CALOGERO GANCI il pedinatore

 CALOGERO GANCI, CAPO DELLA COSCA NOCE

 


FIGLIO DEL BOSS RAFFAELE GANCI FIDATISSIMO DI RIINA SI PENTE E ACCUSA TUTTI ANCHE I FAMILIARINato Palermo4 gennaio 1932, uomo di fiducia di Salvatore Riina  era un membro della “Commissione provinciale” di Cosa Nostra.  Affiliato alla cosca della Noce, Ganci era strettamente legato al clan dei Corleonesi di Riina e, per queste ragioni, fu ritenuto responsabile degli omicidi di Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo nel 1981. Uno dei molti ergastoli da lui ricevuti fu quello per l’assassinio del generale e prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel 1982 Ganci divenne capo della cosca della Noce e del relativo mandamento in seguito all’uccisione del boss Salvatore Scaglione, brutalmente assassinato nel corso di una grigliata all’aperto nella tenuta di Michele Greco insieme a una dozzina di mafiosi di Partanna-Mondello e dell’Acquasanta. Come membro della commissione, ordinò gli assassinii dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992. La famiglia Ganci gestiva un’avviata macelleria in Via Lo Jacono, a Palermo. Il negozio si trovava vicino alle residenze dei giudici Rocco Chinnici in Via Pipitone Federico e di Giovanni Falcone. Il 10 giugno 1993, Raffaele Ganci fu arrestato a Terrasini dopo 5 anni di latitanza, insieme a suo figlio Calogero Ganci e a suo genero Francesco Paolo Anzelmo. Suo figlio Calogero Ganci divenne un pentito e un testimone chiave nel 1996, confessando oltre 100 omicidi. Testimoniò contro suo padre e i suoi fratelli sul loro coinvolgimento negli assassini del giudice Chinnici, di Ninni Cassarà, del capitano D’Aleo e del primo pentito di mafiaLeonardo Vitale. Raffaele Ganci diede voto favorevole all’interno della “Commissione” sulla decisione di assassinare i giudici Falcone e Borsellino, e i suoi figli fecero parte del commando che eseguì le stragi.


Figlio del boss della Noce, Raffaele Ganci, era uno degli assassini dello “squadrone della morte” al servizio dei Corleonesi di cui facevano parte anche altri spietati killer come Pino GrecoMario PrestifilippoFilippo MarcheseAntonino MadoniaGiuseppe LuccheseVincenzo Puccio e altri ancora. Dal 1996 collabora con la giustizia e si è autoaccusato di parecchi omicidi, tra cui quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Ninni Cassarà.



Inserito dal 1980 nella famiglia” di COSA NOSTRA della Noce, di cui il padre Raffaele era rappresentante e capo mandamento, nonché persona tra le più vicine al RIINA, GANCI Calogero ha partecipato, secondo le sue confessioni, riscontrate da dichiarazioni di altri collaboratori ad alcuni omicidi eccellenti” , tra cui quelli di CHINNICI, CASSARA, DALEO, DALLA CHIESA e FALCONETratto in arresto nel giugno del 1993 e successivamente indagato anche per la strage di Capaci, il GANCI ha iniziato a collaborare con lA.G. nel giugno del 1996, quando già era in corso il dibattimento relativo a tale crimine. E, tuttavia, lapporto probatorio fornito dal GANCI per la ricostruzione di quella strage ha avuto indubbiamente il carattere della novità, poiché il CANCEMI, che pure aveva preso parte alla fase dellosservazione dellauto del magistrato, aveva – come si è detto – reso delle dichiarazioni assai reticenti sulle concrete modalità di svolgimento di tale attività e su alcune delle persone che vi erano coinvolte, come il GALLIANO, la cui partecipazione a questi fatti è emersa solo dopo la collaborazione del GANCI, sicché tale elemento depone in senso favorevole per lautonomia e laffidabilità di tale collaborazione. Nel presente processo sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. anche le dichiarazioni rese da GANCI Calogero alle udienze del 20, 21 e 22 ottobre 1996 nel processo di primo grado per la strage di Capaci e il contributo probatorio complessivamente offerto è stato apprezzabile soprattutto perché, essendo il collaboratore figlio del capo mandamento della Noce, che costituiva uno dei punti di riferimento più utilizzati dal RIINA per lorganizzazione dei suoi incontri con gli altri esponenti di vertice di COSA NOSTRA, è stato in grado di fornire utili indicazioni in ordine alla composizione della commissione provinciale di Palermo ed alle modalità di riunione di tale organismo sino allepoca di esecuzione della strage di via DAmelio. 


Il pentito Ganci: “Bagarella. e Brusca erano impazziti”.“Fra Riina e mio padre – ha spiegato il figlio di Raffaele, boss della Noce, deponendo davanti alla corte d’assise di Caltanissetta – il rapporto era molto intimo, il capo dei capi lo aveva trasformato in una marionetta”.  “Io sono fra coloro che avevano il compito di pedinare l’autista di Giovanni Falcone“. Così si è definito Calogero Ganci, figlio di Raffaele, il boss del quartiere Noce a Palermo, deponendo al processo denominato Capaci bis. Il procedimento, in corso davanti alla corte d’assise di Caltanissetta, nasce dalle rivelazioni di Gaspare Spatuzza, che ha ricostruito le dinamiche di preparazione della strage che uccise Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta.“L’ordine di pedinare Falcone- ha continuato Ganci -me lo diede mio padre il quale mi disse anche, di non recarmi troppo spesso in una villetta che noi avevamo a Carini perché ci doveva essere un attentato. Il giorno della strage, ho seguito l’autista fino all’aeroporto, poi sono rientrato a Palermo per evitare la confusione che si sarebbe creata. Poco dopo ho appreso che l’attentato era andato a buon fine”.“Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca in quel periodo erano completamente impazziti, erano dei cani sciolti. Mio padre si rivolse a Provenzano affinche’ li fermasse” ha continuato il collaboratore di giustizia. “Fra Riina e mio padre – ha aggiunto poi Ganci – il rapporto era molto intimo. Però mio padre, con il passare del tempo, era diventato succube di Riina, era una sua marionetta. Lui faceva tutto quello che Riina gli chiedeva. I Madonia hanno dato la vita per Salvatore Biondino. Riina si fidava soprattutto di loro. Era certo che non l’avrebbero mai tradito. In carcere, più volte mi sono lamentato con mio padre per tutte le bombe che stavamo facendo esplodere in Italia e per l’attentato a Falcone. Non riuscivo a darmi una spiegazione plausibile. Mio padre mi allargò le braccia, quasi a volermi dire che bisognava comportarsi in quel modo”. Dopo Ganci, la corte ha ascoltato un altro collaboratore di giustizia: Fabio Tranchina, ex autista del boss Giuseppe Graviano. Posso dire con assoluta certezza che ad azionare il telecomando della strage di via D’Amelio è stato Giuseppe Graviano” ha detto Tranchina, aggiungendo che “dopo un giorno o due Graviano mi guardò, mi fece un sorriso e mi chiese: Na spirugghiamu?“. “Per il mio passato da mafioso – ha continuato Tranchina – per la strage di Capaci mi sento uno schifo, ma con la morte del giudice Falcone non c’entro nulla. A sconvolgermi la vita e dove mi sento moralmente coinvolto e’ stato l’attentato di via d’Amelio”. Il collaboratore di giustizia ha anche raccontato di essere stato testimone della fase preparatoria dell’attentato che doveva sorprendere Falcone a Roma nella primavera del 1992. “Avevo visto, qualche settimana prima caricare delle armi che dovevano essere portate a Roma. Mi fu riferito che dovevano essere utilizzate per compiere un’azione di forza. Capii allora, anche se non mi e’ stato riferito da nessuno, che dovevano servire per colpire il magistrato, ma poi non se ne fece nulla”. Nel marzo ’92, infatti Riina ritirò il commando di morte inviato nella capitale: Falcone andava assassinato in Sicilia e con un’azione spettacolare”.  di Giuseppe Pipitone Pubblicato da www.loraquotidiano.it 27 novembre 2014

 

La “cantata” di Calogero Ganci In relazione alla fase preparatoria ed al pieno coinvolgimento di alcuni componenti del proprio nucleo familiare, facente capo a Ganci Raffaele, un decisivo contributo probatorio è stato fornito proprio dal figlio di quest’ultimo, Calogero, il quale ha consentito di fare piena luce anche sull’apporto operativo fornito da altri coimputati, integrando significativamente le dichiarazioni del Brusca e l’ampia confessione che sarebbe stata resa dal Ferrante Giovan Battista ed Anzelmo Francesco Paolo.
Le dichiarazioni di Ganci Calogero non solo hanno consentito di acquisire un contributo di eccezionale rilevanza per la ricostruzione dei fatti, ma hanno altresì permesso di delineare più chiaramente la fase preparatoria dell’attentato, con particolare riferimento all’attività di reperimento e di costante disponibilità dello spazio utilizzato per posteggiare l’auto-bomba, per avervi egli stesso direttamente partecipato, consentendo di chiarire alcune fasi del programma criminoso.
Uomo d’onore della famiglia della Noce e figlio di Raffaele, capo dell’omonimo mandamento e fedelissimo alleato di Riina, Ganci Calogero fu ritualmente affiliato a “Cosa Nostra” nel 1980 all’interno di un magazzino sito in Via della Resurrezione, di proprietà di Salvatore Scaglione, apprendendo in quell’occasione che questi era il rappresentante della famiglia mentre “Pippo” Calò, presente, era il capomandamento.
Tanto premesso, va rilevato che il contributo probatorio fornito dal Ganci in ordine alla ricostruzione della fase preparatoria della strage appare qualificato da una rilevanza particolarmente significativa.
Le dichiarazioni rese e le chiamate di correo effettuate dal Ganci devono ritenersi pienamente attendibili.
Ed invero, il suo apporto collaborativo si è contraddistinto per peculiare e rara genuinità, spontaneità, disinteresse, costanza, ricchezza di dettagli, precisione, coerenza logica interna del racconto e incondizionata disponibilità.
Come già sopra rilevato, ai fini della valutazione dell’attendibilità’ intrinseca, particolare rilevanza deve essere riconosciuta alla ammissione di responsabilità in ordine allo stesso fatto-reato narrato. Sotto tale profilo non può essere sottaciuta la circostanza che il Ganci abbia confessato fatti criminosi tra i più gravi ed efferati dell’ultimo quindicennio di storia criminale del nostro Paese, ai quali egli stesso ha partecipato e per i quali, in taluni casi, non era neppure indagato.
Va peraltro rilevato, sotto il profilo del disinteresse, che dagli atti non è dato desumere l’esistenza di qualsivoglia sentimento di astio nei confronti degli accusati, sicchè può fondatamente escludersi che le sue propalazioni accusatorie siano state mosse da propositi di vendetta o, comunque, dalla volontà di danneggiare o calunniare i chiamati.
Non può, inoltre, essere sottaciuto che il ruolo rivestito in seno alla famiglia mafiosa di appartenenza e i rapporti intrattenuti con noti personaggi di spicco di “cosa nostra”, fra i quali il suo stesso genitore, giustificano la conoscenza da parte del Ganci di una enorme mole di fatti e circostanze specifici concernenti la vita e l’evoluzione dell’organizzazione, segnate dalla commissione di una lunghissima serie di gravissimi fatti-reato, molti dei quali contro l’incolumità individuale.
La sua attendibilità, pertanto, risulta suffragata dalla sua lunga militanza operativa in uno dei “gruppi di fuoco” più spietati ed efficienti di “cosa nostra”, sin dal 1980, e, segnatamente, al gruppo che ne ha costituito tradizionalmente la roccaforte ed uno dei gangli vitali.
Tutto il racconto, invero, appare qualificato dalla puntigliosa ricostruzione, con dovizia di particolari, di episodi criminosi riconducibili alla spietata strategia criminosa di cosa nostra, ciò che conferisce al racconto stesso anche alla stregua di criteri di razionalità e plausibilità, caratteri di attendibilità, avuto riguardo anche alla accertata compatibilità con le acquisizioni investigative già a disposizione degli organi inquirenti.
Alla stregua degli elementi processualmente acquisiti la collaborazione del predetto appare il frutto di una autonoma e spontanea autodeterminazione le cui motivazioni, secondo quanto dallo stesso prospettato sulla base di convincenti argomentazioni meritevoli di apprezzamento sul piano logico, vanno ricondotte ad un processo interiore di revisione critica di precedenti scelte di vita e di recupero progressivo di valori umani e sociali dapprima sacrificati alle ferree leggi vigenti all’interno della organizzazione criminosa di cui faceva parte.
Và altresì rilevato che nella vasta gamma degli adeguati riscontri normalmente valorizzati in funzione della valutazione dell’attendibilità intrinseca, una doverosa preferenza deve essere accordata, conformemente ad un costante orientamento giurisprudenziale, al confessato personale coinvolgimento del dichiarante nello stesso fatto- reato narrato, specie in relazione ad episodi criminosi altrimenti destinati all’impunità.
In particolare ha reso ampia ammissione, tra gli altri, in ordine gli omicidi di Bontate Stefano ( 23 aprile 1981), di Inzerillo Salvatore ( 11 maggio 1981), del vicequestore Cassarà Antonino e dell’agente Antiocchia Roberto (6 agosto 1985) nonché delle stragi di via Isidoro Carini (nella quale il 3 settembre 1982, venivano uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta), della circonvallazione (in cui il 16 giugno 1982, venivano uccisi il boss catanese Ferlito Alfio, tre Carabinieri e l’autista, durante una traduzione da Enna a Trapani), oltre alla strage di via Pipitone Federico.
Quanto, poi, agli specifici fatti per cui è processo, la convergenza di molte chiamate in correità e la sostanziale coincidenza delle propalazioni del Ganci in ordine ad taluni episodi con le dichiarazioni di altri collaboratori coimputati contribuisce a corroborare vieppiù la valenza probatoria del suo apporto probatorio.
È appena il caso di rilevare come lo stesso contesto spazio-temporale in cui è maturata la collaborazione del Ganci, ristretto dal giugno 1993, consente fondatamente di escludere ogni ipotesi di collusione o reciproco condizionamento psicologico con altri collaboratori, atteso che il suo proposito collaborativo è maturato in carcere, durante la sottoposizione al rigido regime carcerario previsto dall’art. 41 bis O.P..
Venendo ora agli specifici fatti oggetto del presente processo ed al ruolo avuto dal Ganci, le dichiarazioni rese dal collaboratore possono essere così sintetizzate.
L’imputato ha riferito di avere ricevuto l’incarico dal padre e dal Gambino Giuseppe Giacomo di mettersi a disposizione di Antonino Madonia, il quale gli aveva poi indicato l’abitazione del dr. Chinnici sita in via Pipitone Federico, spiegandogli che bisognava tenere uno spazio di posteggio sempre fisso e disponibile davanti la portineria dello stabile ove abitava il magistrato.
Aveva appreso, pertanto, anche le modalità dell’attentato che avrebbe
dovuto essere eseguito per mezzo di un’auto-bomba.
L’incarico gli era stato affidato nella sua macelleria di via Lancia di Brolo, alla presenza dei suoi fratelli Stefano e Domenico e del cugino Anzelmo Paolo, e consisteva nel reperimento di un’autovettura di  piccola cilindrata, “come una 126 ovvero una 500 che avrebbe dovuto essere messa a disposizione del Madonia.
Messosi alla ricerca di quel tipo di autovettura, ne fu adocchiata una, modello 126, di pertinenza di un’autoscuola, sita in una via che il collaboratore ha indicato, con qualche incertezza, come via Migliaccia, (“…una cosa del genere, comunque è una strada che congiunge via Lancia di Brolo e via Campolo).
È appena il caso di rilevare che trattasi della Via Migliaccio che effettivamente incrocia la Via Campolo, come può agevolmente evincersi dal settore “H4” della pianta della città di Palermo acquisita all’udienza del 29/3/2000, in cui esisteva una autoscuola(cfr.Pianta
F.M.B. )
L’imputato ha comunque fornito una dettagliata descrizione della zona e dell’itinerario che in base al senso di circolazione del traffico veicolare bisognava seguire per raggiungere la via in cui era ubicata l’autoscuola, perfettamente conforme alla risultanze planimetriche.(cfr.anche settore “C 9” di altra pianta della città – I.A.C. – allegata agli atti).
Il Ganci ha fornito la seguente descrizione : “ Allora, questo garage era un garage… diciamo, grezzo, le mura erano grezze, tutte in calce, a terra incementato, pieno di pilastri ed era una forma tipo triangolare, diciamo, non… non era retto, ecco; era un garage di circa cinquecento metri quadrati, una cosa del genere”.
Ha precisato che vi erano custoditi “macchine e borsoni con le armi” ed era stato usato tante volte “sia per le guerre di mafia e sia per commettere omicidi” come nel caso degli omicidi Dalla Chiesa e Cassarà, in occasione dei quali vi avevano custodito e poi prelevato autovetture e motociclette.
Quanto alle targhe, ha aggiunto che : “poi si rubavano due targhe di due macchine diverse, si tagliavano a metà, si attaccavano dietro… si attaccavano… o meglio, si spaccavano le targhe a metà, si attaccavano con della colla, quindi, il bostick e cose varie, e le due targhe unite e si formava una targa nuova…; io mi ricordo pure che nella macchina che poi è stata prelevata, la 126, c’era anche le targhette della scritta autoscuola e queste ci furono tolte, e ci furono messe anche le targhe, come io ho detto, con quel procedimento, mi ricordo pure che ci fu tolta anche la ruota di scorta per fare posto alla bombola del gas”.
All’ulteriore domanda circa l’autore del furto della 126 il Ganci ha ribadito l’incertezza del ricordo, trattandosi di una attività molto frequente, e non ha escluso che potesse avervi provveduto lui stesso […]. Il Ganci non è stato in grado di precisare quando venne esattamente rubata l’autovettura rispetto all’attentato, ma ricordava di averla notata “in doppia fila, messa quasi… quasi… quasi vicina. All’autoscuola, accanto c’è la pasticceria Oscar”, che loro spesso frequentavamo.
[…] Riprendendo la ricostruzione dell’attività preparatoria, l’imputato non è stato in grado di precisare quando il Madonia Antonino lo condusse presso lo stabile del magistrato, ma ha riferito che quando giunse davanti la portineria, insieme al cugino Paolo Anzelmo, vi trovò già un’autovettura posteggiata che fu spostata per far posto ad un’altra.
In quella circostanza il Madonia disse loro di ripetere una o due volte al giorno quell’operazione per evitare che vi sostasse sempre la stessa autovettura, attività che il Ganci ha riferito di aver svolto un paio di volte insieme al cugino Anzelmo, nel senso che uno provvedeva a spostare quella posteggiata e l’altro collocava nel posto lasciato libero una autovettura diversa.
L’attività sopra descritta veniva svolta normalmente la mattina ed all’ora di pranzo in concomitanza con gli orari di chiusura della portineria per evitare di essere notati dal portiere e l’incarico era stato affidato alla sua famiglia, nel senso che vi provvedevano senza una particolare alternanza predeterminata lo stesso Ganci Calogero ed il cugino Anzelmo, ovvero quest’ultimo con Ganci Raffaele ed ancora uno dei suoi fratelli, Domenico o Stefano, precisando che in quel periodo lui lavorava nella macelleria di Via Lancia di Brolo con il fratello Stefano, per cui non si potevano mai assentare contemporaneamente.
L’autovettura FIAT 126 rubata era di colore “azzurro chiaro, azzurrino chiaro” e sugli sportelli presentava una targhetta con l’indicazione “autoscuola” e la relativa denominazione. Sull’attività svolta all’interno del garage il Ganci ha riferito quanto segue: “ la macchina fu portata nel garage di Madonia ed io ci cambiai le targhe, mi ricordo, Madonia mi ci fece levare anche la ruota di scorta, ha preso la bombola, e in quell’occasione eravamo io, Brusca Giovanni e Madonia Antonino e, se non ricordo male, anche mio cugino Paolo, anche se, diciamo, non me lo ricordo tanto bene se lui c’era in quell’occasione o no, … e io notai questa bombola che ci mancava… dove va la manopola del gas…”
Dopo avere precisato, a specifica domanda, che la bombola era vuota e di essere entrato nel garage un paio di giorni prima della strage, ha descritto la seguente attività svoltasi all’interno di quel locale : GANCI : – E allora, mi ricordo di preciso che il Madonia chiese al Brusca il funzionamento di come avveniva il contatto per fare avvenire l’esplosione, e il Brusca con questo motorino, perchè era un motorino elettrico, in mano ha indicato, dice: “Lo vedi questo chiodo? Questo chiodo girando su questo asse arriva al punto che tocca un’altra cosa, qui avviene la scintilla e avviene l’esplosione”, io mi ricordo anche questo particolare, dottoressa.
[…] Il Ganci ha inoltre precisato che quando quella mattina si recò per i preparativi della strage nello scantinato e il Madonia chiese informazioni sul motorino, non fu fatta all’interno dello scantinato la prova di funzionamento.
[…] Dopo avere precisato di non avere partecipato alle operazioni di preparazione materiale dell’auto-bomba, ha chiarito che al fine di effettuare una prova di collocazione della bombola nel vano portabagagli della 126 il Madonia gli chiese di togliere la ruota di scorta perchè “dava impaccio alla bombola”, le cui dimensioni erano quelle del tipo da venticinque chili.
La bombola, inoltre, era stata modificata nel senso che era priva della manopola che serve per aprire l’erogatore del gas e “c’era solo il buchetto”.
Con riferimento al “giardino” dei Galatolo sito nel “fondo Pipitone”, già citato, il Ganci ha fornito le seguenti ulteriori informazioni e precisazioni :
GANCI : – il fondo Pipitone era un luogo chiamato fondo Pipitone dove abitavano la famiglia Galatolo, io le parlo: Enzo Galatolo, Giuseppe Galatolo, (Fontana) Stefano, Galatolo Angelino, Raffaele Galatolo, cioè, sono uomini d’onore della famiglia dell’Acqua Santa che abitavano lì(del mandamento di Resuttana); era un luogo di ritrovo nostro; quando io, per dire, capitava che dovevo cercare a Madonia lo andavo a cercare lì, e quello era un luogo dove, come ripeto, noi  abbiamo usato per tante azioni criminali, ecco, diciamo, attività criminali e… e noi lo chiamavamo “al giardino”, però, il giardino si… (intendeva) dire il fondo Pipitone; (vi) si arriva dal… la via dove c’è il cantiere navale e… si arriva alla manifattura tabacchi, … si prosegue per altri cinquanta metri, sulla sinistra c’è una traversa, si entra in questa traversa e alla fine… quasi alla fine della strada c’è un altro vicoletto sempre sulla sinistra e si accede qua all’abitazione dei Galatolo.
Dove c’è un edificio di circa quattro – cinque piani al pianoterra c’è un’entrata, che è tipo… è un garage e da questo garage poi c’è una porticina che si accede a un giardino interno, quindi, all’interno di… alle spalle di questo edificio, dove c’è.. c’è o c’era, non lo so, uno spiazzo di circa un centinaio di metri .. poi c’è un locale … dove si poteva anche mangiare, c’era un frigorifero, .. un tavolo, un tavolo lungo, una tettoia pure all’esterno, e poi sul lato destro, proprio sul muro di cinta c’è tipo… tipo un bagno. ””””””
L’imputato ha precisato che gli incontri e le riunioni avvenivano proprio all’interno di quel locale, dotato di un tavolo con le sedie, fornendone una dettagliata descrizione.
Vincenzo Galatolo era il rappresentante della famiglia dell’Acquasanta ed il fondo Pipitone era “il punto di ritrovo del Madonia” sicchè era il luogo dove normalmente lo si poteva cercare.
Quanto allo scantinato in cui fu ricoverata la Fiat 126, il Ganci ha precisato di sconoscere a chi fosse intestato, ma era nella disponibilità tanto del Madonia che del Galatolo che ne possedevano le chiavi.
Proseguendo nella esposizione dell’attività preparatoria, il Ganci ha riferito che trascorsi un paio di giorni dalle operazioni effettuate all’interno del garage, il Madonia gli diede appuntamento per le tre o quattro del mattino presso il fondo Pipitone dove erano presenti suo padre Raffaele, il Gambino, e Paolo Anzelmo.
[…] Con riferimento alla prova del telecomando effettuata nel fondo Pipitone, cui il Ganci aveva in precedenza accennato, l’imputato, a specifica domanda del P.M., ha precisato che la stessa aveva avuto luogo “nell’arco di qualche paio di giorni”; […].
Si erano pertanto spostati dal fondo dei Galatolo formando un corteo di autovetture composto come segue : egli era in macchina con il cugino Paolo Anselmo, Nino Madonia con il Brusca ed Enzo Galatolo con un’altra macchina.
Giunti all’altezza della traversina che conduceva al garage, il Galatolo, il Madonia ed il Brusca si immisero in detta strada per raggiungere il garage da cui prelevarono la FIAT 126.
Il Madonia si mise alla testa del corteo, seguito dalla 126 condotta dal Brusca ed ancora più indietro dal Ganci Calogero e dall’Anzelmo a bordo di altra autovettura, seguiti dal Ganci Raffaele, fino alla via Pipitone Federico.
Con riferimento al proprio padre, in sede di controesame, preciserà che nel momento in cui la 126 uscì dal garage lo stesso era presente ma non lo aveva più visto nel momento in cui erano partiti da quel posto verso la via Pipitone Federico; il padre si era poi incontrato con il Gambino in quella traversina dove lo aveva rivisto insieme a quest’ultimo con la R5.( cfr.f.212,ud.17/3)
Ha quindi ribadito che il corteo era composto da tre autovetture disposte nell’ordine sopra precisato.(ff.111-112,ud.cit). Ha inoltre precisato che il Galatolo aveva avuto il compito di aprire e richiudere il garage, mentre il Madonia ed il Brusca erano usciti dal garage, rispettivamente, a bordo della sua autovettura e della FIAT 126.
Quanto al Galatolo, ha dichiarato di non averlo più visto e che, per quanto a sua conoscenza, era rientrato al fondo Pipitone, escludendo di averlo rivisto nelle ore successive.
Richiesto di precisare l’itinerario seguito per raggiungere la Via Pipitone Federico, il Ganci ha dichiarato di avere percorso la Via Ammiraglio Rizzo e giunti in Via Libertà avevano imboccato la via Petrarca o la Via Pirandello; giunti in via Pipitone Federico avevano svoltato all’altezza della “Pasticceria Svizzera” per poi raggiungere l’abitazione del magistrato.
[…] Alla specifica domanda su chi avesse provveduto a liberare il posto poi occupato dalla 126 guidata dal Brusca, il Ganci ha fornito la seguente risposta:
GANCI “Guardi, io mi ricordo o il Nino Madonia o il Paolo Anzelmo, uno dei due.
A quel punto il P.M. ha contestato all’imputato il diverso tenore delle
dichiarazioni rese nel verbale in data 12/8/1996(f.13);
P.M. Lei così dichiara: “Il Nino Madonia diciamo si è fermato prima; capisce? Chiaramente si fermò in qualche traversa nei dintorni, ma io non lo so dove lui si è fermato. Quindi che successe? Che noi avevamo il compito di levare la macchina pulita dalla portineria. Non mi ricordo se fui io o fu Paolo a prelevare la macchina davanti la portineria. Nel momento in cui uscì la macchina, lasciò libero il posto, il Brusca si ci infilò e piazzò la macchina, la 126”.
GANCI : – … Io confermo quello (ho detto) nel verbale, però, ripeto, siccome le direttive cioè era… a noi ce le dava il Nino Madonia e come ripeto, mi ricordo anche il fatto che diciamo si sono fermati in questa traversina prima dell’edificio, dove lì… io (ho avuto modo)… ho visto poi il Giuseppe Giacomo Gambino, anche se l’ho intravisto, non mi sono fermato nè a parlare nè a conversare con lui.
[… ]Quanto all’attività di cancellazione di eventuali impronte digitali, il collaboratore ha precisato che il Brusca aveva pulito sia la “parte interna” che la maniglia esterna dello sportello.
Non è stato in grado di precisare, stante il tempo trascorso, se il Brusca si fosse allontanato “con la macchina che portava il Madonia, perchè forse era la sua macchina”, ma era certo che si fosse comunque allontanato a bordo di un’autovettura perché poi non lo aveva più visto.
Insieme al cugino aveva poi fatto il giro del fabbricato e passando davanti la pasticceria aveva notato Nino Madonia che scendeva dalla cabina di un “Leoncino” di colore rosso – sul cui cassone vi erano “dei bidoni di calce” e “dei tavoloni questi di edilizia” – e dopo qualche minuto lo aveva visto salire sul cassone con un telecomando in mano.
Avendo notato che il Madonia aveva allungato l’antenna e, quindi, avendo intuito che tutto era pronto, si era diretto verso la Piazza San Michele, dove c’è l’omonima chiesa, percorrendo la via Pipitone Federico e passando davanti l’edificio del magistrato.
Il camion era posizionato sulla via Pipitone Federico, quasi ad angolo con altra via che incrociava la prima, forse la via Luigi Pirandello, o la via Petrarca, ad una distanza dall’auto-bomba di circa 80-100 metri.
A specifica domanda sulla posizione esatta del “Leoncino” rispetto alla pasticceria, tenendo presente la direzione di marcia dalla via Libertà verso la chiesa di San Michele, il collaboratore ha dichiarato che provenendo dalla via Libertà e svoltando sulla via Pipitone Federico la pasticceria era ubicata dopo un paio di isolati e quindi a non più di cento metri, mentre il camion era posteggiato, nella stessa direttrice di marcia prima descritta, sulla sinistra proprio davanti le saracinesche della pasticceria stessa, “quasi in doppia fila perchè è più largo di una macchina”, e quindi, dal lato opposto della strada rispetto alla 126 posta sulla destra.
Ha ulteriormente precisato di avere notato sul cassone del camion “uno o due bidoni, questi che si usano dove si ci mette la calce ..da 200 litri” ed un tavolone largo una ventina di centimetri con uno spessore di 5 cm, del tipo di quelli usati per erigere i ponteggi quando bisogna eseguire lavori alle facciate dei palazzi; era lungo 4 metri ed era collocato tutto all’interno del cassone “con la punta che usciva verso la cabina del leoncino”.
[… Insieme al cugino si era collocato sulla parte più alta della gradinata della chiesa ed in quel frangente aveva notato sopraggiungere il Gambino a bordo della R5 sulla quale, poco dopo, aveva preso posto l’Anzelmo (f.30, ud.17/3) dal quale si era pertanto separato rimanendo al proprio posto ad una distanza di circa 150 metri dall’auto- bomba.
Trascorsa all’incirca mezzora, aveva sentito arrivare le macchine di servizio e dopo dieci minuti si era verificata l’esplosione; si era quindi allontanato con il cugino Paolo recandosi in via Lancia di Brolo, dopo essersi fermato per qualche minuto nella macelleria di Via Lo Iacono dove si trovava il padre Raffaele.
Precisava che durante la fase di perlustrazione e fino al momento dell’esplosione non si era allontanato da quella zona tranne che, forse, per consumare un caffè in un bar sito all’angolo tra la via Pipitone Federico e la piazza San Michele.
Il Ganci ha inoltre riferito che ancor prima della strage conosceva il coimputato Ferrante G.Battista, precisando che, pur avendo avuto “la sensazione che dietro il camion” vi fosse un’altra persona, tuttavia non ne aveva potuto rilevare l’identità perché lui si trovava in macchina.
Aveva conosciuto il Ferrante qualche anno prima di quell’estate perché avevano fatto “la guerra di mafia”, partecipando insieme ad altri – tra i quali Biondo “il corto”, Biondo “il lungo”, Biondino Salvatore, Buffa Salvatore e Buffa Giuseppe – all’omicidio di tale Nicoletti, uomo d’onore di Partanna Mondello, nel novembre del 1982.
Con lo stesso Ferrante avevano partecipato ad altri gravissimi fatti tra i quali la strage di Capaci, “quella della Circonvallazione e quella di viale Croce Rossa”(omicidio del dr.Cassarà).
L’imputato ha riferito di avere avuto la piena consapevolezza del progetto criminoso e dell’impiego della 126 per l’attentato nel momento in cui aveva notato la bombola di gas vuota ed aveva sentito parlare tra loro il Brusca ed il Madonia.
Invitato a precisare i tempi delle fasi dell’operazione, il Ganci ha dichiarato che l’attività di periodica sostituzione delle autovetture “pulite” davanti l’abitazione del magistrato, alla quale lui aveva partecipato due o tre volte, era iniziata qualche settimana prima della strage e che il furto dell’autovettura era già stato consumato; sul punto, tuttavia, non ha escluso di ricordare male[…].

 

A CURA DI CLAUDIO RAMACCINI DIRETTORE CENTRO STUDI SOCIALI CONTRO LE MAFIE – PROGETTO SAN FRANCESCO