È la regione più piccola e meno popolata d’Italia. Eppure, anche qui, in Valle D’Aosta, la ‘ndrangheta è riuscita a farsi spazio. Tra la Francia da un lato e il Piemonte dall’altro. Tanto che il Consiglio regionale della Vallée dal gennaio del 2012 ha costituito un organismo ad hoc: la Commissione consiliare speciale per l’esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose. Composta da sette consiglieri, di cui un presidente, un vice e un segretario. Con una scadenza: il 31 ottobre, quando dalle aule del consiglio dovrebbe venir fuori una relazione finale. Che dirà se la ‘ndrangheta, lì nella valle, c’è davvero o no. «Qui le infiltrazioni mafiose sono un fatto storico che risale agli anni Ottanta», dice il questore di Aosta, Maurizio Celia. Eppure, commenta Marika Demaria, referente regionale della associazione “Libera”, «la Valle D’Aosta sembra la Lombardia di qualche anno fa, quando ancora si negava la presenza della criminalità organizzata».
L’ultima operazione antimafia nella regione, “Tempus venit”, risale al dicembre 2011, con il fermo per tentata estorsione di quattro persone riconducibili alla criminalità organizzata calabrese. Le regole erano le stesse imposte dalle cosche da Reggio Calabria a Milano. «Ti diamo tempo fino al 20 dicembre. Da quella data in poi tu e tutti i tuoi prossimi congiunti, figli e nipoti, dovete fare molta attenzone perché può capitarvi qualche gravissimo incidente». Gli arrestati, Giuseppe Facchineri, Giuseppe Chemi, Michele Raso e Roberto Raffa, sono accusati di aver chiesto più volte denaro all’imprenditore edile di origini calabresi Giuseppe Tropiano. E la percentuale pretesa, il 3 per cento dei lavori, è la stessa che le ‘ndrine pretendono dalle ditte che lavorano all’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria. Mille chilometri di distanza e regole identiche. Compresi gli incendi agli escavatori in caso di mancato pagamento e le scritte con la vernice verde inneggianti alla mafia apparse sul muro di cinta della società.
Particolare non di poco conto è che inizialmente l’imprenditore Tropiano non si è rivolto ai Carabinieri per sporgere denuncia, ma ha cercato la protezione di altri personaggi, i fratelli Raso, definiti dagli inquirenti come personaggi «legati alla criminalità mafiosa di origine calabrese». Sostegno che, però, non è bastato. Visto che qualche giorno dopo sparano contro la casa del fratello dell’imprenditore. Non ad Aosta, ma a San Giorgio Morgeto, in provincia di Reggio Calabria. Tanto per avvertire che la ragnatela della ‘ndrangheta muove i suoi uomini come pedine, da Nord a Sud. E da lei non si può sfuggire.
«È una presenza che noi forze dell’ordine diamo per scontato», ammette il questore, «come un fenomeno che esiste in natura». Un fenomeno che in Valle d’Aosta, «si registra già dagli anni Ottanta». I Facchineri e i Iamonte in valle hanno trascorso parte della loro latitanza. E nel 1991 il pregiudicato Gaetano Neri, originario di Taurianova e vicino alla cosca degli Asciutto, venne ucciso proprio a Pont Saint Martin, dove era stato inviato in soggiorno obbligato. Tra le montagne della regione, all’inizio degli anni Novanta, i cugini Nirta di San Luca «avevano addirittura messo in piedi un movimento politico», racconta Celia. Si chiamava Miv, Movimento immigrati valdostani, e aveva l’obiettivo di rappresentare la comunità calabrese della Vallée. Diversi esponenti del partito, che tra l’altro era stato in grado di eleggere anche i suoi consiglieri comunali, finirono in manette con l’accusa di associazione mafiosa. Come Salvatore Martino, titolare di una pescheria ad Aosta e importante esponente del Miv, ritenuto negli anni Novanta il referente valdostano della cosca dei Iamonte di Melito Porto Salvo. E non furono pochi i politici locali trovati a banchettare fianco a fianco con gli esponenti delle cosche nelle feste organizzate dal Miv.
Eppure, assicura Maurizio Celia, «non si può ancora parlare di un controllo mafioso del territorio come per altre regioni. Qui il controllo ce lo abbiamo noi, ma dobbiamo evitare che questa presenza si consolidi». Perché, come ha dichiarato il magistrato antimafia della Procura di Agrigento Salvatore Vella, «giù si fanno i soldi, qui in Val D’Aosta si investono». E di settori in cui investire nella piccola regione del Nord Ovest ce ne sono tanti. A partire dal casinò di Saint Vincent, da sempre meta ambita delle cosche per ripulire il denaro sporco proveniente dai traffici illeciti. Su questo punto, però, il questore Celia mette in guardia. «L’attuale normativa antiriciclaggio non permette movimenti di questo tipo», dice, «c’è un nostro posto di polizia all’interno del casinò e, tranne per qualche soggetto marginale, che può venire qui a riciclare il denaro di qualche piccola rapina, il casinò non può essere definito luogo in cui vengono lavati i soldi sporchi della ‘ndrangheta».
Sul finire degli anni Novanta, però, a Saint Vincent vennero uccisi due presta-soldi. Ma poi un pentito rivelò l’intenzione delle cosche di voler mantenere il casinò «zona franca non sottoposta al tradizionale predominio e controllo territoriale, per consentire a tutti di utilizzarlo come meglio avessero voluto». Nell’aprile del 2009, nell’ambito di una inchiesta coordinata dalla Dda di Milano, altri due arresti: sulla porta del casinò vennero fermati due esponenti della cosca Marini di Cirò Marina (Crotone), che vanta membri anche in Lombardia, tra Busto Arsizio, Gallarate e Legnano. Senza dimenticare che nella casa da gioco tra il 2001 e il 2005 sarebbero transitati anche i denari dei corleonesi vicini al boss Nicola Mandalà, accusato di aver gestito gli ultimi anni di latitanza di Bernardo Provenzano. Tanto che dopo le indagini della Dda di Palermo pare che la dirigenza del casinò avesse istituito una commissione interna per accertare eventuali responsabilità dei dipendenti. «La nostra è una regione di confine», spiega Marika Demaria, «il casinò rimane un punto strategico per riciclare denaro e portarlo all’estero. È semplice: arrivi con dei soldi e li cambi in fish».
Il casinò non è l’unico settore preso di mira dalle cosche. La Valle dAosta è una delle mete turistiche privilegiate dagli amanti della montagna e dello sci. E anche da chi vuole investire nel cemento destinato agli alberghi, alle seconde case per le vacanze e ai ristoranti. «L’edilizia e il turismo sono i principali settori colpiti», dice Maurizio Celia, «non parliamo solo di attività illecite, ma anche di attività lecite di cui è difficile individuare la matrice mafiosa». Soprattutto in un periodo di crisi come questo, aggiunge, «capita che uomini vicini alla ‘ndrangheta, con grande disponibilità di liquidità, comprino le pensioncine o gli alberghetti in difficoltà». Ci sono «passaggi di proprietà frenetici e, anche se le cosche usano dei prestanome, è difficile individuarli».
E poi ci sono le feste religiose, quelle della tradizione calabrese che tanto piacciono anche ai boss. E che sono le più popolate dell’estate valdostana. «La comunità calabrese in Valle d’Aosta è imponente», spiega Demaria. Parliamo di circa 20-25 mila persone su un totale di circa di 128 mila abitanti. «Il 90% è composto da brave persone, ma ci sono anche i Nirta e i Facchineri». Un esempio del radicamento dei calabresi in questa ricca regione è la festa di San Giorgio e di San Giacomo: dodici giorni (dal 15 al 26 luglio) di processioni, musica, banchetti culinari con salsicce, peperoncino e nduja. In quei giorni sembra di stare in Calabria, eppure il mare delle coste reggine è lontano più di mille chilometri. San Giorgio e San Giacomo sono i santi patroni di San Giorgio Morgeto, il paese in provincia di Reggio Calabria da dove provengono circa 10 mila valdostani e dov’è nato anche l’imprenditore Tropiano, quello a cui le cosche hanno chiesto il pizzo e bruciato un escavatore. Nell’ultima edizione sono state registrate circa 70 mila presenze sui 128 mila abitanti dell’intera regione. Più del 50% dei valdostani, insomma, era lì. È «sempre la festa più riuscita dell’estate», racconta Marika Demaria. Ogni anno il consiglio regionale valdostano finanzia la festa popolare calabrese con migliaia di euro. «L’iniziativa», si leggeva la scorsa estate in una comunicazione del consiglio, «riveste indubbio carattere di pubblico interesse in quanto si propone di valorizzare le tradizioni popolari».
Della presenza mafiosa nella regione più piccola d’Italia si parlava giànegli atti del Rapporto annuale sulla criminalità organizzata del ministerno dell’Interno del 2000. Si legge: «Posizione di rilievo, in questo contesto, è rivestita dal gruppo capeggiato da Domenico Nirta, che opera in stretto collegamento con l’omonima cosca di San Luca (RC), principalmente dedito al riciclaggio del denaro ed al traffico internazionale di stupefacenti. Si registra, inoltre la solida presenza di pregiudicati calabresi legati alla cosca Iamonte di Melito Porto Salvo (RC) che non sono, tuttavia, dotati dello spessore criminale dei Nirta». E ancora: «La regione costituisce un’area di transito per i traffici di sostanze stupefacenti e di armi provenienti principalmente dalla Francia e dalla Svizzera. I proventi ottenuti vengono riciclati in operazioni immobiliari ovvero in arttività commerciali e imprenditoriali apparentemente lecite, gestite molto spesso da prestanome. Le attività delittuose engono poste in essere in maniera sempre più autonoma rispetto alle formazioni malavitose delle zone di origine, sebbene rimangano strettissimi i rapporti con le ‘ndrine calabresi e le famiglie siciliane, anche per i legami di parentela e affinità che molto spesso uniscono questi soggetti tra di loro».
Altre conferme si trovano nei documenti della Commissione parlamentare antimafia del 2002-2003. Mentre negli atti della Direzione investigativa antimafia, vengono messi in evidenza gli «investimenti effettuati da soggetti calabresi nel settore dell’estrazione di inerti» e «il sospetto della presenza di uomini di fiducia delle cosche nell’apparato amministrativo locale essendo emerse ipotesi di corruzione».
La scelta di istituire una commissione regionale antimafia «non si può non apprezzare», spiega Sandro Ausiello, coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Torino. Tuttavia, precisa, «le aspettative non sono sicuro per finalità d’indagine, che già svolgiamo sul territorio quotidianamente e di cui siamo noi a riferire, nei limiti del segreto investigativo, alla commissione stessa». Piuttosto, continua il magistrato, «l’importanza di questi organismi è data dalla sensibilizzazione della cittadinanza sui problemi della criminalità mafiosa e della pervasività di questa nelle attività delle persone».
La Commissione è composta da Diego Empereur dell’Union Valdotaine, che ricopre il ruolo di presidente. A seguire: Francesco Salzone (Stella Alpina-Udc-Vda), Piero Prola (Union Valdotaine), Alberto Bertin (Alpe), Massimo Lattanzi (Popolo della libertà), Claudio Lavoyer (Fédération Autonomiste), Gianni Rigo (Partito democratico). Dopo i primi sei mesi di lavoro, il 21 giugno è stata presentata una relazione che riassume la fase di «ricognizione e ascolto». In poche parole, la Commissione ha ascoltato le «figure istituzionali che, sulla base delle rispettive funzioni, fossero in grado di fornire contributi utili all’acquisizione di elementi conoscitivi in ordine al fenomeno delle infiltrazioni della criminalità organizzarta in Valle D’Aosta». Tra l’1 marzo e l’11 giugno 2012 la commissione si è riunita nove volte, sentendo – tra gli altri – il questore di Aosta Maurizio Celia, il comandante dell’Arma dei Carabinieri Guido Di Vita e il procuratore della Repubblica del tribunale di Aosta Marilinda Mineccia. I comunicati sono stati tutti molto ottimisti: si parla di «quadro rassicurante» e della assenza di «aspetti di particolare preoccupazione».
A tranquillizzare gli animi è anche il questore Maurizio Celia. «Qui c’è un accentramento amministrativo in una sola provincia che non favorisce fenomeni di collusione», dice, «e poi ci sono tanti piccoli comuni attorno ai quali non girano grandi interessi. Comuni molto piccoli con delle relazioni dirette, e se ci dovessero essere presenze importanti verrebbero subito notate». L’estorsione, aggiunge, «è poco diffusa», grazie a un «controllo sociale che permetterebbe, ad esempio, di far emergere subito se gli appalti venissero assegnati sempre alla stessa ditta».
Eppure, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Giuseppe Pisanu, incontrato l’11 ottobre a Roma da alcuni membri della Commissione, ha definito la ‘ndrangheta «una minaccia incombente sulla Valle d’Aosta». «Esiste ancora questa visione della Valle d’Aosta come isola felice», dice Marika Demaria. «Se da una parte i cittadini rispondono bene alle nostra iniziative, dall’altra registriamo ancora un certo negazionismo». E sulla Commissione regionale antimafia aggiunge: «Rimaniamo perplessi per il fatto che abbia una data di scadenza, che sia costituita solo da politici e nessun esperto e che gli atti della commissione siano segreti». Dopo l’operazione “Minotauro” di Torino, «si sperava che ci fosse un risveglio delle coscienze e invece alcuni sembrano cadere ancora dal pero». Basta pensare che quando quattro anni fa venne creata la sede regionale di “Libera”, «molti dissero che qui in valle non ce n’era bisogno».
Linkiesta.it 20 ottobre 2012