L’autista sopravvissuto alla strage Chinnici, ci guida nella stanza del magistrato ucciso a Capaci, con cui ha collaborato quando non poteva più guidare le auto blindateCustodisce la memoria Giovanni Paparcuri. Lo obbligano le schegge che ha nel corpo e nell’ anima. Ma di più il bisogno di mantenere vive le persone con cui ha vissuto e rischiato di morire. Il 29 luglio 1983 guidava l’ auto che andava a prendere Rocco Chinnici. Per caso si trovava a bordo quando è esplosa l’ autobomba che ha ucciso il giudice sul marciapiede di fronte a casa, i carabinieri della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. I vetri spessi quattro centimetri hanno salvato Paparcuri, ma solo lui. Prima era stato l’ autista di Giovanni Falcone e, dopo, ha vissuto accanto a lui e a Paolo Borsellino da commesso, ruolo cui è stato declassato avendo perso per le ferite l’ abilitazione alla guida delle blindate, collaborando con i due magistrati finché non sono stati uccisi dalla mafia. L’ attenzione alle date, «deformazione professionale», dice lui, «acquisita tenendo la banca dati del maxiprocesso», quando ancora la tecnologia era avveniristica, fa sì che la sua pagina Facebook non si perda un anniversario e da quando esiste custodisce, animandolo di racconto, il Museo Falcone e Borsellino, voluto nel 2016 dall’ Associazione nazionale magistrati di Palermo nelle stanze blindate della Corte d’ appello in cui lavoravano i due giudici assassinati a Capaci e in via D’ Amelio nel 1992. Per questo «Papa», come lo chiamava «il dottore Falcone», è l’ uomo giusto per ricordarlo il 18 maggio, giorno in cui, se fosse vivo, il giudice festeggerebbe 80 anni: «Non riesco proprio a immaginarmelo, il dottore Falcone a 80 anni, per me si è fermato a 53, vivo però. Nel mio ricordo ha il sorriso della foto che c’ è di là, nella sua stanza. Quella è stata scattata dopo, a Roma, ma ha la stessa espressione di quando la sera del 16 dicembre del 1987 mi chiamò». Sicilianità e consuetudine facevano sì che si capissero a gesti e mezze parole: «Dal tono intuivo se voleva chiedermi una ricerca o condividere un caffè. Quella sera mi chiamò con un “Papa” insolitamente leggero. Mi affacciai alla sua porta e lo trovai che chiudeva una telefonata con sotto i baffii il sorriso sereno di quella foto: “Papa, abbiamo vinto”. Io lo guardai trasecolato: “Dottore, quando mai abbiamo fatto la schedina?”. Mi stava dicendo che molti imputati del maxiprocesso erano stati condannati. La soddisfazione non era per il destino di quegli uomini, ma perché finalmente una sentenza avrebbe messo l’ esistenza della mafia nero su bianco. Aveva bisogno di dirlo a qualcuno, sono fiero di essere stato io a raccogliere quel momento». Paparcuri e Falcone si erano conosciuti nel 1982: «Ero l’ autista del presidente del Tribunale, ma avevo avuto un diverbio con una segretaria e, per punizione, mi spedirono da Falcone. Quando mi chiese se ero contento – e lo ero molto perché desideravo una mansione movimentata – tentai di spiegargli che il motivo, la punizione, non mi rendeva felice, ma il lavoro sì. Il problema fu che mi fermò al “no”, senza lasciarmi tempo di spiegare e mi mandò via. Poi mi richiamò. Capii che mi aveva perdonato e mi stimava quando sua moglie, la dottoressa Morvillo, salì in macchina per la prima volta: “Francesca, ti presento Papa. Uno dei nostri”. A me spiace che non siano più sepolti vicini, che il dottore sia stato traslato a San Domenico, il Pantheon di Palermo». Paparcuri giura che in auto Falcone non era tipo da confidenze: «Mi chiedeva solo di non correre: quando cercavo di raggiungere la prima macchina di scorta davanti voleva che la lasciassi andare. Dicevano che avesse un brutto carattere ma non era vero, era solo un uomo di carattere. In fondo timido, risultava schietto, poco diplomatico. Sono stato testimone del suo isolamento. Nell’ estate del 1988 aveva chiesto di essere assegnato ad altro ufficio, poi a settembre decise di restare per senso del dovere. È tutto nelle carte desecretate del Csm. Aveva pochi veri amici: Paolo Borsellino, quasi un fratello, Peppino Di Lello, Giuseppe Ayala, Leonardo Guarnotta, Ilda Boccassini… e attorno tante, troppe invidie e gelosie». Per Paparcuri, dal suo piccolo osservatorio nella stanza del computer grande come una cassapanca, la porta del bunkerino faceva da cartina di tornasole: «Tante volte mi è capitato di sentire persone che in riunione con lui nell’ ufficio accanto, davanti gli dicevano: “Hai ragione, Giovanni” e poi non aspettavano neanche di varcare quella soglia per dirsi tra loro alle sue spalle “Ma chi si crede di essere?”. Avere idee diverse sul lavoro tra colleghi è normale, ma perché non dire apertamente non sono d’ accordo? Borsellino aveva dubbi sull’ idea della “superprocura” che Falcone sosteneva, ma glielo diceva chiaramente, da vero amico». A Paparcuri non piace quando chiamano eroi Falcone e Borsellino: «È l’ alibi che ci diamo per dirci che non siamo all’ altezza di continuare sulla loro strada. No, erano bravissimi professionisti, dotati di grande passione e senso del dovere, ma erano uomini normali. Però credo che il dottore Falcone in una cosa sia stato eroico davvero: nel sopportare i veleni di cui era circondato e di cui si accorgeva, fingendo di nulla. Filtravano nelle mie mani attraverso le carte che mi passava da scrivere. Di certo non è andato a Roma (al ministero della Giustizia, come direttore degli affari penali, ruolo riservato a magistrati ndr) per vendersi al potere politico, come si sussurrava: i risultati del suo lavoro, dalla rotazione delle sezioni per i processi di mafia in Cassazione all’ istituzione della Direzione nazionale antimafia, provano che non ha scaldato sedie. Dicevano che gli piacesse la visibilità, ma la sua fama dipendeva solo dal fatto che era un giudice preparatissimo. Penso che questo luogo blindato, eppure testimone d’ attimi di leggerezza, per lui e per Borsellino sia stato anche un rifugio: «Dopo il fallito attentato all’ Addaura in cui tentarono di ucciderlo per la prima volta, Falcone non andò a casa, venne qui».Paparcuri è stato contestato in Rete perché a volte ne racconta il lato lieve: «Se dico di quando Borsellino nascondeva una papera dalla collezione di Falcone chiedendo un “riscatto” di 5 mila lire o di quando Falcone a tavola prendeva tutti a palline di pane, qualcuno mette in dubbio. Ma che motivo avrei di inventarmi cose così?». È il modo di “Papa” di restituire loro vita e umanità: «Chissà se qualcuno ricorderebbe questi 80 anni se Falcone fosse qui? Il fatto che ne stiamo parlando, che i ragazzi delle scuole vengano qui ad ascoltare, mi fa credere che almeno non siano morti per niente, che ci sia un senso da qualche parte. Quando Falcone mi chiedeva qualcosa non mi diceva mai: “Grazie”. Mi diceva: “U Signuri t’ u paga”, il Signore te lo paga. Mi piace pensare che lo credesse». FAMIGLIA CRISTIANA 23.5.2019