21 maggio 2018 |
La Cassazione sulla configurabilità dell’aggravante del ‘metodo mafioso’ nei luoghi dove è radicata un’associazione mafiosa storica
Cass., sez. II, sent. 29 novembre 2017 (dep. 12 marzo 2018) n. 10976, Pres. Prestipino, Rel. Recchione, imp. Viglione
Contributo pubblicato nel Fascicolo 5/2018
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- Con la sentenza qui illustrata, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione torna ad analizzare i requisiti per l’applicabilità dell’aggravante de “l’aver agito avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p.”, già disciplinata dall’art. 7 D.L. 152/1991, conv. in L. 203/1991 e ora (dopo il d.lgs. n. 21/2018, attuatuivo del principio della riserva di codice) dall’art. 416 bis.1 c.p. – stabilendo che ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del metodo mafioso […] è sufficiente – in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica– che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività.
- Più nello specifico, nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità, la Corte d’Appello di Napoli condannava l’imputato, in parziale riforma della sentenza di primo grado, alla pena di anni tre, mesi tre, giorni venti di reclusione per il reato di estorsione con le aggravanti ex art. 7 L. 203/1991 e 628, comma 3, n.1) c.p.
Avverso tale pronuncia il difensore dell’imputato proponeva ricorso per cassazione deducendo la violazione di legge e il vizio di motivazione esclusivamente in relazione al riconoscimento delle anzidette aggravanti. In primo luogo, si affermava l’insufficienza delle prove poste a base del riconoscimento del metodo mafioso non essendo a tal fine sufficiente l’allusione all’esistenza di un gruppo criminale non meglio identificato ed, in secondo luogo, con riferimento alla seconda delle predette aggravanti, si sosteneva che la presenza del […] all’atto dell’estorsione non avrebbe avuto alcuna efficacia causale o agevolatrice e, pertanto, non avrebbe dovuto fondare il riconoscimento della responsabilità a titolo concorsuale, dunque dell’aggravante.
- Per quanto riguarda il primo dei motivi di ricorso, ad avviso dei giudici di legittimità, ai fini della configurabilità dell’aggravante del “metodo mafioso” prevista dall’art. 7 L. 203/1991, relativamente ai territori in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica, è sufficiente che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività.
Infatti, nei luoghi di radicata infiltrazione delle mafie storiche i codici di comunicazione degli affiliati sono noti ed è sufficiente un richiamo anche implicito per suscitare il timore dell’esercizio di note forme di violenza, la cui diffusa conoscenza fonda il potere di intimidazione e di controllo delle organizzazioni criminali riconducibili alle mafie storiche. Fatta questa premessa, dunque, la Suprema Corte ritiene, conformemente a quanto stabilito nei precedenti gradi di giudizio di merito, positivamente configurabile tale aggravante ex art. 7 L. 203/1991 visto il comportamento degli imputati che, all’atto di estorsione, avevano fatto esplicito riferimento agli “amici di […]” ed avevano adoperato le “modalità tipiche del metodo mafioso, oggettivamente idonee ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone”.
- In secondo luogo, per i giudici di legittimità il ricorso è manifestamente infondato anche per quanto riguarda la dedotta illegittimità dell’aggravante ex art. 628, comma 3, n. 1) c.p.
A tal fine, questo collegio ribadisce che, con riferimento al reato di estorsione, l’aggravante speciale delle più persone riunite richiede la simultanea presenza di non meno di due persone nel luogo e al momento di realizzazione della violenza o della minaccia. Tale canone ermeneutico, sempre ad avviso della Suprema Corte, è stato applicato correttamente dai giudici di merito con motivazione priva di vizi e coerente con le risultanze processuali. Peraltro, si rileva come tale doglianza sia stata per la prima volta proposta con il ricorso per cassazione, visto che in appello si richiedeva esclusivamente un più favorevole bilanciamento tra le circostanze, con conseguente insanabile frattura della catena devolutiva che si riverbera sull’ammissibilità del ricorso.
- La sentenza sopra illustrata è da collocarsi, insieme ad altre, nel solco di un filone giurisprudenziale che, mano a mano, sta andando oramai sempre più consolidandosi[1].
L’aggravante de “l’aver agito avvalendosi del metodo mafioso”, introdotta ad opera del decreto legge 152/1991 allo scopo di “coprire” penalmente, con l’applicazione di una sanzione più grave, i comportamenti dei fiancheggiatori dell’associazione mafiosa[2], risponderebbe, ad avviso di una consolidata giurisprudenza[3], alla ratio di contrastare in maniera più decisa, vista la pericolosità e determinazione criminosa, quei comportamenti di soggetti che, partecipi o non partecipi di reati associativi, utilizzino metodi mafiosi, ovvero quelle condotte idonee ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni della specie considerate.
La norma, a ben vedere, richiama espressamente le condizioni previste dall’art. 416-bis c.p., ossia, nello specifico, la forza di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti. La forza intimidatrice testé richiamata consisterebbe nella capacità di piegare, ai propri fini, la volontà di quanti vengano in contatto con l’associazione[4], mentre la condizione di assoggettamento ed omertà nella condizione di essere esposti al pericolo senza possibilità di difesa, in stato di soggezione e di soccombenza di fronte alla forza della prevaricazione e nella reticenza ricollegabile alla forza intimidatrice sprigionata dal sodalizio mafioso[5].
Sia in passato che in tempi recenti, soprattutto in dottrina, si è spesso lamentato un difetto di tassatività e determinatezza dell’aggravante in questione, anche nella forma de “l’aver agito al fine di agevolare le attività delle associazioni mafiose”, in quanto da più parti ritenuta di indubbia vaghezza e di fragile tenuta probatoria.
- Nel caso preso in considerazione dalla sentenza in commento è sufficiente, in contesti in cui è radicata un’associazione mafiosa storica, un riferimento al potere criminale dell’associazione anche in maniera implicita o contratta, in quanto esso sarebbe ben noto alla collettività. Al contrario, l’oramai superato orientamento giurisprudenziale[6] richiedeva, ai fini della configurabilità del “metodo mafioso”, che la condotta concretamente tenuta dal soggetto agente si connotasse per un tangibile ricorso all’intimidazione ovvero alla prevaricazione mafiosa, la cui esistenza non poteva dunque in alcun modo essere ricollegata né all’esistenza di un contesto mafioso né alla “caratura mafiosa” dell’agente.
Tale pronuncia, dunque, insieme all’orientamento giurisprudenziale più recente sul punto, sembra confermare la volontà di ridurre lo standard probatorio necessario al fine di addivenire alla contestazione della predetta aggravante, essendo stato concretamente ritenuto sufficiente che gli imputati avessero fatto un riferimento agli “amici di […]” e che avessero adoperato le “modalità tipiche del metodo mafioso, oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone”, non ravvisando più la necessità, come in passato, del riscontro dell’effettivo ricorso alla violenza o alla prevaricazione mafiosa. Piuttosto, è stato marcatamente valorizzato il contesto ambientale di riferimento, trattandosi di luoghi diradicata infiltrazione di mafie storiche ove i “codici” degli affiliati sono noti alla collettività ed è sufficiente un generico riferimento, anche implicito, per suscitare il timore dell’esercizio di note forme di violenza.
- Per quanto riguarda il lamentato deficit di tassatività e determinatezza della suddetta aggravante, peraltro, appare opportuno osservare come una recente pronuncia della Suprema Corte[7]abbia tentato, seppur timidamente, di circoscrivere i presupposti applicativi dell’aggravante in esame fornendo dei parametri oggettivi per valutare l’eventuale carattere mafioso del comportamento del soggetto agente. In primo luogo, occorrerebbe guardare al contenuto della minaccia e, dunque, alle espressioni utilizzate dal soggetto agente nei confronti delle vittime del reato, nonché all’atteggiamento ed alla gestualità dello stesso al momento dei fatti. In secondo luogo, occorrerebbe anche riscontrare elementi di vario tipo come il coinvolgimento dell’autore in procedimenti per criminalità organizzata, la sussistenza di rapporti intimi con esponenti delle consorterie criminali o l’eventuale conoscenza da parte delle vittime della vicinanza del prevenuto ai locali clan mafiosi, il contesto ambientale in cui avvengono i fatti, le infiltrazioni mafiose nel tessuto economico sociale e qualunque ulteriore elemento atto a conferire al comportamento l’idoneità ad evocare, con efficienza causale, l’esistenza di un sodalizio ed incutere un timore aggiuntivo di una ritorsione mafiosa.
La pronuncia qui in commento pare, in sostanza, uniformarsi al più recente orientamento giurisprudenziale cercando di valorizzare in concreto taluni degli indici di “mafiosità” in precedenza segnalati. Tale presa di posizione, secondo alcuni, non può che costituire un ulteriore necessario approdo nella lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso, specie alla luce del notevole mutamento che all’interno della stessa negli ultimi anni si va registrando, sentendo sempre più parlare di mafia silente. Con tale espressione, brevemente, altro non si intende che una nuova tipologia di manifestazione del metodo mafioso, non più costituito da espliciti atti di violenza e minaccia, ma fatto sempre più spesso di messaggi indiretti e larvati o, addirittura, totalmente scevro di avvertimenti diretti. Tali associazioni, quando si manifestano con modalità silenti, si “avvalgono” della fama criminale conseguita nel corso degli anni nei territori di origine e successivamente diffusa e esportata in altre zone del territorio nazionale ed anche oltre i confini nazionali[8]. Tale forma di metodo mafioso, in sostanza, si riscontra quando l’associazione può vantare una fama criminale o una forza di intimidazione su un territorio circoscritto tale da rendere superfluo qualsiasi avvertimento mafioso, sia pure implicito.
A tale progressivo mutamento del fenomeno mafioso, in definitiva, pare adeguarsi la giurisprudenza della Suprema Corte che finisce, come spesso accade, e non senza disappunto in dottrina, per ritenere sufficiente, ai fini della sussistenza dell’aggravante del “metodo mafioso”, la presenza di un certo contesto ambientale, di una particolare gestualità da parte del soggetto agente e di un’allusione ad un personaggio dispicco di un clan locale[9].
[1] Così Cass., Sez. II, 21 aprile 2017, n. 19245; Cass., Sez. II, 21 luglio 2017, n. 36115.
[2] Vedi Ronco, L’art. 416-bis nella sua origine e nella sua portata applicativa, in Diritto penale della criminalità organizzata, a cura di B. Romano e C. Tinebra, Milano, 2013, p. 92.
[3] Vedi, Cass., Sez. II, 3 aprile 2014, n. 16365.
[4] Vedi Cass., Sez. I, 16 maggio 2011, n. 25242.
[5] Vedi De Robbio, La cd. “aggravante mafiosa”: circostanza prevista dall’art. 7 del d.lgs. n. 152/1991, in Giur. merito, 2013, fasc. 7-8, p. 1617.
[6] Vedi Cass., Pen., Sez. VI, 6 luglio 2007, n. 26326, secondo cui “Ai fini della configurabilità, nella condotta criminosa, della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 (aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo), non basta il mero collegamento dei soggetti accusati con contesti di criminalità organizzata o la loro “caratura mafiosa”, occorrendo, invece, l’effettivo utilizzo del metodo mafioso nell’occasione delittuosa”.
[7] Vedi Cass., Sez. VI, sent. 23 marzo 2017, n. 14249, in questa Rivista, 19 settembre 2017, con nota di L. Ninni, Aggravante del metodo mafioso: la Suprema Corte propone una sintesi degli elementi probatori rilevanti per l’integrazione della circostanza di cui all’art. 7 d.l. 152/1991 (fasc. 9/2017, p. 165 ss.).
[8] Vedi R.M. Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in questa Rivista, 10 novembre 2015.
[9] Non mancano, tuttavia, in giurisprudenza casi ove la contestazione di detta aggravante è avvenuta in circostanze fattuali molto più esplicite. Vedi Cass., Sez. I, 12 aprile 2018, n. 16317, dove si è rilevata la tipicità delle modalità mafiose dell’atto intimidatorio, da ricollegare, non tanto alla natura ed alle caratteristiche dell’atto violento in se’ considerato, quanto al metodo utilizzato, nel senso che la violenza con cui esso è stato compiuto è risultata concretamente collegata alla forza intimidatrice del vincolo associativo, da considerarsi anche in relazione alla situazione ambientale specificamente accertata dai giudici di merito ed all’esplosione di ben sette colpi di arma da fuoco all’indirizzo del veicolo di proprietà del funzionario destinatario dell’atto intimidatorio, azione messa in essere in pieno giorno ed all’interno della struttura pubblica.