FRANCESCO MARINO MANNOIA, detto mozzarella

 

 

Francesco Marino Mannoia, conosciuto anche con il soprannome Mozzarella (Palermo5 marzo 1951), è un mafioso e collaboratore di giustizia italianoHa fatto parte di Cosa nostra e, successivamente, ha collaborato con la giustizia come pentitoMannoia era figlio di un affiliato della cosca della zona di Santa Maria di Gesù a Palermo. Era tra i più stretti collaboratori di Stefano Bontate e si occupò prevalentemente della raffinazione dell’eroina partendo dalla morfina (donde lo pseudonimo de il chimico o “u dutturi”). In quel periodo, infatti, era uno dei pochi in grado di raffinare tale droga e lavorava un po’ per tutte le Famiglie palermitane e siciliane, ma in particolare per il suo boss Stefano Bontate. Durante la seconda guerra di mafia (19811983) il suo boss Bontate venne ucciso ma Mannoia si salvò in quanto allo scoppio del conflitto si trovava in carcere, con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. Evase dalla galera nel 1983 e si legò ai corleonesi di Totò Riina, di cui divenne il principale raffinatore di drogaArrestato nel 1985, dal 1989 è pentito: infatti, in seguito all’uccisione di suo fratello Agostino e di altri membri dei clan palermitani, Mannoia capì che i Corleonesi avrebbero ucciso pure lui. A causa delle vendette trasversali vennero uccise la madre, la sorella e la zia. Condannato a 17 anni nel maxiprocesso di Palermo, ha vissuto per 16 anni negli Stati Uniti d’America sotto la protezione dell’FBI, con cui collabora. Fu il primo collaboratore di giustizia a provenire dalle fila dei clan vincenti. Rientrato in Italia, è entrato in collisione con il servizio centrale di sicurezza, rivendicando l’importanza delle sue testimonianze e la differenza di trattamento economico rispetto al sistema protezione pentiti statunitense. Ha quindi tentato il suicidio due volte nell’arco di tre mesi.


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“Eravamo tutti bestie, lui non si è fermato”  L’INTERVISTA. IL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA FRANCESCO MARINO MANNOIA: “SI CHIUDE UN’EPOCA CRIMINALE” «Se n’è andata una bestia, come bestie sono tutti i mafiosi. Anche io e tutti i pentiti, ex mafiosi, siamo stati delle bestie». Francesco Marino Mannoia, il collaboratore di giustizia che ha svelato tanti segreti di mafia al giudice Falcone, si dice deluso, amareggiato. «Riina è morto, ma purtroppo Cosa nostra si è già adeguata ai tempi. Questo voglio dire ai giovani».

Che mafia ci troviamo a fronteggiare? «Di sicuro non è più il tempo delle coppole storte. Vedo una mafia più diplomatica, più affaristica, che si muove nella vita sociale».

La morte di Totò Riina ha chiuso davvero un’epoca criminale?  «Ritengo che quei tempi non torneranno più. Non penso che i mafiosi si metteranno nuovamente a sparare. Ma qualche delitto eccellente potrebbe comunque verificarsi, eseguito però non in modo eclatante, ma in modo camuffato».

Lei ha pagato un prezzo altissimo per la sua collaborazione con il giudice Giovanni Falcone. «Nel 1989 uccisero a Bagheria mia madre, mia sorella e mia zia. Mio fratello Agostino è scomparso, e adesso che sono arrivato al termine di questa mia vita vorrei davvero sapere cosa gli è successo, dove è stato sepolto. La verità è che la mia è stata un’esistenza tutta sbagliata. Avrei dovuto fare il meccanico, come mi sarebbe piaciuto, lontano da tutte queste cose».

Chi erano davvero i “Corleonesi”? «Animali, con il sangue attorno. Ma avevano il potere. Erano un’organizzazione troppo radicata, una situazione che mafiosi potenti come Stefano Bontate sottovalutarono: il giorno del suo compleanno, dopo avere festeggiato, uscì in auto e venne ucciso. Faceva il gradasso. Era diverso da Riina, ma anche lui era una bestia. I mafiosi non capiscono: a che servono i miliardi, se poi devi passare la vita in carcere, o peggio ti ammazzano?».

Il ruolo dei collaboratori di giustizia è stato fondamentale per ottenere vittorie importanti sull’organizzazione mafiosa. Il suo ruolo è stato determinante per consentire la ricostruzione dell’incontro fra l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il boss Stefano Bontate, dopo l’assassinio del presidente della Regione Piersanti Mattarella.  «Io ho dato il mio contributo. Ognuno raccoglie quello che ha seminato. Qualche autorevole collaboratore non ha detto invece tutto ciò che sapeva nel corso delle sue dichiarazioni alla magistratura, l’ho sempre sostenuto. Un’altra ragione di delusione in questi anni. Ora i giovani devono stare attenti, devono rendersi conto di cosa è diventata davvero la mafia». Salvo Palazzolo18 novembre 2017 La Repubblica


 Il dramma del superpentito Marino Mannoia  tenta il suicidio: “Lo Stato ci ha abbandonati” Venerdì scorso si era ucciso un altro collaboratore. I fondi per il servizio di protezione sono stati dimezzati negli ultimi 5 anni È stato uno dei mafiosi più temuti di Cosa nostra. E poi uno dei pentiti più importanti della lotta alla mafia, grazie al giudice Giovanni Falcone. Oggi, Francesco Marino Mannoia si vede solo e disperato: alcuni giorni fa, ha tentato di suicidarsi, ingerendo un cocktail di farmaci, ma sua moglie è riuscita a salvarlo in extremis, portandolo in ospedale. Era già accaduto un’altra volta, un mese fa. E qualche giorno dopo Mannoia aveva affidato il suo sfogo al procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che era andato a interrogarlo per una vecchia inchiesta: “Sono deluso, amareggiato, dopo tutto quello che ho fatto per la lotta alla mafia, dal 1989”. Mannoia, che oggi ha 60 anni, ha vissuto a lungo sotto protezione negli Stati Uniti. Poi, ad aprile, ha deciso di tornare in Italia, perché la moglie e i due figli non si sono mai integrati oltreoceano. Ma è stato l’inizio di altri problemi: l’ex chimico delle cosche, grande esperto nella raffinazione della cocaina, si è ritrovato senza una casa, e oggi è ancora più preoccupato per il futuro dei suoi due figli. Oggi, suonano come una drammatica profezia le prima parole di Mannoia che Falcone mise a verbale, l’8 ottobre 1989: “Il mio pentimento è un gesto di fiducia nelle istituzioni, anche se non noto un vero impegno dello Stato nella lotta alla mafia”. Due mesi dopo, Cosa nostra uccise la madre, la sorella e la zia del neo pentito. Mannoia disse a Falcone: “Non mi fermeranno, voglio cambiare vita”. Ma dei rapporti fra mafia e politica parlò solo dopo la morte di Falcone. Svelò che nel 1980 Giulio Andreotti aveva incontrato a Palermo il boss Stefano Bontade. E la Cassazione gli ha creduto (anche se l’accusa è stata dichiarata prescritta). Così Mannoia, che è stato sempre assistito dall’avvocato Carlo Fabbri, è diventato il pentito più attendibile della storia della lotta alla mafia. Ha già scontato una condanna a 17 anni, oggi è un uomo libero. Ma questo è un momento difficile per i collaboratori: qualcuno è stato anche sfrattato da casa, perché lo Stato non ha i soldi per pagare l’affitto. Tutta colpa dei tagli al servizio di protezione: nel 2006, c’erano 70 milioni per lo strumento principale dell’Antimafia, i collaboratori. Oggi, i fondi per i pentiti e i loro legali sono stati dimezzati. Ecco perché alcuni collaboratori hanno già iniziato una singola protesta, denunciando nelle aule di tribunale le carenze del sistema di protezione. Venerdì, un pentito si è impiccato. Giuseppe Di Maio, 33 anni, ex esattore del pizzo della cosca palermitana della Guadagna, viveva un personale dramma della solitudine dopo essere stato abbandonato dalla moglie, che non aveva condiviso la sua scelta. Adesso, un altro pentito di mafia, Manuel Pasta, accusa: “Lo Stato non fornisce assistenza in nulla ai collaboratori, limitandosi allo stretto indispensabile, che si esprime in un tetto, un sussidio quando arriva e le spese per gli impegni di giustizia. Si poteva evitare quel suicidio – scrive Pasta, anche lui ex esattore del pizzo, in una lettera aperta – Di Maio aveva già tentato di togliersi la vita in cella, nel momento in cui è uscito bisognava dargli assistenza psicologica”. Pasta esprime senza mezzi termini il disagio dei collaboratori: “Forse, c’è una volontà superiore affinché questo fenomeno del pentitismo sia disincentivato”, dice. “Ci sono tanti Di Maio che vanno aiutati”, è il suo appello: “Il nucleo di protezione non riesce ad affrontare l’enorme lavoro con un numero esiguo di personale, e spesso non c’è nemmeno un protocollo da seguire, se non quello dell’anima”. (di SALVO PALAZZOLO La Repubblica 27 luglio 2011)


Il pentito Marino Mannoia è tornato in Italia riceverà uno stipendio da mille euro al meseIl chimico di Cosa nostra risiedeva negli Stati Uniti. Ha scontato tutte le condanne e ora è sotto tutela in una località segreta Il pentito di mafia Francesco Marino Mannoia, 60 anni, è tornato a vivere in Italia. E’ uno dei collaboratori di giustizia più importanti anche negli Stati Uniti, dove ha abitato fino a qualche mese fa. Dopo essere stato protetto per 16 anni dai Marshal americani, Mannoia ha ritenuto le condizioni di vita offerte dagli States inaccettabili per sé e soprattutto per i suoi familiari, costretti a non avere un’identità propria e a vivere in condizioni di disagio.
Come aveva preannunciato, tra il serio e il minaccioso, alcuni anni fa, Mannoia, chimico delle cosche, esperto nella raffinazione della cocaina e fedelissimo di Stefano Bontade, è così rientrato in Italia, da uomo del tutto libero, dato che ha finito di scontare nel febbraio 2010 le condanne a complessivi 17 anni di carcere, inflittegli sia in Italia sia negli Usa. Ora è sotto la tutela, in una località segreta, del Servizio centrale di protezione, ma deve vivere con uno stipendio inferiore a mille euro, a fronte degli 8.960 che riceveva negli Usa. Oggi sarà interrogato da due pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo su un omicidio avvenuto molti anni fa.
Nel 2006 c’era stata una dura polemica seguita alla decisione dello Stato italiano di proporgli la “capitalizzazione”, una sorta di liquidazione finale per farlo uscire dal programma di protezione. Mannoia, pentitosi nel 1989 con il giudice istruttore Giovanni Falcone e da sempre considerato altamente attendibile, si era rifiutato di aderire al programma, perché non si sentiva ancora sicuro, e in quell’occasione aveva detto che sarebbe tornato in Italia. Non avendo lavoro, aveva aggiunto provocatoriamente che sarebbe potuto solo tornare a delinquere.
(La Repubblica 15 giugno 2011)


Torna libero il superpentito di mafia Francesco Marino Mannoia, l’uomo che aveva accusato, tra gli altri, anche Giulio Andreotti. Il collaboratore di giustizia vive negli Stati Uniti da più di vent’anni, e adesso torna in libertà perché ha scontato la pena. Il provvedimento è esecutivo ma deve essere ancora notificato al diretto interessato. L’Ufficio esecuzione della Procura generale di Palermo ha già informato il suo legale, Carlo Fabbri, del deposito dell’ordinanza. Nei confronti del pentito è stato fatto il cosiddetto ‘cumulo’ di tutte le condanne, calcolate in diciassette anni.Nel 1989, quando i boss mafiosi appresero che Marino Mannoia aveva deciso di collaborare con la giustizia, gli uccisero la sorella Vincenza, la madre Leonarda e la zia Lucia. Una vendetta trasversale per ‘punire’ il pentito, ma Marino Mannoia ha continuato a collaborare con i magistrati, parlando, oltre che di Andreotti anche di Bruno Contrada e del giudice Corrado Carnevale. (La REPUBBLICA 11 febbraio 2010)


LUCCHESE UCCIDE LE 3 DONNE DI MANNOIA – Lucchese, guida il gruppo che fa fuori tre ”amici” scomodi: Franco Mafara, Antonio Grado e Francesco Marino. Ed e’ sempre lui che organizza l’uccisione di Antonio Casella, quella dell’ex Presidente del Palermo Calcio, Roberto Parisi, a ”liquidare” Leonardo Rimi, ad uccidere nel febbraio 1989 il barone Antonio D’Onufrio e ad eliminare due mesi dopo Antonino Mineo, il ”patriarca” di Bagheria. Il primo a inchiodarlo e’ Francesco Marino Mannoia, che lo accusa di ben 37 omicidi. L’odio di Mannoia per Lucchese deriva sopratutto dal fatto che ”lucchiseddu” e’ il responsabile dell’agguato nel quale vengono uccise la madre, la sorella e la zia. E’ il 23 novembre 1989. Tra i killer c’e’ anche Giovanni Drago, che poi si e’ pentito ed ha raccontato tutto agli inquirenti. Drago ricorda che, vedendo insieme a Lucchese in televisione le immagini della strage, scorsero anche Giovanni Falcone. Questo il loro commento: ”Se lo sapevamo che ci andava anche Falcone, potevamo mettere una bomba sotto la macchina con i tre cadaveri per far saltare in aria il giudice”. All’interno di Cosa Nostra la sua ascesa incontra qualche opposizione. E’ il caso di Vincenzo Puccio, che cerca invano di organizzare una fronda anti-corleonese. Durante la sua detenzione, criticando la decisione di Lucchese di incendiare la casa di Pino Greco, Puccio dice ad altri picciotti: ”Quando esco dal carcere gli faccio saltare la testa”. Finira’ col cranio sfondato da una bistecchiera  ADNKRONOS 10.3.1993  


a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto san francesco