Ricordando Falcone e Borsellino: le mafie ora corrompono, ma non hanno perso la loro forza «militare

 

di Giuseppe Pignatone

 

 

L’eredità più preziosa di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone per i giovani magistrati, ma prima ancora per tutti noi cittadini di questo Paese, è il loro esempio: senso delle istituzioni e senso del dovere spinti fino al limite estremo del sacrificio, oltre che – naturalmente – eccezionali qualità professionali e umane.

La prima lezione che ci viene da Borsellino, Falcone e dagli altri magistrati e appartenenti alle forze di polizia di quegli anni è che le indagini vanno fatte a 360 gradi, come spesso si dice, senza mai accettare che ci siano tabù o zone franche. C’è poi un nuovo metodo di lavoro: il lavoro di équipe (anche se nessuno ha mai dubitato del ruolo preminente di Falcone e Borsellino), un lavoro metodico volto a cogliere i nessi e i collegamenti tra una miriade di fatti apparentemente slegati tra loro, l’attenzione –forse per la prima volta- agli aspetti patrimoniali e alle indagini bancarie, la “scoperta” (se così si può dire) e l’utilizzo, tra mille polemiche, dei collaboratori di giustizia. Gli esiti di tutto questo sono ormai scritti nelle sentenze del maxiprocesso, nei libri di storia e anche, purtroppo nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. 

Ma accanto a questo una riflessione ulteriore ci porta, io credo, a sottolineare altri aspetti dell’attività di Paolo Borsellino e dei suoi colleghi. Il primo è la disponibilità ad affrontare le indagini con quello che io chiamo spirito laico, cioè senza pregiudizi di alcun tipo. Questo è tanto più necessario quando oggetto delle indagini sono realtà complesse o addirittura segrete per definizione come sono le associazioni mafiose. Certo a volte, specialmente oggi, può sembrare che sappiamo tutto delle mafie o –addirittura – che tutto fosse già scritto nei libri degli studiosi di 50 o 150 anni fa. Non è così. Bisogna sempre rimettere in discussione le proprie convinzioni e le proprie certezze. Falcone e Borsellino hanno detto che Buscetta ci ha fornito “i codici” per leggere e capire Cosa Nostra e in effetti con Buscetta è cominciata una nuova conoscenza della Mafia siciliana. Ma ci sono volute intelligenza e disponibilità per rimettere in discussione tutto quello che si credeva di sapere. 

Non dimentichiamoci che appena dieci anni prima, nel 1973, nessuno aveva creduto alle dichiarazioni di Leonardo Vitale, tanto simili a quelle che poi avrebbe reso Tommaso Buscetta. E lo stesso spirito laico ci deve guidare oggi ad affrontare le indagini sull’evoluzione di Cosa nostra sulla presenza della ‘ndrangheta al nord, negata per decenni pur dopo i grandi processi milanesi dei primi anni ’90, e quelle sulle nuove mafie che potrebbero svilupparsi in altre città italiane. E a proposito della ‘ndrangheta mi sembra opportuno sollecitare tutti noi a non dimenticare, nelle analisi – per altro verso corrette – sul sempre maggiore ricorso delle mafie al metodo corruttivo/collusivo, la forza “militare” e la capacità di ricorso alla violenza che l’organizzazione calabrese tuttora possiede e che la rende, per giudizio unanime, la mafia più potente e pericolosa in questa fase storica. 

Sole 24 Ore