di alberto krali – L’Eco di Bergamo
29 gennaio 2014
Se cliccate un motore di ricerca e inserite il nome cocò vi uscirà Chanel. Il piccolo CocòCampolongo è stato ammazzato come un boss: un colpo in testa, ma anche la fantomatica rete gli nega l’onore della prima notizia. Come mai la televisione ha dedicato puntate su puntate al delitto di Cogne, dove una madre uccide in un impeto di pazzia il figlioletto, o l’omicidio Scazzi di Avetrana, con Sabrina adolescente adulta che ammazza la cugina per futili motivi, e poi di fronte alla morte di un bambino di tre anni il circo mediatico si ritrae? Stiamo parlando dell’omicidio di un innocente per mano continua a pagina 10
violenta ad opera di una efferata organizzazione criminale che ha fatto della sua soppressione un ammonimento a tutti. E quindi anche a noi. Il confine fra civiltà e inciviltà, fra umano e abominevole, fra la sacralità del vivere e l’oscurità del nulla passa da qui, dall’amore dell’innocenza. La stampa copre pagine e pagine per guerre tanto tragiche quanto da noi geograficamente lontane, e non si spende per la guerra che gli cova in casa. Ogni giorno ha il suo bollettino di omicidi, corruzioni, malversazioni ma scivola via come se fosse una cosa per addetti ai lavori. La verità è che vi è una tendenza alla notizia morbosa, alla solleticazione dei nostri istinti peggiori. Le vicende di Cogne e di Avetrana nascono in ambiente familiare, in un paesaggio di quotidianità fatto di pulsioni e istinti. Criminali ma che sono per così dire di casa. La morte di Cocò è la lotta tra il bene e il male perché i bambini conservano la dote primordiale dello stupore, quella che noi adulti abbiamo perso. Ed è questo il motivo per cui l’opinione pubblica non si indigna nel profondo. Prevale la rassegnazione, cioè la convinzione che non possa cambiare nulla. Perchéquesta è una cosa del Sud e se la devono sbrigare loro. Così anche nelle redazioni l’abitudine alle (brutte) notizie le rende tutte uguali. I politici sarebbero dovuti intervenire, perché se la società si addormenta è la classe dirigente che ha il dovere di tenerla desta. La malavita è combattuta, ma al fondo è sopportata. Importante è starsene fuori. Possibile che a Cassano Ionio non siano scesi in piazza, non abbiano dato la loro solidarietà non al nonno pregiudicato ma al bambino? Ecco, l’incapacità di distinguere tra le colpe dell’adulto e l’innocenza dell’infanzia porta a credere che la legge del sangue rende colpevole agli occhi dell’opinione pubblica locale anche chi non lo è. Solo le parole di Papa Francesco hanno fatto giustizia di questa congiura del silenzio. La mafia uccide i bambini. Il piccolo Di Matteo è stato ucciso in Sicilia e sciolto nell’acido. Giuseppe Monticciolo, l’assassino, lo racconta nel libro di Vincenzo Vasile «Era figlio di un pentito». Questi soggetti criminali con i loro tremendi misfatti fanno notizia e riempiono le cronache. Quando invece dovrebbe essere il silenzio a coprire la loro vita. La notorietà è la droga della provincia Italia. Carolina Girasole, eroina antimafia di Isola di Capo Rizzuto, viene arrestata per aver utilizzato la propria carica di sindaco in funzione degli interessi della ’ndrangheta. E poi Rosy Canale, altra portabandiera calabrese dell’antimafia, viene arrestata per malversazione e truffa. Il degrado morale avanza e non trova resistenze. Facciamone una battaglia civile che riscatti il nome di un bambino che rappresenta tutti i nostri bambini, quelli ai quali Gesù disse: lasciate che vengano a me. La nostra civiltà si fonda su questo messaggio. Dovrebbero saperlo i cittadini e anche i politici che li rappresentano. Se non è così, diano le dimissioni ma poi ci avvisino se no non ce ne accorgiamo.