Forse la verità sulla strage di via D’Amelio non si conoscerà.
Ci sono tre motivi per essere pessimisti. Primo: è trascorso tanto tempo dal quel tremendo giorno del 1992. Secondo: alcuni protagonisti, come il capo della Procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra e il super poliziotto Arnaldo La Barbera, sono deceduti. Terzo: in tanti, tra i magistrati che hanno indagato sull’eccidio, oggi dicono che si erano accorti delle bugie di Scarantino. Eppure sulle false dichiarazioni sono stati costruiti processi su processi, spazzati esclusivamente dalle successive dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, killer pentito di Brancaccio.
La richiesta di archiviazione
La Procura di Messina ha chiesto l’archiviazione per gli ex pm di Caltanissetta Annamaria Palma e Carmelo Petralia indagati per calunnia aggravata. Gli avvocati Rosalba Di Gregorio e Giuseppe Scozzola, legali delle parti offese, quattro sei sette ergastolani scagionati, si opporranno alla richiesta di archiviazione.
“Il colossale depistaggio che ha tenuto lontana la verità sulla morte di mio padre e dei suoi agenti di scorta continua a non avere responsabili”, ha dichiarato a Repubblica Fiammetta Borsellino, uno dei figli del magistrato assassinato assieme agli agenti di scorta. Nell’ipotesi accusatoria, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo a Caltanissetta – Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo –, Petralia e Palma avrebbero depistato le indagini imbeccando i falsi pentiti. Secondo il procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, le indagini alla fine non hanno consentito di individuare “reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”.
Scarantino smentito dai pentiti
Nel 1995 Scarantino viene messo a confronto con Gioacchino La Barbera, Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi, e cioè con tre pentiti di spessore. Scarantino sostiene di avere partecipato assieme a loro alla riunione decisiva. Se Scarantino “fa parte di Cosa Nostra” allora “sono cambiate le regole”, dice La Barbera. Di Matteo taglia corto: “… o tu sbagli persona o stai dicendo un sacco di cazzate”. Cancemi è il più tranciante: “… tu non lo sai cosa significa uomo d’onore, tu sei bugiardo… quello che vi sta dicendo (rivolto ai magistrati) è una lezione che qualcuno gli ha messo in bocca”. Insomma, non aveva alcuno spessore criminale e la sola parentela acquisita con il boss Salvatore Profeta non poteva giustificare la sua partecipazione alla strage. È la distruzione dell’attendibilità di Scarantino, almeno così doveva essere, ma non è stato. I verbali dei confronti furono depositati solo in fase processuale.
Mannoia e il confronto inedito
La Procura di Messina l’anno scorso acquisisce le dichiarazioni di Luigi Li Gotti, che di Scarantino è stato l’avvocato nel periodo iniziale della collaborazione. Li Gotti mette sul piatto un fatto inedito. Ricorda che nel 1995 ci fu in interrogatorio di Scarantino a Roma, alla presenza di Giovanni Tinebra, Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Ilda Boccassini e “forse anche di Antonino Di Matteo”: “Qualcuno dei magistrati presenti, non ricordo chi” decise di mettere Scarantino a confronto con un altro pentito, Francesco Marino Mannoia, che le vicende mafiose della Guadagna, la borgata dove viveva Scarantino, le conosceva bene. A Mannoia, racconta Li Gotti, “ci bastò un minuto di colloquio appartato con Scarantino” per dire “che non era uomo d’onore, mise subito a fuoco Scarantino, disse ai magistrati ciò che aveva appurato, c’ero anche io presente, ma questa situazione non destò nei poliziotti e nei magistrati nessuna sorpresa. Quasi si trattasse di una mera conferma”.
La conferma del collaboratore
E neppure Li Gotti si sorprese visto che il suo cliente gli aveva già che “La Barbera gli aveva promesso 400 milioni”. Il penalista condivise i suoi dubbi con i magistrati. Marino Mannoia conferma l’episodio ai pm di Messina: “Ho incontrato Scarantino negli uffici dello Sco (a Roma, ndr) assieme al dottore Di Matteo, il quale mi fece fare un confronto con questo ragazzo. Di Matteo ci lasciò qualche attimo nella stanza e Scarantino mi raccontò di alcune cose della Guadagna, parlandomi di Pietro Aglieri e di una relazione extraconiugale. Quando rientrò il dottore Di Matteo questi si lamentò del fatto che noi parlavamo in sua assenza, ma fu lui a lasciarci soli. Venne fatto un verbale”.
L’audizione di Di Matteo
Tra i convocati dal procuratore De Lucia c’è anche Di Matteo. Il pm, oggi al Csm, dice che aveva sentito puzza di bruciato: “…. nel 1994 ci fu qualcuno che manifestò perplessità proprio in ragione del fatto che lui (Scarantino, ndr) collocava tre soggetti, tre collaboratori che avevano a loro volta smentito di essere presenti a quella riunione (quella in cui fu deciso di uccidere Borsellino ndr)… da una parte c’era questa anomalia dall’altra parte c’erano molti dubbi anche in quel momento, in particolare su Cancemi e Di Matteo Mario Santo…”.
In particolare di Cancemi sorprendeva in negativo il fatto che parlasse della strage di Capaci e non di via D’Amelio. Mentre nel caso Santo Di Matteo era stata intercettata una sua conversazione con la moglie che “lo supplicava di non parlare di via D’Amelio… perché ci sono cose strane, ci sono infiltrati della polizia”.
Dichiarazioni confuse
Di Matteo aggiunge che lo stesso Tinebra gli aveva detto che le dichiarazioni di Scarantino erano “molto confuse”. Gli chiese di fare ordine e “nel Ter non lo abbiamo inserito nemmeno in lista testi”. La sentenza del processo Borsellino ter, emessa dalla Corte d’assise di Caltanissetta allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, era stata lapidaria nel giudizio. Nelle motivazioni si parlava di “parto della fantasia”. I pubblici ministeri del Borsellino bis (Palma e Di Matteo) andarono avanti e proposero appello contro le assoluzioni, seguiti poi dai procuratori generali. Di Matteo aggiunge oggi che “il mio convincimento è che Scarantino direttamente non sapesse nulla ma che qualcuno gli aveva suggerito… gli aveva messo in bocca delle circostanze che in parte erano vere… nessuno onestamente lo devo dire diciamo era al centro per cento convinto, si faceva questo tipi di ragionamento, vediamo, nei punto in cui è riscontrato lo utilizziamo, negli altri punti no”.
Il caso Spatuzza
Nel 2008 si pente Spatuzza. Sembra la volta buona per liberarsi delle dichiarazioni di Scarantino. Un anno dopo, però, quando la Direzione nazionale antimafia deve decidere se inserire il killer di Brancaccio nel programma di protezione la Procura di Palermo frena. Di Matteo, si apprende sempre oggi, era convinto che “la collaborazione di Spatuzza” non era “di particolare rilevanza” perché narrava fatti già noti su alcuni omicidi. E poi garantire una protezione a Spatuzza avrebbe messo in discussione sentenze passate in giudicato e sarebbe stato gettato “discredito sulle istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia”. L’opinione su Spatuzza muterà, si legge nella richiesta di archiviazione messinese, “nel momento in cui costui aveva riferito due fatti ritenuti nuovi: i rapporti avuti da Giuseppe Graviano con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nonché il collegamento tra il progettato agguato all’esterno dello stadio Olimpico di Roma e la criminalità organizzata calabrese”.
Già nel 1997 Spatuzza, non ancora pentito, incontra in carcere a Parma, L’Aquila e Tolmezzo, il procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, e una volta “c’era anche Grasso, accennai ai miei dubbi sulle responsabilità assunte da Scarantino, ma non approfondii”.
Boccasini, Sajeva, Sabella
Anche Alfonso Sabella, allora pm a Palermo e cacciatore di latitanti, nel 1994 si era imbattuto in Scarantino ma, dice oggi, quando lo aveva interrogato “a Genova insieme alla collega Sabatino mi fece una pessima impressione. A me sembrava un balordo che avevano incaricato per rubare la macchina (la 126 usata per l’attentato), io comunque non ho mai creduto a Scarantino, diceva cose inverosimili, io non l’ho mai utilizzato. Non ne ha parlato con i colleghi di Caltanissetta”.
Infine agli atti dell’inchiesta di Messina ci sono le parole di Ilda Boccassini, la prima a incontrare il neo pentito Scarantino. Il pm nel 1994, al termine di un interrogatorio e Jesolo, scrisse una lettera ai colleghi: “Ma vi rendete conto – diceva – che non ha riconosciuto le persone, ha scambiato i tizi, i baffi, non i baffi”. Scarantino era inattendibile anche per un altro pm, Roberto Sajeva: “Le prime dichiarazioni avevano suscitato delle perplessità” per via di una “verosimiglianza discutibile” e poi via via si erano aperte “falle più grosse”.
Un castello di menzogne
Tutti sapevano, dunque, ma lo scempio dei processi costruiti su basi di cartapesta non è stato fermato e la verità si è allontanata. Scarantino è stato creduto da decine di magistrati, requirenti e giudicanti. Tutti, dicono oggi, avevano intuito che il picciotto della Guadagna fosse un bugiardo, ma c’è voluto Spatuzza per iniziare a scrivere la vera storia della strage di via D’Amelio.
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