Di Lionello Mancini
Come accade per il calcio, nel nostro Paese vivono 60 milioni di commissari tecnici della legalità. Molti (e non solo nei bar) gridano soluzioni facili e indicano fulminee scorciatoie per combattere un degrado che riguarda sempre e solo qualcun altro. Peccato che la corruzione non arretri, e venga praticata con nonchalance a ogni livello e latitudine sociale.
Il Sole 24 Ore riportava pochi giorni fa, in una sola pagina, questa sequenza di titoli: «Regione Lombardia. Maroni ai consiglieri: restituite i rimborsi illeciti»; «Regione Campania. Rimborsi, indagato anche il sottosegretario De Caro» e «Processo al via. Traffico di rifiuti, giudizio immediato per Cerroni». “Semplice” malcostume? “Solo” cattive abitudini? O è corruzione?
Lasciamo ai giudici valutare il peso penale del termine, a noi basta aprire un buon dizionario alla parola “corruzione” per leggere «decomposizione, disfacimento, il guastarsi, il degenerare» fino (ma da ultimo) a «delitto contro la Pa consistente nel dare o promettere denaro o altri vantaggi…» eccetera. Tanto per ribadire che il tema etico e culturale esiste anche se non sempre si sedimenta in fatti-reato e che è banale indicare come corrotto soltanto chi risulti colpevole al terzo grado di giudizio. E tutti gli altri? Tutti quelli che predicano la legalità, ma poi ne assumono in dosi omeopatiche, tali da non incidere sui loro percorsi di carriera e sui loro affari? Il punto è proprio questo. Lo stesso Papa Francesco ha voluto rimarcare – e con quale durezza – che autoassolversi per gli atti contrari alla convivenza civile, deturpa innanzitutto l’animo di chi li compie e poi quello della società intera.
Era l’8 novembre 2013, quando il Pontefice denunciava «gli amministratori corrotti di aziende, quelli pubblici o di governo, devoti alla dea tangente, che commettono un peccato grave contro la dignità e danno da mangiare pane sporco ai propri figli. E i loro figli, forse educati in collegi costosi, forse cresciuti in ambienti colti, avevano ricevuto dal loro papà come pasto sporcizia. E questo è un peccato grave». E per non lasciare dubbi, nella stessa omelia di cinque mesi fa, il Papa aveva concluso: «Corruzione è questo: è non guadagnare il pane con dignità».
Un severo ripasso della lezione è stato poi impartito a 518 parlamentari e uomini politici all’alba di giovedì 27 marzo. Convocati per la Messa, diversi di loro sono usciti straniti da San Pietro, dopo una meditazione sul Vangelo di Matteo (11,15) nella quale, parlando della classe dirigente (di allora, ovviamente….), Papa Francesco ha notato come essa si fosse «allontanata dal popolo e avesse interesse soltanto nelle sue cose: nel suo gruppo, nel suo partito, nelle sue lotte interne. E questa gente era peccatrice? Sì. Come tutti noi, ma questi erano più che peccatori: il loro cuore si era indurito tanto. E da peccatori, erano scivolati, erano diventati corrotti. È difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini, Gesù li chiama “sepolcri imbiancati”». E, finita la Messa, il Pontefice se ne è andato senza stringere la mano a nessuno.
L’indicazione è autorevole e netta: chi sceglie il pane sporco non merita strette di mano (e tanto meno voti).
Sole 24 Ore 28.4.2014