Il «contagio»? Più se ne parla, meglio si evita

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Di Lionello Mancini

Abbiamo dato conto lunedì scorso della ricerca condotta dalle università di Milano e Palermo per misurare la reale presa delle cosche sull’economia in alcune aree del Nord Italia. Ne riparleremo (la ricerca prosegue), ma vale la pena di tornare sull’intervento svolto, alla presentazione in Bocconi, da Paolo Storari, giovane pm della Dda di Milano, che ha illustrato le linee strategiche su cui si muove l’ufficio per quanto riguarda le imprese “malate”.
Il criterio guida della Direzione distrettuale milanese è semplice: colpire senza sconti le parti dell’economia e delle imprese ormai contagiate (imprenditori affiliati, attività di copertura di traffici illeciti, business estorti o comprati, ramificazioni nello Stato eccetera), ma con il massimo sforzo possibile alla salvaguardia di aziende efficienti, gestioni sane o sanabili, posti di lavoro. Come? Qui viene il difficile, perché quando l’attenzione per «”l’oggetto economia” si trova a fare i conti con i riti e i binari della procedura penale, il percorso si fa stretto. Non di rado – secondo Storari – nelle nostre inchieste ci sono detenuti e così la gestione del processo deve ruotare intorno a quella priorità, la corte viene sollecitata su fronti diversi ed è la legge che stabilisce priorità e urgenze. Inserire tra le incombenze che investono il tribunale anche la gestione di un bene sequestrato diventa un sovraccarico del penale che noi vogliamo evitare». Di conseguenza, la Procura di Milano tende a dividere i percorsi relativi alle persone da quelli che riguardano le cose, affidandosi per queste ultime al Tribunale delle misure di prevenzione, una sezione concentrata proprio su questo versante, specializzata nelle procedure e nella guida di custodi e amministratori, un manipolo di giudici massimamente interessato a rimettere ordine dove c’è un groviglio ancora vitale per l’impresa e a tagliare dove ciò non sia più possibile.
In questa logica di massima attenzione all’economia, si inserisce il tema del silenzio degli imprenditori – sempre più difficile da decrittare – e della loro collaborazione con gli inquirenti. Sono anni che il capo della Dda, Ilda Boccassini, ripete che ci sono «troppi episodi sospetti ai danni delle imprese, ma zero denunce». Perché questo silenzio? Una risposta, ipotizza la Procura, può forse venire dall’«euristica della disponibilità», termini complicati per dire: «Se lo conosci, lo eviti», come già sperimentato nella campagna contro l’Aids.

Insomma, l’etichetta “omertà” pare troppo sbrigativa per cogliere la complessità del fenomeno obiettivamente inquietante delle mancate denunce ed è forse più probabile che permanga un’eccessiva sottovalutazione dei segnali connessi all’avvicinarsi del pericolo. «Se io – ha esemplificato Storari – so che un certo approccio, una richiesta, una presenza o una proposta apparentemente conveniente, alla fine è costata l’azienda o un’incriminazione al mio collega imprenditore, reagirò in modo più attento ed efficace se mi trovassi in una situazione analoga. Se, invece, le esperienze non circolano, se ognuno pensa di essere un caso a sé e non ci sono ambiti per scambiarsi esperienze, dubbi e difficoltà, ogni imprenditore è una preda più esposta»

 

Sole 24 Ore 21.10.2013

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