passato che hanno segnato la massoneria italiana e che avrebbero imposto una sua maggiore prudenza, si è risolta in una mera prassi priva di significato, posto che, di solito, non è previsto l’aggiornamento della certificazione.

Poiché, il rapporto massonico, di norma, si dissolve con la morte, è dunque garantita la permanenza sine die dell’associato che, però, nel corso degli anni, può ben mutare il suo status giuridico penale.

Gli stessi massoni, peraltro, hanno raccontato alla Commissione dell’allontanamento dalle obbedienze di cospicui gruppi di fratelli sia a causa di “un ingresso massiccio e massivo di persone, senza alcun apparente ed efficiente controllo” e, spesso, destinatarie di misure cautelari e di sentenze di condanna, sia a fronte dell’oggettiva incongruenza numerica posto che, nell’arco di pochi anni, era, stranamente, triplicato, o anche quadruplicato, il numero delle adesioni.


36.2022 «La ‘ndrangheta è un nomignolo, esiste una sola mafia». Il verbale shock dopo la morte di Falcone e Borsellino

 

LAMEZIA TERME È il 4 dicembre 1992: Giovanni Falcone è morto da poco più di sei mesi, Paolo Borsellino da meno di cinque. Cosa Nostra – dopo le stragi – è un’emergenza nazionale, la ‘ndrangheta invece cresce nell’ombra. Questa è la storia che racconterebbe chiunque fosse interrogato su quegli anni. Alle 9,35 di quella mattina, invece, davanti alla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, un collaboratore di giustizia siciliano pronuncia parole che all’epoca suonano così sconvolgenti da finire per essere sottovalutate, quasi riposte in un cassetto per anni, prima che le nuove evidenze investigative ne svelassero la fondatezza. Il collaboratore è Leonardo Messina, prima soldato e poi sottocapo della “famiglia” di San Cataldo, provincia di Caltanissetta. È un mafioso rispettato, ha contatti con i vertici di Cosa Nostra; quando decide di cambiare vita è arrivato abbastanza in alto nelle gerarchie mafiose da raccontare verità che, a quell’epoca, sono scioccanti.

«Il vertice della ‘ndrangheta è Cosa Nostra»

Messina è il primo pentito a svelare l’esistenza del sistema mafia come “cosa” unica, con legami e camere di compensazione a livello mondiale. Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, ha rievocato alcuni passaggi della testimonianza di Messina in un recente dibattito. Dal testo completo dell’audizione è possibile rileggere quelle parole. I commissari chiedono a Messina se sappia dell’esistenza di strutture di Cosa Nostra in Basilicata. «Non ne sono a conoscenza», risponde. Poi passano alla Calabria. E la risposta li lascia senza parole: «Il vertice della ‘ndrangheta è Cosa Nostra». «Cioè, gli ‘ndranghetisti che comandano in Calabria sono affiliati a Cosa Nostra?», domanda Violante. «Il vertice è Cosa Nostra», ribadisce il pentito. E gli altri? «I soldati – spiega Messina – non sanno che appartengono tutti a un’unica organizzazione. Lo sa il vertice. Altrimenti uno come me che girava l’Italia avrebbe conosciuto tutti e invece non deve essere così. È il vertice che deve conoscere». In Calabria «uno dei vertici è – parliamo sempre del 1992 – Ciccio Mazzaferro». E poi «D’Agostino, Furfaro e altri sono uomini di Cosa Nostra».

«La ‘ndrangheta è solo un nome

In questo unico sistema la classificazione geografica delle mafie storiche perde di senso: sono soltanto etichette della “Cosa unica”. Il collaboratore di giustizia di San Cataldo ribadisce ciò che per lui è ovvio. Lo fa anche nel brano di audizione che riguarda le morti eccellenti dei giudici. La Commissione affronta l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, chiedendo a Messina se ne sappia qualcosa. «Posso dire quello che si diceva dopo l’uccisione di Falcone – risponde –. Si pensava che quell’incarico sarebbe diventato di Cordova. Si diceva “come è stato ucciso Scopelliti i calabresi uccideranno pure lui”». Il nome di Agostino Cordova, magistrato autore di una storica inchiesta sugli addentellati della massoneria deviata nel sistema mafioso e oltre, era in effetti stato avvicinato alla super procura antimafia. Per Messina, se quella nomina fosse arrivata i calabresi si sarebbero mossi. Violante chiede: «Quindi Scopelliti sarebbe stato ucciso da calabresi appartenenti a Cosa Nostra?». «Sì – dice il collaboratore di giustizia –. La ‘ndrangheta è solo un nome. La struttura è tutta Cosa Nostra».

La commissione mondiale: si decide «secondo l’interesse di un’unica organizzazione»

Messina racconta ai commissari dell’esistenza di una «commissione mondiale» chiamata a decidere sulle strategie globali del “sistema mondiale”. «Siamo sempre appartenuti a un contesto mondiale. Ma Cosa Nostra, nella persona di Salvatore Riina, da novembre ne è il rappresentante», spiega.

Per Cosa Nostra, il pentito siciliano intende il sistema criminale nel suo complesso. «Non esistono altre organizzazioni in Italia al di fuori di Cosa Nostra. Tutte le altre sono diciture, ma la struttura è sempre quella di Cosa Nostra: si chiamino Sacra Corona Unita, ‘ndrangheta, camorra e così via, si tratta di nomignoli, ma la struttura è Cosa Nostra. (…) Le regioni eleggono il loro rappresentante nazionale, che è il contatto con le altre organizzazioni, da non confondere con le decine che le varie famiglie hanno sparse per il mondo, che sono altre organizzazioni, altre mafie che non sono Cosa nostra». Gli organismi mondiali e nazionali si riuniscono «quando ci sono particolari affari» e «anche per l’interesse che possono avere in processi importanti, nei quali possono essere coinvolti propri uomini». E «l’interesse è solo uno: quello di un’unica organizzazione, non di cinque organizzazioni». Che Cosa Nostra sia, in quel momento storico, ai vertici di questa Spectre del crimine mondiale, Messina lo ha scoperto «a novembre» del 1992. «Una sera – dice – ero a Pietraperzia, in provincia di Enna, e c’erano tantissimi pacchi di scarpe. Ho chiesto: cosa c’è, una festa? Mi hanno risposto: no, devi essere contento perché il tuo principale è stato eletto sottocapo mondiale. Da ieri, la rappresentanza mondiale di tutte le organizzazioni è di Salvatore Riina e Giuseppe Madonia».

La creazione di una Cosa Nostra parallela

In questo (per l’epoca) sconvolgente quadro, Messina sottolinea un altro passaggio in corso. Dice, infatti, che Cosa Nostra sta «scomparendo e sta venendo fuori un’altra cosa» (la sintesi appartiene a Violante). «Non è la prima volta che Cosa nostra cambia nome e pelle. I corleonesi si debbono spogliare di tutti gli uomini. Quando sono arrivato come collaboratore ho detto che c’era qualcosa che stava cambiando: sta cambiando il sistema, si stanno rigenerando, non sarà più Cosa nostra, si chiamerà … lo hanno fatto anche in passato. Si spoglierà di tutti gli uomini d’onore, un po’ perché sono carcere e carcere, un po’ perché con la repressione li arresteranno. In un certo senso le stiamo facendo un favore». Era in corso la creazione di quella che il collaboratore chiama «una struttura di non presentazione. Già ci sono uomini sia sul palermitano – qualcuno lo conosco – sia nel nisseno che non presentano a nessuno, pur facendo i loro affari. È una Cosa nostra parallela».

«La mafia vuole uno Stato tutto per sé» e si rivolge a «forze politiche nuove»

È un passaggio preliminare al grande progetto autonomista del “sistema mafia”. Un piano pensato in una riunione in provincia di Enna dove i vertici «avevano fatto la nuova strategia e avevano deciso i nuovi agganci politici, perché si stanno spogliando anche di quelli vecchi». Cosa significa? «Cosa nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro». Un obiettivo in cui la mafia «non è sola, ma è aiutata dalla massoneria»; per portarlo a termine, Cosa Nostra si sta rivolgendo a «forze nuove», «formazioni politiche nuove» che «non vengono dalla Sicilia» ma «da fuori». Nel 1992 quelle forze «si stanno creando» e si uniscono ai contatti con «personaggi tradizionali della politica».
La regia, comunque è nelle logge deviate. «Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra». È nella massoneria deviata che sorge l’idea del separatismo. Messina parla non alla luce di deduzioni ma «per conoscenza diretta». E le sue parole anticipano di quasi trent’anni le ricostruzioni investigative sull’appoggio offerto dalle mafie ai movimenti separatisti meridionali.

L’identikit degli “invisibili”. «In Cosa Nostra strutture segrete per chi riveste cariche pubbliche»

Messina anticipa un altro filone investigativo che sarebbe diventato d’attualità soltanto diversi anni dopo. Dice, infatti, che in Cosa Nostra esistono strutture segrete. «Ci sono strutture che non comunicano: non è che tutti gli uomini devono sapere. Vi sono uomini che non sanno oltre la propria famiglia, o la propria decina; non tutti gli uomini, cioè, vengono messi al corrente di tutto». Nel “sistema” vi sono persone il cui nome è destinato a restare sconosciuto, «o perché rivestono cariche politiche, o perché sono uomini pubblici e nessuno deve sapere chi sono. Lo sa soltanto qualcuno. Poi ci sono altri che sono “punti”, ai quali non tutti gli uomini si possono rivolgere, perché c’è un passaggio obbligato. Perciò, il contatto è sempre uno per tutti». Pare di leggere l’identikit degli “invisibili”, affiliati ai clan il cui nome resta riservato e noto soltanto ai vertici della criminalità “classica”.
Torna alla mente l’esempio della clessidra utilizzato da Lombardo nel dibattito su mafia e massoneria. La base della ‘ndrangheta, quelli che Messina chiama i soldati, vedono soltanto fino a un certo punto, fino ai vertici delle associazioni criminali. È oltre la strozzatura della clessidra che si trova il “sopramondo”: un’area accessibile soltanto ad alcuni boss, cerniere di raccordo tra le mafie storiche e pezzi di istituzioni (e non solo) che con quelle mafie fanno affari e “governano” interi pezzi di Paesi grazie a una forza economica capace di destabilizzare le democrazie. (p.petrasso@corrierecal.it)  3.6.2022


25.10.2019 Mafia-appalti, sparito il pentito che parlò a Borsellino del coinvolgimento di Raul Gardini

Testimonianze, prove documentali, sentenze definitive e audizioni del Consiglio superiore della magistratura rese dai magistrati della procura di Palermo tra il 28 e il 31 luglio 1992, provano inequivocabilmente che Paolo Borsellino si interessava, anche se non formalmente visto che ancora non aveva ottenuto la delega, dell’indagine contenuta nel dossier mafia- appalti. Tale informativa, ricordiamo, è scaturita da un’inchiesta condotta, tra la fine degli anni 80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno.
Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia- appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Giovanni Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Lo stesso Falcone, anche pubblicamente durante il famoso convegno del 15 marzo del 1991 al Castel Utveggio di Palermo, disse che quell’indagine era di vitale importanza che non era confinata solamente a una questione “regionale”.

Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima».

La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Ma in realtà è più che una intuizione. Borsellino aveva trovato un pentito che non solo gli aveva confermato la questione dell’importanza degli appalti, ma che anche gli aveva dato un riscontro su quello che effettivamente già risultava ben spiegato nel dossier dei Ros: parliamo del coinvolgimento delle imprese del nord, in particolare della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini.

Proprio il giorno prima della sua intervista a Luca Rossi, Borsellino aveva interrogato per la seconda volta consecutiva Leonardo Messina, un pentito ritenuto credibile che, come Tommaso Buscetta, aveva raccontato perfettamente la struttura di Cosa Nostra, escludendo il discorso del “terzo livello”, ma evidenziando come la mafia di Totò Riina riusciva a compenetrare nel tessuto economico e politico attraverso la gestione degli appalti pubblici e privati. Leonardo Messina stesso ne è stato un testimone. Il Dubbio è in grado di rivelare i contenuti dei due verbali di interrogatorio.

Il primo si è svolto il 30 giugno del 1992 con la presenza non solo di Borsellino, ma anche del collega Vittorio Aliquò, oltre che dell’ispettore Enrico Lapi e del dirigente della polizia Antonio Manganelli. Leonardo Messina aveva la veste di indagato per 416 bis dalla procura di Caltanissetta. Lo stesso si è dichiarato uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e ha inteso rendere dichiarazioni sulla struttura di Cosa nostra. Nel primo interrogatorio ha spiegato sostanzialmente come venivano elette le rappresentanze, da quelle locali a quelle regionali, non solo siciliane, fino ad arrivare alle rappresentanze mondiali. Ha approfondito come i corleonesi hanno preso il potere in Cosa nostra.

Interessante la sua spiegazione di come riuscì a finire sotto l’ala del boss Giuseppe Madonia. «A Madonia – ha spiegato il pentito a Borsellino – avevo rilevato di essere stato contattato da elementi del Sisde, i quali mi avevano offerto la somma di 400 milioni perché lo facessi catturare». Madonia, quindi, avendo appreso che Messina non si era fatto indurre a tradirlo, lo prese ancora di più in considerazione. In questo modo ebbe la possibilità di saltare le gerarchie e incontrare personaggi “di calibro” come lo stesso Brusca.

Nell’occasione con Brusca – ha raccontato Messina – «si parlò dell’omicidio del capitano D’Aleo che si vantava di averlo fatto eliminare poiché costui lo aveva schiaffeggiato in occasione di un suo fermo in caserma. Disse che gli avevano tirato una fucilata in faccia!». Il pentito Messina racconta anche di Giovanni Falcone. «Brusca – ha spiegato Messina – pur mostrandosi al corrente dei suoi movimenti, e infatti accennava alle sue frequentazioni presso una pizzeria insieme alla scorta, diceva che in quel momento non era il caso di passare alla sua sentenza di morte».

Leonardo Messina poi affronta nel resto dei suoi due interrogatori– soprattutto nel verbale del primo luglio 1992 – la questione mafia- appalti. A lui stesso Madonia gli ha affidato la questione dell’appalto dei lavori dell’istituto tecnico per geometri di Caltanissetta e lo ha messo in contatto con Angelo Siino, considerato “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Il pentito ha spiegato dettagliatamente come funzionava la spartizione degli appalti e ha anche sottolineato come la mafia intimidiva gli imprenditori fino ad ucciderli se non sottostavano alle condizioni dettate. Ha spiegato come i corleonesi curavano che i vari appalti fossero distribuiti equamente fra le ditte interessate, in modo da realizzare congrui guadagni attraverso un sistema predeterminato di tangenti a percentuali sull’importo dei lavori. Percentuali che variavano a seconda del tipo dei lavori da eseguire e secondo se si tratti di appalti pubblici o privati. Fa nomi e cognomi Messina, anche di parlamentari dell’epoca e imprese. Parla anche di Salvo Lima, che aiutò un personaggio di rilievo nel favorire una impresa per introdurla nella miniera Pasquasia. «In tale miniera – ha spiegato Messina – non lavorano solo ditte in mano alla mafia, ma anche singoli dipendenti mafiosi», i quali potevano acquisire con facilità anche del materiale per l’esplosivo.

Leonardo Messina, a quel punto fa una rivelazione scottante. «Totò Riina è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale». Messina lo aveva appreso perché si era lamentato che aveva ricevuto pochi soldi per un appalto che valeva miliardi. “L’ambasciatore” di Madonia gli rispose di lasciar perdere, perché c’erano gli interessi di Riina tramite la Calcestruzzi spa di Gardini.

Paolo Borsellino, per la prima volta, trovò un riscontro su quanto aveva già appreso dal dossier mafia- appalti, che aveva ben evidenziato il ruolo dell’azienda del nord. Lo stesso Leonardo Messina, qualche tempo dopo, lo ribadì in un’audizione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante. Alla domanda se nella gestione mafiosa degli appalti ci fossero ditte nazionali, Messina rispose con un’affermazione inquietante: «La Calcestruzzi Spa di Riina».

Leonardo Messina è un testimone considerato importante da Borsellino, così come, in seguito, da altri magistrati. Il pentito ha ribadito l’importanza della gestione degli appalti anche nel 2013, sentito al processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Messina avrebbe dovuto deporre – assieme ad Angelo Siino ( assente per gravi motivi di salute) – a settembre scorso anche nel processo di Caltanissetta relativo al latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il pentito Leonardo Messina non è più reperibile da qualche tempo. È come se fosse scomparso nel buio: gli inquirenti stessi si dicono preoccupati. IL DUBBIO 25 ottobre 2019 – Aliprandi


19.4.2019 Il pentito che disse: “Il Divo è punciutu” non si trova più

 

Leonardo Messina – Passò dalla parte dello Stato dopo Capaci. Fuori dalla “protezione” da 3 anni, è irreperibile da 3 mesi. Gli inquirenti: “C’è preoccupazione”

Narduzzo di San Cataldo non si trova più: è l’ultimo pentito con cui Paolo Borsellino parla, due giorni prima di morire, è l’unico a definire Giulio Andreotti punciutu, affiliato a Cosa nostra. Leonardo Messina, 64 anni, ex collaboratore di giustizia prezioso per i magistrati che hanno indagato su Cosa nostra, sempre ritenuto attendibile dalle procure di Caltanissetta e Palermo, infame per i boss rinchiusi con cui ha condiviso i crimini fino al ’92, è irreperibile almeno da tre mesi, dall’ultima volta che lo Stato lo ha cercato – al domicilio conosciuto dall’Ufficio centrale per la protezione personale – per convocarlo a testimoniare in un processo per un omicidio di mafia. Messina è uscito dal programma di protezione nel marzo 2016, con una capitalizzazione di circa 50 mila euro per la collaborazione con la Repubblica italiana.

“Andreotti affiliato” e la vigilia di via D’Amelio

E gli investigatori non sarebbero preoccupati se Leonardo Messina non avesse il peso che ha nella storia recente per le dichiarazioni sulle trame oscure che ancora avvolgono il periodo delle Stragi, per le rivelazioni sui rapporti tra Cosa nostra, ’ndrangheta e massoneria deviata, per quanto raccontato su Giulio Andreotti, morto nel 2013, sette volte presidente del Consiglio, riconosciuto colpevole nel 2003 dalla Corte d’appello di Palermo per associazione a delinquere con Cosa nostra fino al 1980, ma “salvato” dalla prescrizione.
Il 30 giugno 1992, Narduzzo, agli arresti da due mesi, parla nella sede dello Sco di Roma. Fra le altre cose racconta ai magistrati di Palermo, tra i quali c’è Paolo Borsellino, cose che avrebbe poi ribadito al processo Trattativa Stato-mafia nel 2013: “Lillo Rinaldi, che frequentava Piddu Madonia (oggi 73enne al 41 bis, ma fino a qualche tempo fa ancora influente seppur dal carcere, capo indiscusso della mafia di Caltanissetta, ndr) disse che Andreotti era punciutu, mentre c’era chi diceva che Andreotti fosse il figlio di un Papa. Salvo Lima e Andreotti erano i politici che dovevano garantire che il maxi-processo sarebbe stato assegnato al giudice Corrado Carnevale in Cassazione e non ci sarebbero stati problemi. L’ottimismo cessa quando i politici si allontanano e non riescono a far assegnare il processo al giudice Carnevale. C’è stato un momento in cui in Cosa nostra si decise di non votare per la Democrazia cristiana ma per i socialisti. Io ho ricevuto l’ordine preciso di votare e far votare per i socialisti. L’onorevole Claudio Martelli quando è arrivato al potere, scavalcando l’ala craxiana, non ha mantenuto i patti. Io non partecipavo alle riunioni ma venivo messo a conoscenza delle decisioni prese”. Salvo Lima, referente di Cosa nostra per la Dc in Sicilia, era già stato ucciso il 12 marzo 1992.
I colloqui con Borsellino continuarono. Narduzzo lo racconta nel 2013: “Il dottore mi disse: ‘A noi serve solo la verità. Non le congetture o i pensieri’. E così ho iniziato a collaborare parlando per ore con lui”. Il 17 luglio 1992 ci fu l’ultimo incontro: “Il dottore era molto nervoso, fumava in continuazione. Accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: ‘Signor Messina, non ci vediamo più, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto’. Sapeva di morire”. Passano 48 ore e anche via D’Amelio salta in aria. Il 17 novembre 1992 l’operazione Leopardo, generata proprio da quelle chiacchierate tra Messina e Borsellino, porta agli arresti di 200 uomini d’onore in tutta Italia.

La Lega meridionale e la vedova Schifani

Le deposizioni degli anni Novanta di Leonardo Messina sono state di recente inserite anche nell’inchiesta ’ndrangheta stragista della Procura di Reggio Calabria. Messina parlò di un coordinamento tra le mafie siciliana e calabrese nella svolta di tritolo e sangue del ’92, dei legami con la massoneria deviata e con pezzi dello Stato, del ruolo di Licio Gelli nell’idea sostenuta da Leoluca Bagarella di creare una Lega meridionale, Sicilia libera, con lo scopo di una secessione da cui generare un narcostato del Sud gestito dai Corleonesi. “Mi trovai a conversare con Borino Miccichè, il Potente e Giovanni Monachino (arrestato a Pietraperzia meno di un mese fa, ndr). Umberto Bossi era andato a Catania. Io che consideravo Bossi un nemico della Sicilia dissi: ‘Perché un’altra volta che viene qua non l’ammazziamo?’ Il Miccichè rispose: ‘Ma che sei pazzo? Bossi è giusto’. Spiegò che era un pupo di Gianfranco Miglio, espressione di una parte della Dc e della massoneria con a capo Giulio Andreotti e Licio Gelli, che sarebbe nata una Lega del Sud”. Quel progetto fu poi abbandonato, scalzato dall’idea di Forza Italia.
Narduzzo, licenza elementare ma dal buon eloquio, combinato uomo d’onore il 21 aprile 1982 con la famiglia di San Cataldo, amico del feroce Piddu “chiacchiera” Madonia, fu catturato appunto nel 1992 e spiegò così il suo pentimento dopo Capaci: “La mia crisi è di tipo morale. Quando ho sentito in tv la vedova dell’agente di scorta, Vito Schifani, parlare e pregare gli uomini di mafia, le sue parole mi hanno colpito come macigni e ho deciso di uscire dall’organizzazione nell’unico modo possibile, collaborando con la giustizia”. Se Tommaso Buscetta fu il primo a parlare di un’entità che garantiva Cosa nostra, Messina fu il primo a raccontare che il punciutu Andreotti fosse il santo in paradiso dei boss, tanto da essere chiamato anche lo “zio”. Chissà ora dov’è Narduzzo. Di Giampiero Calapà  19 Aprile 2019 IL FATTO QUOTODIANO


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