Paolo Borsellino nel ricordo di Pietro Grasso

 

PIETRO GRASSO – Presidente del Senato – Cari colleghi, ricorre oggi il 25° anniversario della strage di Via D’Amelio, nella quale furono barbaramente assassinati il giudice Paolo Borsellino e gli uomini di scorta della Polizia di Stato Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. Il nostro primo pensiero, sono certo, si rivolge innanzitutto alle famiglie degli uomini e delle donne uccisi da quell’esplosione. Non erano trascorsi neanche due mesi dalla strage di Capaci quando l’Italia si trovò di fronte a un secondo attacco terroristico-mafioso. Il 19 luglio è un giorno che racchiude in sé dolore, emozione e pensieri, ricordi, bilanci e promesse che trovano spazio all’ombra dell’ulivo piantato nel luogo in cui quel tremendo boato trascinò con sé la loro vita e sotto il quale oggi si ritroveranno centinaia di ragazze e ragazzi. Il dolore e lo sconforto confondono e ridisegnano la nozione che abbiamo del tempo: ecco come venticinque anni – o cinquantasette giorni – sembrano interminabili e, al tempo stesso, volati via in un attimo. La quiete di una domenica qualunque d’estate si trasformò, in un istante, in una ferita che non potremo mai sanare. Non abbiamo dimenticato nulla di quella domenica palermitana, né della vita e dell’esempio degli uomini e delle donne vittime della furia omicida della mafia. Di Paolo Borsellino voglio in questa solenne occasione ricordare soprattutto il sorriso. Era un uomo solare, simpatico, affabile. Professionalmente aveva un eccezionale talento, una passione viscerale e una ineguagliabile capacità di superare fatica e delusioni. Sapeva sempre dare il giusto consiglio ai colleghi più giovani: me ne ha dati tanti, preziosissimi, quando iniziai a studia-re le carte del maxiprocesso. Dopo il 23 maggio 1992 l’espressione di Paolo si trasformò in una maschera di tensione e di dolore. Fu chiamato dalla sua coscienza a raccogliere il lascito pericoloso del suo amico e collega, e sebbene fisicamente e moral-mente distrutto per la perdita di Giovanni, ne assunse la pesante eredità con la precisa consapevolezza che presto avrebbe seguito il suo destino; aveva deciso di continuare e si era buttato senza un attimo di tregua nelle indagini, imponendosi ritmi massacranti con l’ansia di una vera lotta contro il tempo. Borsellino ha saputo, con la fermezza e la dedizione di un uomo innamorato del suo Paese, dare a tutti noi una grande lezione di coerenza e di senso del dovere. Il suo esempio è sopravvissuto all’esplosivo di Via D’Amelio, al tempo, alle calunnie, ai pezzi di verità mancanti che ancora affannosamente cerchiamo: vive e si rafforza nei gesti di chi, ogni giorno, si impegna per la legalità e la giustizia; nella voce di quanti non rimangono più in silenzio; nel coraggio che serve per rifiutare compromessi, privilegi e indebite scorciatoie. Nel nome di Borsellino, e in quello di tutti i caduti innocenti per mano mafiosa, abbiamo in questi 25 anni ottenuto molti successi nel contrasto alla criminalità organizzata: abbiamo sconfitto la ‘cosa nostra’ violenta, sanguina-ria e stragista, ma non ancora quella capace di mutar pelle, di sparire dai radar dell’opinione pubblica e di infiltrarsi a tutti i livelli nella società, nella politi-ca e nella Pubblica Amministrazione. Non sono mancati momenti nei quali la mafia ha tentato dei colpi di co-da che ne dimostrano più la debolezza che la forza: penso, ad esempio, ai recenti atti di vandalismo inferti alle statue di due grandi uomini dello Stato, Giovanni Falcone e Rosario Livatino. È proprio dinanzi a questi rigurgiti e alle immagini che ci ricordano l’inferno di Via D’Amelio, i corpi dilaniati, che dobbiamo rinnovare la promessa di impegnarci per perseguire ideali di verità e di giustizia e per continuare l’opera di contrasto ad ogni manifestazione mafiosa, con uno slancio etico che superi ogni indifferenza e rassegnazione e l’alibi del non sapere. C’è ancora molto da fare e, come membri di questa Assemblea rappresentativa, abbiamo il compito di essere all’altezza di una così decisiva sfida per il nostro Paese e per il suo futuro. In memoria di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina invito ad un minuto di raccoglimento. 19 Luglio 2017

Caro Paoloquando penso a te, mi chiedo spesso: quanto sono lunghi cinquantasette giorni? Quanta vita riesce a starci dentro? Quante cose sei riuscito a capire, a fare, a preparare e a disporre in quelle poche settimane che separano il 23 maggio dal 19 luglio 1992? Abbiamo approfondito il nostro rapporto a partire dal Maxiprocesso, ma il nostro primo contatto risale a molto tempo prima: nel 1958 frequentavamo entrambi il liceo Meli, tu all’ultimo anno e io al ginnasio, e molte volte, dopo averlo scoperto, ti ho preso in giro sulla tua precoce carriera da direttore ed editorialista del giornale della scuola, “Agorà”, da dove lanciavi critiche al sistema scolastico. Gli anni del Maxi sono stati, per usare le tue parole, una “meravigliosa avventura”, il periodo in cui siamo riusciti a ottenere i primi grandi successi nel contrasto a Cosa nostra, quando sembrava che, davvero, le cose stessero per cambiare. Allora i cittadini facevano il tifo per il pool antimafia, erano pronti a rialzare la testa e riconquistare quei pezzi di libertà che il giogo mafioso toglieva allora, e in parte toglie ancora. Sono stati gli anni migliori, quelli in cui ho conosciuto il Paolo che più mi piace ricordare, dedito al lavoro e allo stesso tempo pieno di allegria, consapevole dei rischi ma pronto a godere dei piccoli piaceri di una vita normale, solitamente preclusi a chi vive scortato. Ricordo quando ti incontrai mentre guidavi da solo la tua auto blindata: eri fuggito dalla scorta per comprare le sigarette. Provai a rimproverarti, ma con il solito sorriso che usavi per sdrammatizzare mi rispondesti: “Devo pur lasciare uno spiraglio nel sistema di protezione. Se mi devono ammazzare, voglio che abbiano la possibilità di colpire solo me”. Mi chiedesti di accompagnarti ai grandi magazzini lì vicino, e osservai il piacere che provavi in quei minuti di libertà indugiando tra i banconi, comprando cose futili e rifiutando la cortesia di chi, avendoti riconosciuto, voleva cederti il posto in coda alle casse. Sei stata la persona più semplice e più complicata che abbia mai conosciuto. Semplice per mille piccoli gesti di vita quotidiana, non sempre aderenti all’etichetta, che rivelavano il tuo spirito scherzoso e goliardico: le adorate polo al posto delle camicie, il fumo dell’eterna sigaretta e i mozziconi sparsi ovunque in ufficio, gli scherzi continui, il tirare la mollica del pane contro i più seriosi durante le cene. Eri sempre disponibile per i colleghi, soprattutto per i più giovani, ai quali non mancava mai il tuo consiglio. Anche dopo anni, mi colpiva il tuo modo di parlare pacato ma deciso, accompagnato da una mimica altamente espressiva che coinvolgeva gli occhi, di colore indefinibile, dal castano al verde, i baffi, la bocca, il modo tutto tuo di arricciare il naso e il sorriso che sempre illuminava il tuo volto prima di una battuta sarcastica. Immagini di te che non sono registrate in interviste o eventi pubblici ma che restano indelebili per chi le ha potute vivere: mi piacerebbe far sapere ai molti che conoscono solo le tue espressioni serie, determinate e livide di quei cinquantasette giorni di rabbia e dolore, che non eri solo il magistrato inflessibile e il giudice coraggioso, ma anche un uomo caldo, generoso, estroverso, circondato dall’amore di tua moglie Agnese e dei tuoi figli Manfredi, Lucia e Fiammetta. Eri anche complicato, perché in te si combatteva un’eterna lotta tra i duri doveri del magistrato, ai quali non ti saresti mai sottratto, e la profonda empatia con le dolorose vicende umane che questa professione porta a conoscere e affrontare. Il tuo rapporto con il lavoro era frenetico ma non ossessivo, ai miei occhi apparivi come un cingolato che avanza con andatura costante nel macinare processi, indagini, rapporti di polizia, documenti. Nulla ti avrebbe potuto fermare: la passione ti faceva sopportare ogni fatica. Dopo quel periodo di sostegno generale ci fu una sorta di riflusso, anni di delusioni, delegittimazioni, critiche ingiuste e polemiche feroci. Avemmo il sospetto che si volesse chiudere in fretta una stagione che avrebbe potuto dare ancora grandi frutti. Per questo, più volte, hai denunciato pubblicamente quanto stava avvenendo: l’isolamento di Giovanni; lo smantellamento del metodo che aveva portato a risultati prima impensabili perché, come dicevi, “il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio”; l’uso distorto fatto allora delle parole di Sciascia sul “Corriere della Sera” e che continua ancora oggi; gli attacchi che venivano sia da alcuni colleghi sia da alcuni politici e giornalisti. Hai sopportato prove che avrebbero fiaccato chiunque, persino le polemiche per quel maledetto incidente in cui restò coinvolta l’auto della scorta che viaggiava dietro la tua, che ferì studentesse e studenti davanti al nostro vecchio liceo e costò la vita a Biagio Siciliano, appena quattordicenne, e a Giuditta Milella, figlia di un questore in pensione. Ti ricordo aggirarti sconvolto per gli ospedali, affrontando coraggiosamente i familiari e parlando con i ragazzi feriti come fossero figli tuoi. Ci confessasti pieno di amarezza: “Provo un senso di colpa enorme. Quello che è successo è conseguenza delle condizioni in cui si vive in questa maledetta città, quelle condizioni create dall’organizzazione mafiosa. Bisognerebbe spiegare ai ragazzi, e ai loro genitori, che tutto questo è cominciato dall’assassinio di magistrati come Chinnici, Costa e altri. Se non è possibile assicurare condizioni di sicurezza adeguate senza rischiare tragedie, io per primo sono pronto a rinunciare alla scorta”. Rischiavi la vita per i cittadini di Palermo, eppure ricevesti attacchi anche in quel frangente. Non sapevano quale intenso e profondo rapporto ti legava “ai tuoi ragazzi”, quelli che ti seguivano giorno e notte per proteggerti; non sapevano che temevi più per la loro vita che per la tua e quanti stratagemmi usavi per liberarli ogni tanto dai rischi. Uno degli agenti della tua scorta è poi stato per quindici anni nella mia: parlava moltissimo di te e dalle sue parole trasparivano insieme l’affetto e l’orgoglio di esserti stato accanto. Non credo sia un caso che i nostri figli, cresciuti circondati da uomini così coraggiosi e che in qualche modo erano ormai parte della nostra famiglia allargata, abbiano scelto di indossare la divisa della polizia di Stato. Eppure, caro Paolo, andavi avanti. Sempre. Poi ci fu il 23 maggio e tutto cambiò in un attimo. Fu il tuo viso affranto a darmi la consapevolezza che non c’era più niente da fare per Giovanni e che, per usare le tue parole, con la sua “era finita una parte della mia e della nostra vita”. Iniziarono i giorni peggiori: si stava avverando la profezia che Ninni Cassarà ti aveva fatto sul luogo dell’omicidio di Beppe Montana: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”Accettasti con piena consapevolezza, ancora di più che negli anni precedenti, ogni rischio, ogni conseguenza del lavoro che avevamo scelto e della testarda convinzione di farlo fino in fondo. Sentivi che il tempo stringeva. In meno di due mesi hai fatto ogni sforzo possibile per arrivare alla verità su Capaci e per difendere l’eredità di Giovanni, rifiutando con una dura lettera al ministro Scotti la proposta, imprudentemente fatta in pubblico, di riaprire per te il concorso per la Procura antimafia, quel concorso che aveva visto Falcone perdente. Hai cercato in ogni occasione possibile di risvegliare la coscienza del Paese. Ci sei riuscito, caro Paolo: la registrazione dei tuoi interventi di quelle settimane – il ricordo di Giovanni fatto agli scout nella chiesa di San Domenico a un mese dalla sua morte e meno di un mese prima della tua, in cui sottolineavi tre volte la “perfetta coscienza” con cui lui, Francesca e tutti gli uomini della scorta affrontavano il rischio di morire, l’intervento presso la biblioteca comunale del 25 giugno, le numerose interviste rilasciate, mai così tante come in quei giorni – sono tra i documenti più limpidi per capire chi eri tu, chi era Giovanni, quale straordinario impegno – “per rendere migliore Palermo e la patria cui essa appartiene” – la mafia ha cercato di spezzare con la vostra morte, senza riuscirci. Ripeto spesso anche io quelle parole, le diffondo come una sorta di testamento che hai voluto lanciare ai giovani riuniti in chiesa per il trigesimo, parlando del tuo amico ma in fondo, ne sono sicuro, anche di te:

Sono morti per tutti noi e abbiamo un grande debito verso di loro: dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera:
– facendo il nostro dovere;
–  rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici;
– rifiutando del sistema mafioso anche i benefìci che potremmo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro);
– collaborando con la giustizia;
– testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia;
–  troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli;
– accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito;
– dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo.”

Cinquantasette giorni: pochi per fare tutto quello che avresti voluto, ma forse sufficienti per prepararti a morire in “perfetta coscienza”. Avevi sempre saputo che la mafia ti avrebbe ucciso, eri riuscito persino ad abbracciare Vincenzo Calcara, il killer che era stato incaricato di farlo a Marsala, dove vivevi ancora più blindato, e a scherzarci proprio con lui durante un interrogatorio: “Hai sbagliato, a Marsala era difficile, dovevi provarci a Palermo”. Non accettavi il consiglio di chi, forse non conoscendoti abbastanza, ti invitava a mollare la città, tu che alla camera ardente dei caduti a Capaci, avevi avvisato tutti: “Chi vuole andare via da questa Procura se ne vada, ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende: il nostro futuro è quello lì”, puntando il dito verso le cinque bare. Ma in quei caldi giorni di luglio la consapevolezza che il tempo ti stesse sfuggendo dalle mani ti portò a prepararti anche spiritualmente, da fervente cattolico quale eri. Alla camera ardente del palazzo di giustizia allestita per le vittime del 23 maggio stringesti i rapporti con un giovane prete, il cugino di Vito Schifani, quello che sosteneva la moglie Rosaria mentre tuonava in chiesa contro i mafiosi, e fu proprio a lui che, pochi giorni prima di morire, chiedesti di confessarti, perché non eri sicuro di arrivare alla domenica successiva. La tua vita finì proprio quella domenica, il 19 luglio. Ti sei alzato presto, alle 5, per “fregare” due ore alla giornata, parlare al telefono con Fiammetta che era in vacanza in Thailandia e rispondere a una professoressa del liceo Cornaro di Padova: le tue ultime parole sulla mafia, qualche ora del tuo poco tempo libero dedicata a ragazzi mai visti, nel primo giorno in cui ti eri imposto di non lavorare. Poi una mattinata di mare, a Villagrazia di Carini, per un ultimo bagno e un pranzo con gli amici e la famiglia. Un piccolo spazio di tempo dedicato a loro, che con dolore avevi trascurato negli ultimi giorni: un po’ per l’impegno infaticabile nel lavoro, un po’ per abituarli a quel tragico distacco che sapevi avrebbero vissuto a breve. Il lunedì successivo saresti dovuto andare dal procuratore di Caltanissetta per rivelare ciò che sapevi sulla fine di Falcone, su ventilate ipotesi di dissociazione dei boss all’ergastolo, sulle ultime indagini di Giovanni nel settore degli appalti pubblici che volevi riprendere personalmente, riesumate nel corso di un incontro riservato, fuori dalla Procura di Palermo, con i vertici operativi del Ros dei carabinieri. In via D’Amelio, sotto casa di tua madre, c’erano troppe auto parcheggiate: nonostante le numerose segnalazioni per evidenti ragioni di sicurezza, non era ancora stato imposto l’obbligo di rimozione. Una gravissima omissione. Da giorni avevano già occupato il posto più vicino al citofono, per poi sostituire l’auto posteggiata con la Fiat 126 imbottita di esplosivo in attesa del tuo arrivo. Un attimo, un boato, l’inferno. Perdeste la vita tu, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi. Il tuo affezionato autista, Antonio Vullo, che stava facendo manovra con la tua auto blindata, provò disperatamente a soccorrervi, venendo investito da un’ondata di fumo, fiamme e calore. I dettagli di quel che avvenne sono così carichi di orrore che preferisco non ripeterli. Ero a Roma in quel momento – continuavo a lavorare, dopo la morte di Giovanni, al ministero di Grazia e giustizia– e mi precipitai a Palermo con un volo di Stato insieme al ministro Martelli. Il dolore e la rabbia si rinnovarono, insieme all’angoscia e allo smarrimento. Tante domande iniziarono ad affollarsi nella mia mente: perché un’ulteriore strage a distanza così ravvicinata dopo Capaci? Era la paura che Borsellino diventasse procuratore nazionale antimafia, non essendo stata ancora resa nota la sua lettera di rifiuto? O il timore che avrebbe portato avanti le indagini su mafia e appalti? Serviva ad alzare il prezzo della tregua nella guerra contro lo Stato? O ancora, un coacervo di interessi, quel connubio tra imprenditoria, massoneria e servizi deviati che vedevano in pericolo i loro lucrosi affari e gli illeciti profitti? Era il paventato pericolo dello sconvolgimento politico dopo Tangentopoli? Probabilmente ciascuna e tutte queste motivazioni insieme: di certo non basta l’ipotesi della vendetta contro un nemico giurato, sapevano che la reazione dello Stato sarebbe dovuta essere implacabile: quella seconda strage comportava più rischi che vantaggi per Cosa nostra. Da Palermo tornai a Roma, per aspettare il rientro di Fiammetta da Bangkok e accompagnarla al tuo funerale. Nel frattempo, alle esequie degli agenti, assistemmo a un nuovo momento di vicinanza tra i cittadini di Palermo e l’Italia intera, un momento di rabbia cieca contro la mafia, di indignazione verso le istituzioni che non avevano fatto abbastanza, ancora una volta, per difendere i propri cittadini migliori, un momento di dolore per le vittime e di profonda solidarietà con i loro familiari. C’è un’altra vittima di quell’attentato, anche se non per effetto della spaventosa esplosione di via D’AmelioUna ragazza di soli diciassette anni, Rita, la tua “picciridda”. A quell’età si dovrebbero inseguire i sogni, progettare il futuro, vivere la bellezza di un’età spensierata. Invece Rita Atria patì il dolore per la morte del padre e del fratello, affiliati a Cosa nostra; con coraggio denunciò quanto sapeva, subendo il ripudio della sua famiglia; soffrì per la solitudine a cui la relegarono. Eri tu il suo sostegno. La ascoltavi, la incoraggiavi, le davi la forza per affrontare gli ostacoli. Avevi un rapporto protettivo con le donne che decidevano di collaborare con la giustizia e che per questo venivano isolate dalle loro stesse famiglie. Grazie alle parole di Pietra Lo Verso, Giacoma Filippello, Piera Aiello, Rosalba Triolo imparasti a decifrare, come nessun altro prima, il rapporto che lega le donne ai mariti o ai parenti mafiosi, ad analizzare il loro ruolo in seno a Cosa nostra. Una settimana dopo la tua morte, Rita non ce la fece più e si suicidò. Al conto delle vittime di via D’Amelio andrebbe aggiunto anche il nome di questa giovanissima donna, che ha saputo dare dignità al poco tempo che il destino le ha concesso. Niente è stato più lo stesso: dopo il 19 luglio sono stati in tanti a portare avanti il tuo ricordo, a partire dai tuoi fratelli Rita e Salvatore. La tensione morale intorno a te e a Giovanni non è mai diminuita: siete tra le poche figure non controverse, icone trasversali di un Paese che ha disperatamente bisogno di credere in qualcuno e che nelle vostre vite ha trovato un punto di riferimento, una sorgente dalla quale attingere forza e voglia di impegnarsi nel proprio quotidiano. Per scriverti questa lettera, caro Paolo, ho ripreso gli appunti che avevo usato nel 2002 per commemorare i dieci anni dal tuo assassinio. C’era già una sentenza, ma dalle parole che usai emergono i tanti dubbi che avevo, e non solo io, sulla ricostruzione di Vincenzo Scarantino. Dissi che era emersa solo una parte di verità, ma non tutta: “Dopo dieci anni di indagini ancora non si è trovato il bandolo della matassa sotto il profilo giudiziario. Ma di sicuro c’è l’aspirazione di tutti i giudici inquirenti, a qualsiasi ufficio appartengano, di consegnare al popolo italiano il quadro di una situazione, che al di là della rigida e ardua ricostruzione di un valido contesto probatorio, va chiarita in tutti i suoi aspetti, rispondendo a domande fondamentali, che ancora oggi rimangono senza risposta”. Ne ero così convinto che non ho mai smesso di indagare sulle stragi, qualsiasi ruolo abbia ricoperto. Da procuratore nazionale ho avuto nel 2008 la conferma di quel che avevo intuito. Dopo aver insistito per anni, finalmente Gaspare Spatuzza iniziò a parlare, e grazie alle sue inedite confessioni il quadrò cambiò del tutto. Persone innocenti vennero scarcerate, sentenze passate in giudicato vennero messe in discussione. Iniziò una nuova stagione processuale, con nuovi colpevoli noti e altri ancora ignoti; a tanti improvvisamente tornò la memoria di fatti di cui non avevano mai parlato. Proprio per trovare quei colpevoli ancora nascosti ho usato ogni strumento in mio possesso al fine di arrivare alla verità. Ho lasciato la Procura orgoglioso di aver continuato a ricercare informazioni per dare nuovi spunti alle indagini sulle stragi e sugli omicidi “eccellenti”. Quelle informazioni, raccolte grazie ai colloqui investigativi, sono diventate atti d’impulso alle Procure, tracce e suggerimenti da approfondire per trovare, se ve ne sono, conferme e riscontri. La mia speranza, caro Paolo, è che, com’è successo con Spatuzza, possano esserci nuovi collaboratori, interni o esterni alla mafia, che aiutino i magistrati impegnati su questo fronte a far piena luce sui tanti punti oscuri che ancora rimangono nella nostra storia. Alle forze dell’ordine e ai magistrati che si impegnano ogni giorno, con dedizione, sacrifici e talvolta anche a rischio della vita, non devono mancare solidarietà, risorse, tecnologie e strumenti adatti per soddisfare questa ansia di verità. Quella mafia infame e violenta che ha deciso il tuo assassinio non c’è più: alcuni sono morti in carcere, altri sono ancora oggi detenuti. Dal 1993 non abbiamo assistito a omicidi così eclatanti: la strategia della sommersione prosegue. Sotto il profilo che definiamo militare la repressione investigativa ha funzionato. Questo non significa che la mafia sia stata sconfitta. Ha imparato a mimetizzarsi ancora meglio, lascia silenziose le armi ma continua a lucrare sui fondi pubblici e sul malessere della popolazione. Molte indagini, non solo in Sicilia ma in tutto il Paese, hanno svelato complesse reti di relazioni fra mafiosi, politici, imprenditori, professionisti e amministratori pubblici, inizialmente caratterizzate da intimidazione e violenza, alle quali poi si aggiungono collusione e corruzione, fino a diventare coincidenze di interessi. Sappi che nell’unico giorno in cui sono stato senatore prima di essere eletto presidente del Senato, ho presentato un disegno di legge per affinare gli strumenti utili a colpire il fenomeno dell’economia criminale sotto i diversi aspetti della corruzione, del riciclaggio, dell’evasione fiscale, del falso in bilancio e del voto di scambio. Dopo qualche anno, seppur con modifiche ne hanno annacquato la portata, le mie proposte, quelle che tante volte da magistrati avevamo discusso e proposto ma non avevano visto la luce, sono diventate legge. Avevo anche chiesto che fosse istituita una commissione d’inchiesta su tutte le stragi irrisolte, mafiose e terroristiche, per cercare, con altri strumenti, i pezzi mancanti di verità, ma la proposta non è passata. Siamo sempre stati consapevoli, d’altronde, che la lotta alla mafia non può essere solo una battaglia giudiziaria o di ideali: è necessario intervenire sulla prevenzione, e quindi sulle condizioni di sviluppo, sulla capacità dei territori di attrarre investimenti e risorse, per sottrarre quella larga parte di ragazzi che non studiano e non lavorano alle lusinghe del crimine. Nulla potrà fermarci dal continuare. Ci sono tantissime persone che, guardando al vostro esempio, difendono lo Stato, la Costituzione e i suoi valori. Politici che vivono seriamente il loro impegno, come il presidente della Repubblica: un uomo che è parte di questa dolorosa storia e che rappresenta un sostegno affidabile e coerente per tutti i familiari delle vittime e per i cittadini che non si arrendono. Sindaci che guidano il cambiamento nel loro territorio, e per questo vengono minacciati. Magistrati che vanno avanti con coraggio. Giornalisti che fanno emergere, talvolta prima degli investigatori, gli intrecci criminali, spesso costretti anche loro a una vita blindata. Professori che a scuola, ogni mattina, trasmettono alle giovani generazioni i valori per cui avete vissuto e per cui siete morti, raccontano la vostra storia, educano a una cittadinanza consapevole. Cittadini che scelgono per i loro acquisti i negozi che non pagano il pizzo, che fanno i volontari nelle tante associazioni antimafia, che lavorano gratuitamente sulle terre confiscate, che denunciano, che protestano, che non stanno più zitti. È un numero che cresce costantemente, che mi dà speranza, perché sono frutto del vostro sacrificio. Ora ti immagino insieme ad Agnese. L’ultima volta che l’ho sentita, poco prima che morisse, ero insieme a tua figlia. Ho incontrato Lucia a Palermo qualche giorno dopo la mia elezione a presidente del Senato, mi ha detto che la sua salute era peggiorata e me l’ha passata al telefono. La voce era affaticata, ma non l’animo coraggioso in quel corpo minuto. Mi sono tornati in mente ricordi lontani di quando, da ragazzi, prima che vi conosceste, venivo invitato il sabato sera alle feste a casa sua, lei le chiamava “serate danzanti”. Per vent’anni, dopo la tua morte, ha condotto una battaglia discreta per arrivare alla verità. Quella battaglia continua ancora oggi. La mattina del 24 luglio, il giorno dei tuoi funerali, atterrammo con Fiammetta all’aeroporto di Punta Raisi, che oggi è l’aeroporto “Falcone e Borsellino”. Era l’alba, e la bellezza del sole che sorgeva dal mare e di Monte Pellegrino strideva terribilmente con gli orrori compiuti dagli uomini. Mi vennero in mente le tue parole sulla nostra “terra bellissima e disgraziata”: non le ho mai sentite così vere come in quel momento. Quel contrasto ancora mi ferisce ma la Sicilia non è più la terra degli infedeli: saresti orgoglioso dei successi ottenuti in questi venticinque anni, anche se non è ancora l’isola libera che sognavamo. Continueremo a credere in quel sogno. Continueremo a fare tutto il possibile perché si avveri. Potremo dirci soddisfatti solo quando, e succederà, la mafia avrà una fine. Tuo, Piero – da  Pietro Grasso – Storie di sangue, amici e fantasmi