Le Chinatown a rischio in Lombardia

 

Di Lionello Mancini

 

Di Lionello Mancini

Tra una settimana sarà sepolto il primo dei sette cittadini cinesi arsi vivi il 1° dicembre a Prato, in uno di quei capannoni/dormitorio con le sbarre alle finestre, in cui una persona cuce, colora, lucida, stira, per 15-16 ore al giorno. Un mese fa, ammettevamo di non sapere se o quante delle vittime avessero “scelto” o fossero costrette a quella vita, aggiungendo: «Sappiamo, però, che il capannone bruciato era affittato da un proprietario italiano; sappiamo che quelle lavorazioni finiscono in negozi di alta gamma; sappiamo che molti grossisti o case della haute couture impongono l’anonimato a questi prodotti acquistati a prezzi stracciati». Ora sappiamo qualcosa di più. In questo distretto low cost nei prezzi e nei diritti dei 30mila che ci lavorano, le 3.700 ditte cinesi vendono prodotti per circa 2 miliardi all’anno, di cui la metà in nero: lo scorso 2013 sono stati segnalati dalla polizia 250 immigrati, ma in Cina ne sono tornati solo tre: Pechino tace, non collabora. Non tutti i lavoratori dormono nelle celle di cartongesso, altri vengono stipati in appartamenti di proprietari italiani o da questi ceduti a caro prezzo ai “caporali” con gli occhi a mandorla. E i controlli rafforzati (per quanto?) di questi giorni hanno accertato che tutto continua come prima in uno di quei sotto-mondi in cui tutto è consentito e lucrosamente ignorato da molti marchi che risplendono nei templi della moda.
Dunque il rogo di Prato è almeno servito a far aprire gli occhi su un fenomeno sconosciuto? Non proprio.
Il lettore Nicola Barbarossa, fino a un anno fa ispettore dei Vigili del fuoco a Milano, ha voluto avvertirci: guardate che in Lombardia ci sono decine di trappole come quella arsa a Prato. E spiega: più di una decina d’anni fa, subodorando i rischi insiti nelle frenetiche attività della Chinatown milanese, la Prefettura ordinò in via Paolo Sarpi e dintorni, controlli coordinati tra Questura, Carabinieri, Asl, Polizia locale, Fiamme gialle, Vigili del fuoco. «Ho ispezionato anch’io laboratori e magazzini e alcuni ne abbiamo sigillati – chiarisce il lettore -. Erano tutti gestiti da cittadini cinesi, ma in molti casi erano di proprietari italiani». Sono passati quasi 15 anni da quelle ispezioni e quei laboratori continuano ad avere i loro committenti, i proprietari dei locali a riscuotere i loro affitti, i titolari a sviluppare i loro traffici. C’era da sperare che quella raffica di accertamenti a cavallo del 2000 avessero stimolato un business di qualità migliore, ma non è andata così perché – precisa Barbarossa – solo pochi mesi fa abbiamo spento due incendi solo per caso senza vittime: il 20 settembre 2012 a Monza, in via Michelino da Besozzo, e il 15 ottobre 2012 a Concorezzo, in via Brodolini. Laboratori del tutto fuori norma.
È molto importante la testimonianza dell’ex ispettore dei Vigili del fuoco (oggi formatore nel settore antincendio), perché dimostra che – come a Prato – quanti intendono operare in una cornice di legalità hanno da tempo tutti gli elementi per non “sbagliare” interlocutori, fornitori e clienti, siano essi cinesi, calabresi, piemontesi o sudamericani. Molto più di così lo Stato non può e non deve fare. Il resto spetta ai cittadini e all’etica degli imprenditori.

Sole 24 Ore 13.1.2014

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