Dopo una vita trascorsa nei tribunali più complessi ed esposti del Paese, il procuratore capo di Roma va in pensione. Abbiamo cucito insieme alcune sue recenti affermazioni sui temi caldi che riguardano il rapporto tra politica e giustizia
È un lungo commiato, quello di Giuseppe Pignatone da capo della Procura della Repubblica di Roma. Fatto di interviste ponderate e snocciolate nel tempo e un libro recente, scritto a quattro mani con il collega Prestipino. Il primo magistrato lascia il Palazzo di giustizia di piazzale Clodio a Roma e tra due giorni sarà in pensione. Cioè proprio mercoledì, giorni in cui il Consiglio dei ministri si riunirà per decidere se allontanare o meno il sottosegretario Armando Siri dal governo – per chiarezza – in quanto accusato di corruzione per una presunta tangente sull’eolico: 30 mila euro presi per favorire l’insediamento di un impianto eolico in Sicilia di un imprenditore amico. Con il rischio di dividersi e, forse, cadere.
E nell’ultima intervista, che compare proprio sul Corriere della Sera, Pignatone manda un chiaro segnale alla politica che “affida ai giudici i problemi etici che non risolve” da sé. Anche l’ultimo episodio, che sarà oggetto della decisione del Cdm mercoledì, cioè il “caso Siri”, si può inquadrare, di fatto, in un caso di scuola: da una parte la Lega, ipergarantista, che tutela il proprio sottosegretario non acconsentendo alle sue dimissioni, spontanee o imposte; dall’altra, i 5Stelle che le chiedono a gran voce, perché sotto indagine e per togliere d’imbarazzo il governo.
L’eterno scontro tra magistratura e politica
Al fondo, c’è il contrasto tra magistratura e politica. È fisiologico?, chiede l’intervistatore: “Se dura da decenni, seppure in forme diverse – risponde Pignatone –, si deve ritenere che ci siano ragioni strutturali, al di là delle scelte o delle colpe di alcuni protagonisti che pure esistono” ma “il nostro, poi, è da sempre un Paese profondamente diviso, in cui si continua a negare legittimazione all’avversario politico e non si rinunzia a usare contro di lui il risultato delle indagini, a prescindere dal loro esito finale”.
“Anche perché – aggiunge poi – il nostro sistema processuale sembra fatto apposta per alimentare il conflitto. La scelta garantista di avere tre gradi di giudizio ha un costo inevitabile in termini di possibile contrasto tra le successive decisioni e di durata dei procedimenti, aggravata poi dall’incredibile carenza di risorse; mentre la tutela del diritto di difesa impone la discovery, e quindi la conoscenza, degli atti processuali anche in fasi iniziali delle indagini”.
Il ruolo delle intercettazioni
Tutto questo ha a che vedere anche con un uso eccessivo delle intercettazioni? Pignatone risponde che “spesso si dimentica che le ultime due legislature ne hanno esteso l’uso proprio ai reati di corruzione, anche con le tecnologie più moderne, della cui invasività ci accorgiamo ogni giorno di più”, tuttavia – precisa – “ben prima delle modifiche legislative, ho invitato colleghi e polizia giudiziaria a essere particolarmente rigorosi nella selezione da utilizzare. Così come ho introdotto criteri più stringenti per l’iscrizione degli indagati la cui notizia, di per sé sola, è spesso causa di discredito e danni sociali”.
Ma le interviste al procuratore capo che si avvia alla pensione partono da lontano. Le prime compaiono il 12 settembre 2018 e sono affidate lo stesso giorno al Corriere della Sera e a la Repubblica e hanno ancora per oggetto il “caso Roma” con Mafia Capitale al centro. Poi, il 24 ottobre segue quella a Il Foglio. Si tratta di un lungo e serrato confronto di opinioni diverse, tra soggetti opposti, e che parte dalla convinzione del giornale diretto da Claudio Cerasa “che ha passato anni a spiegare le ragioni per cui a nostro avviso l’inchiesta su Mafia Capitale aveva tutti i tratti di un’inchiesta sbagliata”.
“Pignatone ha accettato con un sorriso, promettendoci di farci cambiare idea su Mafia Capitale – non è successo – ma qualcosa in più l’abbiamo capito” confessa il quotidiano. La discussione ruota intorno a questo interrogativo: “Cosa può fare oggi il sistema giudiziario e politico per combattere la dittatura dello sputtanamento?”, al quale il magistrato risponde: “La prima osservazione da fare è che nella quasi totalità dei casi le notizie pubblicate non sono segrete perché depositate come prescrive il codice. Problema diverso è invece che anche la pubblicazione di notizie non segrete spesso costituisce reato, ma queste violazioni possono oggi essere definite in via amministrativa con il pagamento di una modesta somma. E questo è un tipico esempio di scelta discrezionale del legislatore che in questo caso ha voluto privilegiare la libertà di informazione”.
Il ritorno nella sua Palermo
La prima intervista che annuncia il suo pensionamento è invece al Il Messaggero e risale al 30 marzo di quest’anno. Anche in questo caso i temi sono molti, in particolare sulla politica romana. Che opinione si è fatto? “Niente giudizi politici” si schermisce il magistrato. “Certo, il quadro che è uscito fuori dall’indagine sul Mondo di mezzo, aldilà dell’accusa di mafia, è un quadro corruttivo molto vasto che riguardava l’amministrazione comunale di Roma. Buona parte degli imputati non ha neanche contestato l’accusa di corruzione, hanno contestato l’accusa di mafia. Ed era interessante vedere che accanto ad esponenti della classe politica fossero coinvolti anche esponenti della burocrazia comunale e manager delle società partecipate dal Campidoglio. E le indagini e i processi per corruzione sono continuati anche dopo”.
E dopo l’8 maggio, che farà? “Intanto tornerò a Palermo” risponde. “Devo ricostruire una vita dopo undici anni lontano dalla mia città: sette anni a Roma e 4 a Reggio Calabria. Voglio ripartire con una vita un po’ più normale. Con la mia famiglia e il mio contesto palermitano: certamente la lettura sarà il mio hobby preferito. Non so ancora cosa farò: è talmente strana l’idea di non venire in ufficio che devo ancora abituarmi all’idea”.
Il colloquio più recente alla vigilia della pensione è con Il Sole 24 Ore del 14 aprile, in cui il procuratore capo di Roma precisa che “i magistrati non devono cercare consenso”, che subito dopo aggiunge: “Forse c’è stanchezza, ma il fatto che la magistratura non sia più protagonista assoluta, come negli anni delle stragi e di Tangentopoli, è positivo, perché non ci sono più quelle forme estreme di patologia”.
La virtù della prudenza
E nell’ultima, quella odierna al Corriere, al giornalista che gli obietta che la sua fama di magistrato prudente non gli è basta ad evitare “le accuse di influenzare la politica attraverso le inchieste”, Pignatone risponde con sicurezza: “Ho cercato di essere prudente nel senso della virtù cardinale di cui parla Papa Francesco, ‘non per stare fermo ma per portare avanti le cose, che inclina a ponderare con serenità le ragioni di diritto e di fatto che devono stare alla base del giudizio’.
Una virtù da esercitare prescindendo da vedute personali e dai propri convincimenti ideologici. Per usare le parole di Falcone al Csm quando fu accusato di tenere le prove nei cassetti: ‘Non si può ragionare: io contesto il reato e poi si vede’. Naturalmente questo è l’obiettivo, non sta a me dire quanto sia riuscito a raggiungerlo. Però dev’essere chiaro che noi abbiamo il dovere di perseguire i reati facendo tutte le indagini necessarie. Quanto alle critiche vanno accettate, specie da chi esercita un potere: a volte forniscono utili spunti di riflessione, a volte servono per esercitare la virtù della pazienza; quelle che lei indica, mi sembra rientrino nella seconda categoria”.
Ma i magistrati devo fare attenzione agli equilibri istituzionali? Sul punto il magistrato non ha dubbi: “Penso che tutte le istituzioni e i loro rappresentanti meritino rispetto, così come lo chiediamo noi magistrati. Per questo vanno evitati l’esasperazione dei contrasti e ciò che serve solo a produrre discredito, cercando invece di collaborare, come ad esempio credo sia avvenuto nel caso Regeni. Fermo restando, ripeto, che quando sono emersi reati anche in ambiti istituzionali li abbiamo perseguiti come nei confronti di chiunque, e che la responsabilità penale è personale”.
Un bilancio finale
Dulcis in fundo, un bilancio della propria attività di questi 45 anni con la toga: “Impossibile farlo in poche battute” la risposta. “Ho vissuto esperienze umane e professionali straordinarie e, come altri, ho pagato prezzi personali e familiari non indifferenti. Ne è valsa la pena nella misura in cui, insieme a tanti altri, siamo stati utili alla collettività, in tempi e contesti estremamente difficili. E voglio sottolineare che risultati importanti sono per un Pm non solo arresti e condanne, ma anche assoluzioni e archiviazioni, anche se proprio queste a volte sono oggetto di critiche violente quanto infondate” è l’ultima riflessione di fine carriera.
AGI