Processo trattativa, la manipolazione della stampa sul ”papello” falso con le richieste, vere, di Riina

 

Alla Corte d’Appello attribuiti giudizi, ma la relazione non è altro che una sintesi della sentenza di primo grado

Come al solito, pur di screditare il processo sulla trattativa Stato-mafia, tornano d’attualità le carte false e le mezze parole. E’ accaduto venerdì scorso, durante l’udienza del processo d’Appello e a prestarsi al “gioco” sono i grandi quotidiani di regime. “Il presidente della Corte d’Appello Angelo Pellino conferma tutte le perplessità sul papello”, “Il giudice del processo trattativa: ‘Dubbi sull’autenticità del papello'”, “il papello non è prova neppure per la Corte d’Assise”. Sono questi alcuni dei titoli e dei passaggi riportati. E poi ancora: “Per il Presidente Pellino ‘le prove sull’autenticità finiscono per passare dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, caratterizzate da oscillazioni e incertezze. Questi elementi costituiscono un ostacolo insormontabile a provare la sua autenticità sostenuta dall’accusa’”; “Per Pellino ‘la falsificazione documentale è stata utilizzata da Ciancimino per supportare le sovrastrutture artificiosamente aggiunte ma il contenuto corrisponde effettivamente alle richieste promanate dai vertici mafiosi'”. Parole che, così sintetizzate, sembrerebbero esprimere giudizi dello stesso Presidente della Corte d’Appello su prove ed elementi, come appunto il documento con le richieste di Riina allo Stato per interrompere le stragi, che tra l’altro dovranno essere nuovamente valutati. Una rappresentazione erronea e distorta della realtà perché il Presidente della Corte d’Appello, giudice a latere Vittorio Anania, non sta effettuando altro che la relazione introduttiva rileggendo, di fatto, quelle conclusioni e valutazioni che i giudici di primo grado hanno messo nero su bianco per giungere alla sentenza di condanna nei confronti di quasi tutti gli imputati. E le valutazioni sono molto più ampie e complesse.
Infatti non è il “papello” il documento falsificato consegnato da Massimo Ciancimino. I giudici di primo grado, e Pellino ne ha dato atto nella relazione, scrivono che “sebbene non siano emersi segni evidenti certi di falsificazione di manipolazione proprio di questo documento consegnato dal Massimo Ciancimino e, a parere degli esperti che lo hanno esaminato, potrebbe trattarsi della fotocopiatura di un documento originale eseguito con tener in uso sino alla metà degli anni Novanta”, a far dubitare comunque della sua autenticità sono altri fatti, ovvero “le accertate false dichiarazioni che con sicurezza possono addebitarsi a Massimo Ciancimino con riferimento a buona parte della documentazione dallo stesso prodotto” unito all’incertezza sull’identità dell’autore della grafia del documento.
Dunque, ha ricordato sempre la Corte, “l’autenticità di questo documento finisce per essere rimessa esclusivamente alle dichiarazioni proprio di Massimo Ciancimino che, a prescindere dal giudizio complessivo di inaffidabilità di questa fonte come fonte testimoniale, proprio sul punto sono caratterizzate da tutta una serie di oscillazioni incertezze nella ricostruzione dell’iter di rinvenimento del documento sino alla sua tardiva consegna all’autorità giudiziaria dopo molti precedenti interrogatori”
Il concetto espresso dai giudici nelle cinquemila pagine di sentenza sul punto si possono riassumere così: poiché le dichiarazioni di quest’ultimo non vengono prese in considerazione anche quell’elenco viene messo da parte senza che possa assumere il valore di prova. 
Tuttavia anche se gli elementi precedentemente esposti “costituiscono ostacoli insormontabili a raccogliere la tesi, che invece è sostenuta dalla pubblica accusa, dell’autenticità di questo documento” non significa che “Vito Ciancimino non sia stato effettivamente destinatario di richieste eventualmente scritte da parte dei vertici mafiosi del tipo di quelle contenute nel ‘papello’ poi esibito da Massimo Ciancimino e acquisito agli atti di questo processo”. Anche perché, sostanzialmente, “il contenuto del documento corrisponde effettivamente alle richieste che sarebbero promanate dai vertici mafiosi”. Sono state dunque ricordate le varie testimonianze di Brusca, che già nel 1996 aveva parlato di un “papello” pur “precisando di non avere mai visto il documento scritto” con le richieste di Riina (lo stesso capo dei capi nelle intercettazioni esclude di avere scritto alcunché). E tra le richieste riferite dall’ex boss di San Giuseppe Jato vi era la “revisione del maxi processo ed in generale benefici per i detenuti”. Dichiarazioni che trovano conferme anche da altri collaboratori di giustizia, come Salvatore Cancemi e Rosario Naimo; la testimonianza di Pino Lipari ma anche le dichiarazioni dei fratelli di Massimo Ciancimino, Roberto eGiovanni che hanno proprio riferito di alcune domande del padre (l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito con cui erano entrati in contatto i carabinieri, ndr) proprio sulla possibilità di revisione della sentenza del maxi processo.

La mancata perquisizione del Covo di Riina
Ovviamente l’udienza di venerdì scorso non ha affrontato solo il tema del “papello” consegnato da Ciancimino jr ma ha visto anche la relazione di altri fatti che il processo di primo grado ha ricostruito e che i giudici hanno valutato. Tra questi vi è la vicenda della mancata perquisizione del covo di Totò Riinaimmediatamente dopo l’arresto: “Sul piano fattuale, annota la sentenza, il tribunale riscontra quindi tutti gli elementi materiali del contestato reato di favoreggiamento personale aggravato perché il dato più inquietante che emerge da questa ricostruzione è che c’era stata una sollecitazione espressa del capitano De Caprio, rivolta all’autorità giudiziaria competente a soprassedere alla perquisizione nonostante che, addirittura, ci fossero due squadre già pronte a intervenire, proprio a tutela dell’indagine in corso. Quindi si era raggiunto questa sorta di accordo per cui si manteneva il servizio di vigilanza e di osservazione finché possibile e utile, rimandando quindi la perquisizione a un secondo momento senonché, poi, lo stesso giorno, quindi a distanza di poche ore dal raggiungimento di questa intesa operativa tra i carabinieri direttamente impegnati e protagonisti anche della cattura di Riina ed i magistrati della procura di Palermo, il servizio di osservazione di vigilanza, che peraltro puntava sul cancello d’ingresso principale, ma non l’uscita secondaria dallo stesso residence, tanto che la famiglia di Riina ha potuto abbandonare il complesso senza essere vista, veniva rimosso con l’argomento che i militari impegnati sarebbero troppo esposti senza che si proceda però contestualmente alla perquisizione”. “Addirittura – è stato ricordato – l’autorità giudiziaria competente non viene neanche avvisata della decisione, inaspettata, di rimuovere improvvisamente il servizio di vigilanza”. Dopo aver ricordato le dichiarazioni dei magistrati Caselli, allora Procuratore capo di Palermo, ed Aliquò, la Corte ha anche evidenziato le dichiarazioni di Brusca su quella mancata perquisizione che “suscitò interrogativi” anche in Cosa nostra “in quanto si apprese che invece, in quello stesso giorno del 15 gennaio, era stata perquisita la casa di Biondino (autista di Riina, ndr)”. 
“La conclusione della Corte – ha ricordato Pellino – è che deve comunque escludersi che una simile défaillance investigativa possa essere dovuta a incapacità professionale del Mori perché è la sua stessa storia personale a escludere questa spiegazione e allora l’unica ricostruzione plausibile resta quella che salda questa anomala omissione della perquisizione a quella serie di condotte anche omissive che già avevamo visto a proposito della prima fase dei contatti con Vito Ciancimino inquadrandosi anche questa, ennesima a questo punto, omissione nel contesto di quelle condotte poste in essere da Mori e anche dagli ufficiali al suo comando, dirette a preservare da ogni possibile interferenza la proprio interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa con l’interlocuzione che era già era stata avviata nei mesi precedenti”. Inoltre, si legge che, “questa scelta improvvida costituì un segnale lanciato alla controparte, un segnale di disponibilità a riprendere il filo di quel dialogo”. Con chi? L’ipotesi è che il segnale sia stato lanciato alla “corrente” di Provenzano che aveva una visione differente per il futuro di Cosa nostra, meno “rumorosa” e basata sull’immersione, come hanno riferito collaboratori come Antonino Giuffrè. 
Questi aspetti, però, è meglio non ricordarli e sulla stampa non è comparsa neanche una riga.

I cambiamenti ai vertici del Dap e i silenzi istituzionali
Così come non sono state riportate quelle parti delle motivazioni della sentenza riguardanti le stragi del 1993 e “l’improvvida iniziativa dei carabinieri del Ros ebbe l’effetto di rafforzare nei capi mafiosi dell’epoca il convincimento che la strage fosse pagante” oppure le valutazioni sull’avvicendamento ai vertici del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) ed i silenzi istituzionali che si sono susseguiti nel tempo, a cominciare da quello della più stretta collaboratrice (ed amica) di Giovanni Falcone all’ufficio Affari penali del ministro della Giustizia, Liliana Ferraro, la cui testimonianza viene definita “ambigua”. O ancora la “reticenza” dell’ex Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro che ai pm disse di non saper nulla “riguardo l’avvicendamento al vertice del Dap tra Nicolò Amato e il dottore Adalberto Capriotti e si premura anche di aggiungere di non avere mai avuto alcuna notizia di trattative tra stato e criminalità organizzata, di non avere mai avuto notizia di divergenze comunque tra esponenti istituzionali sull’applicazione del regime 41 bis e non ricorda di particolari accadimenti verificatisi nella notte tra il ventisette e il ventotto luglio 1993 cioè le stragi di Roma e Milano”.
Il processo ha dimostrato che Scalfaro ebbe “un ruolo attivo nella fase di sostituzione del direttore del Dap”. E i giudici di primo grado hanno anche scritto una considerazione pesante su quella testimonianza, seppur effettuata durante la fase d’indagine: “Ove si volesse escludere la consapevole reticenza del teste, può trovare una qualche giustificazione soltanto il lungo tempo trascorso o di patologie dovute all’età avanzata”. Ma hanno anche aggiunto: “In ogni caso, quali che siano le ragioni che hanno indotto Scalfaro a negare di avere conoscenze in ordine all’avvicendamento di Amato, non v’è dubbio che alla stregua delle chiare testimonianze sopra ricordate (Fabbri, Amato e Gifuni, riscontrate, peraltro, ampiamente, quanto meno sul contesto, da quelle dei numerosi magistrati e funzionari del D.A.P. pure esaminati come testi nel corso del dibattimento) deve, con certezza, ricondursi alla volontà del Presidente Scalfaro la sostituzione dell’allora Direttore del D.A.P. Amato”.
Pellino ha proseguito la relazione ripercorrendo anche l’analisi sui documenti acquisiti al processo, come la famosa relazione della Dia dell’agosto 1993, firmata da De Gennaro, in cui si parla anche di “trattativa”, fino ad arrivare alla valutazione dell’operato dell’ex ministro della giustizia Giovanni Conso che con la mancata proroga di oltre trecento 41 bis coltivava “una speranziella sottesa, senza proclamarla” e cioè la speranza di vedere se dall’attenuazione del rigore carcerario fosse potuta derivare la cessazione delle stragi.
Pellino, proseguendo nella relazione, ha ricordato come secondo i giudici vi sia l’evidenza che “qualcuno deve avere portato alla cognizione del Ministro ulteriori elementi di conoscenza che egli, poi, ha valutato, facendone derivare quella sua autonoma decisione finale. Tali elementi, in realtà, sono stati indicati dallo stesso Conso e sono costituiti dalle notizie che egli ebbe riguardo ad una differenziazione di posizioni all’interno di ‘cosa nostra’ tra, da un lato, il sanguinario Riina e, dall’altro, Provenzano, invece, più interessato agli affari e, quindi, ‘meno esageratamente ostile’ (così come disse lo stesso Conso, ndrallo Stato”. Una spaccatura che al tempo non era nota tra gli investigatori. 
Di questi fatti, però, i giornali si sono ben guardati dal riportare queste parti della relazione. E non si dica che si tratta di cose già dette. Perché anche la valutazione sul documento del “papello” non era una novità. Ecco perché, dunque, parliamo di manipolazione dei fatti. Una manipolazione che passa anche dal nascondimento degli stessi secondo il dettame che se non parli del fatto questo non esiste. Ma la realtà è ben diversa e ancora oggi spaventa. Basta ascoltare il processo nella sua interezza per rendersi conto perché quanto emerso dà così fastidio. Prossima udienza il dieci giugno quando, secondo programma, dovrebbe concludersi la lettura della relazione introduttiva.

di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari Antimafia Duemila