Di Lionello Mancini
Di Lionello Mancini
Il 14 maggio 2013, a Trezzano sul Naviglio, paesino appoggiato alla periferia di Milano, vengono eseguiti arresti e perquisizioni tra amministratori, professionisti e imprenditori riuniti – recita l’accusa – in una banda dedita alla corruzione. Tra gli indagati, anche due assessori del Comune di Trezzano, per una tangente da 500mila euro promessa per manipolare la destinazione di un’area in cui doveva sorgere un centro commerciale. L’inchiesta è collegata a indagini di criminalità (calabrese), ragion per cui a occuparsene è la Direzione distrettuale antimafia. Come scrive la Procura di Milano nell’avviso di conclusione delle indagini, la “tangentona” era stata concordata tra imprenditori senza scrupoli e amministratori ribaldi con l’intermediazione di professionisti maneggioni (o peggio) e doveva servire «alla realizzazione di un Parco commerciale costituito da una grande struttura di vendita», spostando altrove il fastidioso asilo nido comunale.
Dalle scarne paginette che avvisano gli indagati e i loro legali che le indagini sono concluse, salta però fuori un’importante novità, di cui i professionisti faranno bene a prendere nota. I pm, infatti, indagano tra gli altri la commercialista Valentina Lamanna per aver nascosto denari in Svizzera frutto di frode fiscale, nonché per aver trasferito a Lugano cospicue somme di clienti «nella piena consapevolezza che il denaro sarebbe servito a effettuare dazioni illecite». Ma, soprattutto, allargano l’ipotesi di responsabilità anche alla «Valentina Lamanna & Associati dottori commercialisti», perché in violazione del Dlgs 231 l’associazione professionale «ometteva di adottare ed efficacemente attuare modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire» i reati commessi dal socio. Secondo l’accusa milanese – molto attenta ai risvolti più a rischio e alle implicazioni per le attività economiche e professionali – le responsabilità di compliance e i doveri organizzativi imposti ad aziende manifatturiere e società di servizi, devono valere anche per le associazioni di professionisti. Forme particolari di società, è vero, ma forse non è insensato o persecutorio chiedere che gli associati non si limitino a strabuzzare gli occhi per la sorpresa quando il collega-socio finisce nella rete.
In attesa che l’impostazione accusatoria venga vagliata dal giudice, possono essere imboccate due strade. La prima, assai battuta, è quella di cercare negli anfratti di leggi e codici la possibilità di “parare il colpo”: è la strada che porta al refrain «Vediamo cosa deciderà il Tribunale», come se l’eventuale riforma del capo d’accusa cancellasse il tema delle figure professionali che popolano l’area grigia. La seconda strada possibile è quella che coglie lo stimolo emerso nel processo, innescando una seria riflessione tra i professionisti: è superfluo, opportuno o magari persino urgente – come indica l’inchiesta – che anche le associazioni di professionisti si dotino di regole per autotutelarsi dalle infiltrazioni criminali, dalle furbizie corruttive, dalle azioni di riciclaggio? Una riflessione dalle conclusioni che (in un mondo perfetto) potrebbero persino anticipare le sentenze di primo, secondo e terzo grado.
Sole 24 Ore 20.1.2013