SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Gli imputati sono stati rinviati a giudizio con decreti emessi dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo in data 1 dicembre 1995 (cd. “Spartaco”) e 31 maggio 1997 (cd. “Omega”) per rispondere dei delitti di cui in epigrafe.
Nella prima udienza, tenutasi il 3 ottobre 1997, il secondo procedimento (n.6/97 R.G. Ass.) è stato riunito al primo (n.4/96 R.G. Ass.) per evidenti ragioni di connessione oggettiva e oggettiva, trattandosi di due processi contro gli stessi imputati e aventi ad oggetto i medesimi fatti delittuosi.
Il 4 ottobre 1997 la Corte, previa separazione dei procedimenti a carico di FURNARI Saverio e MESSINA Francesco, ha definito le posizioni dei suddetti prevenuti per essere i reati loro ascritti estinti per morte del reo.
Sentite le questioni preliminari sollevate dalle parti, all’udienza del 12 novembre 1997 la Corte ha dichiarato la nullità dell’udienza preliminare e del decreto che dispone il giudizio nei confronti di sessantuno imputati (ACCARDO Antonino, ACCARDO Domenico, ACCARDO Giuseppe, AMATO Giacomo, AMATO Tommaso, ASARO Mariano, BAGARELLA Leoluca, BASTONE Giovanni, BIANCO Giuseppe, BICA Francesco, BONAFEDE Natale, BRUNO Calcedonio, BRUSCA Giovanni, BURZOTTA Diego, CALABRÒ Gioacchino, CASCIO Antonino, CASCIOLO Gaspare, CLEMENTE Giuseppe, CIACCIO Leonardo, D’AMICO Francesco, DI STEFANO Antonino, FACELLA Salvatore, FERRARA Calogero, FERRO Vincenzo, FUNARI Vincenzo, FURNARI Vincenzo, GERARDI Antonino, GIAMBALVO Pietro, GIAMBALVO Vincenzo, GIAPPONE Vito, GIONTA Valentino, GONDOLA Vito, GULLOTTA Antonino, GUTTADAURO Filippo, LA BARBERA Gioacchino, MADONIA Salvatore, MANCIARACINA Andrea, MAZZEI Matteo, MAZZEI Santo, MELODIA Antonino, MERCADANTE Michele, MESSINA DENARO Francesco, MESSINA DENARO Matteo, NASTASI Antonino, PANDOLFO Vincenzo, PICCIONE Michele, PIPITONE Martino, PRIVITERA Carmelo, RAIA Gaspare, RALLO Antonino, RALLO Francesco, RIINA Salvatore, RISERBATO Antonino, RISERBATO Davide, SALAMANCA Antonino, SALAMANCA Giovanni, SCARANO Antonio, SCIACCA Baldassare, SPEZIA Nunzio, SPEZIA Vincenzo, URSO Raffaele) per violazione dell’art. 178 lett. c) c.p.p., disponendo la separazione delle posizioni dei suddetti prevenuti e la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo per la rinnovazione degli atti nulli.
Nella successiva udienza dell’11 dicembre 1997 la Corte ha dichiarato aperto il dibattimento nei confronti di AGATE Mariano, ALCAMO Antonino, BONAFEDE Giuseppe, BONAFEDE Leonardo, BONANNO Pietro Armando, CORACI Vito, ERRERA Francesco, FERRO Giuseppe, GANCITANO Andrea, GENTILE Salvatore, GERACI Francesco, GIACALONE Salvatore, LEONE Giovanni, MANCIARACINA Vito, MARCECA Vito, MAZZARA Vito, MUSSO Calogero, PASSANANTE Alfonso, PATTI Antonio, RALLO Vito Vincenzo, SCANDARIATO Nicolò, SINACORI Vincenzo, TAMBURELLO Salvatore, VIRGA Vincenzo.
Il 24 febbraio la Corte ha disposto la riunione dei procedimenti a carico di CALABRÒ Gioacchino (n.4/98) e di ACCARDO Antonino e altri cinquantanove imputati (n.5/98), a quello principale (n.4/96).
Nel corso della lunga e complessa istruttoria dibattimentale, protrattasi per oltre cento udienze dal 18 marzo 1998 al 23 dicembre 1999, sono stati esaminati numerosissimi testimoni e collaboratori di giustizia addotti dall’accusa e dalla difesa, sulle cui dichiarazioni non ci si soffermerà in questa sede per evidenti ragioni di sintesi, rinviando per un’analitica esposizione del contenuto delle stesse alle schede dedicate alla disamina dei singoli fatti delittuosi ascritti ai prevenuti.
Sono inoltre stati esaminati dal P.M. i seguenti imputati: CIACCIO Leonardo, GIAMBALVO Pietro, FUNARI Vincenzo, ERRERA Francesco (7 ottobre 1999), SALAMANCA Antonino, SALAMANCA Giovanni (14 ottobre 1999), GUTTADAURO Filippo (14 ottobre e 4 novembre 1999), ACCARDO Domenico (14 ottobre e 2 novembre 1999), PICCIONE Michele, FURNARI Vincenzo, GONDOLA Vito (15 ottobre 1999), MAZZEI Matteo, RALLO Antonino, RALLO Francesco (18 ottobre 1999), MUSSO Calogero (21 ottobre 1999) e GANCITANO Andrea (21 ottobre e 2 novembre 1999).
Nelle udienze del 10 e dell’11 novembre 1999, celebrate nell’aula bunker di Bologna, sono stati effettuati confronti tra Antonio PATTI e GONDOLA Vito, RALLO Antonino, RALLO Francesco, ACCARDO Domenico; tra Salvatore GIACALONE e i predetti ACCARDO e RALLO Antonino; tra Giovanni BRUSCA e NASTASI Antonino; tra Francesco GERACI e CIACCIO Leonardo; tra Vincenzo SINACORI e il GONDOLA, il CIACCIO e GUTTADAURO Filippo.
L’11 novembre 1999 sono state compiute altresì le ricognizioni personali degli imputati CLEMENTE Giuseppe, RALLO Francesco e NASTASI Antonino da parte dei collaboratori di giustizia Antonio PATTI, Mario Santo DI MATTEO e Giovanni BRUSCA. Lo stesso PATTI e Salvatore GIACALONE hanno inoltre individuato ACCARDO Domenico.
Nel corso del giudizio (e segnatamente nelle udienze del 26 febbraio e del 25 marzo 1998 e del 16 settembre 1999) sono state altresì stralciate le posizioni degli imputati BAGARELLA Leoluca Biagio, CALABRÒ Gioacchino e RIINA Salvatore, a causa dei reiterati legittimi impedimenti addotti dagli stessi, tali da pregiudicare una celere trattazione del processo.
Nelle more del dibattimento sono state inoltre definiti, previa separazione delle rispettive posizioni nelle udienze del 3 dicembre 1998 e del 21 e 22 aprile 1999, i procedimenti nei confronti di MESSINA DENARO Francesco, SCARANO Antonio e FERRO Vincenzo, deceduti.
Nelle udienze del 10, 12, 17, 21 e 26 gennaio 2000 e del 21 febbraio 2000 la Corte ha rigettato le richieste formulate da numerosi imputati di essere ammessi al rito abbreviato, poiché la normativa all’epoca vigente (art.223 L.20 marzo 1998) non consentiva l’accesso a tale rito per i procedimenti in cui al momento di entrata in vigore della L.16 dicembre 1999, n.479 fosse già in corso l’istruttoria dibattimentale.
Nelle suddette udienze del 10, 12 e 17 gennaio 2000 le parti hanno avanzato le rispettive richieste di assunzione di prove ai sensi dell’art.507 c.p.p., sulle quali la Corte si è pronunciata con ordinanza il successivo 26 gennaio, disponendo l’audizione di numerosi testimoni e di taluni collaboratori e conferendo incarichi peritali.
Terminato l’espletamento della menzionata attività di acquisizione della prova, il 24 febbraio 2000 il Presidente ha dichiarato chiusa l’istruttoria dibattimentale.
Nelle udienze celebrate tra il 24 febbraio e il 3 maggio 2000 le parti hanno concluso come da separato verbale e l’8 maggio 2000, dopo la replica del Pubblico Ministero, la Corte si è ritirata in camera di consiglio.
L’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”-
CAPO I
-L’ASSOCIAZIONE MAFIOSA DENOMINATA “COSA NOSTRA”: STRUTTURA E ORGANIZZAZIONE-
A partire soprattutto dagli anni ’70, grazie da un lato a movimenti di opinione che hanno trovato sempre maggiore diffusione nella società civile e dall’altro lato ai fondamentali apporti di conoscenze relative al fenomeno in esame provenienti dai collaboratori di giustizia, è stato possibile enucleare dal generico e indefinito concetto tradizionale di “mafia” l’esistenza di un’organizzazione criminale, rigidamente strutturata e diffusa anche in paesi stranieri, dotata di apparati informativi e di capacità di intervento militare di notevole efficienza, pericolosamente inserita -grazie anche alla acquiescenza e alla complicità di una fitta rete di conniventi- nei meccanismi del potere politico, dell’economia e della distribuzione del denaro pubblico, fino a configurarsi come un potere contrapposto a quello statuale, idoneo a condizionare e a contaminare lo sviluppo politico, sociale ed economico delle realtà in cui si è radicato.
La rilevanza storica e il valore emblematico del fenomeno criminale in esame hanno portato il legislatore a emanare la L.13 settembre 1982, n.646, contenente norme finalizzate sia a colpire “cosa nostra” sotto il profilo degli interessi patrimoniali attraverso l’integrazione della disciplina della L.575/75 (“Disposizioni contro la mafia”), sia addirittura a cristallizzarne la struttura, le modalità di azione e le finalità operative mediante l’introduzione nel sistema penale dell’art.416 bis, sotto la rubrica “associazione di tipo mafioso”.
L’esistenza della vasta organizzazione criminale denominata “cosa nostra”, la sua struttura unitaria e capillarmente diffusa nel territorio, la sua ingerenza in ogni settore della vita civile siciliana sono ormai state dimostrate all’esito di numerosi procedimenti penali, a partire da quello a carico di ABBATE Giovanni + 459 (cd. Maxi 1), celebrato davanti alla Corte d’Assise di Palermo (che verrà di seguito ampiamente citato nel tratteggiare le regole che disciplinano la consorteria criminale), le cui pronunce, pur se talvolta parzialmente modificate con riferimento a singole posizioni e/o all’entità delle sanzioni irrogate, hanno ricevuto, all’esito del giudizio di legittimità, il crisma della irrevocabilità.
Solo partendo dalla premessa della presenza mafiosa in ogni aggregato territoriale dell’isola e del potere di ingerenza e di controllo acquisito dalla stessa è possibile cogliere nella giusta luce la portata del fenomeno e interpretare correttamente espressioni delinquenziali che talvolta appaiono insignificanti e incomprensibili, conferendo loro quel significato sintomatico e rivelatore del fenomeno che può costituire un’utile guida per l’interprete ai fini della ricostruzione di fatti criminosi.
Ciò premesso, appare opportuno delineare le caratteristiche strutturali di “cosa nostra” così come dapprima riferite dai primi, inascoltati precursori del fenomeno della collaborazione con la giustizia Leonardo VITALE e Giuseppe LUPPINO, poi descritte con sorprendenti analogie da Tommaso BUSCETTA e Salvatore CONTORNO nel citato processo denominato “maxi 1” e infine sostanzialmente confermate dagli altri “pentiti”.
Tali principi sono stati ormai definitivamente acquisiti nel comune patrimonio giudiziario siccome cristallizzati in sentenze divenute irrevocabili e possono essere così compendiati:
1. L’organizzazione denominata “cosa nostra” è disciplinata da un sistema complesso e articolato di regole non scritte, ma non per questo meno cogenti, tramandate oralmente, di cui non si troverà mai traccia documentale, non esistendo elenchi di appartenenza e attestati di alcun tipo.
2. I singoli affiliati prendono il nome di “uomini d’onore”.
La cooptazione nell’associazione richiede, tradizionalmente, l’esistenza di tre requisiti fondamentali. In primo luogo il soggetto deve presentare provate doti di coraggio e di valore (in senso criminale), che per altro non sono necessarie per i soggetti che rappresentano la “faccia pulita” dell’associazione, quali professionisti e imprenditori, i quali non vengono normalmente impiegati in azioni criminali, ma prestano un’utilissima opera di fiancheggiamento e di copertura in attività apparentemente lecite. In secondo luogo, inoltre, egli deve avere una situazione familiare limpida, secondo il concetto di “onore” tipicamente siciliano. In terzo luogo, infine, deve essere privo di vincoli di parente con “sbirri”, cioè con persone che rappresentino l’autorità dello Stato.
Le persone in possesso di questi requisiti vengono dapprima avvicinate e poi studiate al fine di valutare le loro capacità e la loro disponibilità a fare parte dell’associazione, spesso coinvolgendole addirittura, come “prova” decisiva, in omicidi (cfr., a questo proposito, altresì gli esami resi da Antonio PATTI, Salvatore GIACALONE e Vincenzo SINACORI rispettivamente nelle udienze del 25/26 marzo 1998, del 1 aprile 1998 e del 15 aprile 1998, nei quali i citati collaboratori, e in particolare il SINACORI, hanno descritto il periodo di “osservazione” a cui erano stati sottoposti e l’inserimento in un gruppo di fuoco inviato a commettere un assassinio).
Valutata l’idoneità del neofita e ottenutone il consenso, egli viene portato in un luogo appartato che può essere anche una casa di abitazione ove, alla presenza di almeno tre “uomini d’onore” della “famiglia” di cui andrà a far parte, si svolge la cerimonia del giuramento di fedeltà a “cosa nostra”.
Il più anziano dei presenti lo avverte che “questa cosa” ha lo scopo di proteggere i deboli ed eliminare le soverchierie, quindi gli buca un dito di una mano facendo versare il sangue su di un’immagine sacra che incendia mentre si trova tra le mani del giurante, il quale poi dovrà sopportare tale bruciore passando l’immagine sacra accesa da una mano all’altra, fino al totale spegnimento ripetendo la solenne formula del giuramento, che si conclude con la frase: “Le mie carni devono bruciare come questa santina se non manterrò fede al giuramento”.
Dopo il giuramento -e solo allora- l’uomo d’onore viene presentato al capo della “famiglia” del quale prima non doveva conoscere la carica; comincia così a conoscere i segreti di “cosa nostra” e a entrare in contatto con gli altri associati dell’organizzazione (anche sotto questo profilo, le dichiarazioni di BUSCETTA sono state confermate dai collaboratori escussi nel presente processo: cfr., oltre alle già riportate dichiarazioni di PATTI, GIACALONE e SINACORI, quelle di FERRO Giuseppe all’udienza del 23 aprile 1998).
3. A causa del modello gerarchico della struttura, non tutti i membri delle varie cosche si conoscono tra loro e i rapporti tra una “famiglia” e l’altra vengono tenuti pressochè esclusivamente dai capi. Pertanto, l’associazione è organizzata come a compartimenti stagni, e ciò a maggior garanzia di segretezza e sicurezza. A tale proposito, BUSCETTA lamentava che le “famiglie” di Corleone e Resuttana non avevano mai fatto conoscere ufficialmente i nomi dei propri membri ai capi delle altre “famiglie”. Tale precauzione, del resto, si è a lungo rivelata decisiva per il mantenimento della struttura, nonostante le approfondite indagini giudiziarie e la collaborazione di molti componenti dell’associazione.
Pertanto, le conoscenze del singolo “uomo d’onore” di fatti di “cosa nostra” dipendono essenzialmente dal grado che lo stesso riveste nell’organizzazione: più elevata è la carica ricoperta, maggiori sono le probabilità di venire a conoscenza di fatti di rilievo e di entrare in contatti con “uomini d’onore” di altre “famiglie”.
All’interno dell’organizzazione, poi, la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile e l’affiliato deve astenersi dal fare troppe domande, in quanto tale condotta è indice di disdicevole curiosità e induce in sospetto l’interlocutore (cfr. le ripetute dichiarazioni in tal senso di PATTI, GIACALONE e SINACORI, i quali, specie nei primi anni della loro militanza mafiosa, spesso non erano a conoscenza dei motivi degli omicidi in cui essi stessi erano implicati o che erano comunque attribuibili all’associazione, proprio perché rivolgere domande in tal senso, nel caso che le spiegazioni non venissero fornite spontaneamente o in seguito a una prima generica richiesta, era ritenuto inopportuno e pericoloso).
D’altra parte, ogni affiliato è tenuto a osservare un’assoluta segretezza: non può svelare ad estranei l’appartenenza all’organizzazione, né i segreti di “cosa nostra”. Questa è senz’altro la regola più ferrea, quella che ha permesso all’associazione di sopravvivere tanto a lungo e la cui trasgressione è punita con la morte.
Allo scopo di evitare che nei contatti tra membri dell’organizzazione si possano inserire estranei, la presentazione di un “uomo d’onore” è disciplinata da severe regole. In particolare, è impossibile presentarsi da solo come “uomo d’onore” ad altro membro di “cosa nostra”, poiché in tal modo nessuno dei due avrebbe la sicurezza della rispettiva qualifica dell’altro. Pertanto, per indicare un “uomo d’onore” come tale a un altro associato è necessario l’intervento di un terzo membro dell’organizzazione che li conosca entrambi per la loro qualità e li presenti in termini che diano l’assoluta certezza a entrambi dell’appartenenza a “cosa nostra” dell’interlocutore. Salvatore CONTORNO ha spiegato che è sufficiente che un affiliato sia presentato a un altro con la frase: “questo è la stessa cosa”, mentre se si vuole indicare una persona vicina all’organizzazione si dirà: “questo è un amico”. Infatti, per ovviare a due contrastanti esigenze (quella della segretezza e quella della necessità di reciproco aiuto e assistenza) non si possono ammettere errori o equivoci di sorta. Così pure se un “uomo d’onore” ha bisogno di contattare il capo o altri membri di un’altra “famiglia” che non conosca, si rivolge al capo della propria, il quale realizza il contatto attraverso un membro delle “famiglie” che conosca entrambe le parti. In siffatta maniera viene attuato un sistema molto efficace per assicurare segretezza maggiore tra le “famiglie” mafiose: i rapporti di conoscenza vengono limitati all’essenziale e si viene a sapere ben poco delle altre “famiglie”. In conclusione, un “uomo d’onore” conosce soprattutto i membri della propria “famiglia” e poi quelli delle altre “famiglie” su cui via via acquisisce notizie per le proprie esigenze di affari o di attività illecite.
Infine, gli affiliati sono vincolati all’obbligo assoluto di dire la verità, nelle comunicazioni tra loro di fatti attinenti a “cosa nostra” hanno: chi infrange questa regola, dato che ha la facoltà di astenersi dal parlare, è passibile di pene gravissime e perfino della morte.
4. La qualità di “uomo d’onore”, una volta acquisita, cessa soltanto con la morte o l’espulsione, la quale ultima costituisce l’unica eccezione al perdurare del vincolo associativo e viene decretata dal rappresentante della “famiglia”, nei casi in cui essa sia dovuta a ragioni di pertinenza dell’articolazione territoriale suddetta, o dalla commissione, qualora consegua a più gravi trasgressioni al codice mafioso. Pertanto, in assenza di questi ultimi eventi, anche se i fatti della vita possono determinare il trasferimento dell’affiliato in località lontane dalla Sicilia e il suo conseguente mancato coinvolgimento attivo negli affari della “famiglia”, qualora all’“uomo d’onore” venga richiesto da “cosa nostra” un qualche comportamento derivante dalla sua qualità, egli non può sottrarsi all’esecuzione di quanto gli è stato richiesto.
L’espulsione va tenuta distinta dalla “posata”. Quest’ultima consegue a violazioni di minore rilievo e comporta la fuoriuscita dall’associazione, ma non l’abbandono del dovere di attenersi alle regole della stessa, con la conseguenza che il fedele rispetto delle norme che disciplinano l’esistenza del sodalizio criminoso può anche preludere a una successiva riammissione del soggetto (cfr., su quest’ultimo punto, sentenza n.201/92 R.G. emessa in data 21 dicembre 1992 da Tribunale di Marsala nel processo a carico di ALFANO Nicolò + 15; cfr. altresì esami resi da Antonio PATTI e Salvatore GIACALONE all’udienza dell’11 marzo 1999, nei quali i collaboranti hanno accennato all’avvenuta riammissione nella “famiglia” di Marsala di alcuni soggetti negli anni ‘80 per decisione del rappresentante Vincenzo D’AMICO a causa del buon comportamento dagli stessi tenuto).
La detenzione, al contrario, non solo non spezza i vincoli con “cosa nostra”, ma anzi facilita quella solidarietà che lega gli appartenenti all’associazione. Infatti, gli uomini d’onore in condizioni finanziarie disagiate e i loro familiari vengono economicamente sostentati durante la detenzione dalla famiglia di appartenenza (cfr. sul punto altresì le conformi dichiarazioni rese da Salvatore GIACALONE all’udienza del 24 marzo 1999 e da CULICCHIA Cristina Petronilla all’udienza del 7 marzo 1995 celebrata davanti alla Corte d’Assise di Trapani nel procedimento a carico di PATTI Antonio + 40 e prodotte dal P.M.).
5. La cellula primaria dell’associazione è la “famiglia”, struttura rigidamente ancorata al territorio che controlla una zona della città, in genere una borgata o un intero centro abitato da cui prende il nome (p. es. “famiglia” di Corleone dal paese omonimo, “famiglia” di Santa Maria del Gesù, dal quartiere o borgata omonima).
La “famiglia” è governata da un capo di nomina elettiva chiamato anche “rappresentante”, il quale a sua volta nomina il “sottocapo” (che è colui a cui ci si rivolge in assenza del capo), uno o più “consiglieri” (normalmente persone anziane a cui si riconoscono doti di equilibrio e saggezza e che vengono chiamate a dare veri e propri consigli sia al capo che ai singoli uomini d’onore) e i “capidecina”, i quali hanno la funzione di coordinare l’attività degli uomini d’onore loro affidati. Tutti gli altri “uomini d’onore” sono semplici “soldati”.
L’istituto della “reggenza” è stato introdotto nell’organizzazione di “cosa nostra” come fatto nuovo e del tutto eccezionale, dovuto alla circostanza che -a causa della guerra di mafia dell’inizio degli anni ’80, che in pochi mesi aveva provocato numerosi omicidi e sconvolto l’assetto di numerose “famiglie”- era sorta la necessità di assicurare il funzionamento di quelle maggiormente colpite e pertanto la “commissione” aveva posto provvisoriamente a capo di alcune di esse uomini di propria fiducia (l’uso di nominare i reggenti in numero di due è invalso anche nella provincia di Trapani, atteso che a Marsala, dopo la soppressione del vertice della “famiglia” da parte della stessa “cosa nostra” vennero nominati reggenti Antonio PATTI e Vito MARCECA e che nel 1992, in seguito all’arresto del “rappresentante” Mariano AGATE la cosca fu guidata da Vincenzo SINACORI e Andrea MANCIARACINA). I reggenti delle “famiglie”, nominati in numero di due, non fanno però parte della “commissione”, anche se hanno sostituito un “capo famiglia” che fosse anche “capo mandamento”.
Un’altra regola che deriva dal principio della sovranità territoriale è quella che nessun omicidio può essere commesso senza l’assenso del “rappresentante” della “famiglia” nel cui territorio è eseguito il delitto, mentre i più gravi fatti di sangue, che esulano dalla competenza strettamente territoriale o dal governo della “famiglia” vengono decisi da tutta la “commissione”, che ne affida l’esecuzione a uomini d’onore scelti discrezionalmente tra le varie “famiglie” senza che sia necessario informarne i rispettivi capi. Le decisioni della “commissione” vanno eseguite a tutti i costi, ma viene sempre informato il capo della “famiglia” nel cui territorio deve essere commesso l’omicidio.
6. Le “famiglie” contigue, in numero di tre o più, sono raggruppate nel cosiddetto “mandamento”, guidato da un “capo mandamento”, che è anche il capo della più importante delle “famiglie” che lo compongono. Per altro, in passato, per garantire obiettività nella rappresentanza degli interessi del “mandamento” e per evitare un pericoloso accentramento di poteri nella stessa persona, la carica di “capo mandamento” non era cumulabile con quella di “rappresentante” di una “famiglia”.
7. L’attività delle “famiglie” e dei “mandamenti” è coordinata da un organismo denominato “commissione” o “cupola”, di cui fanno parte i “capi mandamento” di tre o più famiglie generalmente contigue. La “commissione” è presieduta da uno dei “capi mandamento”, anche se in origine, forse per accentuarne la qualità di primus inter pares, il capo della “commissione” veniva chiamato “segretario”. La “commissione” ha una sfera di azione che corrisponde alla circoscrizione territoriale provinciale e ha il compito di assicurare il rispetto delle regole di “cosa nostra” all’interno di ciascuna “famiglia” e, almeno inizialmente, di comporre eventuali vertenze tra le “famiglie” medesime.
Tale ricostruzione è stata confermata, nell’ambito del presente processo, da Francesco DI CARLO, il quale all’udienza del 7 maggio 1998 ha affermato che ogni Provincia -tranne Ragusa, Siracusa e Messina- era retta da una commissione provinciale, di cui facevano parte solo i più autorevoli tra i capi mandamento. A Palermo, invece, tutti i capi mandamento facevano parte della commissione e il capo aveva più che altro il ruolo e i poteri di un coordinatore, tanto che alle riunioni della commissione regionale partecipavano solo i componenti delle commissioni provinciali e tutti i capo mandamento della Provincia di Palermo.
8. In tempi più recenti è stato costituito un organismo di coordinamento tra le commissioni chiamato “interprovinciale”, di cui fanno parte i capi delle commissioni delle province di Palermo, Trapani, Agrigento, Catania e Caltanissetta, organismo che, nel pieno rispetto delle autonomie delle commissioni provinciali, è stato creato con lo scopo di consentire ai capi di consultarsi per gli affari che esulavano dall’ambito provinciale e interessavano i territori di altre “famiglie”. Così per esempio, se un imprenditore di una provincia intende spostare il centro dei suoi affari, sia leciti che illeciti, in un’altra provincia, deve essere a ciò autorizzato da tale organismo. All’esito della guerra di mafia scatenata a Palermo all’inizio degli anni ’80 e del prevalere della fazione dei “Corleonesi” di RIINA, il potere di quest’ultimo nell’ambito della “commissione interprovinciale” e di quest’ultima su tutti gli organismi minori si è sempre più consolidato.
Il coordinatore regionale fu dapprima Gaetano BADALAMENTI, poi Giuseppe CALDERONE di Catania, che furono entrambi tolti, quindi Michele GRECO, e, infine, Totò RIINA. Nonostante la Commissione sia rimasta in vita, quest’ultimo, dopo la conclusione vittoriosa della guerra di mafia, accentrò tutto il potere su di sé, cosa che in precedenza nessun coordinatore era stato in grado di fare, diventando così il vero e proprio capo indiscusso della mafia siciliana (cfr. a quest’ultimo proposito il già citato esame di Francesco DI CARLO e quello di Vincenzo SINACORI nell’udienza del 15 aprile 1998).
9. Alla luce dei suesposti elementi, la struttura di “cosa nostra” è sostanzialmente unitaria e verticistica. Infatti, la piena autonomia decisionale e operativa degli organismi di base (“famiglie”) si limita all’ambito strettamente territoriale, mentre per questioni che trascendono gli interessi locali vi sono organismi concentrici e sovraordinati con compiti di controllo e coordinamento, oltre che decisionali.
Il patrimonio conoscitivo conseguito a seguito delle dichiarazioni di BUSCETTA e CONTORNO e compendiato nella sentenza del cd. “Maxi 1” da un lato è riferito essenzialmente alla provincia di Palermo e dall’altro lato è risalente nel tempo.
Il primo, infatti, nel periodo di tempo ricompreso tra il 1963 e il 1980 è stato all’estero (fino al 1979) e poi detenuto, cosicchè le notizie riferite dallo stesso all’Autorità Giudiziaria risentono di conoscenze maturate anteriormente al 1963 e successive al 1980, oltre che della condizione di semplice “soldato” sempre ricoperto dal collaborante, nonostante l’indubbio prestigio e carisma di cui godeva all’interno di “cosa nostra”, a causa della sua tormentata vita sentimentale, ritenuta non consona ai dettami imposti dall’associazione.
Il secondo, affiliato nel 1975, ha dimostrato di avere conoscenze limitate soprattutto alla sua “famiglia” di appartenenza e alle informazioni attinte all’interno dell’organizzazione, grazie alla sua particolare vicinanza con il boss Stefano BONTATE (cfr. citata sentenza n.201/92 del tribunale di Marsala nel processo contro ALFANO Nicolò + 15).
Tuttavia, come si è visto, le dichiarazioni del BUSCETTA e del CONTORNO aventi ad oggetto la descrizione delle regole e dei modelli organizzativi hanno trovato molteplici e significative conferme nelle dichiarazioni di altri collaboratori appartenenti a “famiglie” di altre provincie (e, per ciò che concerne specificamente il processo “Omega”, soprattutto del trapanese), i quali hanno delineato le caratteristiche della consorteria criminale secondo linee che non si discostano in maniera significativa da quelle indicate dai primi “pentiti” di mafia.
Del resto l’omologazione di tutte le propaggini dell’associazione criminale in parola alla sopra riferita disciplina trova una importante conferma in due emergenze investigative molto datate nel tempo, ma (anche per questo) assai significative: l’interrogatorio reso da Giuseppe LUPPINO di Campobello di Mazara a membri della Squadra di P.G. di Trapani l’8 marzo 1958 e il contenuto di alcune conversazioni intercettate il 22 aprile e il 10 maggio 1974 all’interno del “Reggio Bar” di Montreal nell’ambito di un’indagine effettuata dalla Polizia canadese, utilizzate nel processo a carico di FERRO Antonio + 44 celebrato dinnanzi al Tribunale di Agrigento (cd. “processo del blitz di Villaseta”) e riportate nella sentenza pronunciata dal Tribunale di Marsala il 21 dicembre 1992 nel procedimento a carico di ALFANO Nicolò + 15.
Mentre sul primo documento ci si soffermerà ampiamente in seguito, in questa sede appare opportuno dare conto del contenuto di queste ultime conversazioni, in quanto in esse gli interlocutori VIOLI Paul, SCIARA Pietro, CUFFARO Giuseppe e SALEMI Carmelo utilizzano un lessico perfettamente coincidente con quanto rivelato dai dichiaranti.
Infatti, i termini “famiglia”, “capo decina”, “mandamento”, “rappresentante”, “consigliere” ed altri consimili, utilizzati dai collaboranti per tratteggiare la struttura e l’organizzazione di “cosa nostra”, risultano parimenti riferiti, dunque, nell’anno 1974 in Canada dai predetti soggetti per aggiornarsi vicendevolmente degli allora più recenti eventi relativi al ramo agrigentino del sodalizio:
-… Carmelo é rappresentante di provincia e rappresentante di paese, naturalmente il suo paese…;
-… Vostro compare é capo mandamento, voi lo sapete già.
– …Io ho una lettera, una lettera si intende personale dello zio Peppe che dice che Carmelo è rappresentante, Pinuzzo é un operaio… regolarmente fatto regolarmente, esatto … sia lui, sia suo cognato Giovanni lo stesso…”;
– “ … fa parte della famiglia di Siculiana”;
– “Questa, naturalmente, non é una lettera dì … diciamo, da presentare al nostro capo decina …. é una lettera dove ci annuncia….”:
– “Naná é stato fatto capo di mandamento … di mandamento … di cui il paese mio fa parte e Naná lo stesso…”;
– “pure, infattì, nella provincia le cose sono cambiate un poco .. hanno sostituito un consigliere … hanno fatto Carmelino Colletti … io lo conosco”;
– “Lo conosci tu Carmelino (?)”;
– “Di Ribera”;
– “….penso che l’hanno fatto consigliere della provincia … l’hanno sostituito a Campo … ché Campo è diventato rappresentante di Ribera”;
– il mondo è cosi … certo la “nostra cosa”, praticamente, si sa, lo stesso é un po’ tradizionale, no (?) … intanto prima di giudicare una persona, gli fai conoscere … che almeno lo sappia, è giusto … sì studia la persona, si fa lavorare e compagnia bella…”;
– “c’e il rappresentante di Palma di Montechiaro, che è un paese…”;
– “A Catania c’é qualcuno che conosco io (?)”;
– “A Catania Peppe CALDERONE lo conoscete voi?”.
Il sunto delle citate conversazioni costituisce una significativa conferma dell’articolata struttura di “cosa nostra”, atteso che da un lato è indubitabile che non vi sia stata alcuna interferenza tra le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ed il risultato delle registrazioni ambientali (trattandosi di fatti tra loro assolutamente interdipendenti, non essendo assolutamente ipotizzabile che BUSCETTA e gli altri avessero contezza della effettuazione del servizio di intercettazione e ne conoscessero addirittura il contenuto, allineandovi le proprie propalazioni giudiziarie) e dall’altro lato le riportate conversazioni debbono essere giudicate certamente intrinsecamente credibili, essendo spontanee nella forma e inequivoche nel contenuto.
Ciò premesso, per altro, come adombrato dallo stesso BUSCETTA, le ferree regole che tradizionalmente connotavano “cosa nostra” non sono state tramandate intatte nel tempo e non sono state in uso, nella loro integralità, in ogni territorio di radicamento e di influenza dell’associazione criminale in parola.
In particolare, con il passare degli anni l’insieme delle rigide regole che regolavano la vita dell’organizzazione è andato via via attenuandosi.
La vicenda personale dello stesso BUSCETTA del resto, è stata esemplificativa di tale progressivo allentamento della disciplina interna della mafia, atteso che egli acquistò e conservò la qualità di “uomo d’onore”, pur avendo avuto una vita sentimentale alquanto travagliata e certamente sgradita all’associazione. Identica tolleranza è stata dimostrata nei confronti di Baldassare DI MAGGIO, uomo di spicco della “famiglia” di San Giuseppe Iato in diretto contatto con RIINA Salvatore, il quale consumò e mantenne un notorio adulterio fino alla data del suo arresto (dato riportato nella sentenza n.23/94 R.G. emessa dal Tribunale di Marsala il 12 luglio 1995 nel processo a carico di ALFANO Calogero + 15).
Antonino CALDERONE (fratello di Giuseppe, “Pippo”, ispiratore e primo capo storico della cd. “regione”, organismo superprovinciale di coordinamento delle commissioni), assunto come testimone nell’ambito del giudizio d’appello del cd. “Maxi 1”, nel confermare sostanzialmente le propalazioni di BUSCETTA e CONTORNO, ha aggiunto che nella “famiglia” di Catania -esistente fin dal 1925 e pertanto certamente potente e strutturalmente compatta- la perdita di consistenza anche sostanziale delle regole tradizionali aveva consentito, alla fine degli anni ’70, l’ingresso nella cosca di un giovane figlio di N.N. (cfr. citata sentenza nel procedimento a carico di ALFANO Nicolò e altri).
L’attenuazione del rispetto della disciplina tradizionale, e in particolare della regola della segretezza dell’organizzazione, è stata altresì verosimilmente accentuata, all’inizio degli anni ’90, dalla necessità di conservare la piena operatività di “cosa nostra”, nonostante i duri colpi inferti alla stessa dalle operazioni di polizia, da lotte intestine che travagliavano l’associazione e dagli attacchi provenienti in più paesi (Alcamo e Marsala, in particolare) da bande rivali.
Infatti, l’arresto e/o la morte cruenta di molti associati, unitamente alla necessità di fare fronte ad attacchi esterni portati dalle forze dell’ordine e da altre consorterie criminali e di continuare a esercitare sul territorio lo stesso capillare controllo di sempre, ha imposto alla mafia di ricorrere all’aiuto di nuove leve, spesso senza averle assoggettate alle rigorose valutazioni a cui tradizionalmente venivano sottoposti i soggetti che potevano avere i requisiti necessari per entrare a fare parte dell’organizzazione o, addirittura, a ricorrere regolarmente alla collaborazione di soggetti estranei anche per la perpetrazione di azioni di rilevante importanza.
A tale proposito è emblematica la vicenda riferita da Antonio PATTI con riferimento alla reazione di “cosa nostra” all’attacco portato alla “famiglia” di Marsala nel 1992 dal gruppo facente capo a Carlo ZICHITTELLA (cfr. esame reso da Antonio PATTI all’udienza del 19 novembre 1998).
La guerra fu diretta da “uomini d’onore” di spicco, i quali tuttavia si avvalsero in molteplici occasioni della collaborazione di soggetti all’epoca estranei all’organizzazione, su indicazione dello stesso RIINA Salvatore. Quest’ultimo, infatti, dopo l’assassinio di TITONE Antonino, ordinò al PATTI, all’epoca reggente della “famiglia” di Marsala, di tenere all’oscuro gli “uomini d’onore” e di affidare a persone estranee all’organizzazione il compito di indagare sull’accaduto e di ricercarne i responsabili. Evidentemente, dunque, il RIINA non si fidava degli affiliati, atteso probabilmente il travaglio vissuto in quel periodo dalla cosca marsalese, della quale pochi mesi prima, per mano di esponenti della stessa “cosa nostra”, erano stati eliminati il rappresentante Vincenzo D’AMICO, suo fratello Gaetano e il consigliere Francesco CAPRAROTTA.
Infine, lo stesso fenomeno della collaborazione con la giustizia (ormai diffuso e radicato da oltre un quindicennio), esprimendo emblematicamente quel dato di “imbarbarimento etico” dell’organizzazione, ha comportato rimeditazioni operative e continui adattamenti della disciplina interna alle ormai mutate condizioni della consorteria criminale da parte degli elementi più fedeli e tradizionalisti posti nelle posizioni di vertice.
In conclusione, le riportate acquisizioni probatorie contenute nelle più volte citate sentenze divenute irrevocabili e l’esito degli esami dibattimentali di numerosi collaboratori (Antonio PATTI, Vincenzo SINACORI, Salvatore GIACALONE, Giuseppe FERRO, ecc.) che ne hanno sostanzialmente confermato il contenuto, costituiscono, integrandosi tra loro, vicendevoli riscontri probatori in ordine all’esistenza -che qui s’intende affermare- dell’organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra”, dell’articolata struttura organizzativa sul territorio della stessa e delle regole che ne disciplinano l’esistenza.
CAPO II
-ARTICOLAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE MAFIOSA “COSA NOSTRA” NELLA PROVINCIA DI TRAPANI-
Sebbene gli storici siano giunti a conclusioni difformi sull’epoca a cui risale il fenomeno criminale oggi universalmente noto come “cosa nostra”, può certamente affermarsi che la struttura di questa potente organizzazione mafiosa esisteva, quanto meno in nuce, nella provincia di Trapani già all’inizio del XX secolo.
Infatti, dall’esame di una “carta della mafia”, redatta nei primi anni del ‘900 dallo studioso Antonino CUNTRERA sulla base delle risposte fornite dai Pretori siciliani a un questionario loro sottoposto in occasione dell’inchiesta agricola condotta da Stefano JACINI, emerge che in quell’epoca, nella Provincia di Trapani, la mafia era localizzata più capillarmente nei comuni di Trapani, Erice, Alcamo, Castellammare del Golfo, Vita, Gibellina, Salaparuta e, seppure con minore densità in quelli di Paceco, Marsala, Mazara del Vallo, Castelvetrano, Partanna, Santa Ninfa, Poggioreale, Salemi e Calatafimi.
Per altro, il dato più saliente riferito dagli storici è indubbiamente che già all’inizio del XX secolo la mafia era strutturata gerarchicamente. Esistevano le “famiglie”, costituite da membri ed amici della stessa casa, le “cosche”, formate da più “famiglie” dello stesso paese, le “consorterie”, comprendenti le cosche di una stessa zona, che controllavano un settore di una particolare attività, stabilita durante le riunioni della “onorata società”, alla quale appartenevano tutte le consorterie.
Le “cosche” che facevano parte di una stessa “consorteria” dovevano occuparsi dell’identico tipo di attività, senza interferire o intralciare i settori di pertinenza di altre cosche. Nei casi in cui si verificano indebite ingerenze, si scatenavano faide sanguinosissime, in cui si contava un numero impressionante di morti da entrambe le parti e intere famiglie scomparivano addirittura. Infatti, la violazione di uno solo degli accordi stabiliti dava origine a una lunga catena di assassinii che poteva durare anni (cfr. sul punto sentenza emessa dal Tribunale di Trapani il 1 aprile 1995 nel processo a carico di CALABRÒ Gioacchino e altri, prodotta dal P.M. sub Faldone IV).
Fino all’inizio degli anni ’90 -quando si è registrata la diffusione del fenomeno del cosiddetto “pentitismo” anche nella provincia di Trapani- la conoscenza dell’apparato strutturale e funzionale di “cosa nostra” nell’ambito territoriale in esame è stata assai lacunosa e imprecisa. Correlativamente, e conseguentemente, l’azione repressiva dello Stato contro i membri della citata organizzazione è stata episodica e complessivamente assai poco efficace, colpendo esclusivamente singoli personaggi e realtà locali, in un’ottica disancorata dalla considerazione unitaria del fenomeno mafioso dell’intera provincia.
Anche nel trapanese, come era già avvenuto nel palermitano, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia -e in particolare di quelli che appartenevano a “famiglie” operanti nella provincia, spesso ricoprendo ruoli di primo piano, come nel caso di Antonio PATTI, Vincenzo SINACORI e Giuseppe FERRO- hanno consentito di delineare le caratteristiche del fenomeno mafioso nel territorio e di individuare i responsabili e le causali di molti fatti di sangue, che erano fino ad ora rimasti oscuri.
Sotto questo profilo, appare opportuno sottolineare che, prima dell’inizio della collaborazione di alcuni personaggi organicamente inseriti in associazioni di stampo mafioso -talvolta contrapposte a “cosa nostra”- operanti nel trapanese e nel palermitano, gli inquirenti non erano riusciti a fare piena luce su nessuno dei numerosi fatti di sangue verificatisi nella Provincia di Trapani, nonostante l’impegno profuso dagli inquirenti e il raggiungimento di risultati investigativi di indubbia rilevanza, spesso successivamente confermati dalle propalazioni dei collaboranti, ma quasi sempre privi, prima di ricevere tale riscontro, di un corredo probatorio idoneo a fondare sentenze di condanna. Infatti, a causa delle già descritte caratteristiche organizzative di “cosa nostra” e in particolare alla segretezza che ne connota la struttura, solo sporadicamente, e grazie a circostanze fortuite (vedi, a tale proposito, omicidi FERRARA e VENTO-TUMMARELLO), è stato possibile individuare alcuni dei responsabili di singoli omicidi, mentre ne rimanevano comunque ignoti taluni dei colpevoli e i moventi.
Prima degli anni ’90 erano stati celebrati soltanto due processi che avevano interessato direttamente cosche della provincia di Trapani, e precisamente quelle di Campobello di Mazara e di Marsala.
Il giudizio relativo a quest’ultima “famiglia”, denominata dai Giudici dell’epoca “banda LICARI” dal nome dell’indiscusso capo della consorteria, fu definito dalla Corte d’Assise di Appello di Salerno con la sentenza emessa in data 14 dicembre 1972, sulla quale ci si soffermerà ampiamente sia nell’Introduzione al Capitolo V della Parte IV, sia nella scheda dedicata all’omicidio di Vito SAMMARTANO (cfr., infra, sub parte IV, Capitolo VII), a cui si rinvia per ogni considerazione.
Il processo nei confronti degli indiziati di appartenere alla consorteria mafiosa campobellese, invece, venne celebrato negli anni ’60 dinnanzi alla Corte d’Assise di Lecce e scaturì dalle dichiarazioni rese ai Carabinieri della allora Squadra dì P.G. di Trapani da tale LUPPINO Giuseppe nella remota data dell’8 marzo 1958.
Costui, offrendo agli investigatori del tempo, nel timore di una fine violenta, uno spaccato del microcosmo mafioso campobellese, ebbe a palesare circostanze tali sul ruolo e sull’articolazione della cosca locale che, per la fenomenale coincidenza con quanto oltre venti anni dopo avrebbero riferito gli odierni collaboranti, non possono che definirsi di inedita portata storica.
Siffatte dichiarazioni meritano, pertanto, di essere qui riportate nella loro pressoché integrale verbalizzazione, essendo le stesse il frutto di cognizioni senz’altro attendibili del dichiarante, ove si consideri che, ad appena diciotto giorni di distanza dalla formale assunzione di sommarie informazioni testimoniali, il LUPPINO fu vittima di omicidio.
Le sue propalazioni acquistano dunque il valore pregnante di un atto di ultima volontà da parte di un soggetto che, da quel privilegiato osservatorio derivante dalla affiliazione a “cosa nostra”, aveva compreso che la sua soppressione da parte dei suoi antichi sodali era imminente.
“Quanto mi accingo a dichiarare é il frutto di una lunga meditazione anche per svergognare alcuni delatori che hanno sempre in Campobello di Mazara fatto la parte degli “uomini d’onore” che non hanno mai avuto e quella di spia della Polizia. Vorrei che venissero chiamati i vari funzionari che hanno battuto Campobello di Mazara per accertare la verità di quanto affermo e fra questi vorrei che venissero interpellati il Commissario di P.S. MANNINO Giuseppe, il maresciallo di P.S. CIOTTA, il maresciallo dei Carabinieri PODESTIO, il maresciallo TERRACCHIO, il brigadiere TORREGROSSA ed altri, e costoro sicuramente non potranno negare che hanno avuto per delatori i vari “uomini d’onore” di cui mi accingo quindi a svelare alcuni fatti di mia conoscenza ed a fornirne le prove perché, mentre gli uomini di cui sopra non sono stati altro che semplici delatori e “tragediatori”, io svelerò i fatti detti a giustificazione di quanto mi è capitato essendo stato coinvolto anche in un processo del quale sono completamente innocente.
Mi accingo a parlare perché, dopo che la mia vita fu attentata il 25 febbraio 1957 in pieno Campobello e, dopo che venni dimesso dalle carceri di Castelvetrano il 4 ottobre 1957, sono stato costretto a restare rinchiuso in casa perché se mi fossi azzardato ad uscire da casa sicuramente sarei stato ucciso.
La mia condanna a morte é stata decretata per essermi io opposto al gruppo di mafia imperante in Campobello di Mazara, che sarà da me dettagliato, di portare nel Tribunale del gruppo stesso Giacomo AGOSTA al quale si sarebbe dovuto chiedere conto del sequestro del giovane pastore VOLPE Giovanni essendo egli, AGOSTA, ritenuto responsabile. Ciò avrei dovuto fare io, in quanto amico dello AGOSTA……….. Il 10.8.1956 fui dimesso dalle Carceri di Castelvetrano dopo avere scontato una pena per fabbricazione clandestina di spirito. Con la mia famiglia composta da mia moglie, perché cosi la ritengo, da mio fratello, mi portai in Contrada Bresciana-Frascia per trascorrere un periodo di riposo. Mi diede ospitalità MANGIARACINA Calogero di Antonino, mio amico, campiere della zona. Il MANGIARACINA….. più volte mi disse di essersi diviso dalla moglie e che costei lo aveva coinvolto in un delitto di stupro da lui non commesso. Mi disse ancora il MANGIARACINA che il patrigno della moglie aveva condotto questa dal medico Dr. GANCI per farla visitare. Dalla visita risultò che effettivamente la moglie era stata stuprata.
Nell’animo del MANGIARACINA, poiché si dichiarava estraneo alla cosa, sorse il dubbio che a commettere lo stupro fosse stato BONANNO Giuseppe, amante della madre della moglie.
Tentai a più riprese di far riconciliare il MANGIARACINA con la moglie, cosa che mi riuscì impossibile.
In un giorno dei primi del mese di dicembre 1956 in Campobello di Mazara fui avvicinato dal BONANNO Giuseppe il quale mi propose un abboccamento in uno dei prossimi giorni. Mi misi a disposizione del BONANNO. Infatti, dopo alcuni giorni, io mi recai a trovare il BONANNO nella sua abitazione e costui mi disse che dovevamo parlare la sera. Verso il tramonto di quel giorno passai dalla casa di abitazione del BONANNO ed assieme a costui mi sono fatto qualche passo per la via principale, parlando di cose di campagna. Verso le ore 20,30 mi disse di seguirlo e mi portò nella casa di abitazione di RIGGIO Vincenzo, quello sposato a Castelvetrano, inteso “u riccu”.
Nella casa di Vincenzo RIGGIO, oltre allo stesso trovai seduti GULLI Gregorio, INGRASCIOTTA Giacomo inteso “acquato”, Natale ALA inteso “u siccu”. Mentre eravamo nella casa del RIGGIO, ad uno ad uno sopraggiunsero Nino GULLI, fratello del precedente GULLI, Marco LA ROSA ed il figlio Bartolo, ALFANO Nicolò e il fratello Peppino attualmente “soldato”, INGRASCIOTTA Pietro, fratello dell’INGRASCIOTTA Giacomo, BONAFEDE Nardo, Neddu VOLPE e i due figli Vincenzo e Giuseppe e per ultimo giunse il capo dell’organizzazione, per come potei benissimo capire, MARGIOTTA Salvatore, quello che risiede a Palermo. Dopo un tratto il MARGIOTTA prese la parola dicendomi testualmente se io conoscevo tutti i presenti …. Voglio ancora dirvi che ad un certo punto entrò pure nella casa del RIGGIO ALA Giuseppe, allora latitante per tentato omicidio, in persona di tal GUCCIARDO.
Prendeva sempre la parola il MARGIOTTA, come “rappresentante” della “famiglia” il quale, rivolto a me, disse se avevo da dire qualcosa in merito agli astanti. Risposi negativamente …. Il MARGIOTTA insistette nel concetto che tutti facevano parte ad una “famiglia”, che mai vi dovevano essere delle fratture e che l’accordo massimo doveva regnare fra tutti. Specificò che non doveva accadere l’increscioso fatto verificatosi- ai danni del latitante FAZZONE Domenico, in quanto qualcuno della “famiglia” aveva fatto inopportunamente il delatore per farlo cadere nella rete della Polizia. Spiegò che la frattura in Campobello era avvenuta appunto per il latitante FAZZONE in quanto il gruppo di maffia avverso, capeggiato da Ciccu TAMBURELLO accusava il gruppo principale, il presente, per le delazioni lamentate. Disse ancora il MARGIOTTA che si auspicava la riunione dei due gruppi………
Venni perquisito sommariamente allo scopo dì accertarsi se io ero armato o meno. Mi si disse che mi avrebbero bendato gli occhi e poi mi avrebbero messo una cosa calda nella mano e dopodichè io avrei dovuto rispondere alle loro domande. Infatti venni bendato con un fazzoletto e poi nelle mani un pezzo di carta raggomitolato e acceso che io, per evitare la bruciatura, dovevo passarla da una mano all’altra. Questa carta raggomitolata mi si disse essere una immagine sacra. Prima di mettermi la carta accesa sulle mani con un spillo mi venne punzecchiato il polpastrello del dito indice destro. Mentre la carta accesa passava da una mano all’altra, il MARGIOTTA mi impose il giuramento che io ripetevo dietro suo suggerimento. Il giuramento consisteva pressappoco: “Giuro di non tradire la famiglia e di eseguire tutti gli ordini che vengono imposti”. Aggiunse “Chi tradisce troverà morte!”. Dopodichè mi venne tolta la benda e con mia sorpresa notai che tutti i presenti impugnavano chi pistole, chi coltelli. Le armi erano rivolte verso la mia persona. A questa vista rimasi sbigottito e venni rassicurato. Il MARGIOTTA mi disse allora che io da quel momento facevo parte alla loro “famiglia” e che dovevo accorrere ogni qual volta fosse stata richiesta la mia opera.
Si parlò molto insistentemente dell’aiuto che ogni membro della “famiglia” doveva dare all’altro, se bisognoso.
Il MARGIOTTA Salvatore disse (che) io ero stato chiamato a quella riunione e sottoposto a quel giuramento per far si che il suo gruppo si rafforzasse…..
Dopo un giorno o due mi sono incontrato con il BONANNO Giuseppe il quale, nel chiedermi se io mi ero rimesso dallo stato di sbigottimento, mi domandò il parere sull’organizzazione. Ebbi parole molto belle per essa …
Trascorsi cinque o sei giorni BONANNO Giuseppe mi avverti che durante la serata vi doveva essere una riunione, “turno”, e che avrei dovuto parteciparvi nella considerazione che doveva avvenire la pacificazione dei due gruppi…
Trascorsa una settimana ancora il BONANNO mi accompagnò nello stabilimento vinicolo PASSANANTE-MONTE …. Successivamente, alla spicciolata, incominciarono a giungere molti degli associati del gruppo MARGIOTTA ed i nuovi immessi del gruppo TAMBURELLO e personalmente: il capo Ciccio TAMBURELLO ed il figlio e nome pure Francesco, RISARVATO Rosario inteso “Coffa”, Alfonso PASSANANTE fu Alfonso, i figli di Peppe BIANCO di cui mi sfugge il nome …. Mi vennero presentati i nuovi immessi per facenti parte ora di un’unica organizzazione. Venne stabilito ad unanimità che il capo della nuova ed unica associazione era il MARGIOTTA Salvatore, ma poiché costui abita a Palermo, è stato nominato vice capo Gregorio GULLI ….. “Consigliere” della “famiglia” fu eletto Vincenzo RIGGIO inteso “u riccu”, capo decina Marco LA ROSA. Il capo decina è l’ultimo grado gerarchico degli associati. Tutti i rimanenti si debbono considerare gregari. TAMBURELLO Francesco, padre, dopo la unificazione venne nominato “capo decina”.
Scopo di questa riunione fu quello di stabilire la responsabilità di AGOSTA Giacomo in merito al sequestro di persona in danno del giovane pastore VOLPE Giovanni.
Il MARGIOTTA Salvatore disse che il Tribunale dell’organizzazione lo riteneva colpevole del sequestro del VOLPE e pertanto lo dichiarava condannato a morte. Era intendimento del MARGIOTTA e degli accoliti di prendere vivo lo AGOSTA, condurlo in un posto isolato e farlo confessare, allo scopo anche di recuperare le ossa del giovane pastore VOLPE. Dal MARGIOTTA mi venne detto che dappoiché io facevo parte ora della “famiglia”, avrei dovuto condurlo in un posto acconcio, traendolo naturalmente in inganno, e cosi farlo confessare e poi ucciderlo. Intervenni in senso favorevole allo AGOSTA ……….. Dissi ancora che poiché non si avevano prove veramente concrete, non era giusto emettere una sentenza di morte …………… Dissi ancora che non mi potevo opporre al deliberato della “famiglia” ma che per coscienza non avrei mai ingannato lo AGOSTA.
Le mie parole furono seguite da una pausa di silenzio, dopodichè vidi Neddu VOLPE e gli altri guardarsi tra di loro e deliberai di non insistere più sulle mie argomentazioni. Capii che lo sguardo che si diedero tra loro fu quello della mia condanna a morte. Prende poi la parola il MARGIOTTA Salvatore, il quale, nel rivolgere parole di ammirazione per quanto avevo osato dire, disse ……… A conferma di quanto sopra detto in merito all’associazione per delinquere capeggiata dal MARGIOTTA Salvatore e composta da tutti gli elementi da me detti consegno lettera datata 22 settembre 1958 proveniente dalla Svizzera, Dietikon, ed inviatami dal mio compaesano Rocco BARRUZZA. In essa è detto di avere appreso da Angelo CARAVÁ, che costui era pronto a difendermi…..”.
Le rivelazioni del LUPPINO hanno trovato conferma, anche con specifico riferimento alla provincia di Trapani, nelle successive dichiarazioni di tutti i collaboratori di giustizia.
Questi ultimi, infatti, sono stati concordi nell’affermare che anche in tempi più recenti l’associazione denominata “cosa nostra” ha struttura unitaria e verticistica, organizzata -come nel palermitano- in “famiglie” e “mandamenti” e guidata da una “commissione provinciale” composta dai capi dei singoli mandamenti e guidata dalla personalità di maggiore spicco all’interno della consorteria criminale in un determinato momento storico.
Analoghe a quelle del palermitano sono risultate altresì le regole relative all’affiliazione dei singoli associati, la formula e il rituale del giuramento, il significato e la pregnanza della formale presentazione tra “uomini d’onore”, le principali regole comportamentali che debbono connotare la condotta dei singoli, come l’obbligo di mantenere il segreto all’esterno e quello di dirsi sempre la verità, le cariche di “rappresentante”, “sotto capo”, “consigliere” e “capo decina” all’interno delle “famiglie”, la natura segreta dell’organizzazione, che per altro non comporta la riconoscibilità ab externo degli affiliati, indispensabile per l’esercizio del potere in un determinato territorio, la determinazione e la ferocia con cui vengono eseguite le decisioni adottate, la natura e le caratteristiche delle attività -lecite e illecite- dell’associazione, la condizione di assoggettamento imposta alla popolazione e la consequenziale cappa di omertà che soffoca ogni sviluppo delle coscienze.
Con specifico riferimento alle riportate propalazioni del LUPPINO, poi, non può non osservarsi che la inequivoca identità del rito di affiliazione rispetto ai resoconti dei successivi collaboratori, a partire dal BUSCETTA e dal CONTORNO, nonché l’uso dei termini “famiglia”, “rappresentante”, “capo decina”, “vice capo” e “soldato”, con riguardo all’organizzazione campobellese, configurano, al di la, di ogni ragionevole dubbio, l’esistenza di “cosa nostra” in quel territorio già negli anni ’50. Inoltre, la circostanza che la composizione dell’epoca della cosca di Campobello di Mazara annoverasse esponenti quali BONAFEDE Leonardo, PASSANANTE Alfonso, L’ALA (Ala) Natale e ALFANO Nicolò, ossia quegli stessi soggetti di cui, come si vedrà, tanto si è detto nell’odierna sede processuale (i primi due sono addirittura tra gli imputati), autorizza fondatamente a ritenere unico il contesto delittuoso ed a considerare l’attuale assetto mafioso di quel centro quale necessario sviluppo di quello menzionato dal LUPPINO.
Ciò premesso, l’esistenza di “cosa nostra” in tutto il territorio trapanese è dimostrata con assoluta certezza -oltre che dalle concordanti dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia- da un grande numero di sentenze, che verranno ampiamente esaminate in seguito e che in questa sede, per evidenti ragioni di sintesi, ci si limiterà ad elencare.
Vincenzo SINACORI, nell’esame reso all’udienza del 10 novembre 1999 nell’aula bunker di Bologna ha riferito che dalla fine della guerra di mafia che ha portato all’egemonia della fazione “corleonese” guidata da RIINA Salvatore, la provincia di Trapani è suddivisa in quattro mandamenti: Castelvetrano, Mazara del Vallo, Trapani ed Alcamo.
La Commissione provinciale, dopo l’esautorazione di Cola BUCCELLATO nel 1984 e fino all’inizio degli anni ‘90, è stata composta da MESSINA DENARO Francesco, che ne era il capo, MILAZZO Vincenzo e VIRGA Vincenzo, rispettivamente rappresentanti di Castelvetrano, Alcamo e Trapani.
Il mandamento di Alcamo è stato guidato, come si è detto, da MILAZZO Vincenzo, fino alla sua uccisione avvenuta nel luglio del 1992 su ordine diretto di RIINA Salvatore e per mano di sicari mafiosi. Al predetto MILAZZO è succeduto dapprima Giuseppe FERRO e, dopo il suo arresto, MELODIA Antonino. L’articolazione territoriale in parola comprende le “famiglie” di Alcamo, Castellammare del Golfo e Calatafimi.
Il mandamento di Castelvetrano è stato retto da MESSINA DENARO Francesco fino alla sua morte avvenuta nel corso del presente dibattimento; per altro già negli ultimi anni di vita del padre, aveva assunto un ruolo di primissimo piano, anche a livello decisionale, suo figlio Matteo.
La suddetta articolazione territoriale comprende le cosche di Castelvetrano, Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Santa Ninfa, Partanna e Campobello di Mazara.
Il mandamento di Mazara del Vallo ha come capo storico Mariano AGATE, indubbiamente uno dei personaggi di maggiore carisma della mafia trapanese. Nel corso dei lunghi periodi di detenzione del predetto imputato, hanno assunto la reggenza MESSINA Francesco e TAMBURELLO Salvatore negli anni ’80 e SINACORI Vincenzo e MANCIARACINA Andrea a partire dal marzo del 1992.
L’articolazione territoriale in parola comprende le cosche di Mazara del Vallo, Marsala, Salemi e Vita.
Il mandamento di Trapani, infine, è stato diretto da Totò MINORE fino alla sua soppressione ad opera di sicari “corleonesi”, decisa sulla base della presunzione che facesse il doppio gioco tra le due fazioni che si contendevano la guida dell’associazione nella guerra di mafia dei primi anni ’80. Al MINORE è succeduto dapprima Cola GUICCIARDI e poi, dopo la morte naturale di costui alla fine del 1984, Vincenzo VIRGA.
La suddetta articolazione territoriale comprende le cosche di Trapani (che ha assorbito quella di Erice dopo l’ascesa del VIRGA), Valderice e Paceco.
Esaurita l’elencazione dei mandamenti e delle “famiglie” che costituiscono la struttura di “cosa nostra” nella provincia di Trapani, pare opportuno indicate le principali decisioni che hanno affrontato il fenomeno in esame.
La prima e più importante sentenza che si è occupata di “cosa nostra” anche nella provincia di Trapani è stata quella a carico di ABBATE Giovanni + 459 (cd. “Maxi 1”) emessa il 27 novembre 1984 dalla Corte d’Assise di Palermo, che ha interessato soprattutto il mandamento di Mazara del Vallo e il suo capo indiscusso, Mariano AGATE.
Gli interessi criminali anche in campo economico e le alleanze militari dei mazaresi sono stati esaminati altresì nelle decisioni della Corte d’Assise di Appello di Torino nei confronti di AIELLO Matteo e altri e di ARCULEO Michele e altri, pronunciate rispettivamente il 27 novembre 1990 e il 27 aprile 1993. In queste sentenze si è dato atto dell’esistenza di strettissimi rapporti tra il principale fiduciario dell’AGATE, Giovanni BASTONE (talvolta coadiuvato anche dall’“architetto” BRUNO Calcedonio), e i capi di altre potenti organizzazioni criminali, tra cui quelle dei fratelli MIANO e dei “cursoti”, quest’ultima guidata dall’odierno imputato MAZZEI Santo.
Le attività criminose e la struttura della “famiglia” di Marsala sono state esaminate con riferimento agli anni tra il secondo dopoguerra e i primi anni ’60 dalla già citata pronuncia della Corte d’Assise d’Appello di Salerno sulla “banda LICARI” e per gli anni ’80 e ’90 dalle sentenze emesse il 19 luglio 1996 dalla Corte d’Assise di Trapani nel processo cosiddetto “PATTI + 40” (divenuta irrevocabile nei confronti del collaboratore e altri prevenuti) e il 29 luglio 1996 dal Tribunale di Marsala nel giudizio a carico di INDELICATO Giovanni + 13 (definitiva per otto imputati).
Le “famiglie” del mandamento di Alcamo sono state forse quelle più duramente colpite, tanto da sanguinose faide interne e guerre con bande rivali per il controllo del territorio, quanto dall’attività investigativa e giudiziaria. Infatti, quasi tutti i loro principali esponenti sono stati eliminati da killer “corleonesi” o dell’organizzazione denominata dei “GRECO”, oppure sono stati condannati a pesanti pene detentive per il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Lo scontro militare che infuriò ad Alcamo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 è stato oggetto della sentenza, ormai divenuta irrevocabile, emessa il 21 giugno 1994 dalla Corte d’Assise di Trapani contro GRECO Lorenzo e altri, oltre che del procedimento a carico di AGRIGENTO Giuseppe e altri, ancora sub judice, ma del quale sono stati acquisiti agli atti numerosi verbali dibattimentali. L’attività criminale delle cosche del mandamento, invece, è stata esaminata nei processi celebrati dinnanzi al Tribunale di Trapani nei confronti di ASARO Mariano e altri e di PAZIENTE Gaetano e altri, conclusi con sentenze emesse rispettivamente il 1 aprile 1995 e il 12 novembre 1994.
Quanto al mandamento di Castelvetrano e alle “famiglie che ne fanno parte, deve osservarsi che sono intervenute numerose pronunzie relative a Partanna e Campobello di Mazara, nonché, in epoca più recente, di Castelvetrano.
La faida che insanguinò Partanna tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ‘90 è stata trattata nelle sentenze emesse il 1 luglio 1994 dal Tribunale di Marsala nel procedimento a carico di ACCARDO Giuseppe e altri (sostanzialmente confermata con decisioni dell’8 febbraio e del 29 giugno 1996 dalla Corte d’Appello di Palermo), il 21 febbraio 1995 dal Tribunale di Sciacca nei confronti di TAMBURELLO Vincenzo e altri, nonchè il 6 ottobre 1995 dalla Corte d’Appello di Palermo nel giudizio contro FAVARA Carlo Salvatore, PANDOLFO Vincenzo e RALLO Francesco.
L’attività criminale e la composizione organica delle “famiglie” di Campobello di Mazara e Castelvetrano, infine, sono state oggetto dei processi celebrati dinnanzi al Tribunale di Marsala nei confronti di ALFANO Nicolò + 15 e ALFANO Calogero + 15, conclusi con pronunzie del 21 dicembre 1992 e del 12 luglio 1995.
-I collaboratori di giustizia-
CAPO I
-CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA PROVA-
Nel presente procedimento l’impianto accusatorio è basato principalmente sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che sono state acquisite nel fascicolo del dibattimento sia, e soprattutto, tramite la diretta audizione dei propalanti, sia attraverso la produzione di esami resi in altri processi penali e di decisioni divenute irrevocabili fondate in gran parte sulle chiamate in correità dei cosiddetti “pentiti”.
Tale circostanza, del resto, non può certo sorprendere, data la natura e le caratteristiche dei fatti dedotti in giudizio. Infatti, sono state sottoposte al vaglio di questa Corte imputazioni di associazione a delinquere di stampo mafioso e di omicidi ascrivibili, nella prospettazione accusatoria, a soggetti inseriti in “cosa nostra” o comunque orbitanti nella sfera della predetta organizzazione criminale. Orbene, la consorteria summenzionata, in quanto associazione di stampo mafioso, è notoriamente caratterizzata non solo dall’assenza di supporti scritti da cui possano trarsi prove oggettive, ma altresì da un alone di riservatezza che -se non può e non deve escludere la visibilità esterna della consorteria e di taluni dei suoi affiliati per consentire il conseguimento degli suoi scopi di intimidazione e controllo del territorio- circonda le regole, gli equilibri e in generale tutti gli affari interni dell’organizzazione. Questa caratteristica intrinseca dell’associazione spiega le enormi difficoltà che hanno tradizionalmente accompagnato l’attività investigativa, che fino alla metà degli anni ’80 era affidata alle sole osservazioni esterne e che è sfociata quasi sempre nell’acquisizione di compendi probatori insufficienti non solo a individuare i responsabili dei molti episodi delittuosi che hanno insanguinato la Sicilia, ma addirittura a dimostrare giudizialmente l’appartenenza a “cosa nostra” di quasi tutti i suoi membri. Le attività di indagine sono sfociate nell’accertamento giudiziale della verità soltanto in sporadici casi, grazie alcune volte a circostanze fortuite che hanno consentito di cogliere gli autori dei crimini, o taluni di essi, nella quasi flagranza del fatto (come è avvenuto, per limitarsi a episodi oggetto del presente giudizio, al duplice omicidio VENTO e TUMMARELLO e all’assassinio di Giuseppe FERRARA), e altre alle dichiarazioni di soggetti intranei o comunque vicini all’associazione che decisero di recidere i vincoli che li legavano a “cosa nostra” e di porre il loro patrimonio conoscitivo a disposizione degli inquirenti e che pagarono con la vita la loro scelta (come Giuseppe LUPPINO di Campobello di Mazara alla fine degli anni ’50 e Giuseppe VALENTI di Marsala all’inizio degli anni ‘60).
Alla luce delle predette considerazioni, è evidente l’importanza fondamentale del contributo fornito dai collaboratori di giustizia nell’accertamento dei reati associativi e dei reati fine commessi da affiliati o da personaggi “vicini” all’organizzazione criminale, le cui dichiarazioni hanno consentito per la prima volta di ricostruire con apprezzabile precisione le strategie, la struttura territoriale, l’organizzazione interna e l’organigramma delle singole cosche, nonché di scoprire i moventi e i responsabili di molti gravi episodi delittuosi.
Tuttavia, la necessità di contemperare le opposte e primarie esigenze della garanzia del diritto di difesa degli imputati e della tutela della collettività impone di delimitare i limiti e le modalità di impiego del mezzo probatorio in parola in un equilibrato bilanciamento che sia idoneo ad assicurare la giustezza della decisione. La fondamentale importanza della questione ha dato origine a una copiosa messe di decisioni giurisdizionali, che nel tempo si è cristallizzata in un indirizzo giurisprudenziale consolidato e sostanzialmente uniforme.
Il principio cardine del sistema di valutazione delle prove nel nostro ordinamento è quello del libero convincimento del giudice, sancito nel primo comma dell’art.192 c.p.p., che recita che “il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”.
Il legislatore, per altro, ha introdotto due limitazioni al predetto principio generale nel primo e nel secondo capoverso della norma citata. L’art.192 c.II, infatti, dispone che “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”, mentre il comma successivo statuisce che “le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art.12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”.
La relazione al progetto preliminare al nuovo codice di procedura penale ha chiarito la ragione dell’introduzione di quest’ultima disposizione, costituita dalla “necessità di circondare di maggiori cautele il ricordo ad una prova proveniente da chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato o ha comunque legami con lui, alla luce della sua attitudine a ingenerare un erroneo convincimento giudiziale”. Nella medesima relazione, per altro, è stato precisato altresì che “si è ritenuto di formulare la norma in chiave di regola sulla valutazione della prova, escludendo così che le dichiarazioni del chiamante in correità possano qualificarsi ex lege come elementi probatori inutilizzabili”.
Con riferimento alla disposizione in esame, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che “il comma terzo dell’art.192 c.p.p. non introduce una deroga o una restrizione quantitativa allo spazio del libero convincimento del giudice e neppure è volto a porre divieti di utilizzazione, ancorchè impliciti, o a indicare una gerarchia di valore delle acquisizioni delle acquisizioni probatorie, ma si limita unicamente a indicare il criterio argomentativo che il giudice deve seguire nel portare avanti l’operazione intellettiva di valutazione delle dichiarazioni rese da determinati soggetti” (cfr. Cass. pen., Sez. I, 30 gennaio 1992).
La chiamata di correo, dunque, ha natura di vera e propria prova rappresentativa, pur se caratterizzata da una parzialità contenutistica che richiede l’intervento di un riscontro che la supporti. Depongono in tal senso sia un argomento testuale, costituito dall’espressione “altri elementi di prova” riferito alle dichiarazioni in esame alle quali deve essere di conseguenza attribuita la relativa qualifica, sia un argomento di ordine sistematico, inferibile dall’autonoma disciplina della prova indiziaria nel primo capoverso dello stesso art.192 c.p.p..
Del resto, di tale avviso è la giurisprudenza ormai costante, che ritiene che la cosiddetta chiamata di correo -consistente nelle dichiarazioni confessorie ed eteroaccusatorie rese da un coimputato nel medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art.12 c.p.p.- costituisce un elemento di prova e “può formare oggettivo supporto del libero convincimento del giudice, confortato da altri elementi o dati probatori che, in via generale, possono essere di qualunque tipo e natura, tenendosi presente da un canto che la chiamata non va declassata a semplice indizio, mentre il riscontro probatorio estrinseco non occorre che abbia la stessa consistenza di una prova autosufficiente di colpevolezza, dovendo il detto riscontro formare oggetto di giudizio complessivo assieme alla chiamata” (cfr., tra le altre, Cass. SS.UU., 3 febbraio 1990, Belli, 6 dicembre 1991, Scalia e 1 febbraio 1992, n.1048; Cass. pen., Sez. I, 16 giugno 1992, n.6992, Altadonna e altri; Cass. pen., Sez. I, 23 gennaio 1995 n.5831; Cass., Sez. V, 22 gennaio 1997, Bompressi e altri).
Come si è già accennato, deve escludersi che l’art.192 c. III c.p.p., prescrivendo che la chiamata di correo debba essere valutata unitamente ad altri elementi di prova che ne confermino il contenuto, abbia introdotto una gerarchia di valore tra le fonti di prova. Siffatto contemperamento, infatti, è stato adottato partendo dall’ovvio presupposto di una diversa forza rappresentativa tra le dichiarazioni di un coimputato e quelle di un testimone, presupposto a cui consegue la necessità che il convincimento del giudice si formi attraverso un iter complesso, che abbracci in una valutazione unitaria e globale la “chiamata” e “gli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”.
Partendo da queste premesse logico – giuridiche si giunge a un’affermazione metodologica che costituisce ormai jus receptum, secondo la quale le dichiarazioni dei coimputati e degli imputati di reato connesso debbono essere sottoposte a un doppio vaglio di attendibilità, afferente sia il profilo intrinseco (avente ad oggetto l’esame della personalità del propalante e della natura e qualità delle sue affermazioni) sia quello estrinseco (relativo agli elementi di carattere oggettivo che corroborino dall’esterno la chiamata del collaborante).
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nella nota sentenza del 21 ottobre 1992, Marino, ha enunciato analiticamente i criteri metodologici che da seguire nell’effettuazione di tale attività di verifica, precisando che “il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità e alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ad all’accusa dei coautori e complici; in secondo luogo deve verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche della dichiarazione del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine, egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni. L’esame del giudice deve essere compiuto secondo l’indicato ordine logico perchè non si può procedere a una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa”.
Deve tuttavia precisarsi che le suddette valutazioni, pur dovendo sotto il profilo logico essere effettuate necessariamente l’una dopo l’altra, non per questo si pongono in un rapporto di subalternità, nel senso che non possa procedersi all’esame dell’attendibilità estrinseca se quello relativo alla credibilità intrinseca del collaborante e delle sue dichiarazioni non abbia avuto un esito pienamente positivo. È vero invece che i due vagli critici operano in un regime di reciproco bilanciamento e debbono essere valutate globalmente, poiché dal coevo apprezzamento dell’attendibilità estrinseca potrebbero derivare elementi di conferma in grado di bilanciare le verifiche del primo approccio (cfr. Cass. pen., Sez. I, 30 gennaio 1992). E ancora, e correlativamente, i riscontri esterni convalidanti “devono essere tanto più consistenti quanto meno radicale sia l’accertamento sulla credibilità e sull’attendibilità intrinseca e viceversa” (cfr., per tutte, Cass., Sez. V, 22 gennaio 1997, Bompressi e altri, cit.; Cass., Sez. I, 25 febbraio 1997, n.1801).
Ciò premesso, e passando alla disamina di singoli parametri, l’esame dell’attendibilità intrinseca si articola, pertanto, in due distinti momenti: quello relativo alla credibilità intrinseca del dichiarante e quello attinente alla veridicità delle sue propalazioni.
Quanto al primo profilo, debbono essere preliminarmente valutati gli aspetti della personalità del collaboratore e del suo passato esistenziale e delinquenziale. A tale proposito, avendo il presente giudizio ad oggetto reati di natura associativa e maturati in un contesto mafioso, acquistano un particolare rilievo l’effettivo inserimento del propalante nell’organizzazione criminale “cosa nostra” o comunque in un ambiente gravitante intorno alla stessa e il ruolo ricoperto all’interno del sodalizio, atteso che la possibilità che egli sia effettivamente a conoscenza della verità è direttamente proporzionale alla posizione gerarchica e all’autorevolezza dal medesimo rivestita all’interno del gruppo.
Al contrario, l’apprezzamento negativo sulla personalità del collaboratore conseguente all’essersi costui macchiato di gravi delitti non è di per sé idoneo a escluderne l’attendibilità, in quanto trattasi di una connotazione comune a quasi tutti gli imputati dello stesso reato o di reati connessi, tenuta presente dal legislatore nel subordinare la rilevanza di tali fonti di prova a una puntuale verifica circa l’attendibilità intrinseca della chiamata e la presenza di riscontri esterni (cfr. in tal senso Cass. pen., Sez. VI, 19 aprile 1996, Cariboni e altri).
Del pari, non può essere attribuito alcun rilievo negativo alla considerazione, evidenziata dalle difese dei chiamati in correità, che il dichiarante abbia inteso perseguire anche o soltanto l’interesse di accedere ai benefici di legge conseguenti all’apprezzamento positivo sulla attendibilità e la qualità della collaborazione.
A tale riguardo, infatti, non può negarsi che i cospicui effetti premiali (misure di protezione e di assistenza per il collaboratore e i suoi familiari, custodia in luoghi diversi dal carcere anche per le persone in esecuzione di pena, misure alternative al carcere, significative riduzioni di pena) introdotte dai D.L. 15 gennaio 1991 n.8 e 13 maggio 1991, n.152, convertiti nelle L.82 del 15 marzo 1991 e 203 del 12 luglio 1991 comportino un interesse del collaborante a rivelare tutto quanto è a sua conoscenza in ordine ai fatti per cui è processo. Tale interesse, del resto, è collegato e conseguente al primario interesse dello Stato a individuare i responsabili di gravi delitti e, più in generale, a scardinare dall’interno organizzazioni criminale, a lungo protette dall’omertà e dal timore dei cittadini e degli stessi affiliati.
A tale fine, come si è già sottolineato, il contributo di associati che abbiano reciso i legami con il sodalizio e abbiano posto il loro patrimonio conoscitivo al servizio degli inquirenti si è rivelato imprescindibile e il legislatore, introducendo una normativa premiale per questi soggetti, ha inteso proprio incentivare questo fenomeno per evidenti e condivisibili ragioni di politica giudiziaria. Ne consegue che nessuna connotazione negativa può essere attribuita all’interesse “fisiologico”, legislativamente disciplinato, a usufruire dei benefici connessi a una leale collaborazione.
Al contrario, proprio la concreta possibilità di perdere i vantaggi ottenuti attraverso la risoluzione unilaterale del contratto di collaborazione, nel caso in cui l’apporto informativo reso dal “pentito” si riveli inattendibile, reticente o addirittura falso, costituisce un valido contrappeso contro il pericolo di collaborazioni infedeli. Inoltre, l’art.8 D.L. 152/91 disciplina un procedimento di revisione in pejus nell’ipotesi in cui emerga che il dichiarante abbia beneficiato del trattamento di favore previsto dalla medesima norma per effetto di “false o reticenti dichiarazioni”.
L’unanime giurisprudenza, che questa Corte condivide, ha inoltre sottolineato che, ai fini di un giudizio positivo sull’attendibilità del dichiarante, non è necessario che la decisione di collaborare con la giustizia sia stata dettata da un sincero pentimento da parte di costui, prescindendo del tutto la legislazione premiale dall’effettiva resipiscenza del propalante e valorizzando al contrario la qualità del contributo offerto alle indagini. A tale proposito, la Suprema Corte ha puntualizzato che “il cosiddetto pentimento, collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche e all’intento di conseguire vantaggi di vario genere, non può essere assunto a indice di una metamorfosi morale del soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un’intrinseca attendibilità delle sue propalazioni. Ne consegue che l’indagine sulla credibilità del cosiddetto pentito deve essere compiuta non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona -e quindi sulla genuinità del pentimento- bensì attraverso l’esame delle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamanti in correità, nonché sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni” (cfr. Cass. pen., Sez. II, 20 marzo 1997, n.36).
In conclusione, quindi, nessuna valenza negativa può essere attribuita all’interesse da parte del chiamante in correità di perseguire i vantaggi previsti dalla legislazione premiale grazie alla sua collaborazione.
È invece l’interesse -questa volta di carattere patologico- derivante da malanimo verso l’antico sodale, da motivi di vecchio o recente rancore o da mala fede a dovere legittimamente destare preoccupazione nel giudicante, che deve vagliare rigorosamente i rapporti tra il chiamante e il chiamato onde verificare il disinteresse del primo verso un determinato esito del processo a carico del secondo.
E ancora una volta la soluzione non può che essere affidata alla valutazione complessiva di tutti i dati idonei a supportare il libero convincimento del giudice nell’ambito di una valutazione globale, che deve partire dall’esame della personalità dell’accusatore e dall’analisi formale delle sue propalazioni, ma che non può tollerare una rigida distinzione tra le categorie di elementi che vengono all’attenzione, ivi comprese quelle che attengono al giudizio sull’attendibilità estrinseca (sul punto, cfr. tra le altre, Cass. pen. 25 agosto 1994, Prudentino, che sottolinea che dall’esistenza di contrasti o inimicizie tra il collaborante e l’accusato discende soltanto l’obbligo di “una rigorosa valutazione degli elementi che confermano l’attendibilità” della chiamata in correità).
Infine, nell’ambito del giudizio sull’attendibilità intrinseca del dichiarante sotto il profilo in esame deve essere valutata l’entità delle accuse che questi rivolge contra se, atteso che la confessione di gravissimi reati da parte di un soggetto che non è stato in precedenza raggiunto da prove decisive è senza dubbio indice di sincerità e genuinità delle sue dichiarazioni.
L’ulteriore passaggio nel processo di valutazione critica dell’attendibilità intrinseca del chiamante in correità è costituito dall’analisi della struttura delle sue propalazioni, sotto i profili della loro spontaneità, completezza, coerenza interna, precisione, costanza e reiterazione nel tempo.
La dichiarazione può dirsi spontanea quando non è frutto di condizionamenti esterni di qualunque genere, bensì il risultato di una libera e consapevole scelta del collaboratore, pur se dettata da fini utilitaristici.
I caratteri della completezza e della specificità attengono invece al contenuto delle propalazioni, nel senso che l’analiticità e la ricchezza di dettagli di una chiamata in correità, consentendo un più accurato controllo sulla sua veridicità, la rendono più intrinsecamente attendibile.
La reiterazione della chiamata in correità in contesti temporali e processuali diversi, senza contraddizioni su punti essenziali infine, è elemento idonea a eliminare, almeno tendenzialmente, ragioni di sospetto circa l’influsso di altri elementi sul contenuto della propalazione.
Infine, la coerenza logica della dichiarazione accusatoria, caratterizzata dall’assenza di profili di contraddittorietà o inverosimiglianza all’interno del racconto, costituisce uno dei più rilevanti aspetti del processo di verifica in esame.
Per altro, con riferimento ai criteri di giudizio sopra evidenziati deve sottolinearsi che quelli della completezza, precisione e costanza delle dichiarazioni debbono essere valutati avendo riguardo alla collocazione più o meno lontana nel tempo e all’ampiezza e molteplicità dei fatti narrati. Infatti, eventuali discrasie e contraddizioni tra le varie dichiarazioni rese in diversi momenti, se da un lato gettano un’ombra di sospetto sulla veridicità del contenuto della propalazione, dall’altro lato vanno comunque valutate in relazione alla consistenza quantitativa e alla collocazione nel tempo dei fatti narrati.
A tale proposito, la Corte di Cassazione ha puntualizzato che “l’esistenza di eventuali imprecisioni non è di per sé sufficiente ad escludere l’attendibilità del collaboratore allorchè, alla luce di altri obiettivi riscontri, il giudice di merito valuti globalmente, con prudente apprezzamento, il materiale e ritenga, con congrua motivazione, la prevalenza degli elementi che sostengono la credibilità dell’accusa” (cfr., tra le tante, Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 1994, Pistillo e Cass. pen., Sez. I, 30 novembre 1995, Riggio).
Siffatto principio, accolto dalla giurisprudenza ormai unanime e condiviso da questo Giudice, costituisce un contemperamento essenziale di un criterio generale che, se interpretato troppo rigidamente, potrebbe portare a conseguenze incongrue. Infatti, la puntualità, la costanza, la coerenza interna di un racconto (specie se in un contesto di rivelazioni molto ampie e che coprono un lungo lasso di tempo) non possono essere ritenuti decisivi, dato che non escludono automaticamente che la narrazione possa essere frutto di un abile artifizio e possa essere stato ben assimilato a fini accusatori, mentre imprecisioni, incoerenze e contraddizioni su punti non essenziali, divergenze non macroscopiche tra versioni successive possono trovare una logica giustificazione in momentanei offuscamenti della memoria, nell’emotività o nell’incapacità, dovuta anche a ragioni di carattere culturale, di porgere una ricostruzione dei fatti i cui collegamenti logici risultino subito ben delineati.
Appare opportuno affrontare in questa sede il problema, di particolare importanza nel presente giudizio, della valutazione della chiamata di correo de relato, che ricorre ogni qualvolta le dichiarazioni accusatorie abbiano a oggetto circostanze note al propalante non per scienza propria, in quanto cadute sotto la sua diretta percezione, ma per averle apprese da altri.
Ora, non perché de relato, la chiamata di correo perde la sua valenza probatoria, in quanto essa può anche essere il frutto di conoscenza indiretta, la quale appare possibile avuto riguardo da un lato alla varietà delle posizioni soggettive contemplate nei commi terzo e quarto dell’art.192 c.p.p. e dall’altro alla varietà delle forme che, in base al diritto sostanziale, può assumere il concorso di persone nel reato, non sempre implicante la conoscenza personale tra loro di tutti i concorrenti e la precisa, diretta nozione, da parte di ciascuno di essi, dell’apporto concorsuale altrui in tutte le sue caratteristiche (cfr. Cass. pen., Sez.I, 10 maggio 1993, Algranati).
Per altro, è di tutta evidenza che una prova di tal genere, proprio perché non sempre è possibile verificare l’esistenza e l’attendibilità della fonte primigenia, deve essere vagliata “con maggiore rigore, dovendo essere controllata non solo con riferimento al suo autore immediato, ma anche in relazione alla fonte originaria dell’accusa, che spesso resta estranea al processo” (cfr., tra le altre, Cass. pen., Sez. V, 14 novembre 1992, Madonia; Cass. pen., Sez. V, 30 giugno 1993, Tornese).
In conclusione, pertanto, in un sistema imperniato sul principio del libero convincimento del giudice, anche nel caso della chiamata di correo de relato occorre verificare in concreto, al di là di rigidi automatismi, la sua efficacia dimostrativa all’interno del complessivo e unitario quadro probatorio in cui ha preso corpo. Con la conseguenza che essa non è connotata da una diversa efficacia dimostrativa rispetto a quella diretta, ma deve essere assoggettata a un differente metodo di verifica critica.
Ciò premesso, costituisce un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza quello secondo cui costituisce chiamata diretta e non de relato quella del soggetto affiliato a “cosa nostra” che riferisca dell’avvenuta “presentazione rituale” a lui stesso, da parte di un altro aderente al sodalizio criminoso, di un terzo individuo (il chiamato in correità), indicato in tale modo come “uomo d’onore”, poiché in tale modo il propalante riferisce una circostanza caduta sotto la sua diretta percezione (cfr., per tutte, Cass. pen. 27 settembre 1994, Bono).
Una volta superato positivamente il vaglio della credibilità intrinseca del dichiarante e delle sue propalazioni sotto il duplice profilo sopra delineato, può procedersi all’esame della sua attendibilità estrinseca, accertando l’esistenza di quegli “altri elementi di prova” esterni alla chiamata in correità che ne corroborino il valore dimostrativo e conferiscano alle stesse il crisma di piena prova.
Sul punto, come è noto, esiste una ricca elaborazione giurisprudenziale, con esiti non sempre convergenti. Tuttavia, alla luce degli orientamenti prevalenti della Corte di legittimità, possono enuclearsi alcuni principi che questo Giudice condivide e a cui si atterrà nella decisione.
In primo luogo può ritenersi ormai pacifico che i riscontri esterni non debbono necessariamente rivestire il valore di prova autonoma e autosufficiente, in quanto opinando diversamente si verrebbe a negare ogni attitudine dimostrativa alla chiamata in correità, in contrasto con il dettato dellart.192 c.III c.p.p. . Al contrario, deve ritenersi che costituisca un valido riscontro “qualsiasi elemento desumibile dagli atti che si ponga logicamente nella stessa direzione della chiamata in correità, senza pretendere di costituire da solo la prova” (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 5 aprile 1996, Conti; vedi altresì Cass., SS.UU., 6 dicembre 1991, Scala; Cass. pen., Sez. I, 3 dicembre 1993, n.4266; Cass. pen., Sez. VI, 1 giugno 1994, n.6422; Cass. pen., Sez. VI, 13 febbraio 1995, n.1493).
A titolo esemplificativo, data l’estrema varietà dei riscontri possibili, siffatti elementi di conferma estrinseca sono stati di volta in volta individuati nelle testimonianze raccolte in dibattimento, negli accertamenti di P.G., nel riconoscimento fotografico, nella ricognizione di cose, nella accertata corrispondenza dei luoghi indicati dal dichiarante (cfr. Cass. pen., Sez.III, 21 marzo 1990, Aglieri), nella dimostrata disponibilità da parte dell’imputato di immobili dettagliatamente descritti dal chiamante come luogo adibito alla raffinazione di eroina (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 9 maggio 1990, Villafranca), nei rapporti esistenti tra il propalante e altri soggetti facenti parte del medesimo sodalizio criminoso (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 7 maggio 1990, Pilo) e, più in generale, in circostanze anche marginali “purchè corroborative dell’attendibilità delle dette dichiarazioni cosicchè, valutate congiuntamente a queste ultime, diano una prova piena del fatto e della partecipazione o meno ad esso della persona cui il dichiarante si è riferito” (Cass., Sez. II, 26 aprile 1993, n.4000).
I riscontri possono essere altresì di carattere logico, purchè riconducibili a fatti esterni a quelle dichiarazioni (Cass. pen., Sez. VI., 16 gennaio 1991, n.424) e non di carattere meramente presuntivo (Cass. pen. 17 febbraio 1990, Morello).
Deve inoltre ritenersi principio ormai consolidato in giurisprudenza quello secondo cui possono costituire un valido riscontro estrinseco di una chiamata in correità le dichiarazioni di altri collaboranti.
Sono stati infatti superate le obiezioni di natura letterale e logica contrarie alla predetta interpretazione. Sotto un primo profilo si assumeva infatti che il termine “altri” riferito agli elementi di prova andasse letto come “differenti”, mentre il tenore testuale della norma conduce ad attribuire a quel termine l ben diverso significato di “ulteriori”, “aggiuntivi” elementi rispetto alla chiamata.
In realtà, come si è già specificato, le propalazioni accusatorie che abbiano superato il vaglio di attendibilità intrinseca costituiscono veri e propri “elementi di prova” e richiedono solo di essere suffragate ab extrinseco per assurgere al rango di piena prova. Pertanto, non c’è ragione né logica, né giuridica che induca a escludere che una diversa chiamata in correità possa fungere da valido riscontro rispetto a un altro omologo, ma sicuramente esterno, dato probatorio, conferendo l’una all’altra “quell’apporto esterno di sinergia indiziaria la quale partecipa alla verifica sull’attendibilità estrinseca della fonte di prova” (cfr. Cass. pen., Sez. I, 1 agosto 1991, n.471). Del resto, essendo di immediata percezione che l’idoneità corroborativa opera anche in senso inverso, ne discende l’inevitabile conclusione che la convergente combinazione di siffatti elementi di prova è suscettibile di conferire al compendio probatorio quei connotati di certezza e completezza che legittimano un giudizio di responsabilità penale (sul punto la giurisprudenza è ormai unanime: cfr., per tutte, Cass. SS.UU. 6 dicembre 1991, Scala, cit.; Cass. pen., 12 gennaio 1995, Prizzi; Cass. pen., Sez. VI, 11 gennaio 1994, Sparacio; Cass. pen., Sez. I, 31 maggio 1995, Carbonaro; Cass. pen., Sez. IV, 6 marzo 1996, Barbagli).
Superato ogni dubbio sulla idoneità di una chiamata di correo a costituire un valido riscontro a un’altra omologa, deve per altro sottolinearsi che nella fase di concreta applicazione del principio della convergenza del molteplice occorre accertare che le dichiarazioni incrociantesi siano state rese in modo indipendente, così da escludere che siano state frutto di concertazioni, collusioni, reciproche influenze, tanto incidentali quanto manipolatorie, ovvero traggano origine dalla stessa fonte di informazione (cfr., in tal senso, tra le tante, Cass. 24 febbraio 1992, Barbieri; Cass. pen., 30 giugno 1993, Dell’Anna).
Per altro, la verifica in parola deve essere compiuta caso per caso, senza che possa bastare a denegare validità al riscontro una mera conoscenza che il dichiarante abbia potuto acquisire di analoghe propalazioni rese dal altro soggetto (cfr. Cass. 18 novembre 1994, Di Gregorio; Cass., 19 aprile 1996, Cariboni, cit.).
L’indirizzo giurisprudenziale condiviso da questa Corte a tale proposito ha precisato che non possono essere giudicate aprioristicamente inattendibili le propalazione di quei dichiaranti che, in relazione al momento di inizio del loro contributo investigativo, possano essere a conoscenza di quelle di altri collaboratori contenute in ordinanze custodiali emesse a loro carico o rese pubbliche nel corso di dibattimenti. Infatti la mera conoscibilità di precedenti affermazioni accusatorie da parte di altri soggetti non può inficiare l’attendibilità delle chiamate in correità successive, soprattutto quando queste presentino “elementi di novità e originalità” e, comunque, in assenza di altri e comprovati elementi che depongano nel senso del “recepimento manipolatorio” di quelli anteriori da parte di quelli posteriori. Ne consegue che neppure l’astratta conoscenza delle prime propalazioni costituisce aprioristicamente un ostacolo alla valutazione positiva dell’originalità di quelle successive, ancorchè di contenuto per lo più conforme, la cui autonoma provenienza dal bagaglio proprio del dichiarante può essere accertata -sul piano soggettivo come su quello oggettivo- in vario modo, non escluso il rilievo di ordine logico concernente “il radicamento dei due propalanti nella realtà criminale mafiosa con la connessa possibilità di conoscenza di prima mano” (cfr., per tutte, Cass., Sez. I, n.80/92, cit., nonché Cass., Sez. I, 16 giugno 1992, n.6992).
In ordine ai contenuti, se da un lato è indubbio che le dichiarazioni in parola debbono soddisfare esigenze di convergenza e concordanza, dall’altro lato è evidente che non può pretendersi che le stesse siano totalmente e perfettamente sovrapponibili. Al contrario, alcune discrasie su punti non fondamentali consentono di escludere, o quanto meno di ridurre sensibilmente, il sospetto che le versioni rese dai diversi collaboratori siano il frutto di un previo accordo tra i medesimi e impongono solamente un maggiore rigore valutativo, finalizzato a verificare la sostanziale convergenza dei rispettivi nuclei fondamentali e a ricercare i plausibili motivi delle rilevate difformità (cfr. Cass. pen,; Cass. pen. 6 aprile 1993, Cafari; Cass. pen. 18 febbraio 1994, Goddi; Cass. pen. 20 febbraio 1996, Emmanuello).
Alla luce delle suesposte considerazioni, pertanto, l’attenta valutazione effettuata caso per caso della provenienza soggettiva, delle caratteristiche e del contenuto delle singole “dichiarazioni incrociate” consente di superare il pericolo, comprensibilmente e giustamente sollevato dalle difese degli imputati, della cosiddetta circolarità della prova, connesso alla possibilità che -a causa della astratta facilità dei collaboratori di giustizia di accedere ai verbali di dichiarazioni rese da altri propalanti- le loro narrazioni possano essere adattate e modellate su quelle di coloro che li hanno preceduti.
Per altro, nel rinviare alla trattazione dei singoli casi concreti la risoluzione del problema, può tuttavia anticiparsi che esso nel processo in trattazione appare assolutamente marginale. Infatti le dichiarazioni dei collaboratori si sono caratterizzate per essere spesso tra loro divergenti su punti anche qualificanti e comunque quasi sempre contenenti ciascuna spunti di originalità e novità rispetto alle altre, cosicchè, se da un lato danno luogo a problemi valutativi di diverso genere, dall’altro lato appaiono generalmente autonome e genuine.
A giudizio di questa Corte deve essere altresì condiviso l’insegnamento della Suprema Corte secondo cui la possibilità di reciproca conferma tra più chiamate in correità provenienti da coimputati o imputati di reati connessi o collegati opera anche nel caso in cui la dichiarazione di riscontro sia de relato, sussistendo in tal caso soltanto l’obbligo in capo al giudice di una verifica particolarmente accurata dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie, possibilmente individuando la fonte di provenienza delle notizie e controllandone l’affidabilità (cfr. Cass. 24 febbraio 1992, Barbieri, cit., nonché Cass. 10 maggio 1993, Algranati).
Infine, costituisce principio ormai consolidato in giurisprudenza altresì quello secondo cui è legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie.
Tale asserto si fonda sull’evidente rilievo che è “dato di comune esperienza la possibilità della veridicità di una parte del dichiarato e della falsità, volontaria o meno, di un’altra parte” (cfr., tra le altre, Cass. pen,, Sez. II, 6 dicembre 1996, Arena e altri).
Ne consegue che da un lato l’attendibilità di un collaboratore, ancorchè denegata per una parte delle sue dichiarazioni, non coinvolge necessariamente anche le altre, qualora queste ultime reggano alla verifica del riscontro esterno, essendo compito del giudice verificare e motivare in ordine alle diversità delle valutazioni eseguite a proposito delle diverse parti delle dichiarazioni rese da uno stesso soggetto (cfr. Cass. pen., 1 aprile 1992, Genovese; Cass. pen, Sez. VI, 19 aprile 1996, Cariboni).
Dall’altro lato, poi, ne discende che nel caso di dichiarazioni a contenuto plurimo sia sotto il profilo oggettivo (più fatti criminosi addebitati allo stesso soggetto), sia sotto quello soggettivo (vari soggetti accusati del medesimo reato), la conferma di attendibilità derivata da riscontri esterni resta limitata alle sole parti della chiamata in correità coinvolte, dovendosene escludere la comunicabilità per traslazione alle altre.
A tale proposito, la costante giurisprudenza ha sottolineato la necessità di riscontri “individualizzanti”, precisando che “non può ritenersi consentito, in caso di plurime chiamate di correità provenienti dalla medesima persona nella stessa vicenda processuale, utilizzare gli elementi di riscontro -accertati nei confronti di un imputato- a conforto delle accuse rivolte anche ad altro imputato. Pertanto, se il dichiarante abbia chiamato in correità varie persone per vari reati e se dalle confessioni degli accusati o dagli altri elementi di prova sia riscontrata la veridicità di alcune o della maggior parte delle accuse, ciò va considerato ai soli fini del giudizio di intrinseca attendibilità del dichiarante, ma non può valere come altro elemento di prova a conferma di chiamata in correità nei confronti di altro soggetto sprovvisto di riscontri propri, costituendo ciò, altrimenti, palese violazione del principio della valutazione della prova a norma del terzo e del quarto comma dell’art.192 c.p.p.. Conseguentemente deve essere attribuita piena attendibilità e valenza probatoria a tutte e soltanto quelle parti della dichiarazione accusatoria che risultano suffragate da idonei elementi di riscontro” (cfr. Cass. pen., Sez. II, 15 gennaio 1998; nello stesso senso, Cass. pen., Sez. VI, 17 giugno 1998; Cass. pen., Sez. I, 26 aprile 1996, Sergi).
CAPO II
-L’ATTENDIBILITÀ DEI SINGOLI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA-
PATTI ANTONIO
Antonio PATTI è stato esaminato dal P.M. nelle udienze dibattimentali del 25 e 26 marzo 1998, del 22 e 23 aprile 1998, del 28 maggio 1998, del 16 giugno 1998, del 2 luglio 1998, del 1, 14 e 28 ottobre 1998, del 4 e 19 novembre 1998, del 17 e 22 dicembre 1998, del 14 e 21 gennaio 1999, del 4, 11 e 18 febbraio 1999, dell’11, 17 e 24 marzo 1999. Il P.M. ha inoltre escusso il suddetto collaboratore nell’ambito del processo a carico di BURZOTTA Diego (dapprima stralciato dal presente giudizio in considerazione dell’impedimento che l’intervenuto arresto del prevenuto in Spagna avrebbe comportato per il prosieguo del dibattimento a carico degli altri imputati detenuti e successivamente riunito al medesimo) il 14 aprile 1999.
Il collaboratore è stato controesaminato dai difensori e riesaminato dal P.M. nelle udienze del 5, 6, 13, 18, 20 e 27 maggio 1999, del 2, 3, 16, 17, 23, 28 e 30 giugno 1999, del 1, 5, 7 luglio 1999, del 16, 17, 29 settembre 1999, dell’8 e 9 novembre 1999. Inoltre, all’udienza dell’11 novembre 1999 il collaboratore ha effettuato le ricognizioni personali dei coimputati ACCARDO Antonino, CLEMENTE Giuseppe e RALLO Francesco, oltre che, informalmente, ACCARDO Domenico. È stato altresì messo a confronto con gli imputati ACCARDO Domenico, GONDOLA Vito, RALLO Antonino e RALLO Francesco. Infine, il PATTI è stato risentito ai sensi dell’art.507 c.p.p. il 9 febbraio 2000.
Il PATTI ha iniziato a collaborare con la giustizia nel giugno del 1995, ossia oltre due anni dopo il suo ultimo arresto, avvenuto il 1 aprile 1993 e più di un anno dopo il passaggio in giudicato (risalente al 13 aprile 1994) della sentenza della Corte d’Appello di Palermo con la quale era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio in pregiudizio di Giuseppe FERRARA, detto “u cavaleri”.
La collaborazione dell’imputato in parola ha fornito senza dubbio un apporto di eccezionale importanza alle indagini relative a innumerevoli omicidi verificatisi nella provincia di Trapani per oltre un decennio e le sue dichiarazioni hanno costituito uno dei cardini su cui è stato impiantato il presente procedimento.
Le propalazioni del PATTI sono state sottoposte numerose volte a vaglio di attendibilità da varie Autorità Giudiziarie e lo hanno sempre superato.
Sotto tale profilo riveste particolare importanza la sentenza emessa in data 18 luglio 1996 dalla Corte d’Assise di Trapani nel processo a carico dello stesso PATTI e di altri quaranta imputati, nel corso del cui dibattimento intervenne il “pentimento” del prevenuto, il quale è stato condannato alla pena di due anni di reclusione proprio in virtù del particolare significato della sua collaborazione, che ha permesso agli inquirenti di venire a conoscenza dell’organigramma e della struttura della cosca di Marsala e più in generale del mandamento di Mazara del Vallo, delle attività criminose dello stesso, oltre che dell’identità degli affiliati e dei capi della consorteria criminale denominata “cosa nostra” negli altri mandamenti del trapanese e di individuare i responsabili di numerosi gravi fatti di sangue verificatisi in oltre quindici anni nella provincia (cfr. citata decisione, divenuta irrevocabile per il PATTI, che non ha interposto appello, prodotta dal P.m. all’udienza del 18 gennaio 2000).
Prima di addentrarsi nell’esame dell’attendibilità del PATTI appare opportuno soffermarsi brevemente sulle sue dichiarazioni relativamente alla sua carriera criminale nell’ambito di “cosa nostra” e sulla genesi del suo pentimento. In questa sede, per altro, ci si limiterà a pochi cenni di carattere generale, in quanto le propalazioni aventi ad oggetto specifici episodi criminosi e singoli imputati verranno inserite nei paragrafi dedicati agli stessi, mentre i riferimenti all’attività illecita delle “famiglie” del mandamento di Mazara del Vallo sono stati riportati nel Capo II della prima Parte della sentenza, nel quale si sono delineate per l’appunto le vicende delle varie articolazioni locali dell’associazione.
Antonio PATTI, nato a Marsala il 4 ottobre 1958, venne arrestato per la prima volta nell’ottobre del 1978 per il reato di minacce ai danni di un certo DIBBIA e fu scarcerato nel febbraio successivo.
Nel periodo antecedente al suo arresto, egli, pur lavorando come carpentiere insieme al padre, era inserito in una banda criminale che compiva rapine e furti, insieme a TITONE Antonino, soprannominato “bacaredda” (di cui in seguito sarebbe divenuto cognato, avendone sposato la sorella Anna), RODANO Antonio, INGOGLIA Pietro, VULTAGGIO Giuseppe e SAVONA Fabio Salvatore.
All’uscita dal carcere lo andò a prendere TITONE Antonino, il quale -dopo averlo accompagnato a casa a lasciare gli effetti personali- lo coinvolse nell’omicidio di PACE Gaspare, soprannominato “u zingaro” (cfr. Parte IV, Capitolo I), dicendogli che dovevano compiere il delitto per “fare una cortesia a dei cristiani boni di Marsala” (appellativo, quello di “cristiani boni”, con cui i mafiosi sono soliti riferirsi agli altri affiliati o a persone vicine all’organizzazione).
Il PATTI accettò immediatamente, dimostrando in tal modo, agli occhi dei capi della “famiglia”, coraggio e affidabilità. Infatti, nei mesi successivi all’omicidio del PACE (commesso il 24 marzo 1979) il collaboratore cenò spesso in compagnia del TITONE, di D’AMICO Vincenzo e di CAPRAROTTA Francesco, in un appartamento sito in via Colaianni che fungeva da abituale luogo d’incontro dei componenti della cosca marsalese. Sempre nello stesso lasso di tempo lavorò insieme al D’AMICO nelle campagne del marsalese e accompagnò spesso quest’ultimo a Mazara del Vallo nella cantina di Mariano AGATE.
Dopo alcuni mesi di “osservazione” il PATTI fu ritualmente affiliato.
La sera del compleanno del TITONE, il 19 ottobre 1979, vi fu una cena nella casa di via Colaianni. Qualche giorno prima il CAPRAROTTA aveva telefonato all’odierno collaborante, preannunciandogli che lo avrebbero chiamato delle persone e raccomandandogli di “comportarsi bene”. Il PATTI, in un primo momento, si preoccupò, temendo di avere fatto qualche cosa di male, ma il CAPRAROTTA, che comprese il suo turbamento, lo tranquillizzò. Alla cena parteciparono, oltre al collaboratore, D’AMICO Vincenzo, CAPRAROTTA Vincenzo, DE VITA Domenico, LO PRESTI Angelo, RAIA Gaspare, LEONE Giovanni di Mazara del Vallo, MARCECA Vito e TITONE Antonino.
A un certo punto, i primi cinque si appartarono in un’altra stanza e chiamarono il TITONE. Dopo circa dieci minuti costui uscì e fu chiamato il PATTI. Quest’ultimo, dopo che fu entrato nel locale, vide i predetti soggetti seduti al tavolo che lo guardarono fisso. Il D’AMICO gli chiese come stesse e successivamente, avendo egli risposto che si sentiva bene, se facesse parte di qualche associazione o setta segreta, ricevendo un diniego. Quindi lo stesso individuo gli domandò con quale mano sparasse ed egli rispose che era mancino. Allora il D’AMICO lo invitò a porgergli il dito indice della mano sinistra, lo punse con una spilla, che aveva tratto dal taschino della sua giacca insieme a un santino, e fece cadere qualche goccia di sangue su quest’ultimo. Poi bruciò il santino e gli chiese di ripetere le parole che egli avrebbe pronunciato, mentre si passava il santino da una mano all’altra. Dopo che il PATTI ebbe eseguito l’ordine, dicendo che se avesse tradito “cosa nostra” avrebbe fatto “la fine di quella santina che stava per bruciare”, il D’AMICO gli comunicò che da quel momento egli apparteneva a “cosa nostra” siciliana, dalla quale si era originata quella americana e che doveva “comportarsi bene”, ovvero non frequentare persone pregiudicate, non commettere furti o rapine, non litigare. Il PATTI ha ammesso di essere uscito dalla stanza molto turbato a causa della cerimonia di iniziazione, oltre che meravigliato, poichè non credeva che esistesse la mafia siciliana.
Dopo alcuni mesi in cui la sua condotta fu valutata dal D’AMICO e dal CAPRAROTTA, il collaborante fu nominato capo decina della ricostituita “famiglia” di Marsala.
Proprio in quegli anni, infatti, come si è già detto, molti dei membri della precedente cosca, tra cui il rappresentante BARRACO Michele, furono “posati” da AGATE Mariano, previo concerto con il RIINA, a causa della loro amicizia con i RIMI, che erano legati al gruppo facente capo ai BONTATE, BADALAMENTI e INZERILLO, già allora in contrasto con la fazione dei “corleonesi”. Contestualmente alla “posata” del BARRACO e degli altri, lo stesso AGATE spostò la sede del mandamento da Marsala a Mazara del Vallo e invitò Vincenzo D’AMICO, fino ad allora un semplice soldato, a “farsi una famiglia”, ordine che quest’ultimo eseguì prontamente. Egli stesso divenne il rappresentante della nuova aggregazione, CAPRAROTTA Francesco ne fu il consigliere, TITONE Antonino il sotto-capo, PATTI il capo-decina e D’AMICO Gaetano, LO PRESTI Angelo, BICA Vincenzo, RAIA Gaspare e MARCECA Vito, entratone a fare parte lo stesso giorno del PATTI e del TITONE, i soldati.
Il collaboratore, pertanto, entrò quasi subito a fare parte del gruppo dirigente della cosca. In qualità di capo-decina avrebbe dovuto curare l’esecuzione degli omicidi deliberati, con piena discrezionalità nella scelta delle modalità esecutive e dei soldati da incaricare per il controllo preventivo dell’obiettivo e per la realizzazione del delitto. In realtà, secondo il PATTI, a Marsala i ruoli non furono mai rispettati e di fatto le esecuzioni venivano spesso organizzate congiuntamente dal collaboratore e dal TITONE ed eseguite personalmente da uno dei due o da entrambi insieme (cfr. esame reso dal PATTI nelle udienze del 25 marzo 1998).
In ordine alla valutazione dell’attendibilità del PATTI deve sottolinearsi in primo luogo che la decisione del medesimo di collaborare con la giustizia appare a questa Corte dettata essenzialmente da un sincero pentimento per la vita anteatta, verosimilmente prodotto, più che dalle ragioni di natura mistica (lettura di passi della Bibbia sollecitati dalla madre) evidenziate dallo stesso collaboratore, da un certo disgusto per l’involuzione subita da “cosa nostra”, che andava assumendo una connotazione sempre più difforme da quella tradizionale alle cui regole, come si vedrà in seguito il dichiarante aveva sinceramente aderito.
A tale proposito, giova riportare integralmente una dichiarazione letta dal PATTI all’udienza delll’8 novembre 1999, nella quale egli ha sottolineato proprio tale concetto: “Quando sono entrato in Cosa Nostra, era l’arte del pensare per servire i più deboli e non aveva scopi di lucro. Chi ancora la difende può soltanto constatare che gli eredi moderni, i corleonesi e company, hanno tradito il codice d’onore e lo hanno disonorato con la loro follia e brutalità, tradendo i valori morali tramandati dai nostri avi, che non consideravano vergogna la povertà e che si guadagnavano da vivere lavorando. A quanti pensano che sia infamia dare un contributo alla giustizia per regalare un “sorriso” alle prossime generazioni, a tutti i bambini. Faccio notare quanto segue, è vero che non dovevamo parlare con gli sbirri, ma è pure vero: primo, era vietato attaccare le istituzioni; secondo, era vietato il traffico della droga, l’estorsione, l’usura, il sequestro di persona; terzo, l’eliminazione esecrabile di donne e bambini, preti, giornalisti, familiari innocenti per le brutali vendette trasversali. Gli imprenditori non disposti a pagare un pizzo, anch’esso inesistente una volta, etc., etc.. Chi ha tradito per primo e schifosamente? Il tradimento è avvenuto quando i “migliori” diventarono i peggiori, aderendo al partito allora dominante, rinunciando alle proprie idee, rinnegando gli amici non più obbedienti ad alcun valore morale e, quel che è peggio, non scandalizzati da questa orrenda logica. Invito quindi alla riflessione e a trovare la forza e il coraggio di ammettere i propri errori. Pensate che sia infamia? No, è più infamia non prendere le distanze da questa esecrabile cultura. Invito chiunque a potere dimostrare il contrario. Grazie”.
Ciò premesso, non può essere revocata in dubbio l’organico inserimento del PATTI in “cosa nostra” in una posizione di primo piano, concordemente riferito da tutti i collaboratori di giustizia (e in particolare dagli “uomini d’onore” Gioacchino LA BARBERA, Salvatore GIACALONE, Giovanni BRUSCA, Vincenzo SINACORI e Giuseppe FERRO, oltre che da Carlo ZICHITTELLA, Leonardo CANINO, Salvatore SAVONA e dagli altri collaboratori del trapanese).
Proprio tale inserimento qualificato del collaboratore nella cosca marsalese e il conseguente osservatorio privilegiato dal quale ha potuto avere cognizione dei fatti narrati conferisce alle propalazioni del medesimo una valenza probatoria particolarmente pregnante.
A un siffatto giudizio, del resto, sono giunte altre Autorità Giudiziarie, che -quanto meno con riferimento alle vicende della “famiglia” marsalese- hanno attribuito alle dichiarazioni del PATTI un vero e proprio valore dirimente sulla penale responsabilità degli imputati in ordine al delitto di associazione mafiosa, ponendo l’accento per l’appunto da un lato sulla sincerità del suo “pentimento” e dall’altro lato sulle sue profonde conoscenze dell’ambiente mafioso dovute al suo datato inserimento organico nello stesso.
A suffragio di questa osservazione si può citare, tra le altre, la sentenza pronunciata dal Tribunale di Marsala in data 29 luglio 1996 nel processo a carico di INDELICATO + 13, divenuta irrevocabile per LICARI Angelo, PARRINELLO Antonio, PARRINELLO Gaspare, PATTI Gioacchino, PIPITONE Vincenzo, RAIA Francesco Giuseppe, SCOMA Luigi e STELLA Mario il 12 dicembre 1996 a seguito di mancata impugnazione da parte dei prevenuti e confermata dalla Corte d’Appello di Palermo con pronuncia del 6 giugno 1997, passata in giudicato per INDELICATO Giovanni, MARINO Michele e MESSINA Antonio il 22 dicembre 1998 (cfr. decisioni menzionate, prodotte dal P.M. all’udienza del 21 febbraio 2000). Nelle predette sentenze, le dichiarazioni del PATTI sono state considerate decisive sia per pronunciare un giudizio di penale responsabilità (INDELICATO, MARINO, MESSINA e altri), sia per addivenire a una pronuncia di assoluzione (LICARI, i fratelli PARRINELLO, PATTI, PIPITONE, RAIA Francesco Giuseppe, SCOMA e STELLA), in ordine alle quali, deve sottolinearsi, la Procura della Repubblica non ha interposto appello.
Dalla riportata vicenda processuale emerge nitidamente un altro aspetto fondamentale della collaborazione del PATTI: l’esigenza di narrare i fatti nel loro effettivo svolgimento, “depurandoli” dalle inesattezze oggetto delle dichiarazioni dei precedenti collaboratori, tutti estranei all’organizzazione (ZICHITTELLA, CANINO, SAVONA) e in tal modo proclamando conseguentemente l’estraneità di numerosi soggetti rispetto agli addebiti loro mossi o, per converso, circostanziando e precisando le accuse loro dirette.
Dal complessivo tenore delle sue propalazioni emerge altresì come egli avesse sinceramente aderito alle regole dell’organizzazione criminale in cui era inserito e fosse animato dalla ferma intenzione a non violarle.
A tale proposito nella menzionata sentenza della Corte d’Assise di Trapani a carico di Antonio PATTI e altri quaranta imputati è sottolineato il particolare valore che il collaboratore attribuiva al suo essere stato un “uomo d’onore” dal comportamento ineccepibile e di avere sempre rispettato le norme interne dell’associazione e in particolare quella del mantenimento del segreto sui fatti interni alla consorteria, anche nei riguardi dei soggetti “vicini”. Questi ultimi, pur potendo essere utilizzati per la commissione di reati, ivi compresi gli omicidi, e potendo possedere informazioni anche più vaste e dettagliate di quelle che può avere una “persona di famiglia” (come egli ha definito l’individuo inserito nell’organizzazione tramite il giuramento rituale), non conoscono in concreto “nulla” dei segreti della stessa, il cui potere è tanto più forte quanto è segreto. La convinzione della necessità di non divulgare all’esterno notizie riservate su “cosa nostra” era talmente radicata in PATTI che egli si stupì della conoscenza da parte di Carlo ZICHITTELLA di alcuni fatti interni alla consorteria criminale e dovette riconoscere, o quanto meno ipotizzare, che quel “pazzo e spaccone” di Mimì DE VITA avesse portato all’esterno, narrandole allo ZICHITTELLA, notizie che dovevano rimanere patrimonio esclusivo delle “persone di famiglia”. Dal canto suo, in omaggio a questa regola, il PATTI ha tenuto a precisare di non avere mai confidato ad alcun individuo esterno all’associazione, anche se “vicino” alla medesima e a lui in particolare, alcuna vicenda coperta dal segreto.
Il PATTI -nello stesso modo in cui ha sempre rispettato le regole di “cosa nostra” anche sotto il profilo dell’obbligo di dire sempre la verità al rappresentante della sua cosca, che egli definisce il suo “principale”- una volta presa la decisione di “parlare nei processi”, ha stabilito di farlo senza menzogne o reticenze al fine di sgravarsi la coscienza e di contribuire, con le sue vaste conoscenze, alla ricostruzione dei fatti nella loro reale essenza.
La sua volontà di non tacere nulla di quanto a sua conoscenza, anche a costo di accusare se stesso o soggetti a lui affettivamente legati di gravi fatti delittuosi, emerge immediatamente dall’esame complessivo delle sue dichiarazioni, che si segnalano proprio per la loro precisione e sincerità. Quest’ultima è evidenziata dal fatto che spesso egli aggiunge particolari, talvolta di nessuna rilevanza, alla sua narrazione, animato proprio dal desiderio di portare a conoscenza dell’Autorità Giudiziaria tutto quanto sapeva dell’organizzazione.
Ciò premesso, tuttavia, deve sottolinearsi che, nonostante ricoprisse un ruolo significativo all’interno della “famiglia” e godesse di rispetto da parte degli altri membri della stessa, oltre -e soprattutto- da parte del capo mandamento AGATE Mariano, il PATTI, durante la sua lunga militanza in “cosa nostra” fu essenzialmente un killer.
In tale veste commise quasi quaranta omicidi in tutto il territorio della Provincia di Trapani e combattè ben quattro guerre di mafia, rivelandosi come uno tra i più abili e spietati sicari mafiosi operanti nella Sicilia occidentale.
Infatti, pur facendo parte della “famiglia” di Marsala, il PATTI ebbe sempre rapporti privilegiati con la cosca di Mazara del Vallo e, in particolare, con l’indiscusso capo della stessa e del relativo mandamento, AGATE Mariano, il quale si recava spesso a trovare, dapprima per accompagnare D’AMICO Vincenzo e CAPRAROTTA Francesco, poi, sempre più spesso, da solo, diventando il vero e proprio uomo di fiducia dell’AGATE a Marsala.
Il saldo legame a sua volta intercorrente tra i Mazaresi e i “corleonesi” del RIINA -di cui l’AGATE fu sempre uno dei principali alleati e punti di riferimento nella Sicilia occidentale, tanto che spesso il capo di “cosa nostra” trascorrreva periodi di vacanza nel territorio sotto il controllo dell’altro (cfr., sull’esistenza di rapporti privilegiati tra l’AGATE e il RIINA, esami di SINACORI Vincenzo e DE CARLO Francesco alle udienze del 15 aprile e 7 maggio 1998)- comportò che il PATTI si schierasse sempre con questi ultimi, rimanendo coinvolto insieme a loro in tutte le cosiddette guerre di mafia e faide locali che insanguinarono la provincia di Trapani tra l’inizio degli anni ’80 e i primi anni del decennio successivo.
Il PATTI ebbe un ruolo importante, sempre come sicario, in tutti i predetti conflitti, a cominciare dalla guerra per antonomasia, scoppiata nel Palermitano tra il 1981 e il 1983 per la contrapposizione dei “corleonesi” al vecchio gruppo dominante dei BONTATE, BADALAMENTI e INZERILLO e combattuta anche nel trapanese. In quest’ultima zona l’epicentro del conflitto fu soprattutto la zona di Alcamo, dove sostanzialmente gli emergenti riuscirono a sbaragliare i loro nemici, eliminando o comunque scacciando dalla città i RIMI e i loro alleati. Per proseguire, poi, con la faida tra le famiglie ACCARDO e INGOGLIA a Partanna (1987/91); con la seconda guerra di Alcamo, che vide la contrapposizione armata tra il clan cosiddetto dei GRECO e la “famiglia” comandata dal MILAZZO; con gli interminabili contrasti tra Natale L’ALA -un vecchio mafioso ormai “posato”, ma desideroso di rivincita- e il gruppo egemone, facente capo a SPEZIA Nunzio, fedele ai “corleonesi”; con il rivolgimento interno che determinò l’abbattimento del vertice mafioso di Marsala attraverso l’eliminazione fisica dei fratelli D’AMICO, Vincenzo e Gaetano, e di CAPRAROTTA Francesco e la successiva assunzione della carica di “reggente” da parte dello stesso PATTI unitamente a MARCECA Vito; infine, con la guerra scatenata a Marsala da una consorteria criminale guidata da ZICHITTELLA Carlo.
A conferma del fatto che il PATTI ricoprì essenzialmente il ruolo di killer organico alla fazione “corleonese” può evidenziarsi la circostanza che le dichiarazioni rese dallo stesso hanno avuto ad oggetto essenzialmente i fatti di sangue in cui egli era stato coinvolto o che gli erano stati riferiti da altri membri di “cosa nostra” -episodi narrati sempre, nei casi in cui aveva partecipato personalmente, con incredibile precisione e dovizia di particolari- e le persone con le quali la sua attività di killer lo aveva messo in contatto. Pertanto, ad esempio, il PATTI ha fornito poche notizie sulla “famiglia” di Trapani, proprio a causa dell’esiguo numero di omicidi nei quali avevano avuto un ruolo membri della cosca in parola. Al contrario, ha reso importanti informazioni soprattutto sugli uomini appartenenti o vicini alle cosche di Alcamo e Mazara del Vallo, che ebbe modo di conoscere bene in virtù del comune coinvolgimento in numerosi omicidi.
Mentre, come si è già precisato, le propalazioni del “pentito” sono state estremamente dettagliate e precise ogni qualvolta hanno avuto ad oggetto fatti di sangue, le sue dichiarazioni si sono rivelate assai generiche e lacunose quando hanno avuto ad oggetto le attività criminali finalizzate a procurare denaro alla consorteria e ai suoi membri.
Il PATTI, in particolare, pur avendo riferito del compimento di estorsioni, di traffici di stupefacenti, di contrabbando di sigarette e di sofisticazione vinicola, lo ha fatto sempre superficialmente e per accenni, dimostrandosi sostanzialmente poco informato. Ad esempio, ha rivelato l’esistenza di un accordo, intervenuto all’inizio degli anni ’80, tra Vincenzo D’AMICO e gli Alcamesi Vincenzo MILAZZO e Filippo MELODIA, finalizzato alla realizzazione di un traffico di stupefacenti provenienti dalla Thailandia, ma non ha saputo fornire ulteriori particolari sulla vicenda (cfr. esame del PATTI all’udienza del 22 aprile 1998). Ancora, ha accennato all’esistenza di rapporti tra Mazaresi e Napoletani finalizzati al contrabbando di sigarette e al traffico di sostanze stupefacenti, concretizzatisi, tra l’altro, in due sbarchi, avvenuti tra la fine del 1981 e l’inizio del 1982, di grandi sacchi di iuta contenenti marijuana, uno tra Mazara del Vallo e Petrosino e l’altro nel porto nuovo di Mazara, alla presenza di molti personaggi di spicco della “famiglia”, quali AGATE Mariano, BRUNO Calcedonio, RISERBATO Antonino, MANCIARACINA Andrea, GANCITANO Andrea, BURZOTTA Diego. Tuttavia, sebbene lo stesso PATTI abbia portato i sacchi a Palermo insieme a GANCITANO con la Golf G.T.D. di quest’ultimo, non ha saputo riferire dove li abbiano mandati successivamente, né la complessiva entità del traffico, ma solo del fatto che i Mazaresi erano interessati ad “affari” di quel genere e che in essi era coinvolto anche il Napoletano GIONTA Valentino (cfr. esame del PATTI all’udienza del 18 febbraio 1999).
Ora, è evidente che, a fronte del numero e della gravità dei reati di cui il collaboratore si è autoaccusato e ha accusato altri, non è ipotizzabile che egli non abbia fornito notizie più dettagliate per assegnare a se stesso un ruolo più defilato nelle predette attività delittuose o per preservare i collegamenti o i canali attraverso cui siffatti traffici venivano realizzati; tanto più che gli episodi a cui ha fatto riferimento sono per lo più estremamente datati e pertanto è assai inverosimile che le modalità di effettuazione e le complicità di cui ci si avvaleva all’epoca non siano mutati negli anni.
A giudizio della Corte, invece, l’imprecisione e le scarse conoscenze del PATTI a riguardo di tali ultime attività debbono spiegarsi alla luce del suo essere essenzialmente un sicario e di un suo correlativo sostanziale disinteresse per gli altri rami in cui si estrinsecavano gli interessi della cosca, e, in generale, per l’accumulo di denaro. A tale ultimo proposito, tra l’altro, il PATTI ha riferito che AGATE Mariano, con il quale egli fu sempre in ottimi rapporti, dopo l’eliminazione di Vincenzo D’AMICO dimostrò una certa preoccupazione per le condizioni economiche del PATTI stesso, non certo floride soprattutto a causa dell’incapacità di costui di risparmiare parte del denaro di cui veniva in possesso. L’AGATE, addirittura, in quello stesso periodo in un’occasione regalò al collaboratore la somma di £.40.000.000, che l’altro spese subito per acquistare una Lancia duemila evoluzione, nonostante il donatore desiderasse che investisse la somma per l’acquisto di un appartamento (cfr. esame del PATTI all’udienza del 14 ottobre 1998).
L’affidabilità, la lealtà e il coraggio sempre dimostrati dal collaborante, nonché la sua particolare vicinanza ad AGATE Mariano e MESSINA Francesco, indussero questi ultimi a rivolgersi proprio al PATTI (dopo averne saggiato ancora una volta la fedeltà, inviandolo a Rimini per l’uccisione di D’AGATI Agostino con l’ordine di non riferire nulla al suo “principale” D’AMICO) per ottenere la sua collaborazione e a nominarlo successivamente “reggente” della “famiglia” di Marsala.
Per altro, poco dopo la suddetta nomina, “cosa nostra” dovette fronteggiare una vera e propria guerra mossale a Marsala da un gruppo di malavitosi guidati da Carlo ZICHITTELLA e iniziata con l’eclatante attentato di Piazza Porticella, nel quale fu ferito il PATTI e ucciso il cognato TITONE (di cui il primo aveva sposato la sorella Anna nel 1986).
Il PATTI in seguito al tentativo di omicidio di cui era stato oggetto fu costretto a rendersi irreperibile, al fine di sfuggire ad ulteriori, probabili aggressioni e fu pertanto affiancato nella reggenza da MARCECA Vito, il quale aveva per l’appunto il compito di curarsi di quanto avveniva a Marsala in assenza del collaboratore. Quest’ultimo, da parte sua, teneva i contatti con i Mazaresi -e in particolare con Andrea GANCITANO, a cui era stato affidato dal RIINA il comando delle operazioni militari- e curava l’attività relativa all’individuazione e alla scoperta dei membri della cosca nemica, nonché all’eliminazione di questi ultimi.
In seguito, con il prosieguo della guerra e con l’inizio delle collaborazioni del SAVONA, del CANINO e dello ZICHITTELLA, nei confronti del PATTI fu emessa un’ordinanza di custodia cautelare, in esecuzione della quale fu tratto in arresto, come già specificato, l’1 aprile 1993.
Durante il successivo periodo di detenzione, l’“uomo d’onore” maturò la volontà di collaborare con la giustizia.
Lo stesso collaboratore ha spiegato che prese la decisione di rompere ogni legame con la sua vita anteatta nel giugno 1995, ma che la stava maturando fino dal 1994. Dietro insistenze della madre, durante la sua detenzione prima all’Asinara e poi a Trapani, aveva cominciato a leggere le Sacre Scritture e a comprendere che aveva “buttato al vento” la sua esistenza, a causa della scelta criminale compiuta. Nel periodo natalizio del 1994 lesse un brano che lo colpì particolarmente ed ebbe un colloquio con il capitano DELL’ANNA e il maresciallo SANTOMAURO, che lo invitarono a collaborare. In seguito a questi episodi iniziò a riflettere su questa possibilità, preoccupato anche dell’opinione che le sue figlie, ancora bambine avrebbero avuto del padre, una volta cresciute. Per tali ragioni intraprese la via della collaborazione con la giustizia, pur sapendo che sarebbe rimasto in carcere per tutta la vita (cfr. esame del PATTI all’udienza del 25 marzo 1998, cit.).
Esaurita questa breve e necessariamente schematica rassegna delle dichiarazioni di PATTI e delle ragioni addotte della sua decisione di collaborare con la giustizia, occorre addentrarsi nella valutazione della credibilità intrinseca del medesimo.
Va premesso che in questa sede non verranno riportati i numerosissimi e significativi riscontri estrinseci alle sue dichiarazioni demandati alla valutazione della Corte, in quanto gli stessi verranno inseriti nei paragrafi nei quali saranno trattati gli episodi e le posizioni degli imputati a cui ciascun dato specificamente si riferisce.
Per altro, va detto subito che il giudizio sull’attendibilità estrinseca del PATTI non può che essere positivo, atteso che quasi sempre le sue affermazioni sono state confermate -spesso finanche nei dettagli- da un numero impressionante di riscontri, costituiti sia da dichiarazioni di altri collaboratori o di testimoni sia da elementi fattuali emersi dagli atti.
Il giudizio sull’attendibilità del PATTI è necessariamente positivo anche con riferimento alla credibilità intrinseca del medesimo.
Sebbene non possano esservi riscontri al percorso che il collaboratore ha affermato di avere compiuto nel suo foro interno e, del resto, siffatto profilo non abbia alcun rilievo giuridico ai fini della valutazione della sua attendibilità, in virtù dei principi giurisprudenziali in precedenza specificati, a giudizio di questa Corte, il PATTI è uno dei pochi collaboratori per i quali può effettivamente usarsi il termine “pentito”.
Dal tenore stesso delle sue propalazioni, dal loro contenuto e dalla loro analiticità, infatti, emerge che la sua collaborazione è connotata da una apertura davvero straordinaria e da un fortissimo desiderio di comunicare tutte e integralmente le proprie conoscenze, oltre che da una continua e palpabile preoccupazione di dimenticare di riferire qualche dato ritenuto importante o di non essere in grado di farsi ben comprendere dall’interlocutore di turno, rendendosi disponibile a ripetere più volte gli stessi fatti proprio per rendere chiaro e ben intelleggibile il suo resoconto degli avvenimenti (cfr. ad esempio, il controesame condotto all’udienza del 28 giugno 1999 dal difensore di AMATO Tommaso sull’omicidio CHIRCO, nel corso del quale il collaboratore ha manifestato espressamente il suo timore in tal senso).
In quest’ottica, il PATTI in più occasioni ha corretto senza sollecitazioni esterne precedenti imprecisioni nelle proprie dichiarazioni e ha spontaneamente aggiunto dettagli o circostanze prima omesse, precisando sempre che si trattava di un ricordo estemporaneo di fatti non ancora riferiti o erroneamente riportati (“forse non l’ho detta mai questa cosa”). Talvolta questa sua ansia ha avuto ad oggetto episodi scarsamente significativi o addirittura irrilevanti, come quando, parlando dell’automobile (un’Alfetta 1.800 blu rubata) utilizzata per l’omicidio di DENARO Francesco, si è ampiamente soffermato sulla prima occasione in cui utilizzò l’automobile nei primi anni ’80 per raggiungere Santa Ninfa dove avrebbe dovuto commettere un omicidio e, sulla via del ritorno, incappò in un posto di blocco venendo multato perché era privo di patente di guida (cfr. esame del PATTI all’udienza del 21 gennaio 1999). Per altro, una tale prontezza a riferire in modo più circostanziato possibile ogni fatto a propria conoscenza non può che refluire assai positivamente sul giudizio di attendibilità intrinseca del PATTI.
Alla notevole disponibilità e spontaneità dimostrate fin dall’inizio dal collaboratore corrisponde una ricchezza di contenuti dichiarativi assolutamente eccezionale, tale da abbracciare buona parte degli omicidi di matrice mafiosa che per quasi quindici anni hanno insanguinato la provincia di Trapani e da consentire di svelare, con il privilegio dell’attualità, la struttura organizzativa, i canoni comportamentali e i modelli operativi di “cosa nostra”, con particolare riferimento ai mandamenti di Mazara del Vallo, Castelvetrano e Alcamo, dalle cui “famiglie” provenivano per la maggior parte i componenti dei gruppi di fuoco -pur variamente composti nel corso degli anni e a seconda delle occasioni- di cui il PATTI ha fatto parte, non di rado anche con l’intervento di sicari di primo piano delle cosche del palermitano inviati dal RIINA (BAGARELLA Leoluca, BRUSCA Giovanni, MADONIA Salvatore, GIOÈ Antonino, LA BARBERA Gioacchino).
La veste di affiliato da antica data all’associazione a delinquere in esame e il rango di sempre maggior rilievo acquisito del collaboratore all’interno della stessa (sino a raggiungere, nel 1992, il ruolo di “coreggente” della “famiglia” di Marsala) appaiono indiscutibili, siccome confermati -prima ancora che dalle convergenti dichiarazioni di tutti i collaboratori- da sicure risultanze investigative maturate nel corso degli anni. A tale ultimo proposito, in particolare, deve ricordarsi che subito dopo l’omicidio di FERRARA Giuseppe il PATTI fu dapprima arrestato e poi condannato insieme a un personaggio di sicura caratura mafiosa, quale D’AMICO Vincenzo, sulla cui appartenenza alla “famiglia” di Marsala con il ruolo di rappresentante convergono numerosi collaboratori (cfr. dichiarazioni, oltre che dello stesso PATTI, anche di Salvatore GIACALONE e Vincenzo SINACORI).
Il predetto ruolo del PATTI consente di spiegare appieno la vastità delle sua conoscenze di fatti e persone e fa apparire del tutto plausibili i rapporti personali che lo stesso, a suo dire, intrattenne direttamente con molti e importanti esponenti di “cosa nostra”, tra cui lo stesso RIINA, suo cognato BAGARELLA Leoluca, BRUSCA Giovanni e AGATE Mariano.
Molto significativa ai fini di valutare appieno l’importanza dirompente della collaborazione del PATTI e il timore che essa ingenerò nei mafiosi della provincia di Trapani appaiono le dichiarazioni del BRUSCA e di MILAZZO Francesco.
Il primo, in particolare, richiesto dal difensore del “pentito” marsalese di riferire se aveva udito commenti sulla decisione di quest’ultimo di iniziare a collaborare con la giustizia, ha affermato: “Ma commenti…, quelli che io ricordo sono stati…, eravamo io, MESSINA Matteo DENARO e Vincenzo SINACORI e precisamente fu dopo che cominciò a collaborare MONTICCIOLO, un mio compaesano, che parlò del fatto del piccolo DI MATTEO. In quell’occasione il MESSINA Matteo DENARO, rivolgendosi a me, mi disse che avevo fatto una cosa molto eroica. Io, ancora lungi dal pentimento, lungi da quello che è, gli ho detto che non avevo fatto per niente una cosa eroica, anche se già ero additato come mostro. Gli ho detto: <<Ho fatto una bravura, comunque ormai è stata fatta, non se ne parla più>>. In quell’occasione, parlando di pentiti collaboranti, il MESSINA Matteo DENARO espresse in maniera molto forte, ci esternava…, era il momento caldo, era l’inizio, non credo che arrivasse proprio a tanto, comunque esternava contro il PATTI situazioni pensati, cioè a livelli estremi, cioè nei confronti dei familiari fatti notevoli. Non credo che lui poi arrivasse a tanto, però in quel momento si lamentava perché aveva, come si suol dire, cioè, in termini di linguaggio siciliano, diceva che aveva pulito la zona, aveva – come si suol dire – passato la scopa, perché era uno che conosceva tutti, sapeva tutto, aveva riferito cose importante. Aveva dato un colpo grosso nella provincia di Trapani” (cfr. esame del BRUSCA all’udienza del 10 novembre 1999).
Del pari, il MILAZZO, sentito sul medesimo punto, ha sottolineato che ebbe a commentare la vicenda con MESSINA Francesco di Mazara del Vallo, con SCANDARIATO Nicolò, con VIRGA Vincenzo e, da ultimo, con MAZZARA Vito. Tutti i predetti “uomini d’onore” si mostrarono molto preoccupati, atteso che erano venuti a contatto con il PATTI (cfr. esame del MILAZZO all’udienza del 10 novembre 1999).
D’altra parte, la sua indiscutibile (e, del resto, indiscussa) lunga militanza nell’organizzazione criminale in parola comprova altresì la plausibilità della sua asserita partecipazione esecutiva a numerosi omicidi; comunque, tale implicazione e la conoscenza “de relato” delle circostanze relative a vari altri fatti trovano un ulteriore, significativo riscontro nel carattere dettagliato e talvolta addirittura minuzioso delle relative narrazioni.
In ogni caso, non può non sottolinearsi che l’intrinseca attendibilità delle propalazioni del PATTI è ulteriormente avvalorata dal fatto che tanto i riferimenti soggettivi quanto gli episodi e le circostanze di carattere oggettivo (riferiti, del resto, solitamente per scienza propria) sono quasi sempre ancorati a specifici fatti concreti, mentre solo di rado risultano affidati a una mera “presentazione” più o meno rituale oppure a notizie “de relato”. In questi ultimi casi, inoltre, il PATTI ha spesso sottolineato la dipendenza della veridicità delle sue dichiarazioni dalla sincerità della persona da cui aveva appreso i fatti narrati (la frase che il collaboratore ha ripetuto infinite volte nel corso del dibattimento è stata “se verità mi hanno detto, verità dico, se bugie mi hanno detto, bugie dico”), sentendo evidentemente l’esigenza di distinguere tra le propalazioni frutto di una sua diretta conoscenza (e pertanto nella sua ottica certamente veritiere) da quelle discese da confidenze altrui (la cui aderenza ai fatti è subordinata alla qualità della fonte).
D’altra parte, le dichiarazioni del collaboratore, oltre a essere connotate da un notevole tasso di precisione e specificità, non sono state inficiate da contraddizioni sostanziali e significative nel corso dei molteplici esami e controesami ai quali si è sottoposto. Con particolare riferimento a questi ultimi, occorre rimarcare che essi sono starti affrontati senza insofferenze, ma con fermezza e decisione tali da scoraggiare, nella maggior parte dei casi, particolari insistenze difensive.
Naturalmente, nelle propalazioni del PATTI non mancano talune imprecisioni, le quali, per altro, hanno ad oggetto circostanze che possono senza dubbio qualificarsi come di contorno nel quadro generale della narrazione del collaboratore in parola (anche se talvolta possono risultare decisivi in ordine a specifici episodi e/o chiamati in correità) e che non assurgono mai a un livello tale di significatività da porre in dubbio la credibilità soggettiva dello stesso. Al contrario, attesa l’impressionante mole dei fatti raccontati e dei personaggi evocati dal PATTI, sarebbe davvero inquietante se egli non avesse mai sbagliato una data, un luogo, l’inserimento di una persona al posto di un’altra in una riunione o in un incontro o nel gruppo degli esecutori materiali di un omicidio. Si intende, per altro, che al fine di scongiurare deplorevoli esiti negativi di siffatte, naturali imprecisioni, le affermazioni del collaboratore, pur se generalmente attendibili, saranno sottoposte, con riferimento ai singoli casi, al meccanismo probatorio, apprestato dall’art.192 c.p.p., di necessaria conferma mediante “altri elementi di prova”. Ciò che preme precisare in questa sede è che le imprecisioni in esame, date la loro natura e qualità in rapporto alle caratteristiche generali delle dichiarazioni del PATTI, non refluiscono affatto in negativo sulla credibilità del dichiarante.
La credibilità del collaboratore, d’altra parte, ha trovato significative conferme anche in affermazioni di altri dichiaranti, i quali -come meglio si vedrà nella parte dedicata alla trattazione dei vari episodi delittuosi e delle singole posizioni- hanno quasi sempre reso dichiarazioni compatibili con quelle del PATTI. Sotto questo profilo, in particolare, appare assai significativo della credibilità di quest’ultimo il fatto che altri dichiaranti, commentando dichiarazioni del PATTI non rispondenti alla realtà dei fatti, hanno lasciato trasparire una certa meraviglia per tali sbagli (ad esempio, SINACORI Vincenzo, nell’esame reso all’udienza del 15 ottobre 1998, ha affermato che, leggendo nell’ordinanza di custodia cautelare a suo carico che, a detta del PATTI, sarebbe stato presente a una “mangiata” a Mazara del Vallo alla presenza di RIINA, “si meravigliò” perché in quell’epoca era in America e pertanto non poteva avere partecipato alla cena, il cui effettivo svolgimento gli fu per altro confermato da GANCITANO Andrea).
Infine, non può non rilevarsi come dagli esami del collaboratore in parola siano del tutto assenti segnali di eventuali situazioni di inimicizia o di acrimonia da parte del dichiarante nei confronti di taluno dei suoi coimputati da lui additati come complici in omicidi o affiliati all’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”.
Da tutte le considerazioni sopra effettuate discende necessariamente un giudizio positivo sull’attendibilità intrinseca del PATTI. Un tale giudizio positivo, del resto, è ulteriormente avvalorato dalla cospicua serie di riscontri esterni alle sue dichiarazioni raccolti nel dibattimento e su cui, come si è già anticipato, ci si soffermerà analiticamente più oltre.
SINACORI VINCENZO
SINACORI Vincenzo è stato esaminato nelle udienze del 15 aprile 1998, del 6 e del 28 maggio 1998, del 17 e del 23 giugno 1998, del 9 luglio 1998, del 7, 15 e 29 ottobre 1998, del 2 e del 17 dicembre 1998, del 15 gennaio 1999, del 10 marzo 1999 e del 21 aprile 1999. Il collaboratore è stato altresì controesaminato dai difensori degli imputati e riesaminato dal P.M. alle udienze del 20 e 26 maggio 1999, del 2, 3, 26 e 28 giugno 1999, del 1 e 7 luglio 1999, del 16 e 17 settembre 1999, del 5 ottobre 1999, del 9 e 10 novembre 1999. Inoltre, all’udienza del 10 novembre 1999 il collaboratore è stato messo a confronto con CIACCIO Leonardo, GONDOLA Vito e GUTTADAURO Filippo. Infine, il SINACORI è stato risentito ai sensi dell’art.507 c.p.p. il 18 febbraio 2000.
Il SINACORI è stato inoltre escusso all’udienza del 4 maggio 1999 nell’ambito del procedimento a carico di BURZOTTA Diego, dapprima stralciato ex art.18 c.p.p. (in seguito all’arresto in Spagna dell’imputato e ai lunghi tempi previsti per la sua estradizione) e successivamente riunito ad “Omega” per connessione oggettiva.
Sono state acquisite altresì le dichiarazioni rese dallo stesso prevenuto all’udienza del 18 gennaio 1997 nell’ambito del procedimento contro AGRIGENTO Giuseppe e altri, utilizzabili -non essendo intervenuto il consenso dei difensori degli altri prevenuti ex art.238 c.IV c.p.p.- solo nei confronti di ALCAMO Antonino, BRUSCA Giovanni, BRUNO Calcedonio, CASCIO Antonino, FERRO Giuseppe, GERACI Francesco, LA BARBERA Gioacchino, LEONE Giovanni, MADONIA Salvatore, MESSINA DENARO Matteo, RIINA Salvatore, SINACORI Vincenzo, GANCITANO Andrea, ai sensi del comma II bis della norma citata.
La figura di Vincenzo SINACORI, nato a Mazara del Vallo il 26 luglio 1955, è nota agli inquirenti fin dal 1981, quando fu arrestato insieme a sospetti mafiosi di Mazara del Vallo e Marsala in occasione dello sbarco di sigarette di contrabbando a Torretta Granitola avvenuto il 7 marzo 1981.
Successivamente fu denunciato con il rapporto datato 14 dicembre 1987 del Commissariato di Mazara del Vallo a carico di AGATE Mariano + 72 diretto alla Procura di Marsala, nel quale erano contestati agli indagati, tra gli altri, i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, omicidio, traffico di sostanze stupefacenti, contrabbando di tabacchi lavorati esteri.
Venne nuovamente denunciato con il rapporto datato 18 maggio 1991 contro TAMBURELLO Salvatore + 16 scaturito dall’attività di indagine sulla società “Marciante 2 s.r.l.”.
Il SINACORI divenne latitante dall’1 aprile 1993, data in cui si sottrasse all’esecuzione del provvedimento di custodia cautelare n.1695/93 emesso il 10 marzo 1993 dal G.I.P. del Tribunale di Palermo. In seguito, sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia fu colpito da altre ordinanze restrittive tutte emesse dalla predetta Autorità Giudiziaria: quella del 2 giugno 1993 e del 27 giugno 1994 nel procedimento n.267/93, quella del 7 gennaio 1995 nel procedimento n.8005/94 (Spartaco), quella del 29 gennaio 1996 nel procedimento n.139/96 (Omega), nei quali fu accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e numerosi omicidi.
Il SINACORI inoltre è stato condannato all’ergastolo in primo grado davanti alla Corte d’Assise di Trapani all’esito del procedimento a carico di Antonio PATTI e altri quaranta imputati (cfr. deposizioni dell’ispettore superiore DE MARTINO Leonardo alle udienze del 24 e 25 marzo 1997 rispettivamente nell’ambito dei procedimenti a carico di ACCARDI Gaetano e altri celebrato davanti alla Corte d’Assise di Trapani e contro CUTTONE Antonino e altri tenutosi dinnanzi al Tribunale di Marsala).
La collaborazione di Vincenzo SINACORI nell’ambito di questo procedimento (iniziata dopo la sua cattura e la suddetta condanna) è stata successiva a quella di altri, ma è stata comunque connotata da un grande rilievo a causa del ruolo di primo piano che il dichiarante ricopriva nell’ambito della “famiglia” mafiosa mazarese e della notevole mole e importanza delle notizie che lo stesso ha fornito agli inquirenti.
Come nel caso del PATTI, in questa sede per motivi di brevità non verranno riportate le propalazioni del collaboratore in parola che hanno avuto ad oggetto specifici fatti criminosi e singoli imputati, atteso che le stesse saranno ampiamente trattate nei paragrafi dedicati ai predetti eventi delittuosi e soggetti. Allo stesso modo, non ci si soffermerà nuovamente sulle altre attività illecite gestite da membri della “famiglia” di Mazara del Vallo, atteso che delle stesse si è già ampiamente trattato nel Capo II della Parte I della presente sentenza.
Il SINACORI ha raccontato che, alla fine degli anni ‘70, dopo che aveva terminato i suoi studi da perito industriale, il suo amico d’infanzia GANCITANO Andrea, gli trovò lavoro come operaio, nella “Stella d’Oriente”, una società che si occupava di pesce congelato all’ingrosso, nella quale il GANCITANO lavorava già da qualche anno. La persona giuridica aveva come amministratore MANCIARACINA Vito e in essa lavoravano un ragioniere, il SINACORI, il GANCITANO e, talvolta, il cugino di quest’ultimo, MANCIARACINA Andrea e altri soggetti che non conosceva. In seguito seppe che la società era stata messa sotto inchiesta, ma all’epoca non lo sapeva.
Nel periodo in cui prestò la sua attività lavorativa nella società suddetta, il GANCITANO gli propose di partecipare allo sbarco di sigarette di contrabbando, operazione che gli avrebbe consentito di guadagnare un po’ di denaro ulteriore.
La loro attività consisteva nello sbarcare cartoni di sigarette di contrabbando lavorato estero nel porto di Mazara, caricarle su camion e portarle via. Dopo il primo periodo, effettuarono gli sbarchi nel porto di Gaeta per un certo tempo e in seguito rientrarono nel trapanese, dapprima verso Nubia e poi dalle parti di Granitola. Partecipavano a queste operazioni, oltre al SINACORI e al GANCITANO, BURZOTTA Diego, RISERBATO Antonino, TAMBURELLO Salvatore, AGATE Mariano, MESSINA Francesco (che egli non sapeva, all’epoca, essere mafiosi) e tanti altri che non erano uomini d’onore.
In occasione di uno sbarco di sigarette nella zona di Granitola, il SINACORI fu arrestato, insieme a D’AMICO Vincenzo, CAPRAROTTA Francesco, PICCIONE Michele, ERRERA Francesco, MARCECA Vito e BURZOTTA Diego. Prima di essere bloccati i sette uomini avevano tentato di allontanarsi dal luogo dello sbarco a bordo dell’autovettura di proprietà del collaborante, essendosi accorti che le forze dell’ordine li avevano scoperti. I suddetti individui in primo grado vennero condannati ad alcuni anni di carcere, ma in Cassazione furono assolti per insufficienza di prove (la vicenda dello sbarco di Torretta Granitola ha dato luogo a una complessa vicenda processuale, che portò alla condanna di tutti gli imputati in primo grado e in appello per molti gravi reati, tra cui detenzione e porto abusivi di pistole e munizioni, violenza privata e minacce aggravate a pescatori per costringerli ad allontanarsi dal luogo in cui doveva avvenire lo sbarco delle sigarette. I prevenuti vennero poi prosciolti nel giudizio di rinvio in seguito ad annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza d’appello sul presupposto che non era stato provato il contributo causale di ciascuno dei soggetti alla realizzazione dei fatti imputati agli stessi e della consapevolezza e volontà da parte di ciascuno alla commissione dei reati: cfr. sentenze emesse il 24 giugno 1986 dal Tribunale di Marsala, l’8 gennaio 1988 dalla Corte d’Appello di Palermo, il 20 dicembre 1988 dalla Corte di Cassazione, il 22 novembre 1989 dalla Corte d’Appello di Palermo, prodotte dal P.M. all’udienza del 21 febbraio 2000).
In epoca antecedente al suo primo arresto, il SINACORI partecipò dapprima all’omicidio del Sindaco di Castelvetrano LIPARI Vito e successivamente al tentato omicidio di DENARO Giuseppe di Mazara del Vallo.
In entrambi i casi fu il suo amico GANCITANO a coinvolgerlo, con l’intento -a detta del collaboratore- non di rovinarlo, ma di aiutarlo, consentendogli di diventare lui stesso una “persona di rispetto”. Il SINACORI, infatti, pur non sapendo che molti dei soggetti che partecipavano allo sbarco delle sigarette di contrabbando erano mafiosi, immaginava che fossero uomini rispettabili e vedeva che la gente voleva loro bene, perchè avevano un comportamento irreprensibile.
Il SINACORI venne tenuto sotto “osservazione” da parte della “famiglia” per un certo periodo allo scopo di saggiarne l’affidabilità. In questo lasso di tempo egli fu un “vicino” all’associazione, status che era prodromico a quello di “uomo d’onore”, ma a cui non seguiva necessariamente l’affiliazione.
L’esito della valutazione alla fine fu positivo, giacchè da un lato in suo favore parlava il suo amico Andrea GANCITANO, che garantiva per lui e dall’altro lato egli si comportò bene tanto nell’affare delle sigarette e durante il periodo di detenzione conseguente ad esso, quanto negli omicidi. Per altro, l’affiliazione del SINACORI e del BURZOTTA venne decisa anche perchè in quel periodo era iniziata la guerra di mafia tra i Corleonesi e il gruppo palermitano di BADALAMENTI, BONTADE e INZERILLO e dunque servivano nuovi soldati.
Nel dicembre del 1981, dopo l’omicidio LIPARI e il tentato omicidio DENARO, una sera il GANCITANO lo invitò a vestirsi bene poichè dovevano andare a fare auguri natalizi. Insieme al GANCITANO stesso e a BURZOTTA Diego, anch’egli suo amico d’infanzia, il collaboratore, si recò nella villa di TAMBURELLO Salvatore in Contrada Boccarena. Ivi giunto, fu introdotto per primo in una stanza, nella quale sedevano AGATE Mariano, TAMBURELLO Salvatore, MESSINA Francesco, LEONE Giovanni, GONDOLA Vito, BASTONE Giovanni, AGATE Battista, MESSINA Nicola, BRUNO Calcedonio. Gli chiesero se faceva parte di associazioni e se aveva contrasti con qualcuna delle persone presenti. Egli sapeva che esisteva la mafia, ma non sapeva che i presenti fossero “uomini d’onore”, cosicchè si spaventò. In ogni caso rispose che per lui tutti i presenti erano persone per bene. A quel punto gli misero in mano il santino, gli punsero il dito e lo affiliarono.
Subito dopo il collaborante entrò Diego BURZOTTA, alla cui affiliazione partecipò anche SINACORI, dato che era già stato “combinato”.
Il rappresentante della “famiglia” e il capo mandamento era AGATE Mariano, TAMBURELLO Salvatore era il consigliere, MESSINA Francesco il sotto capo. LEONE Giovanni e GONDOLA Vito i capi decina; tutti gli altri erano “soldati”.
Il SINACORI rimase “soldato semplice” fino ai primi mesi del 1992, quando, dopo l’arresto di AGATE Mariano, il RIINA gli disse di affiancarsi a MANGIARACINA Andrea e di reggere la famiglia e, automaticamente, il mandamento (cfr. esame SINACORI all’udienza del 15 aprile 1998).
Per altro, nonostante il ruolo formalmente ricoperto nella gerarchia, il SINACORI fin dai primi tempi successivi alla sua “combinazione” godette di un certo prestigio all’interno della cosca e della fiducia dei capi. Egli, infatti, a differenza di molti altri (cfr. sul punto reiterate dichiarazioni di GIACALONE e di PATTI) poteva chiedere ai capi della cosca le ragioni degli omicidi ascrivibili a “cosa nostra” fin dai primi tempi successivi alla sua affiliazione senza temere reprimende e riceveva risposte, anche se talvolta sommarie. Inoltre, ha riferito di essere stato tra le persone che mantenevano i contatti con i clan napoletani con i quali i Mazaresi effettuavano contrabbando e traffici di sostanze stupefacenti (cfr., su quest’ultimo punto esame di SINACORI all’udienza del 10 marzo 1999).
Del resto, la circostanza che il collaboratore in parola, a differenza del PATTI, non fosse essenzialmente un killer, trova una conferma nella qualità delle sue dichiarazioni, che sono state assai ampie e ricche di riferimenti non solo in ordine agli omicidi (ivi compresi i moventi, sui quali spesso il PATTI è meno informato), ma anche alle altre attività illecite della “famiglia”, quali il contrabbando di sigarette, il traffico di stupefacenti, le estorsioni e, soprattutto, le ingerenze negli appalti di opere pubbliche, settore, quest’ultimo, di cui il SINACORI è stato il primo tra i collaboratori trapanesi a fornire notizie dettagliate.
La rilevanza del ruolo ricoperto nell’associazione è emersa altresì dal fatto che ebbe modo di incontrare più volte RIINA Salvatore.
Questi contatti furono certamente favoriti dal fatto che, a quanto ha riferito il collaboratore, l’indiscusso capo dell’associazione trascorreva lunghi periodi nella zona di Mazara del Vallo. In particolare, dai primi anni ’80 fino al 1984/85 il RIINA ebbe la disponibilità di una villa in contrada Tonnarella di quel comune, a fianco di quella di MESSINA Francesco, detto “u muraturi”. Il RIINA anche in seguito ritornò a Mazara ogni volta che era necessario per risolvere situazione spinose, come ad esempio per deliberare l’omicidio di Vincenzo D’AMICO e Francesco CAPRAROTTA (cfr. esami di Antonio PATTI e di Vincenzo SINACORI alle udienze del 14 e 15 ottobre 1998) o individuare i responsabili della strage di Piazza Porticella in cui aveva trovato la morte TITONE Antonino e decidere la strategia da adottare (cfr. dichiarazioni dei due citati collaboratori alle udienze del 19 novembre e 2 dicembre 1998).
Successivamente il SINACORI incontrò il RIINA altre volte a Palermo in vari luoghi, dove dapprima il collaboratore accompagnava “Mastro Ciccio” MESSINA (che, a suo dire, era uno dei principali referenti di RIINA nella Provincia di Trapani) e da quando ebbe la reggenza del mandamento anche da solo; tra gli altri luoghi d’incontro c’era una casa di FERRANTE a San Lorenzo, dietro il Sigros e dopo un passaggio a livello.
Il collaboratore, per altro, pur ricoprendo anche un ruolo di rappresentanza esterna della “famiglia” ed essendo coinvolto in prima persona in molteplici attività di altro genere gestite dalla cosca, ha ammesso di avere partecipato a una lunga serie di omicidi effettuati in tutto il territorio della Provincia, a partire da quelli perpetrati nell’ambito della prima guerra di mafia dell’inizio degli anni ’80, e proseguendo con l’assassinio di Natale L’ALA e con altri delitti commessi nella seconda guerra di mafia di Alcamo, nella faida partannese tra gli ACCARDO e gli INGOGLIA, nella guerra di mafia di Marsala, che gestì nella veste di reggente del mandamento insieme a MANCIARACINA Andrea e al “caporale” GANCITANO Andrea.
Il SINACORI, nel corso degli anni nei quali militò in “cosa nostra”, svolse ininterrottamente attività professionali formalmente lecite. Dapprima, come si è visto, lavorò nella società “Stella d’oriente” (rapporto di cui non risulta traccia); successivamente prestò la sua opera in favore inizialmente della Cattolica Assicurazioni e poi dell’Unipol (dal 1984 al 1987) in qualità di subagente. Infine lavorò nel negozio della “Marciante 2”, dove PATTI lo andava a cercare all’occorrenza (cfr. esame del SINACORI all’udienza del 29 ottobre 1998). A differenza del PATTI, pertanto, il collaboratore mazarese non era un soggetto che dipendeva per il suo sostentamento dallo stipendio passato dalla “famiglia” per la sua attività di killer, ma era -come meglio si vedrà in seguito, trattando specificamente della “Marciante 2”- una persona che godeva di entrate dipendenti da proprie attività lavorative apparentemente lecite, congruamente arrotondate dai proventi derivanti dalle sue interessenze nei traffici gestiti dalla cosca o da alcuni suoi membri di particolare spessore.
Il SINACORI, che era vicino a MARCIANTE Roberto e a MESSINA Giuseppe, ha altresì riferito che i due uomini, per volontà di RIINA Salvatore e per il tramite di VIRGA Vincenzo, il quale li aveva invitati a effettuare il predetto investimento, rilevarono la catena di supermercati “Bravo”, operanti nella zona di Palermo e Capaci, a cui era interessato il capo di “cosa nostra” e soggetti palermitani vicini allo stesso, tra cui il BIONDINO. In particolare, l’intervento di MARCIANTE era stato determinato dal fatto che costui era una persona “pulita” e con disponibilità economiche da potere dimostrare. In seguito, dato che l’attività andava male, l’azienda era stata ceduta, sempre tramite l’intervento della mafia, a palermitani, i quali, per altro, avevano pagato solo una parte del prezzo. Il SINACORI ha detto di essere stato reso edotto di questi fatti durante la sua latitanza, sia dal VIRGA che dal MESSINA.
Circa un mese dopo l’arresto di AGATE Mariano, avvenuto nel febbraio 1992, RIINA Salvatore affiancò il SINACORI a MANCIARACINA Andrea nella reggenza della “famiglia” e, automaticamente, del mandamento di Mazara del Vallo.
Il SINACORI ricoprì tale carica fino al 17 giugno 1996, data del suo arresto, avvenuto in Trapani in un’abitazione intestata a FELICE Sandro, nato il 12 ottobre 1959, nipote di MARCIANTE Roberto ad opera della Squadra Mobile di Trapani. In quel frangente nella disponibilità dell’imputato vennero rinvenuti un revolver “Smith & Wesson” calibro 38 con matricola abrasa e la somma in contanti di £.10.900.000, oltre a documenti di identità (sia patenti di guida che passaporti) contraffatti o falsificati, moduli in bianco di patenti, fotografie (alcune delle quali di BURZOTTA Diego, anch’egli all’epoca latitante) e appunti cartacei (cfr. deposizione dell’ispettore superiore DE MARTINO Leonardo, all’udienza del 24 marzo 1997 nel procedimento contro ACCARDI Gaetano e altri, celebrato dinnanzi al Tribunale di Trapani, nonché a quella del 25 marzo 1997 nel processo contro CUTTONE Antonino e altri davanti al Tribunale di Marsala).
Compiuta questa breve e schematica rassegna delle dichiarazioni del SINACORI, deve passarsi alla valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca dello stesso.
Le propalazioni del collaboratore sono state sottoposte numerose volte a vaglio di attendibilità da varie Autorità Giudiziarie e lo hanno sempre superato.
In particolare, in questa sede si può riportare la sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato dal G.U.P. del Tribunale di Palermo il 25 novembre 1997, nella quale il SINACORI è stato giudicato responsabile del tentato omicidio del dottor Calogero GERMANÀ, dell’incendio dell’abitazione estiva di Anna Maria MISTRETTA e dei rispettivi reati satellite, dei quali il collaboratore si era autoaccusato e aveva chiamato in correità altri soggetti, separatamente giudicati, ed è stato condannato alla pena di anni otto di reclusione, poi ridotta in appello ad anni sei, previa concessione delle attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’art.8 L.203/91 prevalenti sulle contestate aggravanti (cfr. citata decisione del G.U.P. del Tribunale di Palermo, nonché sentenza della Corte d’Appello di Palermo emessa il 28 ottobre 1998 e divenuta irrevocabile per il SINACORI il 9 marzo 1999, prodotte dal P.M. all’udienza del 18 febbraio 2000).
In favore di un giudizio positivo sulla intrinseca credibilità del SINACORI militano molti elementi.
In primo luogo, egli si è autoaccusato di numerosi gravi reati per i quali non era neppure sospettato e, con riferimento a ulteriori fatti, ha confermato le chiamate in correità di altri collaboratori, ammettendo lealmente le sue responsabilità.
Per altro, il dato che caratterizza (e rende di grandissima importanza) le sue rivelazioni è che esse abbracciano per il periodo di tempo di circa un quindicennio l’intera struttura organizzativa di “cosa nostra” nella provincia di Trapani, i relativi organigrammi, le dinamiche conflittuali interne ed esterne alle singole cosche, le attività e i traffici gestiti dalle varie “famiglie”, talvolta autonomamente e talaltra in collaborazione, oppure servendosi di personaggi “vicini” a più consorterie locali, come nei casi del contrabbando di tabacchi effettuato insieme ai Marsalesi e della catena di Supermercati “Bravo” e della società “Marciante 2”, operati avvalendosi di soggetti contigui a VIRGA Vincenzo.
Infatti -sebbene abbia preso parte anche in qualità di esecutore materiale a molti omicidi- il SINACORI, grazie alle sue attitudini e capacità personali, non è stato soltanto un killer, ma ha instaurato e mantenuto numerosi contatti con personaggi di alto livello dell’associazione anche prima di essere nominato coreggente del mandamento (contatti comprovati dalle concordi dichiarazioni di altri dichiaranti, quali il PATTI, il BRUSCA, il FERRANTE, il GERACI, Giuseppe FERRO) ed è stato direttamente interessato alla gestione di numerosi traffici illeciti condotti dalla “famiglia” di Mazara, gestendoli talvolta anche in prima persona.
Al suo conclamato inserimento nell’associazione mafiosa, all’indiscutibile alto livello dei suoi rapporti interpersonali e all’ampiezza dei suoi interessi criminali (confermata già in epoca antecedente alla sua collaborazione da molteplici risultanze investigative) consegue che il profilo delle sue conoscenze è assai dettagliato e approfondito non solo con riferimento ai molti omicidi di cui si è accusato, ma altresì agli altri aspetti dell’attività dell’associazione nella provincia.
Inoltre, e conseguentemente, le sue propalazioni hanno avuto ad oggetto quasi sempre conoscenze derivanti da scienza diretta del collaborante e non riferite de relato, fatto che ha aumentato ulteriormente la sua credibilità intrinseca.
Certamente non mancano, nell’ambito delle dichiarazioni del SINACORI alcune imprecisioni. Tuttavia, queste ultime non hanno avuto ad oggetto quasi mai circostanze importanti e in ogni caso sono state in numero esiguo, se rapportate all’enorme massa delle sue rivelazioni, finendo quindi per costituire più una conferma che una smentita della sua credibilità.
D’altra parte, non può non sottolinearsi che il SINACORI non ha mai mostrato acredine per nessuno alcuno dei soggetti che ha accusato. Al contrario, nei confronti di alcuni (e in particolare di GANCITANO Andrea, BURZOTTA Diego e MESSINA DENARO Matteo) si è espresso in termini che denotano amicizia e quasi gratitudine (con riferimento al GANCITANO), pur accusandoli di delitti gravissimi.
A questo riguardo deve evidenziarsi che il collaboratore -dimostrando una volta di più attitudine da capo- ha sempre tenuto a distinguere le condotte di coloro che di fatto avevano un ruolo attivo nella decisione e nell’esecuzione dei vari reati e coloro che invece vi erano coinvolti soprattutto in qualità di accompagnatori dei primi, come era nel caso di RISERBATO Davide e GERACI Francesco. In particolare, ha tenuto spesso a precisare che questi ultimi furono presenti a numerosi episodi criminosi esclusivamente perchè erano “vicini” rispettivamente al GANCITANO e al MESSINA Denaro.
Al contrario, egli ha in più occasioni sancito l’estraneità di taluni personaggi a singoli episodi delittuosi loro ascritti, contribuendo in tal modo -spesso in maniera decisiva, a causa della sua posizione di primo piano in seno all’organizzazione criminale e alla sua approfondita conoscenza delle vicende interne alla stessa- all’accertamento del reale svolgimento dei fatti.
In particolare, sotto questo profilo, deve sottolinearsi che nel processo a carico di AGRIGENTO Giuseppe, e altri celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Palermo, le dichiarazioni del SINACORI e del BRUSCA hanno scagionato Andrea GANCITANO (che gli stessi hanno accusato di una lunga serie di altri omicidi) dall’accusa di avere partecipato alla soppressione di ALA e STALLONE a Tre Fontane, individuando il giovane biondino alla guida dell’autovettura in TITONE Antonino.
Del pari, le dichiarazioni del SINACORI sono state rilevanti ai fini dell’assoluzione di CANZONIERI Giacomo e CUTTONE Antonino dal delitto di associazione mafiosa loro ascritto da parte del Tribunale di Marsala con sentenza emessa il 21 maggio 1997 e divenuta irrevocabile per i predetti imputati il 31 ottobre 1997, non avendo le parti proposto impugnazione relativamente alle stesse (cfr. sentenza citata del Tribunale di Marsala nel processo a carico di CUTTONE Antonino + 8, prodotta dal P.m. all’udienza del 18 febbraio 2000).
Ne consegue che non può certamente sostenersi che il SINACORI nelle sue propalazioni eteroaccusatorie si sia limitato a confermare pedissequamente le risultanze probatorie aliunde acquisite, ma deve sottolinearsi al contrario che egli ha lealmente affermato l’estraneità di numerosi soggetti in ordine a fatti delittuosi loro ascritti ingiustamente.
Infine, non può ritenersi che osti a un giudizio positivo sulla credibilità del SINACORI la circostanza, che egli stesso ha ammesso, che in un primo tempo la sua collaborazione fu “condizionata”, essendo stata limitata per lo più all’ammissione di fatti di cui era già stato accusato da altri, pur senza avere comportato né l’asserzione di fatti non veri, né l’appiattimento su propalazioni false altrui (cfr., per tutti, controesame di SINACORI sull’omicidio di LO PICCOLO Rosario condotto dall’Avv. MARINO all’udienza dell’1 luglio 1999). Infatti, il tenore stesso delle sue dichiarazioni -e in particolare la loro ampiezza e precisione- costituiscono l’evidente dimostrazione del successivo cambiamento del suo atteggiamento psicologico e della sua piena apertura a una leale collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.
Per ciò che concerne l’attendibilità estrinseca del collaboratore in parola, come nel caso del PATTI, i numerosissimi riscontri di carattere oggettivo alle dichiarazioni del SINACORI relativi a specifici episodi o imputati saranno analiticamente riportati nei paragrafi della sentenza dedicati ai medesimi. Appare opportuno non occuparsi in questa scheda neppure dei riscontri aventi ad oggetto le altre attività gestite a scopo di lucro della “famiglia” di Mazara del Vallo e i rapporti tenuti a tale fine con personaggi legati ad altre cosche della provincia di Trapani, sui quali ci si è già soffermati, nonché quelli concernenti i supermercati “Bravo” che saranno analizzati nella scheda del FERRANTE.
Nella presente sede ci si limiterà, pertanto, a elencare alcuni riscontri di carattere generale, non attinenti a personaggi e fatti particolari,
Per quanto attiene alla società “Marciante 2” le dichiarazioni del SINACORI sono state confermate con riferimento alla ubicazione della stessa, in via Salemi, vicino all’ospedale “Abele Aiello” di Mazara del Vallo e alla partecipazione nella stessa del collaboratore e di altri “uomini d’onore” della città, unitamente al commercialista trapanese MESSINA Giuseppe e all’imprenditore MARCIANTE Roberto.
E’ stato inoltre pienamente riscontrato il racconto del SINACORI con riferimento allo sbarco di Torretta Granitola, sia in ordine alla dinamica dell’episodio, alle persone presenti e all’oggetto del traffico (cfr. Parte I, Capo II, nella quale si è trattato analiticamente l’episodio in parola), sia in ordine all’esistenza per un lungo periodo di stretti rapporti tra le “famiglie” di Mazara del Vallo e Marsala, con riferimento a varie attività criminali.
Le rivelazioni del SINACORI sono state inoltre riscontrate oggettivamente concernenti i seguenti argomenti:
– esistenza di un villino di proprietà dell’imputato TAMBURELLO Salvatore nel quale il collaboratore ha affermato che avvenne la sua “combinazione”: l’ispettore DE MARTINO ha riferito che il TAMBURELLO è proprietario di due immobili e in particolare di un appezzamento di terreno catastalmente censito alla partita 30.623, foglio n.211, part. 304, 305, 306, 309, 766, sito nella contrada Bocca Gilletto di Mazara del Vallo limitrofa alla contrada Bocca Arena, nella quale a detta del SINACORI il fabbricato sarebbe ubicato (per altro, secondo quanto ha affermato il verbalizzante, le due contrade in zona vengono denominate “Contrada Bocca Arena – Gilletto” e considerate in maniera unitaria); su tale lotto, acquistato dal TAMBURELLO il 25 febbraio 1981, sorge una villetta dove è tuttora installata l’utenza 0923/931794 intestata a BONANNO Antonina, moglie dell’imputato.
– esistenza di due villini contigui di pertinenza di MESSINA Francesco, detto “u muraturi” in contrada Tonnarella di Mazara del Vallo, uno dei quali sarebbe stato nella disponibilità di RIINA Salvatore: l’ispettore DE MARTINO, nella deposizione testè citata, ha riferito che dal giugno 1993 il MESSINA risulta intestatario di un immobile sito in via Riviera del Garda 24 in Contrada Tonnarella di Mazara del Vallo, catastalmente censito alla partita 88/91, foglio 171, part.1.644, che lo stesso MESSINA, nella richiesta di condono, attestò essere stato edificato anteriormente al 1977; gli inquirenti hanno accertato altresì che a partire dal 14 dicembre 1977 e fino al 20 luglio 1994 è stato attivo un contratto di fornitura di energia elettrica relativo allo stabile in parola. Limitrofo a questo immobile, al numero 26 della via Riviera del Garda, vi è un altro villino intestato a MAURO Marianna, moglie del MESSINA, catastalmente censito alla partita 10.167, fg.171 e part.1.642, nel quale ultimo sarebbe stato ospitato RIINA durante la latitanza;
– esistenza di un villino di proprietà di Battista CONSIGLIO nel quale avrebbero trovato ricetto latitanti, tra cui LEONE Giovanni e, successivamente, lo stesso SINACORI: tale circostanza è stata confermata sia dall’ispettore DE MARTINO, il quale nella citata audizione ha dato atto della disponibilità di uno stabile da parte del CONSIGLIO, sia dall’atto di acquisto dell’immobile prodotto dal P.M. (doc. n.20), dal quale si evince che l’edificio, sito in contrada Bianca o Giangreco di Mazara del Vallo, fu acquistato da quest’ultimo in data 14 novembre 1988.
Le propalazioni del SINACORI presentano inoltre significative convergenze con le dichiarazioni di altri collaboratori.
Le concordanze tra il PATTI e il SINACORI sono tante e di tale rilievo da rendere assai difficoltoso il riportarle integralmente, anche omettendo quelle attinenti ad aspetti inerenti alla parte speciale. In particolare, le dichiarazioni dei due imputati si sono rivelate pienamente concordi sulla struttura organizzativa, sugli organigrammi delle cosche e sul mutare nel tempo dei relativi equilibri interni e delle posizioni dominanti (cfr. ad esempio l’indicazione della sostituzione del capo provinciale Cola BUCCELLATO con MESSINA DENARO Francesco, avvenuta alla metà degli anni ’80, confermata anche da Giuseppe FERRO), sui rapporti privilegiati di alcune famiglie trapanesi con RIINA Salvatore e con altri influenti uomini del suo entourage (quali BAGARELLA Leoluca e Giovanni BRUSCA), sulla composizione dei gruppi di fuoco e sull’inserimento in alcune circostanze di qualificati sicari della provincia di Palermo (come gli stessi BRUSCA e BAGARELLA, nonché Baldassare DI MAGGIO, Antonino GIOÈ, Gioacchino LA BARBERA, Mario Santo DI MATTEO), sulla dinamica di vari conflitti succedutisi negli anni nel trapanese e sulla conduzione delle operazioni negli stessi (specie con riferimento a Partanna e Marsala, dove i “caporali” furono rispettivamente MESSINA DENARO Matteo e GANCITANO Andrea).
Naturalmente, talvolta le propalazioni dei due collaboranti hanno connotazioni diverse, legate alla parziale distinzione tra le storie criminali dei due personaggi.
In primo luogo, il PATTI e il SINACORI appartenevano a cosche differenti, pur se inserite nel medesimo mandamento, e con interessi e traffici autonomi, cosicchè ciascuno dei due conosceva dettagliatamente soltanto le dinamiche interne alla propria consorteria criminale.
Inoltre la differenza tra i ruoli ricoperti dagli stessi nell’ambito delle rispettive “famiglie” (di mero sicario il PATTI, di uomo di pensiero, oltre che di azione, il SINACORI) ha comportato una sostanziale diversità qualitativa delle loro dichiarazioni, essendo quelle dell’“uomo d’onore” marsalese incentrate soprattutto sulla dinamica esecutiva degli omicidi e vertendo, invece, quelle del “reggente” del mandamento di Mazara del Vallo anche su altri settori di attività della consorteria criminale cui apparteneva.
Infine, la carriera criminale del PATTI all’interno di “cosa nostra” è iniziata circa due anni prima di quella di SINACORI, e pertanto le sue affermazioni sono più dettagliate con riferimento agli avvenimenti degli anni ‘80/81, mentre il lungo periodo di detenzione sofferto in seguito all’arresto per l’omicidio di FERRARA Giuseppe tra l’ottobre del 1986 e quello del 1989 ha comportato che abbia conoscenze modeste ed esclusivamente de relato sugli accadimenti di quegli anni, nei quali, al contrario, l’ascesa di SINACORI era già iniziata (e conseguentemente il livello delle sue conoscenze aumentato).
Tra le dichiarazioni dei due collaboratori esistono altresì talune divergenze, che per altro hanno ad oggetto per lo più circostanze non essenziali (quale, ad esempio, la partecipazione del SINACORI alla famosa “mangiata” alla presenza di RIINA durante il periodo natalizio del 1991, sulla quale ci si è già soffermati nel paragrafo dedicato all’attendibilità del PATTI, affermata da quest’ultimo e negata dal primo). Tuttavia siffatte discrasie, dato il loro numero limitato e i fatti a cui attengono, non solo non inficiano l’attendibilità degli stessi, ma addirittura rafforzano il giudizio positivo sulla genuinità delle loro propalazioni, giacchè sarebbe certamente inquietante se, all’interno di una massa di notizie così estesa e relativa a un lungo periodo di tempo, le affermazioni dei due collaboratori non presentassero alcune sbavature e incongruenze.
Le dichiarazioni del SINACORI convergono altresì su molti punti con quelle di numerosi altri collaboratori, e in particolare avendo sempre riguardo soltanto ai riscontri di carattere generale:
– SINACORI e Giuseppe FERRO hanno tratteggiato in maniera conforme la struttura organizzativa e l’organigramma delle famiglie mafiose della provincia, con particolare riferimento al mandamento di Alcamo, sul quale sono incentrate quasi esclusivamente le conoscenze del primo (anche FERRO, come si è detto è a conoscenza della sostituzione di MESSINA DENARO Francesco a Cola BUCCELLATO come capo provinciale a metà degli anni ’80); la nomina a rappresentante del mandamento in parola del FERRO nell’estate del 1992, dopo l’eliminazione di MILAZZO Vincenzo; le causali e le vicende delle due guerre di mafia combattute ad Alcamo tra l’inizio degli anni ’80 e quello degli anni ’90; gli stretti rapporti che inizialmente MILAZZO Vincenzo, indiscusso capo del mandamento, intrattenne con i Mazaresi e i Marsalesi, presso i quali trovò asilo insieme ai suoi uomini più noti subito dopo l’omicidio del padre, prima della vittoriosa riscossa “corleonese”, e il successivo incrinarsi di questi legami, tanto che entrambi i collaboratori in parola hanno addebitato la decisione del RIINA di sopprimere D’AMICO Vincenzo e CAPRAROTTA Francesco a “tragedie messe” dal MILAZZO; il successivo avvicinamento di quest’ultimo ai Palermitani, e in primo luogo a Giovanni BRUSCA e allo stesso RIINA, a cui si rivolgeva anche per ottenere gli aiuti militari che di volta in volta gli servivano; il conseguente frequente intervento di qualificati sicari palermitani nella seconda guerra di mafia di Alcamo.
– SINACORI e Giovanni BRUSCA hanno fornito un quadro sostanzialmente concorde della situazione interna delle “famiglie” del trapanese, con particolare riferimento ai personaggi di maggiore spessore nel periodo ricompreso tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Hanno raccontato in maniera uniforme le causali e la dinamica di taluni dei conflitti verificatisi nella provincia, con particolare riferimento alle guerre di Alcamo, nelle quali i “Sangiuseppari” ebbero un ruolo determinante, provvedendo in prima persona all’organizzazione e alla esecuzione di molti omicidi, tenuto conto della detenzione prima e della sottoposizione al regime degli arresti domiciliari poi di MILAZZO Vincenzo. In particolare hanno ricollegato alla morte di MILAZZO Paolo, colpito da un proiettile nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia (di questo episodio si è occupata espressamente la sentenza divenuta irrevocabile emessa dal Tribunale di Trapani nel procedimento a carico di PAZIENTE Gaetano e altri), la piena comprensione da parte del BRUSCA della gravità della situazione ad Alcamo e il suo immediato viaggio a Mazara del Vallo per chiedere ad AGATE Mariano, D’AMICO Vincenzo e VIRGA Vincenzo l’aiuto necessario per combattere vittoriosamente la guerra contro i GRECO.
– SINACORI e Gioacchino LA BARBERA hanno concordemente riferito della presenza a Mazara del Vallo di un gruppo di fuoco palermitano, comprendente, oltre al collaboratore, anche BAGARELLA Leoluca, GIOÈ Antonino, BRUSCA Giovanni, che partecipò attivamente alla guerra di mafia di Marsala e della circostanza che uno dei punti di riferimento degli “uomini d’onore” che si trovavano a Mazara del Vallo era il negozio di materiale elettrico del SINACORI.
– SINACORI, SCARANO e FERRANTE hanno riferito in termini conformi che all’inizio degli anni ’90 il distributore di CIACCIO nella via Campobello di Castelvetrano era uno dei luoghi in cui si recavano gli “uomini d’onore” che avevano necessità di contattare MESSINA DENARO Matteo.
– SINACORI e Giovan Battista FERRANTE hanno reso dichiarazioni concordanti in ordine ad alcuni incontri avvenuti a Palermo con Salvatore RIINA e sulla riconducibilità a quest’ultimo -oltre che in piccola parte allo stesso FERRANTE e a Salvatore BIONDINO- della catena dei supermercati “Bravo”, che risultava tuttavia intestata a prestanome (sulla vicenda, che verrà ampiamente trattata nelle scheda dedicata al FERRANTE, sono stati conseguiti altresì riscontri di carattere oggettivo riferiti dal dottor LINARES nelle udienze del 23 gennaio e 14 febbraio 1997 nell’ambito del citato procedimento a carico di ACCARDI Gaetano e altri).
Alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte, non può che pervenirsi a un giudizio pienamente positivo in ordine all’attendibilità intrinseca ed estrinseca del SINACORI.
Tuttavia, non può sottacersi che il contributo alla Giustizia reso dal collaboratore in parola è apparso meno leale e fermo di quello degli altri dichiaranti escussi nel processo e che in particolare egli in talune occasioni ha mostrato atteggiamenti di chiusura nei confronti di coloro che lo interrogavano, e in particolare del P.M., e ha modificato, certamente consapevolmente, le versioni dei fatti precedentemente rese in modo da “alleggerire” le posizioni di taluno dei coimputati (siffatta condotta è apparsa particolarmente evidente nei confronti del suo fraterno amico BURZOTTA Diego). Tale atteggiamento, se non muta il giudizio di complessiva attendibilità del collaboratore, non può tuttavia non essere valutato al momento di esaminare la posizione processuale del SINACORI e di quantificare la sanzione da comminargli.
BRUSCA GIOVANNI
Giovanni BRUSCA, nato a San Giuseppe Iato il 20 febbraio 1957, è stato esaminato nelle udienze del 3 giugno, 1 ottobre e 3 dicembre 1998 e 3 febbraio 1999 dal P.M. ed è stato controesaminato dai difensori e riesaminato dal P.M. alle udienze del 18 maggio 1999, del 5 luglio 1999, del 9 e 10 novembre 1999. Il 10 novembre 1999 ha sostenuto un confronto con NASTASI Antonino ha effettuato la ricognizione del suddetto imputato. Infine, all’esame del 9 febbraio 2000 è stato esaminato ai sensi dell’art.507 c.p.p..
La caratura criminale del collaborante in esame e il ruolo dallo stesso ricoperto in “cosa nostra” prima del suo “pentimento” sono largamente noti e sanciti in numerose decisioni giurisdizionali ormai divenute definitive, nelle quali è evidenziato come lo stesso, nonostante la giovane età, fosse uno dei personaggi più autorevoli all’interno dell’associazione e maggiormente a conoscenza delle vicende interne della stessa, in virtù sia del suo rapporto di parentela con Bernardo BRUSCA, che ha sempre comportato una sua particolare vicinanza a RIINA Salvatore e in generale ai vertici dell’organizzazione, sia della sua personale autorevolezza e dei legami stretti con tutti i principali membri dell’organizzazione. Tali dati emergono altresì con chiarezza dalle dichiarazioni di tutti i collaboratori escussi in questo processo e dello stesso BRUSCA, che si è mostrato a conoscenza non solo di numerosissimi fatti criminosi avvenuti nella provincia di Trapani per avervi personalmente preso parte o per averli sentiti raccontare da altri “uomini d’onore”, ma altresì dei retroscena degli stessi.
Ne consegue che la rilevanza del contributo portato dal BRUSCA al disvelamento dei fatti di causa si profila assolutamente eccezionale, pur se circoscritto, nel presente procedimento, a un numero limitato di omicidi.
L’attendibilità del BRUSCA è stata già valutata positivamente da numerosi Giudici, che hanno riconosciuto all’imputato l’attenuante di cui all’art.8 L.203/81.
In particolare, la Corte d’appello di Palermo, con sentenza emessa il 4 giugno 1998 e divenuta esecutiva per il collaborante il 22 novembre 1998, lo ha dichiarato colpevole del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, riconoscendogli per altro l’attenuante speciale suddetta, ritenuta equivalente alle contestate aggravanti, e riducendo la pena inflitta in primo grado a nove anni di reclusione.
Del pari, la stessa Autorità Giudiziaria, con decisione pronunciata il 30 ottobre 1998 e divenuta irrevocabile il 15 giugno 1999, lo ha giudicato responsabile di vari reati, tra cui l’omicidio di PITARRESI Roberto, l’illegittimo porto in luogo pubblico e detenzione di armi, l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, condannandolo alla sanzione di anni dodici di reclusione, previa concessione dell’attenuante speciale di cui all’art.8, giudicandola equivalente alle contestate aggravanti (decisioni prodotte dal P.M. all’udienza del 18 febbraio 2000).
L’attenuante speciale della collaborazione è stata concessa al BRUSCA altresì dalla Corte d’Assise di Palermo con la sentenza emessa il 25 luglio 1997 nel processo a carico di AGRIGENTO Giuseppe e altri, divenuta irrevocabile per il BRUSCA il 5 maggio 1998, a seguito di mancata interposizione di appello da parte del prevenuto. Nel giudizio in parola, il BRUSCA era imputato, tra l’altro, di una serie di omicidi commessi nelle province di Palermo e Trapani tra il 1981 e il 1989, per i quali, proprio in considerazione della particolare importanza del suo contributo all’accertamento dei fatti, è stato condannato alla pena di diciassette anni di reclusione (cfr. citata sentenza prodotta dal P.M. all’udienza del 18 febbraio 2000).
Infine, anche nel processo per l’omicidio di Ignazio SALVO -nel quale pure l’attenuante in parola è stata negata al BRUSCA sulla base della considerazione che al momento dell’inizio della sua collaborazione il fatto era già stato accertato sulla base delle esaustive dichiarazioni del DI MATTEO e del LA BARBERA- la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha riconosciuto all’imputato le circostanze attenuanti generiche proprio in considerazione del suo corretto comportamento processuale e dell’ampiezza, coerenza e precisione della sua confessione (cfr. decisione adottata il 14 aprile 1997 dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, divenuta irrevocabile per il BRUSCA, condannato alla pena di ventidue anni di reclusione, il 19 novembre 1997).
A giudizio di questa Corte, il contributo fornito dal collaboratore in parola all’accertamento dei fatti di causa deve essere giudicato di fondamentale importanza, proprio in virtù del ruolo di primo piano ricoperto dallo stesso all’interno dell’associazione. Le sue propalazioni debbono inoltre essere giudicate attendibili, sia in quanto intrinsecamente coerenti, dettagliate, precise e logiche, ma altresì supportate da significativi riscontri di carattere estrinseco, costituiti sia dalle affermazioni di altri “pentiti”, sia da elementi fattuali, sia infine da prove logiche.
Le dichiarazioni del BRUSCA nel presente procedimento hanno avuto ad oggetto un numero limitato di omicidi a cui lo stesso partecipò personalmente o la cui dinamica apprese da altri “uomini d’onore”, i suoi rapporti con alcuni personaggi appartenenti a “cosa nostra” o contigui alla stessa nella Provincia di Trapani e le guerre di mafia in cui l’associazione criminale predetta fu coinvolta nel medesimo ambito territoriale. In questa sede -non apparendo opportuno per ragioni sistematiche e di sintesi trattare i predetti fatti, oggetto di specifica disamina nei capitoli successivi- ci si limiterà a ripercorrere brevemente le tappe della carriera del collaboratore all’interno dell’associazione.
Giovanni BRUSCA, figlio di Bernardo, rappresentante del mandamento di San Giuseppe Iato, fu affiliato a “cosa nostra” nel 1977, nella “famiglia” comandata da suo padre.
Grazie ai suoi rapporti di parentela con quest’ultimo, il giovane entrò immediatamente in contatto con molti personaggi dotati di particolare autorevolezza nell’organizzazione, tra cui in primo luogo RIINA Salvatore e BAGARELLA Leoluca. Nella provincia di Trapani conosceva fin dai primi anni della sua militanza mafiosa AGATE Mariano di Mazara del Vallo, VIRGA Vincenzo di Trapani e MILAZZO Vincenzo di Alcamo.
Insieme ad altri killer del mandamento di San Giuseppe Iato, il BRUSCA partecipò ad alcuni omicidi commessi nel trapanese durante la prima guerra di mafia, tra cui quello di ALA e STALLONE a Triscina.
I contatti del collaboratore con le “famiglie” della Sicilia occidentale e in particolare con quella di Alcamo rimasero frequenti negli anni successivi, tanto che egli e alcuni suoi “soldati” dapprima fiancheggiarono i mafiosi locali nella guerra di mafia combattuta in questo paese tra il 1989 e il 1992 contro il clan cosiddetto dei GRECO e poi -dopo l’omicidio di MILAZZO Paolo, fratello di Vincenzo e la conseguente piena comprensione della gravità della situazione- addirittura guidarono l’azione di “cosa nostra”.
La sua frequente presenza nella zona di Castellammare del Golfo (dove per un certo periodo trascorse la latitanza all’inizio degli anni ‘90) e di Mazara del Vallo favorì anche il suo coinvolgimento (tramite la partecipazione diretta ad alcuni agguati e suggerimenti) nella guerra di mafia di Marsala scatenata dal gruppo di Carlo ZICHITTELLA nel 1992 e nella deliberazione ed esecuzione dell’omicidio del rappresentante del mandamento di Alcamo, MILAZZO Vincenzo, e della sua fidanzata, Antonella BONOMO.
Il BRUSCA ha raccontato altresì la genesi della sua decisione di collaborare con la giustizia. Data la vividezza e la significatività di tale narrazione, appare opportuno riportarla integralmente:
“RISPOSTA – Io cominciai a collaborare prima con i colloqui investigativi il giorno 23 maggio ’96; circa due mesi dopo cominciai con i magistrati l’8 – 9 agosto del ’96; fino ad oggi sto continuando senza problemi.
DOMANDA – Può spiegare brevemente alla Corte i motivi che l’hanno indotta a collaborare con la giustizia?
RISPOSTA – I motivi principalmente sono quando per la prima volta lessi sui giornali di Sicilia dichiarazioni di Cangemi Salvatore, che Salvatore Riina voleva uccidere me e Salvuccio Madonia. Non è tanto per la morte, perché si muore una volta sola, però a quel punto mi sentivo…
DOMANDA – Si sente malissimo.
INTERVENTO – Scusate se interrompo, ma da Novara mi dicono che tanto il Presidente quanto il signor Brusca li sentono pianissimo, per cui è meglio che vi avvicinate.
RISPOSTA – CANGEMI Salvatore in un processo, non mi ricordo se a Caltanissetta o a Palermo, dichiarò che Salvatore RIINA voleva uccidere me e Salvuccio MADONIA perché avevamo commesso una scorrettezza nei riguardi dell’organizzazione di “cosa nostra”, che si trattava…, che eravamo andati a trattare una partita di droga o qualche altra cosa, che effettivamente non eravamo andati per questo, bensì più che altro per un pour parler, cioè per un contatto. Questo fatto…, io non sapevo più nulla. Cioè, da CANGEMI vengono fatte queste dichiarazioni pubblicamente. Da un lato mi venivano forti critiche, dall’altro lato però il fatto era vero. Da un altro lato il fatto era vero, perché io l’avevo vissuto. Pensavo che magari l’avesse un po’ esagerato. Quindi da lì cominciai ad avere ripensamenti, riflessioni, dissi: <<Ma alla fine a me chi me l’ha fatto fare?>>, cioè, essere combinato… Perché alla fine, se parlavamo di mafia, io non avevo niente contro nessuno; se parlavamo di giustizia, io non avevo niente contro nessun magistrato, tutto quello che ho fatto l’ho fatto solo ed esclusivamente per motivi di “cosa nostra”, perché non ho avuto mai una lite con nessuno, non ho avuto mai un’inchiesta con nessuno. Tutti i problemi io li ho avuti solo ed esclusivamente per “cosa nostra”. Da lì cominciai ad avere ripensamenti pesanti, cominciai ad avere delle riflessioni, ma da lì a poco poi sono stato arrestato. Quando poi sono uscito dalla Questura ho visto la gente che applaudiva la Polizia, cosa che non è mai avvenuta, e onestamente ero inguaiato con me stesso. Dopodiché sono arrivato al carcere. Anche se in Questura avevo già avuto un pourparler con il Questore, però… Avevo detto se c’era la possibilità di poter parlare con mio padre perché gli volevo dire la mia decisione e non volevo che lo sapesse dai mezzi di informazione. Non è stato possibile. In carcere ho avuto qualche aiuto dall’ispettore capo della nostra sezione, che mi ha dato un aiuto psicologico e morale. Da lì ho deciso di rompere, perché solo così potevo rompere con la famiglia BRUSCA e mio figlio metterlo nelle condizioni di non fare quello che avevo fatto io, perché altrimenti sarebbe ricaduto nelle mie stesse condizioni. Penso che io qualche risultato l’ho avuto, perché i miei fratelli hanno la stessa scelta e sono arrivato qua.
DOMANDA – Senta, per quanto è a sua conoscenza, con le sue dichiarazioni sa se ha contribuito alla cattura di imputati latitanti?
RISPOSTA – Mah, io il contributo che ho dato è cattura di latitanti, numerose inchieste, il caso DI MAGGIO sono stato io a portarlo dove è ritornato, DI MAGGIO, DI MATTEO e LA BARBERA; i NUORIS, Angelo SINA, tante inchieste aperte sono tutte per il mio contributo” (cfr. esame del BRUSCA all’udienza del 10 novembre 1999).
Esaurita questa breve disamina delle dichiarazioni del BRUSCA nel presente procedimento, deve passarsi alla valutazione sull’attendibilità del medesimo.
Deve anticiparsi subito che, a parere di questa Corte, il giudizio deve essere, con riferimento al presente processo, pienamente positivo.
Il fatto stesso che la dissociazione dall’associazione criminale “cosa nostra” sia stata determinata dalla progressiva disillusione da parte del collaboratore sulla reale natura di “cosa nostra” e del suo capo, a cui egli era sempre stato devotamente fedele, e dal conseguente desiderio di allontanarne inequivocabilmente e definitivamente i suoi figli induce a ritenere ancora più verosimile la sincerità degli intenti dello stesso e, di conseguenza, la sua attendibilità intrinseca.
D’altra parte, le iniziali menzogne raccontate dal BRUSCA non appaiono idonee a inficiarne la credibilità, non tanto perché sono state presto ritrattate dallo stesso collaboratore, ma soprattutto perché il suo atteggiamento successivo si è dimostrato pienamente leale e collaborativo.
Con specifico riferimento al presente procedimento, la collaborazione del BRUSCA è intervenuta dopo che egli era stato chiamato in correità da altri collaboratori. Nondimeno, egli si è assunto integralmente le proprie responsabilità con riferimento ai reati ascrittigli, senza tentare in alcun modo di sminuire il proprio ruolo, conferendo riscontri talvolta decisivi alle dichiarazioni degli altri collaboratori.
Inoltre, nonostante abbia potuto riferire notizie solo su un numero limitato di omicidi e episodi delittuosi (data la diversa area territoriale di sua diretta pertinenza), ha comunque fornito un contributo significativo, grazie alle sue approfondite conoscenze sui retroscena dei vari scontri militari combattuti nella provincia e sugli imputati, non pochi dei quali ha avuto modo di conoscere personalmente. Infatti, la posizione ricoperta dal BRUSCA nell’ambito dell’organizzazione e gli stretti vincoli che lo legavano a personaggi di primissimo piano (quali RIINA, BAGARELLA, MILAZZO, VIRGA e AGATE), hanno comportato che egli fosse a conoscenza di molti fatti ignoti ai più fin dalla giovanissima età.
Le caratteristiche stesse dello snodarsi delle rivelazioni del collaboratore nel presente procedimento, del resto, attribuiscono alle sue parole un ulteriore crisma di intrinseca attendibilità, atteso che il suo racconto si presenta dettagliato, logico, costante e coerente, e che egli ha sempre risposto prontamente e senza cadere in contraddizione alle domande dell’accusa e della difesa.
Le sue dichiarazioni hanno avuto riguardo principalmente a circostanze che erano oggetto di sua scienza diretta, senza che egli lasciasse trapelare alcuna inclinazione ad amplificare la portata delle sue rivelazioni, ma soltanto la ferma intenzione a riferire tutto quanto sapeva sugli episodi su cui gli venivano rivolte domande. Né vi è motivo di ritenere che debba pervenirsi a un giudizio diverso con riferimento alle dichiarazioni concernenti fatti che il BRUSCA ha affermato avere appreso de relato da altri “uomini d’onore”. Questi ultimi, infatti, non avrebbero avuto alcun motivo di mentirgli, tenuto conto sia della comune militanza nell’associazione criminale e sia, soprattutto, della posizione di particolare prestigio ricoperta all’interno della stessa dal BRUSCA, notoriamente vicinissimo al RIINA.
Infine, dal tenore delle sue dichiarazioni non è emersa alcuna acredine nei confronti di nessuna delle persone che ha accusato, ma al contrario il collaboratore ha tenuto a precisare di avere intrattenuto per lunghi anni rapporti cordiali e frequenti con vari “uomini d’onore” della provincia di Trapani, i quali gli hanno fornito supporto per la sua latitanza ogni volta che ne sono stati richiesti.
Sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca delle propalazioni del BRUSCA deve osservarsi in primo luogo che le sue affermazioni hanno trovato molteplici riscontri oggettivi, che verranno dettagliatamente esaminati nella parte speciale della presente sentenza.
Inoltre, le sue parole hanno trovato puntuali conferme in quelle di altri dichiaranti, quali -per limitarsi al presente giudizio- Antonio PATTI, Vincenzo SINACORI, Giuseppe FERRO, Francesco GERACI, Gioacchino LA BARBERA, Mario Santo DI MATTEO, Benedetto FILIPPI.
La circostanza che esistano talune divergenze, che per altro hanno ad oggetto per lo più circostanze non essenziali, con alcune affermazioni di altri collaboratori, d’altra parte, non inficia l’attendibilità degli stessi, dato il numero limitato delle discrasie e i fatti a cui attengono, ma addirittura rafforza il giudizio positivo sulla genuinità delle loro propalazioni, giacchè sarebbe certamente inquietante se, all’interno di una massa di notizie così estesa e relativa a un lungo periodo di tempo, le affermazioni dei “pentiti” non presentassero alcune sbavature e incongruenze.
Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del BRUSCA non può che essere del tutto favorevole.
FERRO GIUSEPPE
Giuseppe FERRO, nato ad Alcamo il 5 gennaio 1942, è stato esaminato in qualità di imputato nelle udienze del 23 aprile, 30 settembre, 7 e 29 ottobre e 22 dicembre 1998 dal P.M.. È stato inoltre controesaminato dai difensori degli imputati e riesaminato dal P.M. in quelle del 12 maggio 1999, 17 settembre 1999 e 8 novembre 1999. Infine, è stato sentito ai sensi dell’art.507 c.p.p. all’udienza del 9 febbraio 2000. Il FERRO è stato escusso altresì all’udienza del 21 aprile 1999 nel procedimento a carico di BURZOTTA Diego, successivamente riunito a quello principale.
Nel corso delle sue audizioni il collaboratore ha riferito in ordine a diversi episodi delittuosi e taluni imputati, ma in questa sede per ragioni di sintesi ci si limiterà a ripercorrere brevemente la carriera criminale del medesimo, rinviando per gli altri fatti alla parte speciale.
Giuseppe FERRO ha riferito che fu affiliato a “cosa nostra” nel 1981, ma i suoi contatti con esponenti dell’associazione mafiosa incominciarono nel 1976, quando era latitante per essersi sottratto all’esecuzione del provvedimento di carcerazione per il sequestro CAMPISI.
Quest’ultimo fu sequestrato nel 1975 da una banda composta da MELODIA Filippo (omonimo del noto uomo d’onore, capo decina della famiglia di Alcamo), FILIPPI Giuseppe, VARVARO Vito e RENDA Giuseppe, tutti di Alcamo, ACCARDO Stefano, detto “Cannata”, di Partanna, Vito e Mario CORDIO, Vito VANNUTELLI e MESSINA Silvestro.
Il MELODIA, durante un periodo di comune detenzione, lo pregò di recarsi a Partanna e riferire a Stefano ACCARDO che gli voleva parlare. Il collaboratore eseguì l’incarico, ma ricevette un’accoglienza fredda, che lo spaventò. Pertanto, nei primi giorni di luglio del 1975, visitò il MELODIA in carcere per riferirgli l’accaduto e l’altro commentò che il “Cannata” “lo stomaco sporco ce l’aveva”.
Dopo una decina di giorni il MELODIA lo convocò nuovamente in carcere e gli chiese se fosse disposto a fare a VARVARO Vito un favore, consistente nell’accogliere in casa sua un latitante, MESSINA Silvestro. Il FERRO anche in questo caso si rese disponibile, ospitando il ricercato dalla metà di luglio fino alla fine di agosto, nonostante all’inizio di quest’ultimo mese lo stesso collaboratore fosse latitante per essersi sottratto all’esecuzione di un provvedimento cautelare emanato nell’ambito delle indagini successive al sequestro CAMPISI.
Negli anni ’70 il FERRO conosceva personalmente anche Leo RIMI, un membro alla famiglia che all’epoca comandava ad Alcamo, per conto del quale aveva svolto lavori come muratore in una stalla in Contrada Fico. In virtù di tale conoscenza lo stesso RIMI e Nino BADALAMENTI, detto “Battaglia”, lo mandarono a cercare tramite Stefano MILOTTA, persona della famiglia di Alcamo, e VARVARO Vito, poiché erano interessati a sapere chi fosse il responsabile dei sequestri di CAMPISI e Luigi CORLEO, suocero di Nino SALVO. Il collaboratore incontrò i due uomini nell’immobile del RIMI in Contrada Fico, nel quale aveva eseguito il lavoro edile sopra specificato, alla presenza altresì del MILOTTA e del VARVARO. In quell’occasione disse al RIMI e al BADALAMENTI che non sapeva nulla dei sequestri, a parte le poche notizie raccontategli da Silvestro MESSINA e Filippo MELODIA, e i suoi interlocutori lo invitarono a chiedere informazioni ulteriori a MESSINA, a VANNUTELLI e ai fratelli CORDIO sul sequestro CORLEO, che era l’episodio che premeva loro maggiormente. Il FERRO fece quanto gli era stato richiesto, ma non ottenne alcuna informazione ulteriore e in un successivo convegno riferì il fatto al RIMI e al BADALAMENTI. Questi ultimi, quando egli in uno dei suddetti incontri raccontò loro della sua visita a Stefano ACCARDO, gli rivelarono che a metterlo nei guai per il sequestro CAMPISI era stato proprio il “Cannata”. Infatti, costui era stato rilasciato pochi giorni dopo essere stato arrestato, nel precedente mese di luglio, per il possesso di una pistola, poichè aveva fatto confidenze ai Carabinieri. Il FERRO chiese subito ai due “uomini d’onore” il permesso di uccidere l’ACCARDO e l’ottenne, a condizione che eseguisse l’omicidio con persone di Alcamo, il VARVARO e Filippo MELODIA.
Poco dopo l’ultimo abboccamento con il RIMI e il BADALAMENTI il collaboratore trascorse alcuni mesi a Roma con il VARVARO, che era stato delegato a curare la sua latitanza. Al loro ritorno, nel mese di dicembre, discussero dell’ACCARDO con il MELODIA, che intanto era stato scarcerato, decidendo di ucciderlo, e a quest’ultimo fine il MELODIA contattò VANNUTELLI e Silvestro MESSINA per riceverne l’aiuto.
I tre Alcamesi si recarono a Mazara del Vallo, senza per altro riuscire a trovare il “Cannata”, cosicchè il VARVARO e il MELODIA ritornarono ad Alcamo, mentre il FERRO restò in paese con Silvestro MESSINA. Nei giorni successivi i fratelli Cola e Pasquale MESSINA di Mazara del Vallo, i quali erano vicini a Silvestro MESSINA e al VANNUTELLI, riferirono loro che Stefano ACCARDO era all’Hopps Hotel di Mazara del Vallo.
Il collaboratore, il MESSINA e il VANNUTELLI decisero di sfruttare l’occasione favorevole e, aiutati da LUPPINO Antonio, detto “Ianeddru”, realizzarono l’agguato all’ACCARDO, che tuttavia rimase solo ferito.
La loro azione provocò la reazione di “cosa nostra”, e in particolare di AGATE Mariano, il quale decretò la loro eliminazione. Quando il FERRO ritornò a Mazara per “fare un magazzino di vino” con il VANNUTELLI, MESSINA Nicola attirò il collaboratore e alcuni altri membri della banda VANNUTELLI in un luogo dove li attendevano alcuni sicari che spararono alle vittime ferendo il FERRO, CORDIO Paolo e MESSINA Silvestro, il quale morì a causa delle lesioni riportate, nonostante il collaboratore lo avesse portato all’ospedale nel tentativo di salvarlo.
Dopo questo episodio il FERRO, assai preoccupato per la propria incolumità, si recò ad Alcamo a cercare il suo compare COSTANTINO Damiano, nonostante il RIMI gli avesse raccomandato di non confidare nulla a costui, facendogli intendere che in caso contrario il COSTANTINO lo avrebbe ucciso. Nonostante questo avvertimento, egli raccontò a quest’ultimo ogni cosa, dato che aveva piena fiducia in lui ed era a conoscenza del fatto che quest’ultimo in carcere aveva instaurato buone amicizie, in particolare con RIINA Salvatore e BAGARELLA Leoluca. Il COSTANTINO gli consigliò di non parlare dell’accaduto con nessuno. Nei giorni successivi all’attentato, mentre era ancora in convalescenza, ricevette altresì la visita di Leo RIMI, il quale, dopo avergli domandò notizie sull’attentato all’ACCARDO e averlo rimproverato poiché aveva agito con persone diverse da quelle che gli aveva indicato, lo invitò a non parlare con nessuno e a rivolgersi a lui in caso di bisogno.
Il FERRO, tuttavia, decise di fidarsi del COSTANTINO, il quale gli organizzò un incontro con Totò MINORE di Trapani, Cola MICELI di Palizzolo, Franco BUCCELLATO e Peppino MAIORANA in una tenuta di campagna alla Mola, vicino a Trapani. Il suo compare prima del convegno gli raccomandò di non ingiuriare nessuno, parlando con i predetti “uomini d’onore”, ma di limitarsi a riferire i fatti, e gli raccomandò di non fare cenno con nessuno di quell’incontro. Il MINORE gli disse che avevano fiducia in lui, poiché il COSTANTINO garantiva per la sua persona e gli chiese aiuto per uccidere il VANNUTELLI.
Un giorno a fine luglio o inizio agosto del 1976, quando egli era ancora latitante alla Mola con il COSTANTINO, ebbe modo di conoscere il RIINA. Quest’ultimo, infatti, partecipò a una riunione alla Mola con Vincenzo D’AMICO, Mariano AGATE, Totò MINORE, Cola MICELI, Franco BUCCELLATO e, forse, Vito BONVENTRE. In quell’occasione il capomafia corleonese gli disse che lo conosceva, pur non avendolo mai visto, perchè il COSTANTINO gli aveva parlato bene di lui e gli domandò come aveva fatto “ad andarsi a unire con questi cornuti”. Il FERRO, dopo avere risposto che non sapeva spiegarselo, tentò di avviare il discorso sull’ACCARDO esponendo i fatti senza aggiungere giudizi personali. Il RIINA, tuttavia, lo esortò a “fermarsi lì”, senza aggiungere commenti sul “Cannata”, poichè la questione prioritaria da risolvere era quella dell’assassinio di VANNUTELLI. Aggiunse che i suoi uomini avrebbero predisposto ogni cosa e che gli avrebbe mandato “una persona che valeva per dieci”. In quell’occasione il collaboratore raccontò ai presenti dell’incontro con Nino BADALAMENTI e il RIMI, facendo capire loro che essi non avevano il potere di autorizzarlo a sparare all’ACCARDO.
Il 19 agosto Totò MINORE, Cola MICELI e Franco BUCCELLATO lo andarono a prelevare nella casa di campagna di sua sorella e lo portarono a Mazara perchè uccidesse il VANNUTELLI. In quest’ultimo paese, nella cantina di AGATE Mariano, incontrarono GAMBINO Giacomo Giuseppe, l’uomo inviato loro dal RIINA, e andarono in cerca dell’obiettivo. Non trovarono quest’ultimo, ma, avendo veduto il suo compare, il FERRO lo pregò di mandargli la vittima designata in campagna da sua sorella. Lì egli lo attese per ucciderlo insieme a Franco BUCCELLATO, senza potere portare a termine l’incarico, poichè prima dell’arrivo della vittima venne arrestato.
Durante il successivo periodo di detenzione ebbe modo di incontrare vari “uomini d’onore”, tra cui lo stesso GAMBINO, BONANNO Armando e Giovanni LEONE, i quali gli dimostrarono molto rispetto.
Quando fu decisa la sua immissione in famiglia, Cola BUCCELLATO, capo mandamento di Castellammare del Golfo e capo provinciale gli comunicò che Vito SUGAMELI, capo mandamento di Paceco aveva il mandato per “combinarlo”. Alla sua ammissione parteciparono altri uomini d’onore di Paceco: Vito PARISI, Turiddu ALCAMO e Mommo MARINO, detto “‘u Nano”, genero del SUGAMELI. Dopo il rito di affiliazione il SUGAMELI gli disse che avrebbe dovuto rivolgersi a lui in caso di bisogno e che, se non ci fosse stato, gli avrebbe indicato il suo referente. Non gli comunicò i nomi degli altri uomini d’onore delle “famiglie” di Alcamo e Castellammare, ma si limitò a dirgli che a quel tempo la prima era sciolta e che reggenti erano Cola MANNO e Gaspare SCIACCA.
Negli anni successivi instaurò un rapporto cordiale con AGATE Mariano, che aveva visto nel 1976 in occasione del suo primo incontro con RIINA e con cui condivise la cella per due anni dal 1982. Il rappresentante del mandamento di Mazara del Vallo gli fece molte confidenze sui retroscena della guerra di mafia che infuriava in quell’epoca e su molti “uomini d’onore”.
Il FERRO, invece, ebbe sempre un rapporto conflittuale con il rappresentante del mandamento di Alcamo, Vincenzo MILAZZO, di cui non condivideva i metodi, a suo parere troppo brutali. Tale attrito lo relegò nella posizione di soldato semplice per molti anni e mise in serio pericolo la sua vita dopo l’eliminazione, da parte di un commando del mandamento di San Giuseppe Iato, del suo compare COSTANTINO Damiano, il quale fu ucciso e disciolto nell’acido insieme a MELODIA Filippo, COLLETTA Giuseppe e VARVARO Vito il 15 aprile 1989.
Durante gli ultimi anni dell’egemonia del MILAZZO, il FERRO si mantenne in una posizione defilata, per assumere il ruolo di rappresentante su diretta investitura del RIINA dopo l’assassinio del MILAZZO e della sua fidanzata BONOMO Antonella, avvenuto nell’estate del 1992.
Maturò la decisione di collaborare con la giustizia nel 1997, in seguito a due avvenimenti: l’arresto di suo figlio Vincenzo -il quale era estraneo alle vicende di mafia, essendo stato coinvolto marginalmente solo in alcuni episodi senza che sapesse sostanzialmente nulla- e la morte di un suo amico palermitano, Giacomo Giuseppe GAMBINO, che si era impiccato in carcere. Tali accadimenti lo indussero a compiere un’attenta rivalutazione delle sue precedenti scelte e condotte di vita, a seguito della quale giunse alla conclusione che la mafia cagionava la morte dei suoi uomini e rovinava le loro famiglie e decise pertanto di recidere i suoi legami con l’associazione delinquenziale in parola.
Terminata questa breve premessa sull’attività criminale del FERRO, sulla sua militanza in “cosa nostra” e sulla genesi della sua decisione di collaborare con la giustizia, deve passarsi all’esame dell’attendibilità delle sue dichiarazioni.
Sebbene il FERRO abbia deciso di tagliare i ponti con il suo passato criminale dopo essere stato chiamato in reità da altri collaboratori in ordine a vari omicidi, il suo apporto è stato assai rilevante, a causa della qualità delle notizie che ha fornito agli inquirenti e delle quali era a conoscenza grazie alla sua lunga militanza nella cosca di Alcamo, alla posizione di primo piano ricoperta dallo stesso all’interno dell’associazione e ai rapporti che intratteneva con “uomini d’onore” di spicco, e in particolare con BAGARELLA Leoluca.
Le sue dichiarazioni sono state sempre improntate a lealtà e a spirito collaborativo. Da un lato, infatti, ha immediatamente ammesso le sue responsabilità con riferimento a molti delitti, senza tentare in alcun modo di sminuire le sue responsabilità. Da un altro lato ha sempre risposto in maniera lucida e coerente alle domande postegli da tutte le parti processuali, descrivendo con precisione e ricchezza di dettagli i fatti oggetto delle sue propalazioni. Da un altro lato ancora, infine, ha riferito principalmente circostanze di cui era a conoscenza diretta, soffermandosi solo raramente su episodi che gli erano stati raccontati da altri soggetti, i quali per altro erano sempre “uomini d’onore” e pertanto non avevano alcuna ragione di mentirgli, data la comune appartenenza a “cosa nostra”.
Infine, dalle dichiarazioni del FERRO non è mai emerso che egli nutrisse acredine o risentimento nei confronti di nessuno degli odierni imputati, né è mai stato addotto che egli abbia avuto con chicchessia dissidio tale da indurlo a lanciare nei loro confronti accuse infondate.
Sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca del collaboratore in esame, deve rilevarsi che le dichiarazioni dello stesso hanno trovato puntuali conferme in quelle di altri dichiaranti, quali -per limitarsi al presente giudizio- Antonio PATTI, Vincenzo SINACORI, Giovanni BRUSCA, Francesco GERACI, Mario Santo DI MATTEO, Benedetto FILIPPI. D’altra parte, le modeste discrasie che sono talvolta emerse tra le propalazioni del collaboratore in esame e quelle di altri (sempre per altro su circostanze di rilievo del tutto secondario), non solo non hanno inficiato la sua credibilità, ma al contrario, ne hanno ulteriormente esaltato la genuinità.
Inoltre, le sue affermazioni hanno trovato molteplici riscontri oggettivi, alcuni dei quali emersi nell’ambito del presente procedimento o riportati nelle citate sentenze divenute definitive, nelle quali l’attendibilità del collaboratore in parola è sempre stata valutata positivamente.
Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del FERRO non può che essere del tutto favorevole.
GIACALONE SALVATORE
Salvatore GIACALONE, nato a Marsala il 18 gennaio 1963, è stato esaminato dal P.M. nelle udienze del 1 e 22 aprile, 6 maggio, 5 novembre e 10 dicembre 1998, del 3 febbraio, 11 e 24 marzo 1999, ed è stato controesaminato dai difensori degli imputati e riesaminato dal P.M. alle udienze del 6, 12 e 18 maggio 1999, del 28 e 30 giugno 1999, del 16 e 17 settembre 1999, del 10 e 11 novembre 1999. Inoltre, all’udienza dell’11 novembre 1999 il collaboratore ha informalmente individuato il coimputato ACCARDO Domenico ed è stato messo a confronto con gli imputati ACCARDO Domenico e RALLO Antonino. Infine, il GIACALONE è stato risentito ai sensi dell’art.507 c.p.p. il 9 febbraio 2000.
Le propalazioni del GIACALONE nel presente giudizio hanno avuto ad oggetto principalmente gli omicidi a cui lo stesso prese parte o come esecutore materiale o come fiancheggiatore e i suoi rapporti con alcuni personaggi appartenenti a “cosa nostra” o contigui alla stessa. Pertanto in questa sede -non apparendo opportuno per ragioni sistematiche e di sintesi trattare i predetti episodi e contatti- ci si limiterà a ripercorrere brevemente le tappe della carriera del collaboratore all’interno dell’associazione.
Il collaboratore ha riferito che nel 1981/82 subì una condanna ad alcuni mesi di reclusione per il furto di una vespa e trascorse un periodo di detenzione nel carcere di Marsala insieme a suo cugino TITONE Antonino, che era stato arrestato per una rapina perpetrata in Mazara, nella quale una persona era stata uccisa e un’altra ferita.
Quando fu scarcerato, il TITONE gli presentò i fratelli D’AMICO Vincenzo e Gaetano, CAPRAROTTA Francesco, MARCECA Vito, RAIA Gaspare e altri, dicendo che erano “brave persone” e che poteva rivolgersi a loro qualora avesse avuto bisogno. In effetti, egli in un’occasione, versando in ristrettezze economiche, domandò aiuto al D’AMICO, il quale gli procurò la somma di £.2.000.000 tramite la banca di SCIMEMI Baldassare.
Quasi subito, i soggetti presentatigli dal TITONE gli chiesero alcune “cortesie”, per le quali egli si mise prontamente a disposizione, rubando vespe, motociclette e automobili, senza chiedere mai la ragione delle richieste che gli pervenivano.
Nel 1981 o 1982, D’AMICO Vincenzo, che il collaboratore aveva incontrato al bar Spatafora, gli domandò di andare in Piazza Porticella per vedere se DENARO Vincenzo era là. Il GIACALONE eseguì il compito affidatogli, riferendo che lo aveva visto in quel luogo insieme a MARINO Francesco detto “il capellone”. Per altro, comprese la reale ragione della richiesta solo quando seppe che il DENARO era stato ucciso poco dopo che egli aveva portato l’informazione al D’AMICO.
Nei mesi successivi quest’ultimo informò il GIACALONE, il quale aveva cominciato a frequentare assiduamente l’appartamento in via Colaianni dove il primo stava abitualmente, che doveva essere eliminato RODANO Antonio, e contestualmente gli chiese se se era disponibile ad aiutarli. Il collaboratore, in effetti, fornì un appoggio, anche se prevalentemente passivo, all’esecutore materiale del delitto, Antonio PATTI (cfr., per l’episodio in parola, la scheda dedicata al medesimo, in Parte IV, Capitolo I).
Quindici o venti giorni dopo l’omicidio RODANO il GIACALONE fu “combinato” in casa di D’AMICO Vincenzo, alla presenza dello stesso rappresentante della “famiglia” di Marsala, di suo fratello Gaetano, del PATTI e di Vito MARCECA, mentre il TITONE, che inizialmente era presente, se ne andò, dato il legame di parentela che lo univa al soggetto che doveva essere affiliato.
Dopo averlo “combinato” con la cerimonia tradizionale della “punciuta” e della pronuncia del giuramento tenendo in mano un santino in fiamme, Vincenzo D’AMICO gli raccomandò di essere sempre fedele alla “famiglia” e di essere cortese e corretto con la gente. Gli presentò inoltre ritualmente i presenti, che egli già conosceva, pur senza sapere che erano “uomini d’onore”.
Negli anni successivi il GIACALONE fu coinvolto in qualità di killer in numerosi omicidi commessi sia ad Alcamo che nel mandamento di Mazara del Vallo nell’ambito della guerra di mafia contro la fazione avversa agli emergenti “corleonesi”, nonché all’eliminazione di numerosi personaggi invisi alla cosca mafiosa marsalese.
Il suo ruolo all’interno della consorteria criminale rimase sempre quello di sicario, sebbene avesse buoni rapporti con tutti i membri della consorteria, ad eccezione di D’AMICO Vincenzo, con il quale ebbe un diverbio nel 1991, quando rifiutò di recarsi a Castellammare del Golfo per commettere un omicidio, in quanto non voleva lasciare sola la moglie durante il parto. Dopo questo fatto temette per la sua vita, fino a quando, dopo l’assassinio del D’AMICO, il PATTI, che era divenuto reggente della cosca, lo tranquillizzò, assicurandolo che a Mazara del Vallo l’episodio era stato giudicato irrilevante e che anzi AGATE Mariano lo aveva difeso dalle accuse del D’AMICO, quando questi aveva chiesto che fosse ucciso. In particolare, a detta del PATTI, l’AGATE aveva sostenuto che il collaboratore aveva avuto ragione a volere assistere la moglie in un parto difficile e che il rappresentante di Marsala avrebbe dovuto incaricare altri dell’omicidio.
Durante la guerra di mafia di Marsala del 1992 il GIACALONE rimase in una posizione defilata, dato che il GANCITANO e il PATTI preferirono servirsi di persone “vicine”, ma non affiliate, all’associazione, non fidandosi pienamente degli “uomini d’onore” del paese dopo gli omicidi dei fratelli D’AMICO e CAPRAROTTA.
Tuttavia, il collaboratore rimase inserito a pieno titolo nell’organizzazione mafiosa, tanto che dopo il suo arresto continuò a percepire lo “stipendio” passatogli dalla cosca e a godere della stima e della confidenza degli altri “uomini d’onore” incarcerati insieme a lui.
La decisione del GIACALONE di collaborare con la giustizia nacque durante la sua detenzione nel corso del procedimento a carico di Antonio PATTI e altri quaranta imputati.
Nell’ambito dello stesso giudizio era detenuto nel carcere di Trapani e imputato del delitto di associazione a delinquere anche suo fratello Antonino. Nel corso di un colloquio con quest’ultimo, il loro padre lo invitò a intraprendere una collaborazione con la giustizia. Evidentemente queste esortazioni furono intese da altri detenuti, i quali le riferirono a PICCIONE Michele e RALLO Antonino, detto “Vito”, detenuti rispettivamente il primo nella cella n.2 e il secondo in quella n.1, insieme a Salvatore e Antonino GIACALONE, a RALLO Vito Vincenzo, a ZERILLI e a un sesto individuo.
Un giorno il PICCIONE e il RALLO, con i quali l’odierno collaboratore era in confidenza, lo avvicinarono nel corso dell’ora d’aria e gli raccontarono ciò che era successo. Egli in un primo momento rispose che non era possibile, poi, dopo avere parlato con il fratello che gli confermò la veridicità del fatto, riferì ai due uomini che in effetti l’episodio era reale. In quest’ultima occasione, PICCIONE e RALLO Antonino gli dissero che essi non potevano fare nulla per ovviare alla situazione del padre e del cognato di GIACALONE, GIGANTE Innocenzo, anch’egli collaboratore, di cui avevano chiesto notizie allo stesso GIACALONE per sapere dove era nascosto. Per altro, aggiunsero che, trattandosi di una faccenda di carattere personale sua, toccava a lui “sistemarla” e che poteva parlarne col fratello per averne aiuto. In effetti GIACALONE raccontò l’accaduto e l’esortazione che aveva ricevuto ad Antonino, il quale rimase sconvolto.
Questo episodio gli consentì di capire che all’interno di “cosa nostra” c’era solo “marciume” e cominciò a maturare la decisione di collaborare con la giustizia. Per altro, mise in atto il suo proposito solo il 16 o il 17 settembre 1996, dopo il suo trasferimento nel carcere di Cuneo avvenuto alla fine del dibattimento di primo grado del processo “Patti + 40” (nel quale aveva riportato la condanna a dodici anni di reclusione per associazione mafiosa), perché se si fosse “pentito” mentre era in Sicilia la notizia sarebbe divenuta subito di dominio pubblico e in tal modo sarebbe stata messa a repentaglio la sicurezza della sua famiglia.
Concluso questo rapido excursus sulla storia criminale del GIACALONE può passarsi alla valutazione dell’attendibilità dello stesso.
Sotto il profilo della credibilità intrinseca, si deve evidenziare in primo luogo che la circostanza che la decisione del collaboratore di tagliare i ponti con il suo passato criminale sia stata determinata dal disgusto per la mentalità imperante all’interno di “cosa nostra” induce a ritenere ancora più verosimile che le sue dichiarazioni siano genuine e veritiere.
Del resto, la sincera volontà del GIACALONE di collaborare con la giustizia ha trovato un’ulteriore, significativa conferma nell’atteggiamento di piena apertura immediatamente dimostrato dallo stesso. Egli, infatti, non ha esitato ad autoaccusarsi di molti e gravi omicidi, in ordine ad alcuni dei quali non era neppure sospettato, in quanto il PATTI, che all’epoca era il suo unico accusatore, non lo aveva indicato tra i suoi correi o aveva negato che, pur essendo presente alla fase esecutiva, fosse a conoscenza del proposito omicidiario (vedi rispettivamente, come esempi, gli omicidi RODANO e PERRICONE).
Il collaboratore, inoltre, ha sempre risposto in maniera lucida e costante alle domande postegli dalle parti, senza cadere in gravi contraddizioni.
Le sue propalazioni hanno avuto ad oggetto soprattutto circostanze che il GIACALONE conosceva direttamente. D’altra parte, nei casi non frequenti in cui ha riferito fatti appresi de relato ha sempre precisato che le sue fonti erano altri membri -sempre nominativamente indicati- dell’associazione mafiosa, i quali non avrebbero avuto ragione alcuna di riferirgli il falso in considerazione della comune militanza in “cosa nostra” e della solida amicizia che legava il collaborazione ad alcuni di essi (e in particolare al PATTI e al TITONE).
Infine, mai il GIACALONE ha mostrato di nutrire inimicizia o rancore nei confronti di qualcuno degli odierni imputati, né è stata addotta da chicchessia l’esistenza di contrasti tali da indurlo a lanciare nei loro confronti accuse infondate.
Sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca del collaboratore in esame, deve rilevarsi che le dichiarazioni dello stesso hanno trovato puntuali conferme in quelle di altri dichiaranti, quali -per limitarsi al presente giudizio- il PATTI, il SINACORI, il BRUSCA, il FERRO. D’altra parte, le modeste discrasie che sono talvolta emerse tra le propalazioni del GIACALONE e quelle di altri, non solo non hanno inficiato la sua credibilità, ma al contrario, ne hanno ulteriormente esaltato la genuinità.
Inoltre, le sue affermazioni hanno trovato molteplici riscontri oggettivi, dei quali si darà conto nelle parti relative ai singoli episodi o soggetti a cui gli stessi attengono.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il giudizio sull’attendibilità del GIACALONE deve essere pienamente positivo.
BONO PIETRO
Pietro BONO è stato esaminato nella qualità di imputato di reato connesso nelle udienze del 15 aprile e 27 maggio 1998 e del 20 gennaio e del 21 aprile 1999 dal P.M.. È stato inoltre controesaminato dai difensori degli imputati e riesaminato dal P.M. alle udienze del 12 e 26 maggio 1999 e dell’8 novembre 1999. È stato infine escusso ai sensi dell’art.507 c.p.p. all’udienza del 9 febbraio 2000.
Le propalazioni del BONO nel presente procedimento hanno avuto ad oggetto essenzialmente gli omicidi di VENTO e TUMMARELLO e di LOMBARDO Gaspare (limitatamente ad alcune notizie de relato) e la complessa vicenda che si concluse con l’assassinio di Natale L’ALA, oltre a notizie relative a taluni imputati. Pertanto, in questa sede ci si limiterà a un brevissimo excursus delle sue dichiarazioni, rinviando alla parte speciale per resoconti più dettagliati del contenuto delle rivelazioni del collaboratore in parola.
Il BONO ha riferito che fin da ragazzo fu molto legato a PASSANANTE Alfonso, il quale era amico di suo padre e fu suo padrino di cresima. Stava sovente in sua compagnia, accompagnandolo spesso in campagna, ma apprese della sua appartenenza a “cosa nostra” solo all’età di tredici o quindici anni circa da suo padre. Successivamente, all’età di sedici o diciassette anni, lo stesso PASSANANTE, pur senza confidargli espressamente il fatto, glielo fece capire: del resto, a Campobello di Mazara, la presenza mafiosa era assai radicata e diffusa, cosicchè egli, sebbene fosse molto giovane, era a conoscenza dell’esistenza dell’associazione.
Il BONO non venne mai affiliato perché egli stesso rifiutò una proposta in tal senso avanzata da Calogero MINORE, in un’occasione in cui si era recato a casa di PASSANANTE Alfonso. Tuttavia, fu sempre “vicino” all’associazione, prestandosi, quando ne veniva richiesto (come nel caso del secondo tentativo di omicidio di L’ALA Natale), a collaborare con gli “uomini d’onore” nella perpetrazione di reati e instaurando con alcuni di essi (e in particolare con AGATE Mariano) rapporti economici connessi alla sua attività di produttore di vini o assicurando ad altri ingenti guadagni attraverso fittizie compartecipazioni nella sua azienda.
Negli anni successivi conobbe molti “uomini d’onore” di Campobello, e in particolare instaurò stretti vincoli di amicizia con BONAFEDE Leonardo e SPEZIA Nunzio (di cui era parente, avendone sposato una prima cugina nel 1961-62). Questi ultimi e il loro padrino avevano stima e fiducia in lui e pertanto lo informavano sui componenti dell’organizzazione, sui loro rapporti reciproci, sulle attività della consorteria criminale (per ciò che concerne in particolare la guerra di mafia che fu combattuta a Campobello negli anni ’50, cfr. retro, Parte I, Capo II).
Il collaboratore, nel corso delle sue deposizioni ha ricostruito la storia della cosca del suo paese, raccontando che dopo la morte del MARGIOTTA (anziano capomafia originario di Campobello di Mazara, ma residente a Palermo), il comando passò a BONAFEDE Leonardo, il quale guidava anche le “famiglie” di Poggioreale, Salaparuta e Partanna. Costui mantenne il ruolo di rappresentante per diversi anni, ma poi -a quanto fu riferito al BONO da SPEZIA Nunzio, PASSANANTE Alfonso, LOMBARDO Gaspare e LUPPINO Francesco- venne esautorato a causa della sua amicizia con Totò MINORE. Dopo la “posata” del BONAFEDE (il quale, per altro, successivamente venne nuovamente inserito a pieno titolo in “famiglia”) capo della cosca divenne SPEZIA Nunzio.
Ha inoltre indicato i nomi degli esponenti della consorteria criminale, ricomprendendo nella stessa, oltre ai personaggi già nominati, tra gli altri SPEZIA Vincenzo, figlio di Nunzio, LOMBARDO Gaspare, LUPPINO Francesco, i fratelli ALFANO Calogero e Nicola, nonché GENTILE Salvatore, genero del BONAFEDE. Ha precisato altresì che era “vicino” alla “famiglia” anche URSO Raffaele, il quale, sebbene non fosse “punciuto”, era tenuto in alta considerazione per le sue doti di killer.
Il BONO ha affermato di avere subito nella sua vita vari procedimenti penali, riportando condanne per il reato di importazione di vini da paesi extracomunitari e per il tentato omicidio di Natale L’ALA. All’esito di un processo iniziato nel 1993 e concluso nel 1995 con una sentenza della Corte di Cassazione venne invece assolto per il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso. Incominciò a collaborare con la giustizia nel giugno 1996, ammettendo di essere stato da sempre “vicino” a “cosa nostra”.
Esaurita questa breve disamina della dichiarazioni del BONO, si deve passare a valutare l’attendibilità, sotto il profilo intrinseco ed estrinseco, delle sue dichiarazioni.
Il collaboratore ha svolto attività imprenditoriale di produttore di vino fin dal 1968, quando costituì una società con un tale DI STEFANO di Campobello di Mazara (arrestato sulla base delle dichiarazioni dello stesso BONO), denominata “Campobello Vini”. Successivamente gli stessi individui crearono la “BONO e DI STEFANO” e i rapporti d’affari tra i due continuarono inalterati negli anni, anche se mutarono parecchie volte la ragione sociale e i soci nominali, essendo uscito dal novero degli stessi il BONO ed essendovi entrati dapprima la moglie e poi il figlio (cfr. deposizione resa dal mar. SANTOMAURO all’udienza del 20 novembre 1995 nell’ambito del più volte citato procedimento a carico di ACCARDI Gaetano e altri).
Nonostante svolgesse siffatta attività apparentemente lecita, era noto da tempo agli inquirenti come soggetto gravitante nell’orbita di “cosa nostra”.
In particolare, egli era stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale per il periodo di tre anni con provvedimento emesso il 7 gennaio 1987 dal Tribunale di Trapani.
Aveva inoltre subito numerosi periodi di detenzione: era stato arrestato a Desenzano del Garda, in Sicilia e in Toscana (il 19 ottobre 1974 la Procura della Repubblica di Livorno aveva emesso un ordine di cattura nei confronti del BONO che rimase latitante fino all’11 giugno 1975, quando si costituì nel carcere di Livorno, venendo scarcerato due giorni dopo per la concessione della libertà provvisoria). Infine, intratteneva rapporti d’affari con la cantina facente capo ai fratelli AGATE (cfr. deposizione resa dal mar. SANTOMAURO all’udienza del 20 novembre 1995 nell’ambito del più volte citato procedimento a carico di ACCARDI Gaetano e altri).
Prima dell’inizio della sua collaborazione, infine, aveva già riportato una condanna per il secondo tentativo di omicidio nei confronti del L’ALA, mentre era stato assolto dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Nondimeno, egli ha lealmente ammesso fin da subito le sue responsabilità con riferimento a quest’ultimo reato e si è autoaccusato di altri episodi criminosi di cui non era neppure sospettato.
Il collaboratore, inoltre, ha sempre risposto in maniera lucida e coerente alle domande postegli dalle parti, dimostrando un’attitudine mentale alla piena collaborazione con tutte le parti processuali nel tentativo di fare piena luce sui fatti di causa.
Nelle sue audizioni, poi, ha riferito solo circostanze di cui era a conoscenza diretta ovvero che gli erano state raccontate da “uomini d’onore”, i quali non avevano alcuna ragione di mentirgli, in considerazione sia dei rapporti di amicizia che li legavano al BONO, sia della totale disponibilità sempre dimostrata da costui nei confronti delle loro richieste di collaborazione, sia, infine, della spontaneità delle confidenze che gli facevano per la stima e la fiducia che riponevano in lui.
Infine, il collaboratore non ha mostrato motivi di acredine nei confronti degli imputati che ha accusato, nei confronti dei quali non è stato addotto che abbia avuto alcun dissidio tale da indurlo a lanciare accuse infondate, limitandosi alla stretta narrazione dei fatti, senza cadere in indiscriminate accuse. Al contrario, egli ha tenuto a precisare di essere legato da vincoli di amicizia di antica data nei confronti di alcuni di essi, non incrinata neppure da gravi dissidi talvolta creatisi, e di dovere addirittura la vita all’intervento di AGATE Mariano, il quale lo salvò dai progetti omicidiari del PASSANANTE, originati proprio da un contrasto di carattere personale. Sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca del BONO, deve rilevarsi che le dichiarazioni dello stesso hanno trovato puntuali conferme in quelle di altri dichiaranti, quali -per limitarsi al presente giudizio- il PATTI, il SINACORI, il BRUSCA, il FERRO, il GERACI, il GIACALONE. D’altra parte, le modeste discrasie che sono talvolta emerse tra le propalazioni del BONO e quelle di altri (sempre per altro su circostanze di rilievo del tutto secondario), non solo non hanno inficiato la sua credibilità, ma al contrario, ne hanno ulteriormente esaltato la genuinità.
Le propalazioni del BONO sono state confermate altresì da numerosi altri riscontri di natura obiettiva, che per ragioni di brevità verranno riportati nei paragrafi dedicati espressamente agli episodi e ai prevenuti a cui attengono.
Sulla base delle suesposte considerazioni, non può che esprimersi un giudizio pienamente positivo sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del BONO.
GERACI FRANCESCO
Francesco GERACI, nato a Castelvetrano il 1 gennaio 1964, è stato esaminato dal P.M. nelle udienze del 7 ottobre 1998 e dell’8, 14 e 20 gennaio 1999 ed è stato controesaminato dalla difesa e riesaminato dal P.M. in quelle del 17, 23 e 24 giugno 1999 e del 10 novembre 1999. In quest’ultima udienza ha altresì sostenuto un confronto con CIACCIO Leonardo
Sono state acquisite altresì le dichiarazioni rese dallo stesso prevenuto:
– all’udienza dell’11 dicembre 1996 nell’ambito del procedimento contro AGRIGENTO Giuseppe e altri celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Palermo, utilizzabili -non essendo intervenuto il consenso dei difensori degli altri prevenuti ex art.238 c.IV c.p.p.- solo nei confronti di ALCAMO Antonino, BRUSCA Giovanni, BRUNO Calcedonio, CASCIO Antonino, FERRO Giuseppe, GERACI Francesco, LA BARBERA Gioacchino, LEONE Giovanni, MADONIA Salvatore, MESSINA DENARO Matteo, RIINA Salvatore, SINACORI Vincenzo, GANCITANO Andrea, ai sensi del comma II bis della norma citata;
– all’udienza del 16 settembre 1997 nell’ambito del processo a carico di AGATE Giuseppe e altri celebrato dinnanzi al Tribunale di Marsala, utilizzabili ex art.238 c.p.p. nei confronti di MESSINA DENARO Matteo e NASTASI Antonino.
Il GERACI ha riferito che conosceva fin dall’infanzia MESSINA DENARO Matteo, con il quale era compagno di giochi.
Pur rimanendo sempre buoni conoscenti, durante l’adolescenza i loro rapporti diminuirono in intensità, per riprendere nuovamente nel 1989, quando ricominciarono a frequentarsi, dato che entrambi erano soci del circolo culturale Luigi Pirandello.
Un giorno il GERACI -esasperato dal fatto che i suoi fratelli Andrea e Tommaso, insieme ai quali gestiva un esercizio di oreficeria all’ingrosso, e la loro sorella Giovanna, che aveva un negozio di vendita al dettaglio di gioielli, erano stati rapinati e un loro dipendente era stato addirittura sequestrato sullo scorrimento veloce di Agrigento, e temendo che la cosa si ripetesse- confidò a MESSINA DENARO Matteo aveva l’intenzione di “prendere a pugni” un tizio che si aggirava fuori dal suo negozio. La scelta di rivolgersi proprio al suo amico d’infanzia fu dettata dalla consapevolezza del fatto, noto a tutti a Castelvetrano, che suo padre Francesco, detto “zio Ciccio”, era un mafioso di rango.
Dopo circa una settimana Matteo MESSINA DENARO andò a casa sua e gli disse che a quella persona la faccia l’avrebbero rotta insieme ed egli lo ringraziò mettendosi a disposizione dell’amico per qualsiasi cosa.
Da allora il GERACI funse spesso da autista al MESSINA DENARO, che all’epoca non passava più le notti a casa.
Dapprima l’“uomo d’onore” lo coinvolse in alcuni incendi di abitazioni, poi in un primo omicidio a Santa Ninfa (CAPO Giuseppe). Dopo quest’ultimo crimine il collaborante ebbe un ripensamento e un giorno al circolo disse a MESSINA DENARO Matteo che doveva andare a Vicenza o ad Arezzo per lavoro; quando ebbe pronunciato queste parole si avvide che CLEMENTE dapprima guardò MESSINA DENARO “come per dire: che vuol fare questo” e poi gli fece presente che se voleva tirarsi indietro lo doveva dire subito. A quel punto egli decise di rimanere, temendo per la propria incolumità. Partecipò complessivamente a sei omicidi e a un tentato omicidio, ma fu arrestato per un fatto di cui non sapeva nulla, cioè l’assassinio di BONOMO Antonella.
Il GERACI non venne mai affiliato, ma MESSINA DENARO Matteo gli disse che era più importante di un uomo d’onore, alludendo al fatto che era stato coinvolto nel viaggio a Roma per l’attentato a Maurizio COSTANZO.
Non faceva domande, tranne, talvolta, su fatti in cui era coinvolto personalmente, poiché aveva capito che in quell’ambiente non si doveva chiedere nulla. Per altro, in occasione del primo omicidio a Santa Ninfa, chiese perché erano dovuti andare loro e non ci avevano pensato direttamente i locali e Giuseppe CLEMENTE gli rispose domandandogli come poteva non accorgersi che lì erano tutti vecchi e non avere capito che da Castelvetrano si comandava tutta la provincia.
Data la sua sostanziale estraneità alla struttura mafiosa, non era informato sull’organizzazione e non sa come fossero attribuiti i ruoli all’interno della stessa, né che posizione avessero il CLEMENTE e Leonardo CIACCIO, anche se il primo appariva più in confidenza di loro con il MESSINA DENARO, il quale talvolta si appartava con lui e mai con il GERACI e con il CIACCIO. In ogni caso, il MESSINA DENARO dopo il primo omicidio gli fece conoscere altri “uomini d’onore”, che gli presentava come “brave persone”, indicazione che gli faceva comprendere che erano mafiosi.
Intorno al MESSINA DENARO si coagulò ben presto un gruppo di amici inseparabili, composto, oltre che dal figlio dell’allora capo mandamento, dal GERACI, da Giuseppe CLEMENTE e da Leonardo CIACCIO, detto “Nanà”, che in precedenza il collaboratore conosceva solo di vista, in quanto anch’essi frequentavano il circolo. Il primo gestiva un distributore di benzina in via Campobello a Castelvetrano e il secondo aveva un impresa di movimento terra.
I quattro giovani si incontravano assiduamente nel “Circolo PIRANDELLO” di Castelvetrano, ma avevano anche altri luoghi di convegno, quali la pompa di benzina AGIP del CIACCIO sita a circa Km.1,5 di distanza dal centro abitato di Castelvetrano lungo la strada che conduce a Campobello di Mazara e al casello autostradale di Mazara del Vallo, il locale di vendita all’ingrosso di gioielli del GERACI, i ristoranti “Pierrot” di Castelvetrano e “Baffo” di Selinunte. Per un certo periodo, fino al 1990 o 1991, il gruppo frequentò assiduamente l’hotel “Paradise Beach” di Selinunte, nel quale lavorava una ragazza austriaca, Andrea o “Asi”, che aveva intrecciato una relazione con MESSINA DENARO Matteo (su quest’ultima vicenda ci si soffermerà ampiamente in seguito, quando si tratterà dell’omicidio di CONSALES Nicola).
Il MESSINA DENARO fece conoscere al GERACI molti importanti personaggi di “cosa nostra”, tra i quali lo stesso RIINA.
Il collaboratore vide il capo di “cosa nostra” tre volte, sempre nel suo negozio di vendita di gioielli all’ingrosso.
Nella prima occasione erano presenti il GERACI e MESSINA DENARO Matteo. Dapprima entrarono quest’ultimo e il RIINA (il quale era stato accompagnato da Pietro GIAMBALVO), mentre gli altri due attesero fuori, poi fu chiamato anche il GERACI. In quella circostanza venne a sapere che l’azienda agricola di Zangara –che, come si vedrà in seguito, egli si era intestato su richiesta di MESSINA DENARO Matteo e per fare un piacere a costui- era in realtà del RIINA. Con riferimento a tale fondo, il boss di Castelvetrano gli disse che, dato che rischiavano di morire, doveva confidare a uno dei suoi congiunti che la proprietà era sua solo nominalmente e il collaboratore decise di parlarne a suo fratello Andrea.
Anche in occasione del secondo incontro, il RIINA arrivò accompagnato dal GIAMBALVO. Erano presenti altresì Totò GANCI di Sciacca, Peppe LA ROCCA di Montevago e Peppe CAPIZZI di Ribera, tutte persone che MESSINA DENARO Matteo incontrava spesso a Sciacca, dove molte volte lo accompagnava lo stesso GERACI. Quest’ultimo fece accomodare gli ospiti nell’appartamento, preparò loro il caffè e scese al piano di sotto, nel locale di vendita all’ingrosso, da dove sentì il RIINA urlare che avrebbe rotto le corna a “tutti e due”. Quando gli ospiti se ne furono andati, chiese al MESSINA DENARO che cosa fosse successo e l’altro, quando seppe che aveva sentito le urla, gli confidò che il RIINA li aveva sgridati perché avevano avuto problemi di appalti o di altro. Il MESSINA DENARO in quel frangente criticò il capomafia di Corleone, osservando che era solito trattare male le persone, nonostante fossero “uomini d’onore” di un certo livello.
La terza volta in cui lo vide, invece, il RIINA si recò nel suo negozio in compagnia della moglie e delle due figlie, sempre accompagnato da Pietro GIAMBALVO. Anche in questo caso era presente Matteo MESSINA DENARO. In quel frangente i RIINA scelsero alcuni preziosi e li acquistarono, inoltre gli portarono una valigetta contenente i gioielli della loro famiglia. La borsa si chiudeva con una chiave e il RIINA voleva lasciargliela, ma il collaboratore declinò l’invito, chiedendo all’altro che la tenesse lui. Aprirono la valigia per un breve lasso di tempo e il GERACI non potè vedere tutti i gioielli: notò orologi, circa 400 monete, brillanti e altro. L’idea di lasciare i gioielli nella sua custodia era venuta a RIINA, in quanto nel corso del loro primo incontro egli aveva rivelato ai due boss che nell’ingrosso c’era un caveau elettronico molto sofisticato, la cui esistenza era insospettabile e per il quale il RIINA, dopo averlo visto, gli aveva fatto i complimenti. Del resto, gli incontri avvenivano nel suo ingrosso proprio perché, in caso di blitz, RIINA avrebbe potuto nascondersi all’interno del caveau. Già prima dell’occasione in parola, per altro, Matteo MESSINA DENARO gli aveva consegnato alcuni lingotti d’oro, sempre di proprietà del RIINA.
Dopo un certo periodo di tempo, il GERACI spostò di sua iniziativa e all’insaputa dei due capimafia la valigetta e i lingotti, in quanto per ragioni fiscali (aveva troppi beni intestati: azienda agricola, magazzino ricambi) aveva deciso di cedere l’attività di vendita all’ingrosso a suo fratello Andrea e temeva che potessero per qualunque ragione essere scoperti. Decise di portarli nell’appartamento di sua madre, all’interno del quale, oltre a una normale cassaforte, avevano deciso di installare in un sottoscala una botola che si apriva togliendo una mattonella con una ventosa. Nel cavo formato in tale modo, al cui interno i membri della sua famiglia avevano già nascosto loro beni personali, occultò anche quelli del RIINA.
Nel 1990 o 1991, alcuni mesi prima dell’omicidio, all’hotel “Paradise Beach”, Matteo MESSINA DENARO presentò al GERACI, al CIACCIO e al CLEMENTE Giovanbattista FERRANTE, il quale stava trascorrendo un periodo di ferie nell’albergo con la propria famiglia e con altre persone e che il MESSINA DENARO descriveva come un suo amico. I due odierni collaboratori si incontrarono nuovamente a Palermo, molto tempo dopo il delitto CONSALES.
Nel 1991 il GERACI conobbe Salvatore BIONDINO, avendo accompagnato varie volte Matteo MESSINA DENARO a Palermo in occasione di incontri tra i due uomini. Il BIONDINO abitava in una strada stretta vicino all’allora “Silos” e all’odierna “Città Mercato”; di solito il collaboratore rimaneva un poco distante con la macchina, mentre MESSINA DENARO si addentrava a piedi nella stradina per raggiungere l’abitazione del BIONDINO. Spesso i due uomini ritornavano insieme e a volta l’uomo d’onore palermitano offriva loro un caffè o comprava loro alcune paste.
In una sola occasione il GERACI entrò nell’abitazione del BIONDINO, quando si svolse la riunione per preparare l’attentato a Roma contro Maurizio COSTANZO. Erano presenti, oltre al padrone di casa, Matteo MESSINA DENARO, Vincenzo SINACORI, Giuseppe GRAVIANO, Fifetto CANNELLA e Renzo TINNIRELLO. Il GERACI non assistette alla discussione, ma quando se ne andarono, Matteo MESSINA DENARO gli comunicò che dovevano andare a Roma per l’attentato a Maurizio COSTANZO. In effetti i sei uomini si recarono nella capitale: il GERACI e il SINACORI partirono in aeroplano, il MESSINA DENARO e il TINNIRELLO in treno e il CANNELLA e il BIONDINO in un modo che il “pentito” non ha saputo precisare. Quando il GERACI e il SINACORI arrivarono nella capitale raggiunsero in taxi la stazione Termini, dove affittarono un’automobile utilizzando la carta di credito del primo. Quindi si recarono poi un appartamento sporco e fatiscente, che lasciarono nel primo pomeriggio per raggiungere la fontana di Trevi, luogo fissato per l’incontro con i complici. Dopo che si furono riuniti andarono dallo SCARANO, che trovò loro un altro appartamento. Il collaboratore castelvetranese nel corso della sua permanenza a Roma acquistò una sahariana, oltre ad alcune camice per sé e ad altre che regalò a SINACORI, pagandole con la carta di credito.
Tramite il MESSINA DENARO, il collaboratore conobbe anche Antonio SCARANO.
Lo vide per la prima volta nel suo locale di vendita all’ingrosso, dove lo SCARANO sopraggiunse in compagnia di GARAMELLA, alla presenza di MESSINA DENARO Matteo e del dottor Vincenzo PANDOLFO. Questi ultimi si appartarono con lo SCARANO nel retrobottega e, quando ne uscirono, il boss di Castelvetrano invitò il GERACI a consegnare allo SCARANO la somma di £.20.000.000, che doveva servire per affittare una casa a Roma per il RALLO (che in effetti poi si recò nella capitale), dato che in quel periodo dovevano essere emessi mandati di cattura contro lo stesso RALLO e il PANDOLFO. In un’occasione il MESSINA DENARO chiese anche al GERACI, al CLEMENTE e al CIACCIO se avessero una casa disponibile per loro, ricevendo una risposta affermativa dal collaboratore, che aveva una casa a Triscina vuota. Il MESSINA DENARO accolse la proposta, ma si raccomandò che non andasse lui stesso a portargli da mangiare, poiché temeva che fosse pedinato. Il GERACI, allora, fece una spesa molto ricca prima del loro arrivo con denaro consegnatogli dal MESSINA DENARO e mandò suo padre a portare le provviste, nascondendogli per altro la reale identità dei suoi ospiti.
Il GERACI conobbe altresì Paolo FORTE, in compagnia del quale in un’occasione si recò a Roma per prendere in locazione un appartamento che, a quanto gli confidò il MESSINA DENARO, fu usata prima dal RALLO e poi dal GARAMELLA. Il FORTE era una persona che voleva prendere in gestione un distributore IP allo svincolo di Castelvetrano e, poiché temeva che lo volessero acquistare persone di Paceco che avevano molte altre pompe IP nella zona e che l’azienda petrolifera preferisse darla a questi ultimi, chiedeva sovente al MESSINA DENARO di interessarsi perché i Pacecoti non se lo assicurassero, cosa che l’“uomo d’onore” fece effettivamente, consentendo al FORTE di assicurarsi la gestione del distributore. Durante la sua latitanza il capomafia di Castelvetrano aveva il documento del FORTE e usava il suo nome e cognome, come il collaboratore potè vedere personalmente.
GARAMELLA Giuseppe gli fu presentato dal MESSINA DENARO, il quale gli riferì che il primo aveva bisogno di una bella macchina per il giorno dopo. Il GERACI offrì la sua Mercedes, ma la proposta fu rifiutata perché aveva il cambio automatico e GARAMELLA non lo sapeva usare. Il MESSINA DENARO gli chiese se poteva interessarsi con suo fratello Tommaso perché gli prestasse la sua autovettura, sempre di marca Mercedes; naturalmente Tommaso acconsentì alla richiesta e il GARAMELLA tenne l’automobile per due o tre giorni. In seguito vide quest’ultimo molte volte: il MESSINA DENARO lo descriveva come un buon ragazzo e una persona disponibile. GARAMELLA stava sempre con Paolo FORTE, poiché gestiva il bar e il lavaggio allo svincolo di Castelvetrano, dove l’altro aveva la pompa di benzina e dove il GERACI andava spesso allo svincolo.
Il collaboratore ha infine rivelato che Matteo MESSINA DENARO ebbe nella propria disponibilità vari cellulari, uno dei quali era intestato a Raimondo MONACHINO, mentre un altro era in capo a un dipendente del GERACI, tale Massimo BIANCO. Infatti, quando il MESSINA DENARO gli comunicò che cercava una persona a cui intestare un cellulare, il GERACI provvide ad accendere un’utenza al nome del suo dipendente e a consegnare l’apparecchio all’amico, all’insaputa del BIANCO, al quale aveva detto che serviva a lui).
Terminato questo resoconto necessariamente conciso e parziale delle propalazioni del GERACI (per le quali si rinvia altresì ai paragrafi dedicati ai singoli episodi criminosi dei quali il collaboratore si è autoaccusato e ai personaggi a cui di volta ha riferito notizie) è possibile addentrarsi nella valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca del medesimo.
Francesco GERACI era da tempo noto agli inquirenti come soggetto che frequentava quasi giornalmente MESSINA DENARO Matteo, CIACCIO Leonardo e CLEMENTE Giuseppe (cfr. deposizione del dottor Matteo BONANNO all’udienza del 15 gennaio 1999 e a quella del 12 gennaio 1998 nel procedimento a carico di AGATE Giuseppe e altri).
Nel giugno 1994 il GERACI fu denunciato insieme al fratello Andrea, nato a Castelvetrano il 7 maggio 1952, per detenzione illegale di cartucce calibro 38 special a espansione.
La prima ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti fu emessa nel procedimento contro AGRIGENTO Giuseppe e altri per l’omicidio di BONOMO Antonella e al provvedimento seguì l’arresto nel giugno del 1994. Nel giugno del 1996 l’odierno collaboratore venne colpito dal secondo provvedimento custodiale nell’ambito del procedimento “Selinus” con l’imputazione di associazione mafiosa, nella quale venivano presi in esame, nell’ambito di una indagine volta alla cattura di Matteo MESSINA DENARO, i suoi rapporti con lo stesso MESSINA DENARO, Paolo FORTE cl.1959, Giuseppe GARAMELLA cl.1948, Giuseppe GRIGOLI cl.1949, Antonino NASTASI, Alfio MASSIMINO, Fortunato LUMINARIO e altri, tutti arrestati nel medesimo procedimento.
Il GERACI iniziò a collaborare nel settembre del 1996 con l’Autorità Giudiziaria palermitana, autoaccusandosi di sei omicidi (CALVARUSO Pietro, CAPO Giuseppe, CONSALES Nicola, LOMBARDO Gaspare, MARTINO Giovanni e TRIPOLI Nicolò) e consentendo di ritrovare ingenti quantitativi di preziosi che ha affermato di essere di proprietà della famiglia di Salvatore RIINA. Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, il collaboratore indicò due nascondigli uno nell’abitazione e l’altro nell’ufficio vendita dell’ingrosso del GERACI. Nell’abitazione c’era un piccolo vano ricavato sotto il pavimento di un sottoscala, a cui si accedeva asportando una piastrella dal pavimento tramite una ventosa; in esso gli inquirenti rinvennero un grande campionario di gioielli di svariata fattura, migliaia di sterline d’oro, orologi per il valore di decine di milioni, medagliette con dedica ai figli di RIINA, crocefissi tempestati di pietre preziose; nella gioielleria invece tramite uno scorrimento automatico si accedeva a un vano in grado di ospitare due o tre persone celato sotto la gioielleria (cfr. deposizione LINARES del 23 gennaio e 14 febbraio 1997 nel procedimento a carico di ACCARDI Gaetano e altri e verbale di rinvenimento e sequestro del 27 settembre 1996).
Il GERACI è stato il primo, e fino ad oggi l’unico, collaboratore di giustizia “vicino” alla cosca di Castelvetrano. Pertanto, sebbene lo stesso non abbia una conoscenza approfondita della struttura e della composizione della “famiglia” del suo paese d’origine non essendo stata formalmente affiliato alla stessa, le sue dichiarazioni hanno fornito un apporto assai rilevante al lavoro degli investigatori, consentendo loro di apprendere notizie sul mandamento comandato dai MESSINA DENARO, su attività criminose e su speculazioni apparentemente lecite in cui questi ultimi erano coinvolti, oltre che sull’ambiente in cui costoro, e soprattutto Matteo, si muovevano e sulle amicizie e i rapporti su cui facevano affidamento.
Ha immediatamente dimostrato la sua disponibilità a instaurare una piena e leale collaborazione con l’Autorità Giudiziaria, da un lato addossandosi la responsabilità di gravissimi delitti (tra cui anche alcuni omicidi) dei quali non era neppure sospettato e dall’altro lato consentendo il ritrovamento di molti oggetti preziosi appartenenti al RIINA.
D’altra parte, la sostanziale estraneità del GERACI allo spirito dell’associazione mafiosa -affermata dallo stesso collaboratore, il quale ha tenuto a precisare di essersi avvicinato al MESSINA DENARO, della cui famiglia conosceva la caratura criminale, spinto dall’esigenza di impedire che i suoi fratelli e i suoi dipendenti subissero altre rapine- gli ha verosimilmente facilitato la decisione di aprirsi totalmente con gli inquirenti.
Siffatta attitudine mentale di piena e sincera collaborazione è evincibile dal tenore stesso delle dichiarazioni del GERACI nei vari processi in cui è stato esaminato, atteso che le stesse sono state sempre state costanti, coerenti, dettagliate e intrinsecamente logiche.
Un tale giudizio non può che essere confermato con riferimento al presente procedimento, nel quale il collaboratore ha fornito un resoconto preciso e circostanziato degli episodi delittuosi nei quali a cui ha personalmente partecipato e dei soggetti che vi erano coinvolti, fornendo spesso particolari oggettivamente riscontrabili e, come si vedrà, di solito effettivamente riscontrati.
Inoltre il GERACI ha per lo più riferito -senza mostrare alcuna inclinazione ad amplificare la portata delle sue rivelazioni, ma soltanto la ferma intenzione a riferire tutto quanto sapeva sugli episodi su cui gli venivano rivolte domande- fatti e notizie che erano a sua diretta conoscenza o che gli erano stati raccontati da personaggi, come MESSINA DENARO Matteo, che non avevano alcuna ragione di mentirgli in considerazione sia del rapporto di amicizia che li legava, sia dell’assoluta disponibilità sempre dimostratagli dal GERACI a soddisfare le sue richieste, sia, soprattutto, della spontaneità delle confidenze, dovuta al fatto che il collaboratore non gli rivolgeva quasi mai domande.
Dal tenore delle sue dichiarazioni, poi, non è emersa alcuna acredine nei confronti di nessuna delle persone che ha accusato, ma al contrario il collaboratore ha tenuto a precisare di avere intrattenuto rapporti cordiali con alcuni dei soggetti in parola, e in particolare con il MESSINA DENARO, il CIACCIO e il CLEMENTE.
Infine, le propalazioni del collaboratore hanno trovato significativi riscontri di carattere estrinseco, delle quali in questa sede verranno esaminate solo quelle di carattere generale, non attinenti a specifici episodi o imputati, le quali ultime saranno oggetto di specifica trattazione nei paragrafi dedicati espressamente a tali fatti e persone.
Come si è anticipato, le dichiarazioni del GERACI hanno trovato molteplici conferme in quelle di altri collaboratori, e, più specificamente, del SINACORI, di Giovanbattista FERRANTE e di Antonio SCARANO.
Il FERRANTE e il GERACI, in particolare, hanno delineato in maniera sostanzialmente concorde i rapporti del primo con il MESSINA DENARO e il suo gruppo, sui quali ci si soffermerà più ampiamente in ordine all’omicidio CONSALES.
Il GERACI e lo SCARANO, poi, hanno fornito indicazioni analoghe sui rapporti del secondo con personaggi affiliati o vicini a “famiglie” inserite nel mandamento di Castelvetrano (MESSINA DENARO Matteo, PANDOLFO Vincenzo, RALLO Francesco, GARAMELLA Giuseppe, FORTE Paolo) e del coinvolgimento di entrambi i collaboratori e del gruppo facente capo al MESSINA DENARO nell’attentato contro Maurizio COSTANZO a Roma e nella latitanza del RALLO nella capitale.
Inoltre, Paolo FORTE, nell’interrogatorio reso al P.M. in 17 febbraio 1997 e integralmente contestatogli all’udienza del 7 gennaio 1999 in seguito al rifiuto di costui di sottoporsi a esame nella qualità di imputato di reato connesso, pur tentando di minimizzare l’importanza dei fatti che riferiva, ha sostanzialmente dovuto ammettere la veridicità delle dichiarazioni del GERACI, con riferimento ai suoi rapporti con MESSINA DENARO Matteo e GARAMELLA.
Altri significativi riscontri alle dichiarazioni del GERACI possono essere rinvenute negli esiti dell’attività di indagine delegata dall’Autorità Giudiziaria, e in particolare:
– i tre fratelli GERACI (il terzo è Tommaso, nato l’8 dicembre 1954) gestivano tutti insieme una gioielleria in via XX settembre a Castelvetrano; nel 1994 nella titolarità della licenza subentrò BONSIGNORE Biagia, moglie di Andrea, a seguito delle dimissioni di GERACI Francesco, come affermato dal collaboratore;
– il GERACI ha ottenuto finanziamenti dalla finanziaria “CRECOFIN di SALVO Gabriele”; quest’ultimo, sentito nella qualità di indagato in reato connesso ha affermato che il finanziamento era stato concesso su richiesta di un tale GERACI, che ha riconosciuto in GERACI Andrea, qualificatosi come gestore di una gioielleria di Castelvetrano e come rappresentante di preziosi; in particolare il GERACI aveva chiesto di costituire, nel più assoluto anonimato, un deposito di circa £.200.000.000 a fronte del quale la “CRECOFIN” avrebbe ricevuto una linea di credito intestata a una delle società del GERACI, linea di credito che sarebbe stata rimborsata dopo un certo periodo e con un differenziale di interesse da calcolare successivamente; il SALVO aveva detto di conoscere anche GERACI Francesco, identificandolo come il soggetto che effettuava il materiale versamento del denaro alla finanziaria al fine di costituire il citato deposito; infine, il SALVO precisò che l’operazione era stata caldeggiata da SINACORI Vincenzo, che aveva incontrato a Mazara insieme a GERACI Francesco; il SALVO ha affermato altresì che nel 1992, quando fu nominato liquidatore della “CRECOFIN” tentò di rintracciare la pratica del GERACI, ma gli impiegati lo informarono che non era mai stata definita e in effetti neppure l’attuale liquidatore, TILOTTA Maria nata a Mazara il 3 settembre 1961, l’aveva rintracciata tra le pratiche effettivamente esistenti presso la finanziaria (cfr. deposizione LINARES nel procedimento ACCARDI Gaetano e altri, cit.);
– con riferimento al viaggio a Roma che il collaboratore ha affermato di avere fatto nel febbraio-marzo 1992 con SINACORI Vincenzo, TINNIRELLO Lorenzo, GRAVIANO Giuseppe, MESSINA DENARO Matteo e CANNELLA Cristoforo, le sue dichiarazioni sono state riscontrate con riferimento ai seguenti fatti:
a) acquisto di camice per £.4.000.000 nel negozio di ALONGI prima di partire, il 22 febbraio 1992 tramite l’American Express;
b) acquisto di camice a Roma da Edy Monetti il 24 febbraio 1992 per £.3.600.000: carta di credito;
c) esistenza di biglietti aerei a nome GERACI Mister e RINACORI Mister, i quali risultavano altresì avere fatto il “check in” sul volo BM 119 del 24 febbraio 1992 rispettivamente alle ore 7,59 e 7,58 con lo stesso operatore (IC0613) e avere avuto assegnati i posti 20/A e 20/C; inoltre sul volo BM1207 dello stesso giorno risultavano prenotati ma non partiti GERACI Tommaso e MILITELLO Francesco: quest’ultimo partì lo stesso giorno, più tardi, mentre il primo non partì (a suffragio dell’affermazione del collaboratore secondo cui partì in aereo insieme al SINACORI);
d) esistenza di biglietto del traghetto per la tratta da Napoli a Palermo a nome CANNELLA per due passeggeri e la FIAT Uno tg. “Roma-89521M”; gli investigatori appurarono che quel numero di targa contraddistingueva una FIAT Uno intestata a una tale Acar Naia (come da pronuncia) , una stilista nata in Libano; atteso che il dato risultava non significativo, verificarono tutti gli intestatari delle vettura targate “Roma-89521” indipendentemente dalla lettera finale e appurarono che CANNELLA Cristoforo (nato a Palermo il 15 aprile 1961 e ivi residente in Cortile Grigoli n.3) risultava proprietari della vettura tg. “Roma-89521Y”, la cui targa nell’ottobre 1993 mutò in “PA-B30044” dopo la vendita del veicolo avvenuto il 15 giugno 1993 (il dato conferma il fatto che il 5 marzo il GERACI e il CANNELLA rientrarono a Palermo in nave da Napoli);
e) il 5 marzo 1992 “RINATORI Mister” si imbarcò sul volo BM 190 delle ore 16,10 (biglietto n.05544228847755) da Roma a Palermo avendo fatto il check in alle ore 13,52 e avendo assegnato il posto “9J”; per altro, controllarono anche i voli del giorno precedente e scoprirono che “RINATORI Mister” aveva preso il volo BM 0166 partito da Roma per Palermo il 4 marzo 1992, appurando che era partito senza avere fatto la prenotazione e che era rientrato a Roma la mattina del 5 marzo con il volo BM 119 delle 9,40 (riscontra la dichiarazione del GERACI secondo cui altri del loro gruppo ritornarono in Sicilia in aereo e in treno);
f) esistenza di una telefonata nell’abitazione del GERACI a Castelvetrano (0924/45441) il 24 febbraio 1992 effettuata mercoledì 26 febbraio 1992 da Roma in partenza da un cellulare (0337/864078) intestato alla ditta “Orobase” con sede in Vicenza, da cui il collaboratore si forniva dei gioielli per la sua oreficeria; il titolare della Orobase, Bernardo CAPPAROTTO, riferì che l’utenza in parola era usata dai suoi dipendenti per attività professionale inerente al commercio di preziosi e che Francesco GERACI era stato alla sede romana nel 1992, facendo anche un’individuazione fotografica;
g) il GERACI prese a noleggio all’agenzia Hertz della Stazione Termini di Roma l’autovettura “Y10” tg. Roma-9D8808 in data 24 febbraio 1992 alle ore 13,14 e la riconsegnò il 5 marzo 1992 alle ore 16,30; nel periodo in cui era stata a disposizione del GERACI l’autovettura aveva compiuto 520 km. (cfr. deposizioni del mar. Massimo CAPPOTTELLA e del dottor ZITO rispettivamente alle udienze del 9 dicembre e dell’11 novembre 1997 nel procedimento a carico di BAGARELLA Leoluca + 25 celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Firenze, cit.).
Deve infine sottolinearsi che le propalazioni del collaboratore in parola sono state sottoposte numerose volte a vaglio di attendibilità da varie Autorità Giudiziarie e lo hanno sempre superato.
In particolare, in questa sede si può riportare la sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato dal G.U.P. del Tribunale di Palermo il 25 novembre 1997, nella quale il GERACI è stato giudicato responsabile del tentato omicidio del dottor Calogero GERMANÀ e dei reati satellite, dei quali il collaboratore si era autoaccusato e aveva chiamato in correità altri soggetti, separatamente giudicati, ed è stato condannato alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, poi ridotta in appello ad anni cinque, previa concessione delle attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’art.8 L.203/91 prevalenti sulle contestate aggravanti (cfr. citata decisione del G.U.P. del Tribunale di Palermo, nonché sentenza della Corte d’Appello di Palermo emessa il 28 ottobre 1998 e divenuta irrevocabile per GERACI il 18 giugno 1999, prodotte dal P.M. all’udienza del 18 febbraio 2000).
Le dichiarazioni del GERACI sono state inoltre alla base della sentenza emessa il 6 giugno 1997 con rito abbreviato dal G.U.P. del Tribunale di Palermo, che ha condannato per vari reati, tra cui l’associazione a delinquere di stampo mafioso dello stesso collaboratore, di suo fratello Andrea, AGATE Giovanni, FORTE Paolo, GIACALONE Michele e MASSIMINO Alfio e DE SIMONE Giacomo (i primi quali soggetti vicini alla “famiglia” di Castelvetrano e l’ultimo quale membro della stessa). La suddetta decisione è stata confermata in appello, quanto alle condanne per il delitto di cui all’art.416 bis c.p. (cfr. decisioni menzionate, prodotte dal P.M. all’udienza del 18 febbraio 2000).
Con riferimento a quest’ultima decisione deve sottolinearsi, a ulteriore suffragio dell’attendibilità e della lealtà del collaboratore in esame, che le sue dichiarazioni hanno portato alla condanna del fratello Andrea alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione per i gravi reati previsti dagli artt.416 bis c.p. e 12 quinquies D.L.13 maggio 1991 n.152. Ora, la decisione di accusare un proprio stesso congiunto non può non costituire un significativo elemento di conferma della fermezza della decisione di collaborare con la giustizia e della totale correttezza e sincerità del dichiarante.
Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del GERACI non può che essere pienamente positivo.
LA BARBERA GIOACCHINO
Gioacchino LA BARBERA, nato ad Altofonte il 23 novembre 1959, è stato escusso alle udienze dell’11 dicembre 1998, del 7 luglio, dell’11 settembre e dell’8 novembre 1999. Infine, è stato sentito ai sensi dell’art.507 c.p.p. all’udienza del 9 febbraio 2000.
Sono state acquisite altresì le dichiarazioni rese dal medesimo nell’udienza del 22 marzo 1996 nell’ambito del procedimento contro AGRIGENTO Giuseppe e altri, utilizzabili -non essendo intervenuto il consenso dei difensori degli altri prevenuti ex art.238 c.IV c.p.p.- solo nei confronti di ALCAMO Antonino, BRUSCA Giovanni, BRUNO Calcedonio, CASCIO Antonino, FERRO Giuseppe, GERACI Francesco, LA BARBERA Gioacchino, LEONE Giovanni, MADONIA Salvatore, MESSINA DENARO Matteo, RIINA Salvatore, SINACORI Vincenzo, GANCITANO Andrea, ai sensi del comma II bis della norma citata.
Il LA BARBERA ha riferito di essere stato inserito nella “famiglia” di Altofonte, “mandamento” di San Giuseppe Iato, a partire dal 1981.
Baldassare DI MAGGIO, il quale durante la detenzione di Bernardo e Giovanni BRUSCA fu il reggente del mandamento di San Giuseppe Iato, lo nominò reggente della “famiglia” di Altofonte. Tuttavia, a causa del suo rapporto fiduciario con il DI MAGGIO, il collaboratore venne coinvolto nei contrasti che sorsero tra costui e i BRUSCA dopo il ritorno di Giovanni BRUSCA da Pianosa e che portarono, nel 1989, alla esautorazione del DI MAGGIO e del LA BARBERA, sostituiti rispettivamente da Giovanni BRUSCA e da Giuseppe MARFIA.
Nel periodo in cui guidò la cosca di Altofonte, l’odierno collaboratore partecipò ad alcuni omicidi -tra cui uno (quello di FILIPPI Rosolino) perpetrato nell’ospedale del paese- nella zona di Alcamo, dove era in corso una guerra di mafia.
Dopo essere stato esautorato, il LA BARBERA, temendo per la propria incolumità, dal 1990 al 1992 si trasferì in Italia settentrionale, gestendo la sua piccola impresa, ma nel 1992 ritornò in Sicilia ed entrò a fare parte di un ristretto gruppo di fuoco alle dirette dipendenze di Salvatore RIINA.
Tra il 1992 e il suo arresto, avvenuto il 23 marzo 1993, si recò spesso nella Provincia di Trapani, dove trascorrevano la latitanza BAGARELLA Leoluca e BRUSCA Giovanni, rispettivamente a Mazara del Vallo e a Castellammare del Golfo.
Pertanto, in quel periodo ebbe frequenti rapporti con esponenti mafiosi della Provincia di Trapani, in particolare con Matteo MESSINA DENARO e Vincenzo SINACORI, reggenti della Provincia di Trapani, a cui portava ambasciate da parte del BRUSCA e del BAGARELLA, il quale ultimo andava spesso a trovare nel suo rifugio nella campagna di Mazara. Il punto di incontro per raggiungere il nascondiglio del boss corleonese era il negozio di materiale elettrico di Vincenzo SINACORI. Il locale era ubicato in città, di fronte all’ospedale, ed era frequentato soprattutto da Matteo MESSINA DENARO e Andrea GANCITANO, ma anche da altre persone tra cui “zu Ciccio” (il padre di Matteo, Francesco MESSINA DENARO) e il fratello di Mariano AGATE, il quale ultimo non gli fu presentato ritualmente, ma gli venne indicato da Nino GIOÉ.
A detta del collaboratore, il SINACORI portava spesso gli “uomini d’onore” palermitani altresì in una villetta sita a circa sette o otto chilometri dal negozio, nella quale trascorreva la sua latitanza Andrea MANCIARACINA. In quest’ultimo luogo, in occasione di una riunione, conobbe Salvatore RIINA, Santo MAZZEI, Giovanni BASTONE e Diego BURZOTTA.
Il gruppo di fuoco palermitano partecipò attivamente alla guerra di mafia di Marsala, nella quale il collaboratore si è autoaccusato dell’assassinio di Giovanni ZICHITTELLA e di uno degli attentati alla vita di LAUDICINA Ignazio.
Sebbene i rapporti dei Palermitani con i Trapanesi si fossero allentati dopo il tentato omicidio di LAUDICINA Ignazio, a causa delle accuse di superficialità rivolte dal BAGARELLA ai mazaresi e in particolare al GANCITANO, il LA BARBERA continuò a frequentare questi ultimi e a commettere delitti insieme a loro: in particolare risale a tale epoca il duplice omicidio MILAZZO-BONOMO.
Sebbene il contributo fornito dalle dichiarazioni di Gioacchino LA BARBERA in questo procedimento sia stato complessivamente modesto, avendo avuto ad oggetto un ridotto numero di episodi ricompresi nell’ambito della guerra di mafia di Marsala e pochi imputati, la sua collaborazione con l’Autorità Giudiziaria, iniziata il 25 novembre 1993, deve essere considerata complessivamente assai rilevante.
Infatti la posizione ricoperta dallo stesso nell’ambito dell’organizzazione e gli stretti vincoli che lo legavano a personaggi di primissimo piano, quali BAGARELLA Leoluca e Giovanni BRUSCA, hanno comportato la sua diretta partecipazione a diversi gravi episodi criminosi e la conoscenza da parte sua di numerose circostanze talvolta assai significative.
Al momento del suo arresto, il LA BARBERA era già stato indicato come “uomo d’onore” e chiamato in correità in ordine a vari fatti-reato (tra cui la strage di Capaci) da DI MAGGIO Baldassare e da altri collaboratori e il suo coinvolgimento in molti delitti era emerso dalle intercettazioni ambientali effettuate in un appartamento nella via Ughetti n.17, int.38, a Palermo, in cui era vissuto per un certo periodo insieme a GIOÈ Antonino.
Egli, per altro, ha lealmente ammesso fin da subito le sue responsabilità con riferimento ai predetti delitti e si è autoaccusato di altri episodi criminosi di cui non era neppure sospettato, in quanto il DI MAGGIO, per mera dimenticanza, aveva omesso di indicarlo tra i compartecipi o che addirittura non erano noti agli inquirenti, come nel caso degli omicidi di MILAZZO Vincenzo e BONOMO Antonella.
Con riferimento a questi ultimi assassinii, il LA BARBERA non solo ha raccontato dettagliatamente la fase preparatoria e quella esecutiva degli stessi, indicando i nomi dei complici (alcuni dei quali hanno ammesso la loro partecipazione: il BRUSCA, il SINACORI, il FERRO e il GERACI), ma ha altresì consentito il ritrovamento dei cadaveri delle vittime e di quello del fratello del capo mandamento di Alcamo, rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con la Polizia avvenuto nell’aprile 1991.
In ordine a tale ultimo fatto, in particolare, il collaboratore ha riferito che BRUSCA Giovanni gli raccontò che una sera in cui si trovava ad Alcamo aveva compiuto un giro di perlustrazione insieme ad alcuni “uomini d’onore” della cosca alla ricerca di membri del clan rivale dei GRECO. Dato che una pattuglia di Polizia aveva fatto loro segno di fermarsi, era stato costretto a ingaggiare con gli operanti un conflitto a fuoco nel corso del quale MILAZZO Paolo, che era rimasto all’interno dell’autovettura, era stato gravemente ferito. Sebbene fosse stato immediatamente trasportato in un ospedale di Palermo, il giovane era morto il giorno successivo e in casa di FERRO Giuseppe (il quale nel corso dell’esame reso il 30 settembre 1998 ha confermato integralmente il fatto) era stata effettuata la veglia funebre, al termine della quale il cadavere era stato collocato in una bara. Il LA BARBERA ha aggiunto che in un momento successivo fu deciso di cambiare il luogo della sepoltura, poiché si temeva che BENENATI Simone -“uomo d’onore” alcamese a conoscenza del luogo della prima inumazione- iniziasse a collaborare con la giustizia e lo indicasse agli inquirenti, e che fu egli stesso a collocare la bara in una cava di Balata di Baida vicino ai corpi di MILAZZO Vincenzo e di Antonella BONOMO (cfr. sul punto le sentenze, divenute ormai irrevocabili, dei processi contro ASARO Mariano e altri, PAZIENTE Gaetano e altri e GRECO Lorenzo e altri).
Il collaboratore ha sempre risposto in maniera lucida e costante alle domande postegli dalle parti, tanto nel presente giudizio quanto in quello a carico di AGRIGENTO Giuseppe e altri, e ha indicato con precisione e cognizione di causa riscontri alle sue affermazioni.
Nelle sue audizioni, inoltre, ha riferito solo circostanze di cui era a conoscenza diretta ovvero che gli erano state raccontate dal altri “uomini d’onore”, i quali non avevano alcuna ragione di mentirgli, data la comune appartenenza a “cosa nostra”.
Infine, il LA BARBERA non ha mostrato motivi di acredine nei confronti degli imputati, né è mai stata lamentata l’esistenza di dissidi con gli stessi, tali da indurlo a lanciare nei loro confronti accuse infondate, tanto più che egli si è limitato alla stretta narrazione dei fatti, senza cadere in indiscriminate accuse.
Sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca del collaboratore in esame, deve rilevarsi che le dichiarazioni dello stesso hanno trovato puntuali conferme in quelle di altri dichiaranti, quali -per limitarsi al presente giudizio- il PATTI, il SINACORI, il BRUSCA, il FERRO, il GERACI, Mario Santo DI MATTEO. D’altra parte, le modeste discrasie che sono talvolta emerse tra le propalazioni del LA BARBERA e quelle di altri (sempre per altro su circostanze di rilievo del tutto secondario), non solo non hanno inficiato la sua credibilità, ma al contrario, ne hanno ulteriormente esaltato la genuinità.
Inoltre, le sue affermazioni hanno trovato molteplici riscontri oggettivi, alcuni dei quali emersi nell’ambito del presente procedimento o riportati nelle citate sentenze divenute definitive, nelle quali l’attendibilità del collaboratore in parola è sempre stata valutata positivamente.
Tra questi ultimi il più significativo è certamente quello relativo al ritrovamento dei cadaveri dei fratelli MILAZZO Vincenzo e Paolo e di BONOMO Antonella, avvenuto nell’ambito di un sopralluogo da operanti e dal collaboratore, compiuto il 14 dicembre 1992 in una cava di Balata di Baida.
– furono rinvenuti tre cadaveri, due dei quali di sesso maschile e uno di sesso femminile;
– una sola delle salme era rinchiusa in una bara e presentava ferite d’arma da fuoco di calibro corrispondente a quelle in dotazione alle forze dell’ordine (cfr. relazione medico legale PROCACCIANTI); il corpo fu riconosciuto dai familiari come quello di MILAZZO Paolo e siffatta identificazione venne confermata inconfutabilmente dai risultati della perizia sul DNA dei dottori CARRA e SEIDITA ottenuti mediante prelievi comparativi effettuati sul cadavere, sull’altro cadavere di sesso maschile trovato contestualmente, su MILAZZO Sebastiano, fratello di Paolo, e sulla madre;
– il medesimo elaborato peritale ha consentito, sempre grazie alla suddetta comparazione, di identificare l’altro corpo di sesso maschile -anch’esso riconosciuto dai familiari- con MILAZZO Vincenzo; anche in questo caso la causa della morte (lesioni determinate da quattro colpi di rivoltella) risultava perfettamente compatibile con quanto riferito dal LA BARBERA (cfr. relazione medico legale PROCACCIANTI);
– il cadavere di sesso femminile venne invece riconosciuto dai familiari come quello di Antonella BONOMO e fu appurato che presentava lesioni caratteristiche della morte per soffocamento (cfr. relazione medico legale SCALICI);
– la morte delle tre persone non era nota agli inquirenti, i quali erano ancora impegnati nell’attiva ricerca di MILAZZO Vincenzo, rappresentante del mandamento di Alcamo e latitante.
Per ciò che attiene più specificamente il presente processo, mentre per i riscontri di carattere specifico si rimanda ai paragrafi relativi ai singoli episodi o imputati oggetto delle dichiarazioni del collaboratore, in questa sede può ricordarsi che:
– il LA BARBERA e il PATTI hanno individuato un villino in contrada Quarara, che è risultato essere nella disponibilità di GANCITANO, ma intestato a CARDINETTO Giuseppe, congiunto di RIINA Gaetano, in quanto fratello di sua moglie CARDINETTO Vita (cfr. deposizione LINARES nelle udienze del 23 gennaio e del 14 febbraio 1997, nell’ambito del procedimento a carico di ACCARDI Gaetano e altri);
– il punto vendita a Mazara del Vallo della “Marciante 2” era effettivamente vicino all’ospedale e fungeva da luogo di incontro per gli “uomini d’onore” che convenivano in paese (cfr. esami del PATTI e del SINACORI e accertamenti di P.G., che hanno appurato che all’interno del locale sostavano spesso mafiosi, quali GANCITANO Andrea, TAMBURELLO Salvatore, MESSINA Francesco e altri, riferiti dal dottor Calogero GERMANÀ nelle udienze del 7 aprile e del 2 maggio 1995 nell’ambito del processo contro PATTI Antonio e altri 40 imputati).
Alla luce delle sopra esposte argomentazioni, il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del LA BARBERA non può che essere assolutamente positivo.
DI MATTEO MARIO SANTO E STEFANO BOMMARITO
Mario Santo DI MATTEO e Stefano BOMMARITO sono stati esaminati dal P.M. all’udienza del 1 ottobre 1998. Il BOMMARITO è stato controesaminato dai difensori degli imputati all’udienza del 16 giugno 1999 e il DI MATTEO in quella del 9 novembre 1999. Quest’ultimo collaboratore all’udienza dell’11 novembre 1999 ha altresì formalmente riconosciuto CLEMENTE Giuseppe.
Sono state acquisite altresì le dichiarazioni rese dal DI MATTEO nelle udienze del 24 e 25 giugno 1996 nell’ambito del procedimento contro AGRIGENTO Giuseppe e altri, utilizzabili -non essendo intervenuto il consenso dei difensori degli altri prevenuti ex art.238 c.IV c.p.p.- solo nei confronti di ALCAMO Antonino, BRUSCA Giovanni, BRUNO Calcedonio, CASCIO Antonino, FERRO Giuseppe, GERACI Francesco, LA BARBERA Gioacchino, LEONE Giovanni, MADONIA Salvatore, MESSINA DENARO Matteo, RIINA Salvatore, SINACORI Vincenzo, GANCITANO Andrea, ai sensi del comma II bis della norma citata.
L’esame dell’attendibilità dei due collaboratori in parola verrà effettuato in un’unica sede per ragioni di brevità, atteso che il contributo fornito dagli stessi è stato limitato all’attentato compiuto dai “corleonesi” in contrada Kaggera di Alcamo contro alcuni membri del gruppo cosiddetto dei GRECO e le loro propalazioni hanno avuto soprattutto la funzione di confermare quelle di altri dichiaranti, essendo le loro conoscenze dei componenti il gruppo di fuoco e degli avvenimenti assai modesta, in considerazione dei loro scarsissimi contatti con il contesto mafioso della provincia di Trapani.
Ciò premesso, il giudizio sull’attendibilità dei due collaboranti in parola non può che essere positivo.
Il DI MATTEO e il BOMMARITO hanno ammesso le loro responsabilità in ordine a molti gravi reati e il primo altresì di essere stato affiliato a “cosa nostra”, “famiglia” di San Giuseppe Iato, a partire dal 1978 o 1979.
Con riferimento ai fatti oggetto del presente giudizio, entrambi hanno fornito un resoconto dei fatti intrinsecamente logico e coerente, oltre che sostanzialmente concordante con quello degli altri dichiaranti, senza per altro appiattirsi sulle propalazioni di questi ultimi.
A tale proposito, infatti, giova ricordare che sia il DI MATTEO che il BOMMARITO si sono limitati a riferire i fatti e a chiamare in causa le persone che conoscevano direttamente, ammettendo lealmente di ignorare l’identità di alcuni dei presenti in occasione dell’attentato, a causa della loro scarsa dimestichezza con le cosche del trapanese. Conseguentemente, non hanno confermato il racconto degli altri collaboratori integralmente, ma soltanto con riferimento ad alcune circostanze e personaggi. Del resto, dal punto di vista logico, il loro resoconto appare credibile, in quanto hanno affermato di conoscere, tra tutti i chiamati in correità, personaggi che -sulla base delle altre risultanze probatorie- era verosimile conoscessero in virtù o della loro importanza nella gerarchia mafiosa (come MESSINA DENARO Matteo, GANCITANO Andrea , SINACORI Vincenzo e PATTI Antonio) o della loro appartenenza a “famiglie” di Alcamo e Castellammare del Golfo gravitanti nell’orbita del mandamento di San Giuseppe Iato.
Inoltre dalle parole di entrambi i collaboratori non è emerso alcun accenno che potesse fare ritenere che nutrissero acredine o inimicizia nei confronti di alcuna delle persone chiamate in correità.
Alla luce delle predette considerazioni, il giudizio sull’attendibilità di Mario Santo DI MATTEO e Stefano BOMMARITO con riferimento al presente processo non può che essere pienamente positivo.
FERRANTE GIOVAN BATTISTA
Nel presente procedimento Giovan Battista FERRANTE è stato escusso in qualità di imputato di reato connesso alle udienze dell’8 gennaio 1999.
Il FERRANTE ha riferito di avere fatto parte di “cosa nostra” dal 1980 al luglio 1993, quando iniziò a collaborare con la giustizia.
Era inserito nella “famiglia” di San Lorenzo, che fino al 1983 fu ricompresa nel mandamento di Partanna-Mondello, il cui capo era Saro RICCOBONO. Dopo l’eliminazione di costui, la cosca venne elevata a rango di mandamento e a capo di essa fu, fino al suo suicidio, Giacomo Giuseppe GAMBINO detto Pippo, sebbene fosse detenuto fino dal 1986. Dato che alcuni uomini della “famiglia” -e soprattutto Salvatore BIONDINO, uno dei capi decina- erano molto vicini a Salvatore RIINA, durante la detenzione del capo mandamento facevano riferimento direttamente a quest’ultimo, senza intermediari.
Il collaboratore ha ammesso anche di avere partecipato, negli anni 1991/1992, a vari fatti delittuosi, tra cui gli omicidi di Emanuele PIAZZA e di D’AGOSTINO e, nel 1992, l’omicidio LIMA e le stragi di Capaci e via D’Amelio. Ha affermato altresì di non avere riportato condanne irrevocabili, ma di essere stato giudicato responsabile in primo grado degli assassinii LIMA e CASSARÀ e per la strage di Capaci.
Con riferimento ai fatti oggetto del presente giudizio, il FERRANTE ha dichiarato di avere conosciuto, tra gli “uomini d’onore” della provincia di Trapani, Vincenzo VIRGA di Trapani, Mastro Ciccio MESSINA e Vincenzo SINACORI di Mazara del Vallo e Francesco e Matteo MESSINA DENARO, padre e figlio di Castelvetrano, i quali erano le persone più influenti in quell’ambito territoriale. I contatti della cosca di San Lorenzo con i Trapanesi iniziarono nel 1983, quando divenne mandamento, ma si accentuarono a partire dal 1986/87. Il FERRANTE si recò varie volte nella zona di Trapani, Castelvetrano e Mazara del Vallo per portare messaggi e per sbrigare altre incombenze per “cosa nostra”.
Nel suo esame si è soffermato in particolare sull’omicidio di Nicola CONSALES, commesso dagli “uomini d’onore” della “famiglia” di San Lorenzo su richiesta di MESSINA DENARO Matteo.
Con specifico riguardo ai rapporti con quest’ultimo, inoltre, ha riferito che negli anni ’90 lo contattava tramite un uomo che era gestore di un grosso rifornimento di benzina “Agip” ubicato sulla strada statale che porta da Castelvetrano a Mazara del Vallo, in direzione Mazara, a qualche chilometro da Castelvetrano, dove vi sono case popolari. Questo soggetto -che oggi dovrebbe avere circa quarant’anni, essendo all’incirca coetaneo del collaborante- gli era stato indicato dallo stesso MESSINA DENARO come tramite nel caso dovesse contattarlo con una certa urgenza, in quanto aveva il suo numero di cellulare e poteva rintracciarlo in modo da consentirgli di vederlo subito o fissargli un appuntamento per il giorno successivo. Nella zona in cui si trovava il distributore aveva un allevamento bovino un mafioso che crede fosse il sottocapo della famiglia e di cui non ha saputo riferire il nome.
Quando aveva bisogno di contattare il MESSINA DENARO si recava anche all’hotel “Paradise Beach” di Selinunte, nel territorio di Castelvetrano, che sapeva che l’altro frequentava spesso e dove lo trovava sovente. Lo stesso FERRANTE fu ospite dell’albergo in almeno due occasioni. La prima volta, negli anni 1988/89, fu lo stesso Matteo MESSINA DENARO ad invitarlo a passare alcuni giorni nell’albergo e a pagargli il soggiorno di una settimana; vi passò una vacanza anche verso il 1990. Matteo MESSINA DENARO, infatti, quando il FERRANTE lo conobbe, era fidanzato con una ragazza austriaca di nome Andrea che lavorava alla reception e pertanto aveva una stanza fissa nell’hotel, cosicchè in alcuni periodi anch’egli stava nell’albergo. Fu lo stesso MESSINA DENARO a parlargli della sua relazione con la predetta giovane e a volte il FERRANTE e Salvatore BIONDINO, con le rispettive mogli, uscirono con il MESSINA DENARO e questa ragazza, anche a Palermo. MESSINA DENARO in un’occasione parlò di pietanze austriache che non gli piacevano, fatto da cui FERRANTE desunse che era stato in Austria a trovare la ragazza.
Tra le persone che vedeva al “Paradise Beach” con Matteo MESSINA DENARO c’erano Francesco GERACI (che incontrò in seguito altre volte, anche in carcere), l’uomo del rifornimento di benzina e il nipote del già citato sottocapo della famiglia di Castelvatrano, anch’egli uomo d’onore, che oggi potrebbe avere tra i 32 e i 35 anni circa.
Il Maggiore Luigi BRUNO, in servizio al centro operativo di Palermo della DIA dal mese luglio 1992, ha svolto indagini sul conto del collaboratore in parola.
Il FERRANTE, nato a Palermo il 10 marzo 1958, è figlio di Giuseppe e di BONURA Rosalia. Proviene da una famiglia inserita nel contesto mafioso palermitano, essendo un suo zio paterno, FERRANTE Giovan Battista cl.1925, già indicato come uomo d’onore appartenente alla “famiglia” di Palermo San Lorenzo, ricadente nell’omonimo mandamento. Lo stesso collaboratore era inserito nella identica cosca ed aveva nella stessa un ruolo di spicco.
Il FERRANTE era titolare di partita I.V.A. intestata a una ditta individuale che si occupava di movimento terra ed era socio amministratore in una società in nome collettivo per il trasporto di generi alimentari denominata “Alimentari trasporti s.n.c.”, nella quale aveva una quota anche GIOÈ Giuseppina, moglie di BIONDINO Salvatore, arrestato il 15 gennaio 1993 insieme a Salvatore RIINA. La società suddetta dal 1985 effettuava trasporti di carichi per conto della “SIGROS Distribuzione”, avente sede in Misterbianco e dotata di un punto vendita in Palermo in via Ugo LA MALFA, da un magazzino sito nella zona di Capaci.
Il FERRANTE venne arrestato l’11 novembre 1993 dalla D.I.A. in esecuzione di due ordinanze di custodia cautelare emesse nello stesso giorno dal G.I.P. del Tribunale di Palermo per il reato di associazione mafiosa e dal G.I.P. del Tribunale di Caltanissetta per la strage di Capaci.
Nell’ambito dell’indagine palermitana il collaboratore LO CICERO Alberto indicò il FERRANTE come uomo d’onore appartenente alla famiglia di Palermo San Lorenzo e specificò che lo stesso aveva il ruolo di accompagnatore del rappresentante Salvatore BIONDINO e di altri uomini d’onore di spicco della stessa cosca (e in particolare GAMBINO Giacomo Giuseppe) nella casa di Mario Tullio TROIA, consigliere della “famiglia”.
Il nome del FERRANTE, per altro, era emerso per la prima volta in seguito all’arresto di GIOÈ Antonino nel covo di via Ughetti in Palermo e del fermo di LA BARBERA Gioacchino. In precedenza il collaboratore aveva solo un precedente per una violazione delle norme del codice stradale risalente al 1981, mentre dall’esame dei tabulati di un cellulare in uso al LA BARBERA furono individuati contatti con il cellulare del FERRANTE, anche in orari assai vicini a quello dell’esplosione di Capaci. Sulla base di tali emergenze gli inquirenti effettuarono accertamenti sulla figura del FERRANTE, appurando che lo stesso aveva rapporti con vari elementi indiziati mafiosi. In particolare aveva contatti con RUSSO Giovanni (nato a Palermo l’11 aprile 1964, cognato di D’ANGELO Guido e D’ANGELO Giovanni, il quale ultimo era giudicato inserito nella cosca di Partanna Mondello), MARCIANTE Roberto (nato a Tripoli il 23 ottobre 1939, sulla cui figura il teste non ha aggiunto nulla di nuovo), BIONDO Salvatore (nato il 28 febbraio 1955, anch’egli imputato per la strage di Capaci), BONURA Vincenzo (nato il 30 ottobre 1960, cugino per parte di madre del FERRANTE, anch’egli imputato per la strage di Capaci). Inoltre frequentava l’autofficina dei fratelli BIONDINO, uno dei quali è il già citato Salvatore.
Nell’ordinanza cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Caltanissetta erano invece evidenziati rapporti tra l’odierno collaboratore e soggetti dell’area di Capaci, tra cui SENSALE Giuseppe.
Il FERRANTE iniziò a collaborare con la le Autorità Giudiziarie di Palermo e Caltanissetta nel mese di luglio del 1993. In epoca immediatamente successiva il BRUNO eseguì attività di riscontro alle dichiarazioni del FERRANTE, e in particolare:
– il 13 luglio 1993 il dichiarante indicò l’ubicazione di un fabbricato in contrada Malatacca di Palermo nel quale sarebbero state nascoste armi della “famiglia” di Palermo San Lorenzo. Gli investigatori individuarono l’area descritta, ricadente nella vecchia gestione dell’ospedale Cervello e all’epoca adibita a coltivazioni, e tra le varie abitazioni ivi insistenti rinvennero un manufatto che poteva corrispondere alla descrizione data dal collaboratore. Effettuarono una perquisizione e scavarono il pavimento di terra battuta. A una profondità di circa cm.40 trovarono mattoni di tufo e una botola in ferro, tramite cui si accedeva a un vano sotterraneo delle dimensioni di m.2,20×2,20×2,00, nei quali vi erano moltissimi bidoni di plastica contenenti armi, esplosivi e munizioni. In particolare trovarono: 12 fucili, 8 kalashnikov, 2 mitra, 1 fucile di precisione, 3 mitra “Uzi”, 1 fucile automatico Famass (arma di fabbricazione francese in dotazione alle truppe speciali di quel paese), 22 pistole, 2 lancia razzi R.P.G., 23 razzi anticarro, 2 bombe a mano, 12 chilogrammi circa di esplosivo in candelotti, 10 chilogrammi circa di esplosivo tipo semtex, circa 10.000 cartucce, 30 detonatori a miccia, 14 detonatori per arma R.P.G., 2 giubbotti antiproiettile, 2 ricetrasmittenti, 1 paletta segnaletica, 1 lampeggiante, 2 silenziatori, 2 flaconi di etere. Il manufatto risultava essere nella disponibilità di due persone imparentate con il FERRANTE: PARISI Antonino, nato il 6 maggio 1925, e BONURA Vito, nato il 5 maggio 1927, entrambi zii materni del collaboratore, anche se il primo acquisito.
– il 15 luglio 1996 il FERRANTE indicò un manufatto nel quale i cugini BIONDO Salvatore cl.1925 (il già citato imputato per la strage di Capaci) e BIONDO Salvatore cl.1953 (anch’egli imputato dinnanzi alla A.G. di Palermo) avevano nascosto armi e altri materiali riservati in una stalla sotto una mangiatoia. In effetti in una delle stalle annesse a una vecchia casa padronale denominata “Case Ferreri” e ubicata nella Contrada Carrubello nella periferia di Palermo, sotto una mangiatoia, trovarono sotterrati dapprima un cannocchiale e, poco sotto, un bidone contenente armi, e più specificamente, 6 pistole, diverse munizioni per le pistole predette, 2 puntatori laser per armi, 1 silenziatore per pistola, 5 block notes e 2 piccole rubriche contenenti annotazioni verosimilmente appunti relativi ad attività estorsive.
– il 16 settembre 1996 partecipò alle ricerche in un baglio di proprietà di BIONDO Salvatore cl.1956 di alcuni bidoni che, a detta del FERRANTE, sarebbero dovuti essere sotterrati in uno spazio prossimo a una roulotte. In effetti l’immobile del BIONDO venne individuato nel fondo Gubellina a Palermo, sito in un’area sita tra la via LA MALFA e la via Stazione di San Lorenzo a Palermo. All’interno della proprietà vi era un garage attualmente coperto, nel quale era custodita una vecchia roulotte. Dopo averla spostata effettuarono uno scavo trovando due bodoni vuoti della capacità rispettivamente di 30 e 50 litri.
– il 18 settembre, sempre su indicazione del FERRANTE (il quale disse loro che avrebbero potuto trovare qualcosa sotterrato nel giardino di BIONDO Salvatore cl.1953), effettuarono scavi nel giardino dell’abitazione del BIONDO, trovando, alla profondità di cm.40, un involucro contenente un barattolo in vetro contenente a sua volta un pacco in cui c’erano banconote per un valore di £.16.100.000 (cfr. deposizione del Maggiore BRUNO all’udienza del 31 gennaio 1997 nel procedimento a carico di ACCARDI Gaetano e altri celebrato dinnanzi al Tribunale di Trapani).
Le predette circostanze -e in particolare le notizie che hanno consentito il ritrovamento di grossi arsenali- sono assai indicative dell’immediata disponibilità del FERRANTE ad instaurare una piena e leale collaborazione con l’Autorità Giudiziaria, disponibilità poi ribadita addossandosi la responsabilità di gravissimi delitti.
Del resto, il fatto stesso che la dissociazione dall’associazione criminale “cosa nostra” sia stata determinata da disgusto per le azioni commesse da membri della stessa -oltre a spiegare la piena apertura immediatamente dimostrata dal FERRANTE- induce a ritenere ancora più verosimile la sincerità degli intenti dello stesso e, di conseguenza, la sua attendibilità intrinseca.
Siffatta attitudine mentale di totale apertura e sincerità, del resto, ha trovato conferma anche nel presente procedimento. Infatti, nonostante il collaboratore abbia potuto fornire un contributo solo su fatti assai circoscritti, si è limitato a riferire notizie sugli imputati che conosceva personalmente e avendo riguardo a circostanze che erano oggetto di sua scienza diretta, senza mostrare alcuna inclinazione ad amplificare la portata delle sue rivelazioni, ma soltanto la ferma intenzione a riferire tutto quanto sapeva sugli episodi su cui gli venivano rivolte domande.
Inoltre, dal tenore delle sue dichiarazioni non è emersa alcuna acredine nei confronti di nessuna delle persone che ha accusato, ma al contrario il collaboratore ha tenuto a precisare di avere intrattenuto rapporti cordiali, anche se occasionali, con vari “uomini d’onore” della provincia di trapani e in particolare con i Castelvetranesi.
Le caratteristiche stesse dello snodarsi delle rivelazioni del FERRANTE, del resto, attribuiscono alle sue parole un ulteriore crisma di intrinseca attendibilità, atteso che il suo racconto si presenta dettagliato, preciso, logico e coerente.
Infine, le sue propalazioni hanno trovato significativi riscontri di carattere estrinseco.
Infatti -oltre a quelli formidabili costituiti dal ritrovamento di vari arsenali di armi sulla base delle sue indicazioni- le sue affermazioni hanno trovato piena conferma nelle indagini del Maggiore BRUNO, che hanno confermato le sue dichiarazioni sulle tradizioni mafiose della sua famiglia e sui suoi rapporti con vari personaggi, tra cui il BIONDINO.
Le rivelazioni del FERRANTE si sono dimostrate pienamente compatibili altresì con quelle di altri collaboratori, e in particolare del SINACORI e del GERACI, con riferimento rispettivamente alla vicenda dei “Supermercati Bravo” e ai conseguenti rapporti con personaggi gravitanti nell’orbita di VIRGA Vincenzo per il primo e agli incontri avvenuti all’Hotel “Paradise Beach” di Marinella di Selinunte e alle causali dell’omicidio CONSALES per il secondo, come meglio si preciserà nei paragrafi espressamente dedicati a tali vicende.
Alla luce di tutte le precedenti considerazioni, non può che pervenirsi a un giudizio assolutamente positivo sull’attendibilità sua intrinseca che estrinseca del FERRANTE.
SCARANO ANTONIO
Antonio SCARANO, nato a Dinami il 7 gennaio 1945, è stato esaminato dal P.M. nelle udienze del 15 luglio e del 23 settembre 1998, mentre non è stato possibile procedere a controesame a causa del decesso del collaboratore, intervenuto il 4 aprile 1999.
Il collaboratore ha riferito di non essere mai stato organico a “cosa nostra”, ma di essere entrato in contatto con i Partannesi tramite Stefano ACCARDO (“ACCARDI”), che ha definito come una “gentilissima persona”.
Precedentemente all’instaurazione di rapporti con “uomini d’onore”, la sua attività era consistita essenzialmente nel prestare denaro, ma anche nella compravendita di automobili e nella partecipazione ad aste giudiziarie. La sua attiva collaborazione con l’associazione mafiosa (che lo portò a commettere alcuni omicidi e a essere coinvolto nell’attentato a Maurizio COSTANZO) non comportò per lui alcun vantaggio economico, ma al contrario la perdita di circa £.80.000.000, anticipati e mai restituiti.
Conobbe l’ACCARDO nel 1986-87, durante un periodo di comune detenzione nel carcere di Roma, dove lo SCARANO stava scontando una pena di tre anni e sei mesi inflittagli per un furto.
Inizialmente i loro rapporti furono superficiali. Divennero più intimi quando il collaboratore, leggendo le generalità dell’ACCARDO in un mandato di cattura che gli era stato notificato in carcere e che l’altro aveva lasciato in vista sul letto, scoprì che era originario di Partanna e gli confidò che anche sua moglie era nata in quel paese, venendo a sapere che il “Cannata” ne conosceva la famiglia.
Durante la comune detenzione, ebbero rapporti cordiali anche con altri detenuti, tra cui un tale “Salvatore” di Palermo, un certo Giuseppe, che si faceva chiamare “Cavadduzzu” di Catania e uno straniero di nome “Duli” di origine polacca o slava, il quale stava in cella solo di pomeriggio, poiché lavorava nell’infermeria, come infermiere o come uomo delle pulizie, e si trovava in difficoltà economiche, tanto che l’ACCARDO inviò denaro alla sua famiglia.
Quando il Partannese fu scarcerato e inviato al soggiorno obbligato a Nicosia, dove stette otto o nove mesi, lo SCARANO -il quale lo era andato a prendere a Rebibbia all’atto della sua scarcerazione e lo aveva ospitato una notte in casa sua- andò a trovarlo in questa località.
Lo SCARANO trascorreva tutti gli anni i mesi di luglio e agosto in Sicilia: dapprima come ospite dello suocero, poi in appartamenti che di anno in anno affittava a Triscina e infine, a partire dal 1992 o 1993, in una villetta che aveva acquistato da GARAMELLA Giuseppe.
L’anno successivo all’intervenuta scarcerazione dell’ACCARDO, mentre il collaboratore era ospite a casa della suocera a Partanna in via Caprera, ricevette la visita del suo amico, che egli non sapeva fosse in paese. In quell’occasione, il “Cannata” gli chiese se aveva una pistola, poiché “c’era malo tempo in giro” ed egli gli consegnò una calibro 357 magnum. Lo SCARANO non rivolse all’amico domande sulla situazione, ma ebbe una conferma della tensione quando la stessa sera o il giorno successivo il medesimo ACCARDO, che aveva incontrato al bar, gli consigliò di ritornare a casa dopo avere bevuto il caffè. Dopo una o due settimane, l’ACCARDO andò a trovarlo a Triscina e gli chiese se poteva procurargli armi: lo SCARANO, il quale aveva tre o cinque armi da fuoco nella sua disponibilità a Roma, si recò nella capitale a prenderle e le consegnò al “Cannata”.
I rapporti tra i due uomini si mantennero cordiali anche nelle estati successive. In un’occasione l’ACCARDO si recò a casa degli suoceri dello SCARANO, chiedendo loro di votare per Vincenzino CULICCHIA. Un’altra volta, mentre stava cercando un appartamento da prendere in affitto, il collaboratore incontrò il “Cannata”, il quale gli procurò tramite un suo amico un’abitazione in cui rimase quindici giorni, senza che il proprietario accettasse alcun compenso, nonostante le ripetute offerte del conduttore.
Nel periodo in cui lo SCARANO abitò a Triscina nell’appartamento procuratogli dall’ACCARDO, quest’ultimo gli presentò Matteo MESSINA DENARO, dicendogli che se avesse avuto bisogno avrebbe potuto rivolgersi a lui, che stava sempre a Triscina.
Tramite l’ACCARDO, lo SCARANO ebbe modo di conoscere anche altri membri della sua famiglia, tra cui i nipoti Vincenzo e Nicola PANDOLFO (“PANDOLFI”), il fratello Francesco, anch’egli assassinato, e un figlio di quest’ultimo, il quale dopo l’omicidio del padre fu mandato in America poiché si temeva per la sua incolumità.
Stefano ACCARDO subì dapprima un attentato -di cui lo SCARANO, che all’epoca era a Roma, fu informato dallo stesso “Cannata” e poi da un suo nipote- e successivamente fu assassinato. Il collaboratore, pur non ricordando in quale anno si verificò tale ultimo episodio criminoso, ha rammentato che avvenne pochi giorni dopo il suo arrivo in Sicilia, tanto che non aveva ancora visto la vittima.
Dopo la morte dell’ACCARDO, il collaboratore continuò a frequentare PANDOLFO Vincenzo, il quale gli presentò RALLO Francesco, indicandolo come suo amico, e MESSINA DENARO Matteo.
I primi due cercarono di coinvolgerlo nell’omicidio di un guidatore di pullman sulla linea Partanna-Triscina (RUSSO Antonino, che fu in effetti assassinato), ma egli rifiutò, assumendo che non se la sentiva. In seguito riuscirono a indurlo a partecipare agli assassinii di un certo “Salvatore” a Montecompatri e di un altro individuo nei pressi di Milano (da identificarsi rispettivamente con FAVARA Carlo Salvatore, soprannominato “l’avvocaticchio” e con LOMBARDO Francesco: cfr. paragrafi dedicati specificamente ai due episodi delittuosi in Parte IV, Capitolo III).
Il PANDOLFO, inoltre, lo coinvolse nell’attentato a Maurizio COSTANZO.
A quest’ultimo proposito il collaboratore ha riferito che in un periodo in cui si trovava a Roma venne contattato da un intermediario del PANDOLFO (il quale all’epoca era latitante) e fu invitato a recarsi alla pompa di benzina di FORTE Paolo, situata allo svincolo autostradale di Castelvetrano. Là lo andò a prendere Peppe GARAMELLA, che lo portò in una gioielleria a Castelvetrano nella disponibilità di una persona di cui allora non sapeva il nome e che ora sa chiamarsi Francesco GERACI. In quest’ultimo luogo incontrò MESSINA DENARO Matteo e PANDOLFO Vincenzo, il quale ultimo gli chiese di mettersi a disposizione del primo per trovare un appartamento a Roma. Lo SCARANO accettò e, rientrato nella capitale, si recò in un’agenzia dei Parioli, indicatagli dal MESSINA DENARO e chiese se avevano la disponibilità di un appartamento, consegnando come caparra la somma di £.2.000.000 datagli a tal fine dal capomafia di Castelvetrano. Dato che dopo quattro o cinque mesi l’agenzia non aveva reperito l’immobile, lo SCARANO riferì la notizia al MESSINA DENARO, il quale gli disse di lasciare perdere.
Lo stesso collaboratore in seguito riuscì a trovare un appartamento a Roma vicino alla sua abitazione e vi accompagnò personalmente il MESSINA DENARO, il SINACORI e un Napoletano di cui non il collaboratore non ha saputo riferire il nome, i quali avevano raggiunto Roma a bordo di un camion, contenente alcuni sacchetti di esplosivo e un sacco militare pieno di armi. Quando il giorno dopo il loro arrivo lo SCARANO si recò all’appartamento per sincerarsi che non avessero bisogno di nulla, il MESSINA DENARO lo invitò ad andarsene, aggiungendo che in caso di necessità lo avrebbe cercato lui. Dopo circa quindici giorni il collaboratore fu informato dal padrone di casa che se n’erano andati e portò le armi e il materiale esplosivo a casa sua, dove rimasero per otto o nove mesi. Dato che in questo periodo nessuno si era fatto vivo, lo SCARANO contattò Peppe GARAMELLA, chiedendogli di andare a Castelvetrano a domandare a MESSINA DENARO come dovesse comportarsi. Quest’ultimo gli fissò un appuntamento in un bar del centro di Palermo, e lì gli presentò un certo “Fifetto” (che dopo l’inizio della sua collaborazione apprese chiamarsi Cristoforo CANNELLA) e se ne andò subito, dicendogli di non preoccuparsi e di mettersi d’accordo con quest’ultimo. Nonostante i due uomini avessero concordato che il CANNELLA si sarebbe recato a prelevare l’esplosivo e le armi, dopo qualche giorno costui telefonò allo SCARANO dicendo che era a Roma per compiere un attentato a Maurizio COSTANZO e, dopo che il collaboratore lo fu andato a prendere, gli comunicò che dovevano recarsi nel teatro in cui l’obiettivo teneva il suo spettacolo. Dato che lo SCARANO non sapeva dove fosse tale ultimo luogo, fu lo stesso “Fifetto” a guidarlo. Il collaboratore accompagnò i mafiosi altre due o tre volte al teatro, ma non partecipò al fatto criminoso.
Per questi fatti, lo SCARANO è stato processato a Firenze e condannato.
Oltre che a Roma, il collaboratore incontrò varie volte Matteo MESSINA DENARO a Castelvetrano, in vari luoghi. In un’occasione lo stesso imputato lo condusse a una pompa di benzina in via Campobello di Castelvetrano e gli disse che se avesse avuto bisogno di lui, poteva rivolgersi al proprietario della pompa di benzina (da identificarsi con CIACCIO Leonardo), il quale sapeva dove trovarlo.
Lo SCARANO a Roma ebbe modo di incontrare casualmente anche il RALLO, durante la latitanza di quest’ultimo, all’interno di un centro commerciale in cui il loro comune amico MASSIMINO Alfio aveva l’ufficio.
Quest’ultimo gli confidò che il Partannese aveva abitato per quindici giorni in casa sua insieme a sua nipote, mentre lo stesso RALLO, durante il loro incontro al centro commerciale, gli disse che viveva da un certo “Salvatore”, un commerciante di automobili originario del suo paese. Il collaboratore vide “Salvatore” una sola volta, quando si recò a casa sua insieme a MASSIMINO Alfio, il quale gli rivelò che era compare di Stefano ACCARDO, in quanto uno dei due aveva tenuto a battesimo la figlia dell’altro.
Prima dell’estate del 1993/94 Peppe GARAMELLA informò lo SCARANO che teneva i contatti tra il RALLO e la Sicilia, fungendo da corriere per le lettere che il latitante e la moglie si indirizzavano reciprocamente. Aggiunse che gli stava rivelando questa notizia riservata perché non poteva fronteggiare un debito che aveva nei confronti del collaboratore, proprio a causa delle spese che doveva affrontare per i viaggi a Roma e per il mantenimento della famiglia del RALLO. In ogni caso, lo SCARANO sapeva che il GARAMELLA compiva frequenti viaggi a Roma per esserne stato informato dal suo compare MASSIMINO Alfio, il quale telefonò al Castelvetranese più volte in sua presenza.
Tramite il GARAMELLA il collaboratore conobbe FORTE Paolo, che vide varie volte insieme al primo nel bar del distributore di benzina ubicato allo svincolo autostradale di Castelvetrano.
A Roma lo SCARANO conobbe anche un tale “Gianni”, una persona anziana che abitava in via dei Romanisti ed era amico di Stefano ACCARDO.
Prima di addentrarsi nella disamina dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca dello SCARANO, appare opportuno delineare brevemente lo svolgimento delle indagini che portarono il suo nome all’attenzione degli inquirenti.
Il P.M. ha prodotto i verbali delle deposizioni rese nel processo a carico di BAGARELLA Leoluca + 25 celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Firenze dal ten. col. CC. Vincenzo PANCRAZI della D.I.A. di Roma (udienza del 12 novembre 1997), dal dott. Nicola ZITO della D.I.A. di Firenze (udienza 12 e 13 novembre 1997), dal mar. Massimo CAPPOTTELLA (ud. 4, 6 e 9 dicembre 1997) e dal Cap. Luigi Arnaldo CIERI del R.O.S. di Roma (ud. 22 ottobre 1997), i quali hanno riferito sugli accertamenti eseguiti dai primi tre nell’ambito delle indagini sulle bombe di Roma e Firenze e dal quarto in un’indagine coordinata dalla D.D.A. di Roma inerente alla criminalità organizzata con particolare riguardo al traffico di sostanze stupefacenti e di armi e ai sequestri di persona, nella quale il nome dello SCARANO emerse in un accertamento su un traffico di stupefacenti dalla Sicilia verso il continente.
Il col. PANCRAZI, in servizio alla D.I.A. di Roma, ha dichiarato che Antonio SCARANO divenne noto al suo Ufficio in seguito ai contatti tra i due cellulari intestati alla moglie e il telefono fisso nella loro abitazione di via Alzavole 20 a Roma con i cellulari e le utenze fisse di vari soggetti coinvolti nelle indagini sulle bombe di Roma e Firenze, mentre prima di allora non vi erano fascicoli a suo carico come persona inserita nella malavita romana.
Il dott. Nicola ZITO, dirigente del Centro Operativo D.I.A. di Firenze, ha precisato che il nome di SCARANO emerse in quanto il cellulare intestato a sua moglie, TUSA Silvia (0337/791941), il 20 aprile 1993 alle ore 8,22 era stato chiamato dall’utenza cellulare intestata a SABATO Gioacchina e nella disponibilità di CARRA Pietro (imputato nel processo di Firenze) a sua volta in contatto con apparecchi telefonici riconducibili a SPATUZZA Gaspare e ai fratelli GRAVIANO.
In seguito ai suddetti contatti telefonici, i verbalizzanti misero sotto controllo i cellulari e le utenze fisse della coppia SCARANO-TUSA e dei loro figli. Il mar. Massimo CAPPOTTELLA, all’udienza del 6 dicembre 1997, ha specificato che le utenze telefoniche oggetto di intercettazione furono quella fissa dell’appartamento in via Alzavole n.20 a Roma (06/2389718), la prima cellulare in ordine di tempo intestata a TUSA Silvia 0337/791941, la seconda radiomobile, accesa il 9 agosto 1993, 0337/911693, nonchè l’utenza fissa della villetta a Triscina, intestata al figlio della coppia, Massimo (0924/87518).
Nell’ambito delle suddette indagini, come si è già specificato, gli inquirenti accertarono molteplici contatti con personaggi coinvolti nell’attività investigativa relativa agli ordigni esplosivi di Roma e Firenze e legati alla criminalità organizzata di stampo mafioso, quale, ad esempio, il palermitano Luigi GIACALONE.
Appurarono altresì l’esistenza di rapporti tra lo SCARANO (la cui moglie, TUSA Silvia, era originaria di Partanna) e le “famiglie” di Mazara del Vallo e Castelvetrano.
Sulla base della lettura e dell’analisi del cellulare in uso allo SCARANO scoprirono che lo stesso dal marzo al maggio del 1993 aveva avuto contatti con LOMBARDO Michele di Mazara del Vallo, noto in ambito giudiziario per essere stato posto in stato di fermo unitamente a due pregiudicati mazaresi per ricettazione e per essere stato coinvolto in un indagine del Reparto Operativo Antidroga di Palermo per traffico di hashish dalla Sicilia al continente tramite il motopeschereccio Enea di cui era proprietario; inoltre, era stato coinvolto in un indagine del N.O.R.M. di Trapani nell’ambito delle ricerche di MESSINA DENARO Francesco, a seguito di un contatto della sua utenza telefonica con altra di interesse in quella indagine.
Per ciò che concerne la zona di Castelvetrano, invece, venne accertato che nel 1993 lo SCARANO aveva acquistato una casa a Triscina dai coniugi GARAMELLA-LIBECCIO. Il GARAMELLA, originario di Campobello di Mazara aveva contatti con Francesco MESSINA DENARO, capo della “famiglia” di Castelvetrano e latitante dal 13 ottobre 1990. In particolare, era inserito nella società enologica “Castelseggio”, la cui denominazione sarebbe stata poi mutata in “Sole nascente”, nella quale aveva interessi anche il suddetto MESSINA DENARO, e aveva rapporti personali con Filippo GUTTADAURO, genero del predetto.
Lo SCARANO durante la sua permanenza a Triscina incontrò in almeno un’occasione il GARAMELLA, il quale andò a casa sua con la Renault Clio targata TP del cognato MARRONE Antonino, detto “Fifì”.
Gli investigatori scoprirono altresì che lo SCARANO a Roma era in contatto con MASSIMINO Alfio, nativo di Como, residente a Campobello di Mazara e di fatto domiciliato a Roma, all’epoca delle indagini direttore del centro commerciale “Le Torri”. L’analisi dei tabulati telefonici del suddetto centro commerciale e dell’abitazione del MASSIMINO a Roma consentirono di appurare che vi furono due contatti l’11 maggio e il 18 settembre 1993 tra il centro commerciale “Le Torri”, facente capo a MASSIMINO Alfio, e il cellulare 0337/791941 intestato alla TUSA, presente nel distretto 06 (la prima telefonata fu dal centro al cellulare di 12 scatti e la seconda dal cellulare al centro). Il MASSIMINO risultava in contatto altresì con il GARAMELLA, la cui presenza venne rilevata il 22 maggio 1993 nell’abitazione romana del primo; inoltre, al momento del suo arresto (avvenuto il 27 maggio 1993 nella capitale) venne arrestato RALLO Francesco, uomo della cosca di Partanna, era in possesso di una patente intestata al citato MARRONE Antonino Fifì.
Lo SCARANO risultò essere in contatto anche con un altro personaggio vicino alla “famiglia” mafiosa di Castelvetrano: FORTE Paolo. Da un lato, infatti, l’utenza fissa intestata alla TUSA venne chiamata per due volte da un cellulare intestato al FORTE (0337/966317) nei giorni 10 e 13 marzo 1993, e dall’altro lato l’utenza telefonica dell’abitazione della famiglia SCARANO a Triscina, intestata a SCARANO Massimo, aveva come indirizzo per fattura il distributore IP sullo svincolo A29 intestato a PISCIOTTA Filippa, moglie di FORTE Paolo.
Verso la fine di maggio 1994, nell’ambito di un servizio di pedinamento di GIACALONE Luigi accertarono che costui si recò a Milano e, il 2 giugno 1994, a Roma a casa dello SCARANO e che partì insieme a quest’ultimo per Napoli e poi, in traghetto, per Palermo (fatto, quest’ultimo, accertato con intercettazioni telefoniche). Subito (30 maggio 1994) contattarono i CC di Palermo per fare loro controllare lo SCARANO e il GIACALONE e in effetti, nel corso di un controllo effettuato il 3 giugno al porto di Palermo furono rinvenute armi e sostanze stupefacenti, cosicchè i due furono arrestati.
Il 13 luglio 1994 lo SCARANO fu colpito (insieme a RIINA Salvatore, GRAVIANO Giuseppe e Filippo e FRABETTI Aldo, del quale intanto erano emersi rapporti con lo SCARANO) da ordinanza di custodia cautelare in carcere per gli attentati del 27 e 28 luglio 1993 in San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro.
SCARANO iniziò a collaborare nel febbraio 1996, mentre ROMEO Pietro aveva intrapreso tale collaborazione nel novembre 1995 e FERRO Vincenzo la cominciò nel marzo 1996.
Esaurito questo breve excursus, può passarsi alla valutazione dell’attendibilità intrinseca dello SCARANO.
A tale proposito, deve ricordarsi innanzitutto che quando iniziò a collaborare gli era stato contestato solo il traffico di stupefacenti e non era neppure indagato per gli omicidi di FAVARA Carlo Salvatore e LOMBARDO Francesco, dei quali si autoaccusò.
Le sue propalazioni sono già state valutate positivamente dall’Autorità Giudiziaria con riferimento alla strage di Firenze nel processo stralcio celebrato a carico di CORRERA Angela + tre con rito abbreviato davanti al G.U.P. di Firenze e conclusosi con sentenza emessa il 5 luglio 1996, divenuta esecutiva, previa conferma, per la CORRERA il 13 dicembre 1996, il 28 luglio 1997 per MANISCALCO Umberto, il 16 ottobre 1997 per ROMEO Pietro e il 23 gennaio 1998 per SICLARI Pietro (cfr. menzionate decisioni, prodotte dal P.m. all’udienza del 21 febbraio 2000).
Le dichiarazioni dello SCARANO, inoltre, si sono rivelate intrinsecamente logiche, costanti, precise e dettagliate e hanno trovato significative conferme nelle propalazioni di altri collaboratori (e in primo luogo del GERACI, sulle quali ci si è già soffermati nella scheda relativa a quest’ultimo) e in molteplici dati oggettivi, che in seguito verranno ampiamente riportati.
Il collaboratore, d’altra parte, si è limitato a riferire fatti di cui egli stesso era a conoscenza diretta, per avervi partecipato o assistito personalmente, o per averli appresi da soggetti (quali il RALLO, il PANDOLFO, il GARAMELLA e il MASSIMINO), che non avrebbero avuto alcun motivo di mentirgli, sia perché era un loro intimo amico, sia perché in più occasioni aveva fornito una fattiva collaborazione a esponenti di “cosa nostra”.
Infine, lo SCARANO non ha mai mostrato alcuna inimicizia o rancore nei confronti dei soggetti che accusava, ma al contrario non ha nascosto di essere legato ad alcuni di essi da rapporti di amicizia e di essere stato sempre trattato con cortesia (cfr. in particolare la pronta disponibilità ad agevolarlo dimostrata da MESSINA DENARO Matteo).
Le propalazioni dello SCARANO sono state altresì confermate da numerosi riscontri, rappresentati sia dalle dichiarazioni di altri collaboratori (e in particolare del GERACI), sia dalle ammissioni del FORTE nel corso dell’interrogatorio reso all’Autorità giudiziaria dopo il suo arresto, sia, infine, da riscontri obiettivi emersi nel corso delle indagini. In questa sede, si darà conto soltanto dei riscontri di carattere generale, mentre quelli attinenti a specifici episodi o imputati verranno trattati nelle schede relative agli stessi.
Il FORTE è stato citato dal P.M. a deporre all’udienza del 7 gennaio 1999 in qualità di imputato di reato connesso e, essendosi egli avvalso della facoltà di non rispondere, il P.M. gli ha contestato le dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio del 17 febbraio 1997.
Ha ammesso di avere conosciuto lo SCARANO al distributore IP ubicato nello svincolo autostradale di Castelvetrano (di cui era il gestore dal luglio 1992) tramite il GARAMELLA, in quanto i due uomini si vedevano là nel periodo in cui erano in trattative per l’acquisto da parte del primo della villetta di Triscina del secondo.
In questo stesso lasso di tempo, dato che nel bar del GARAMELLA non era ancora stato installato il telefono, quest’ultimo intestò le bollette del telefono e della luce della villa di Triscina al distributore IP di PISCIOTTA Filippa, moglie del FORTE stesso, consegnandogli la somma di £.2.000.000 per pagare le bollette. Proprio con riferimento a tali ultime operazioni, il FORTE ha ammesso la possibilità di avere ricevuto telefonate dallo SCARANO, anche all’utenza di LOMBARDO Michele.
In un’occasione, sempre in quel periodo, lo SCARANO andò al distributore insieme a una sua cognata, tale Giovanna TUSA e il FORTE prestò loro una macchina perché la donna potesse andare a Partanna a trovare sua madre. In quel caso lo SCARANO gli disse che egli abitava a Roma mentre la TUSA stava a Milano.
Il FORTE ha invece negato di avere mai visto lo SCARANO a Roma.
Ha ammesso di conoscere il GARAMELLA fin dal 1990 o 1991, quando ancora lavorava in un’agenzia della Banca Sicula. Incalzato dalle domande del P.M. ha ammesso altresì che, nella speranza di ottenere da costui aiuti economici per l’acquisto del distributore IP allo svincolo autostradale di Castelvetrano (aiuto del quale per altro alla fine non ebbe bisogno), si mise a sua disposizione, dapprima prestandogli un cellulare intestato a lui e rispondente al numero 0337/963317 a partire dal maggio o giugno 1992 per il periodo di cinque o otto mesi in cui il suo compaesano si trattenne a Roma. Sempre allo scopo di acquistare benemerenze nei confronti del GARAMELLA, il quale gliene aveva fatto richiesta, si recò a Roma con GERACI Francesco per prendere in locazione un appartamento onde consentire all’amico di rendersi irreperibile e successivamente lo accompagnò nella capitale.
Tramite il GARAMELLA, il FORTE conobbe altresì MASSIMINO Alfio, che per un certo periodo gestì il bar “La terrazza” di Selinunte.
Dal tenore delle sopra riportate dichiarazioni emerge una sostanziale conferma delle propalazioni dello SCARANO -suffragate per altro da numerosi riscontri provenienti da intercettazioni telefoniche- in ordine ai suoi rapporti con personaggi gravitanti nell’orbita di MESSINA DENARO Matteo (che è stato il padrino di cresima di FORTE, il quale per altro ha tentato di minimizzare i suoi rapporti con lui) e GERACI Francesco. L’imputato di reato connesso in parola, infatti, pur cercando di trovare idonee giustificazioni, è stato costretto ad ammettere i suoi rapporti con lo SCARANO, e la veridicità delle dichiarazioni di quest’ultimo.
Gli investigatori, inoltre, hanno accertato che, conformemente alle propalazioni dello SCARANO, Filippo GUTTADAURO e Giuseppe GARAMELLA pernottarono all’albergo Holiday Inn di Parco dei Medici di Roma dal 19 al 21 novembre 1993 e il secondo anche la notte tra il 18 e il 19 ottobre 1993, pagando il conto con carta American Express, mentre risultò negativo l’accertamento su pernottamenti allo Sheraton Golf e allo Sheraton Roma, che avevano inizialmente esperito.
Le dichiarazioni dello SCARANO sono state ulteriormente confermate da accertamenti compiuti dalla P.G. sulle seguenti circostanze:
1) rapporti con Stefano ACCARDO: SCARANO e Stefano ACCARDO, nato a Partanna il 19 dicembre 1930, furono detenuti nello stesso carcere (Rebibbia) nel reparto G-9 dal 9 dicembre 1985 al 9 febbraio 1986, dal 15 febbraio al 30 settembre 1986 e dal 1 ottobre 1986 al 18 dicembre 1986 (cfr. deposizione SANTOMAURO nell’udienza del 18 febbraio 1998 nel processo a carico di AGATE Giuseppe + 11 celebrato dinnanzi al Tribunale di Marsala).
2) scarcerazione di Stefano ACCARDO: Stefano ACCARDO fu scarcerato dal suddetto carcere il 25 maggio 1987 sulla base di un provvedimento emesso il precedente 18 aprile dal G.I. di Marsala, che ne disponeva la dimora obbligata nel comune di Nicosia, dove l’ACCARDO rimase fino al 7 dicembre 1987;
3) “Dule”: si identificava probabilmente in Pauan Giain, nato a Delhi (India) il 2 ottobre 1952, arrestato per traffico di stupefacenti; fu espulso subito dopo la sua scarcerazione, avvenuta il 10 marzo 1993, cosicchè non fu possibile procedere a una più certa identificazione; per altro una lettera del medesimo, contenente un accenno allo SCARANO, fu rinvenuta sull’autovettura di Stefano ACCARDO nel sopralluogo successivo al suo omicidio;
4) pernottamenti si SCARANO a suo nome in alberghi della zona di Triscina: il collaboratore alloggiò con il proprio nome in due alberghi di Triscina: all’Hotel Alceste (di proprietà di GIACALONE Michele, detto “Michel” per avere vissuto molti anni in Francia, arrestato insieme, tra gli altri, a Leoluca BAGARELLA con ordinanza 27 settembre 1996, nell’ambito della cosiddetta “operazione BAGARELLA”) e al villaggio Triscina mare dal 16 al 19 giugno 1991 e dal 15 al 16 gennaio 1992 insieme a suo figlio Cosimo, dal 24 al 27 maggio 1992 alloggiò nello stesso albergo con la moglie TUSA Silvia; in quest’ultima occasione, lo SCARANO si imbarcò a Napoli sul traghetto della “Tirrenia” denominato “Poeta” partito il 23 maggio 1993 alle ore 20,00 con un biglietto per due persone associate all’autovettura Audi 80 turbo diesel tg-Roma5D4683;
5) quest’ultima autovettura, custodita in un garage di via Alessandrino, fu sequestrata il 20 gennaio 1995 su indicazione dello stesso SCARANO (cfr. deposizioni dei citati verbalizzanti nel procedimento a carico di BAGARELLA Leoluca + 21, cit.).
6) Salvatore: “Salvatore”, titolare di una concessionaria a Roma, amico di Stefano ACCARDO è VARIO Salvatore nato il 15 ottobre 1938; ha due figli, Vincenzo e Anna Maria, la quale ultima è coniugata con FONTANA Nicola, di Partanna e testimoni alle sue nozze furono ACCARDO Stefano, nato a Partanna il 18 dicembre 1930 e NASTASI Antonietta, nata il 27 febbraio 1957;
7) Gianni: “Gianni” abitante in viale dei Romanisti, è CASCIO Giovanni, nato a Partanna il 21 giugno 1938 e deceduto il 13 aprile 1945, con vari precedenti penali e vicino ad ACCARDO Stefano, alla cui cosca fu accusato di appartenere e da cui sarebbe stato incaricato di commettere il sequestro CAMPISI insieme ad altri (in ordine a questi ultimi due riscontri, vedi deposizione dott. Elio ANTINORO all’udienza del 15 luglio 1998).
Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, il giudizio sull’attendibilità tanto intrinseca quanto estrinseca dello SCARANO non può che essere assolutamente positivo.
GULLOTTA ANTONINO
Antonino GULLOTTA, nato a Catania il 14 luglio 1966, è stato esaminato alle udienze del 7 gennaio e del 7 luglio 1999.
Il collaboratore ha affermato di essere stato affiliato fin dal dicembre 1990 al clan dei “Cursoti” di Catania, comandato dapprima da GAROZZO Giuseppe e, dopo l’arresto di costui avvenuto nel novembre 1991, da MAZZEI Santo, che egli conobbe solo il mese successivo alla sua ascesa alla guida dell’organizzazione criminale.
Fu introdotto nell’associazione mafiosa tramite CANNAVÒ Roberto, di cui era compare per averne tenuto a battesimo il figlio, MORMINO Angelo e PORZIO Gaetano.
Durante la sua militanza nella file dei “Cursoti” compì numerosi delitti. Tra il 1990 e il 1991 perpetrò rapine a Pescara in concorso con GAROZZO Giuseppe, che in quel periodo aveva raggiunto a Roma. Fu, inoltre, coinvolto in dieci omicidi a Catania e Torino, anche se partecipò materialmente all’esecuzione di due soli di essi.
Nel capoluogo piemontese fu inserito nel gruppo di fuoco che assassinò Pietro SCIMEMI e in quello che tese un agguato a OROFINO Orazio.
Mentre sul primo episodio ci si soffermerà ampiamente nel paragrafo dedicato espressamente alla trattazione del medesimo, in questa sede appare opportuno descrivere brevemente la dinamica del secondo.
Nel 1992 Santo MAZZEI, che all’epoca viveva tra Torino e Milano, contattò telefonicamente GULLOTTA e CANNAVÒ, convocandoli a Torino, dove essi prontamente lo raggiunsero. La sera stessa del loro arrivo incontrarono un tale Salvatore, che in seguito riconobbe in fotografia e apprese chiamarsi di cognome FACELLA, e Giovanni BASTONE, che in quell’occasione vide per la prima volta e fornì loro una base d’appoggio provvisoria.
Appena giunti, il GULLOTTA, Santo MAZZEI, il FACELLA e il CANNAVÒ fecero un giro a bordo di una FIAT Uno alla ricerca del loro obiettivo, Orazio OROFINO. Costui era vicino al clan catanese VILLERA-CAPPELLO, con il quale i “Carcagnusi” erano in guerra, e gestiva un traffico di droga: la sua eliminazione aveva quindi la doppia finalità di eliminare un fiancheggiatore dei loro avversari e di togliere a costoro il controllo di un canale di traffico di stupefacenti. A un certo punto notarono una FIAT Uno bianca turbo diesel, che il MAZZEI riconobbe come quella dell’OROFINO e ci fu una sparatoria, a cui parteciparono, del loro gruppo, MAZZEI e CANNAVÒ, i quali spararono rispettivamente con un revolver calibro 9 e con uno calibro 357.
Dopo lo scontro a fuoco, il GULLOTTA e il CANNAVÒ furono inviati a Roma, dove incontrarono PRIVITERA Carmelo, in compagnia del quale lo stesso giorno si recarono a Milano, città nella quale quest’ultimo aveva un appuntamento con il MAZZEI. Quindi ritornarono in Sicilia, ma vi si trattennero solo pochi giorni, in quanto vennero richiamati nuovamente a Torino da Santo MAZZEI per l’esecuzione di un Trapanese (SCIMEMI) che dovevano commettere su richiesta di BASTONE Giovanni, con il quale il MAZZEI era in buoni rapporti.
Il collaboratore ha altresì riferito che il CANNAVÒ e il FACELLA furono gli autori dell’omicidio di RAZZANO Agatino, membro del clan “VILLERA-CAPPELLO”, all’epoca in guerra con i “Cursoti”. Il CANNAVÒ, in particolare gli raccontò che era stato l’esecutore materiale dell’assassinio, mentre il FACELLA era stato l’autista e aggiunse che il delitto era avvenuto in un mercato dove si vendevano capi di abbigliamento, che aveva sparato alla vittima un colpo alla nuca e uno in un orecchio con un revolver calibro 357 magnum e che dopo l’esecuzione una donna, forse una congiunta della vittima, lo aveva rincorso.
Il GULLOTTA ha, infine, rivelato che egli e CANNAVÒ piazzarono un ordigno esplosivo in un giardino a Firenze.
A tale riguardo ha specificato nel mese di settembre o di ottobre del 1992 i due uomini raggiunsero Santo MAZZEI a Torino e insieme a costui si diressero a Milano, dove lasciarono la Seat Ibiza del GULLOTTA, che era targata “CT”, per non dare nell’occhio, dato che il MAZZEI era latitante per essersi sottratto a Catania alla misura della sorveglianza speciale di p.s.. Contestualmente il MAZZEI acquistò in un autosalone una Opel Kadett station wagon di colore verde bottiglia, che intestò al CANNAVÒ.
Dopo avere comprato l’autovettura ritornarono a Torino nell’appartamento di via Saorgio: il GULLOTTA si mise alla guida della Opel Kadett e il CANNAVÒ sedette al suo fianco, mentre il MAZZEI e il FACELLA, con il quale ultimo si erano incontrati a Milano, presero posto a bordo della FIAT Tempra del medesimo. Nel covo torinese vi era il BASTONE, a cui il MAZZEI chiese se aveva candelotti di dinamite. Il Mazarese rispose negativamente, conferendo per altro l’incarico di procurarseli al FACELLA, il quale dopo qualche giorno riferì che aveva trovato una bomba, ma non i candelotti. Il MAZZEI commentò che non c’erano problemi, poiché dovevano farla esplodere per compiere un atto dimostrativo contro le forze dell’ordine. Quindi spiegò al GULLOTTA e al CANNAVÒ che loro due dovevano piazzarla a Firenze, vicino a un museo, che poi riconobbe come Palazzo Pitti.
L’ordigno fu consegnato al MAZZEI da persone che il GULLOTTA non vide, in quanto il suo capo lo fece aspettare un po’ distante dal luogo del convegno.
Alla volta del capoluogo toscano partirono il MAZZEI, il FACELLA, il GULLOTTA e il CANNAVÒ. I primi due presero posto a bordo della FIAT Tempra del FACELLA, che era alla guida, e fecero strada ai complici, ai quali il capo dell’organizzazione dei “Carcagnusi” aveva consegnato la bomba subito dopo averla ricevuta e che viaggiavano sulla Opel Kadett, guidata dal GULLOTTA. Imboccarono l’autostrada per Genova e Firenze, ma dato che il FACELLA procedeva molto lentamente, il GULLOTTA e il CANNAVÒ lo superarono, facendo segno che si sarebbero rivisti all’uscita di Firenze. Tuttavia sbagliarono strada, cosicchè dovettero telefonare al MAZZEI da un autogrill avvisandolo del contrattempo e ricevendo un altro appuntamento al casello autostradale di Firenze.
Il GULLOTTA e il CANNAVÒ raggiunsero il luogo del convegno alle 16,30-17,00 circa e dopo circa dieci o quindici minuti giunsero al museo. Dopo che ebbero parcheggiato l’autovettura, il CANNAVÒ scese, nascondendo il pacco nero sotto il giubbotto, entrò nel museo e uscì dopo circa venti minuti, riferendogli di essere preoccupato, in quanto all’interno c’erano telecamere e temeva di essere stato ripreso, e di avere collocato l’ordigno dietro a una statua, dove c’era terriccio.
Dopo avere piazzato l’ordigno, il gruppo ritornò verso Torino. Dopo un centinaio di chilometri, il MAZZEI effettuò una telefonata da un autogrill a un’agenzia di stampa rivendicando la responsabilità dell’attentato, anche se lo fece con parole confuse, tanto che neppure i suoi complici riuscirono a capire bene cosa avesse detto. Quando rientrarono a Torino, incontrarono il BASTONE, con il quale andarono a cena, ragguagliandolo sull’azione.
Dopo questo necessariamente breve excursus delle dichiarazioni rese dal GULLOTTA nel presente procedimento può passarsi alla valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca dello stesso.
Sotto il primo profilo, il giudizio non può che essere positivo.
Infatti il GULLOTTA si è autoaccusato di ben dieci omicidi, oltre che di altri gravi delitti, quali quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso e di rapina, oltre che dell’attentato ai giardini Boboli di Firenze, fornendo agli inquirenti un aiuto assai significativo per l’accertamento dei fatti criminosi in parola. Nel caso dell’omicidio di Pietro SCIMEMI, la sua collaborazione si è rivelata addirittura fondamentale non solo per una precisa ricostruzione della dinamica del delitto, ma anche per l’esatta individuazione di tutti i responsabili, atteso che egli stesso fece parte del gruppo di fuoco e conosceva personalmente tutti i responsabili.
Le dichiarazioni del GULLOTTA, inoltre, si sono rivelate intrinsecamente logiche, precise e dettagliate. La costanza e la coerenza delle suddette propalazioni, del resto, non è stata inficiata neppure dal dettagliato controesame condotto all’udienza del 7 luglio 1999 dai difensori degli imputati. Infatti anche in tale ultima sede il collaborante ha ribadito il resoconto precedentemente fornito senza incorrere in alcuna contraddizione, ma soltanto in talune imprecisioni dovute essenzialmente al modesto livello culturale del dichiarante (esplicitamente ammesso dallo stesso, nel momento in cui ha chiesto al legale che lo controesaminava, l’Avv. PALADINO, di scegliere parole più semplici per consentirgli di comprendere meglio il significato delle domande che gli stava rivolgendo) e alle conseguenti ben comprensibili difficoltà espressive.
Il GULLOTTA, poi, si è limitato a riferire fatti di cui egli stesso era a conoscenza diretta, per avervi partecipato o assistito personalmente, o per averli appresi da CANNAVÒ Roberto, il quale non avrebbe avuto alcun motivo di mentirgli, non solo perché era un suo intimo amico, ma altresì perché entrambi appartenevano alla stessa consorteria criminosa e spesso erano coinvolti nelle medesime azioni delittuose.
Infine, il collaboratore non ha mostrato alcuna inimicizia o rancore nei confronti dei soggetti che accusava, ma al contrario ha indicato Roberto CANNAVÒ (a cui, pure, ha attribuito la responsabilità di vari omicidi) come suo amico e addirittura suo compare, si è sempre riferito con rispetto a MAZZEI Santo, capo riconosciuto del clan dei “Cursoti” e ha ricordato con gratitudine che BASTONE Giovanni fornì consigli e aiuto al dichiarante e al CANNAVÒ, che si erano rivolti a lui, perchè non sapevano come comportarsi dopo l’arresto di MAZZEI Santo.
La credibilità del GULLOTTA non è stata inficiata neppure da pretesi contrasti con le dichiarazioni di Domenico FARINA. Il GULLOTTA, infatti, ha sempre ammesso di avere conosciuto quest’ultimo nel 1995 nel carcere di Belluno e di esserne stato avvicinato per la loro comune origine siciliana, ma ha negato di avere instaurato con lui rapporti particolari, nonostante i tentativi in tal senso del FARINA, il quale gli domandò a quale consorteria criminosa appartenesse e, avuta la risposta, gli confidò di conoscere bene alcuni affiliati dell’organizzazione dei “Cursoti”, tra cui Carmelo PRIVITERA. Orbene, queste propalazioni non sono affatto in contrasto con quelle del FARINA, il quale -contrariamente a quanto assunto da qualche difensore nel controesame- non ha mai sostenuto di avere ricevuto confidenze dal GULLOTTA, ma solo di avere passato un periodo di comune detenzione nel carcere di Belluno, fatto confermato dallo stesso GULLOTTA.
Le affermazioni del GULLOTTA hanno ricevuto significative conferme altresì sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca.
In questa scheda non ci si soffermerà sui riscontri attinenti all’omicidio di SCIMEMI Pietro (l’unico di cui il collaborante ha riferito nell’ambito del presente procedimento) e a singoli imputati, atteso che degli stessi si tratterà nelle schede dedicate specificamente all’episodio e ai personaggi predetti.
Con riferimento alla collocazione di un ordigno esplosivo nei giardini Boboli di Firenze, nell’ambito del procedimento a carico di BAGARELLA Leoluca e altri venticinque imputati celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Firenze sono emersi numerosi riscontri alle dichiarazioni del GULLOTTA:
1) collocazione di una bomba a Firenze nell’ottobre 1992: i testimoni SAMUELLI Tiziano (giardiniere, colui che ha rinvenuto l’ordigno), AMOROSO Mario (maresciallo dei Carabinieri, all’epoca dei fatti in servizio alla Stazione CC. di Palazzo Pitti, a Firenze) ed ERRICO Antonio (artificiere dell’Esercito) hanno narrato del ritrovamento, ai primi di novembre 1992, di una bomba nel giardino di Boboli a Firenze, dietro la base di una siepe, vicino alla statua di Marco Cautius. L’ordigno fu trovato da due giardinieri all’interno di un sacchetto di plastica di colore nero. Si trattava di una bomba da mortaio da 45 mm. detta anche “bomba Brixia” perché veniva sparata da un modello “Brixia” dell’anno 1935 usato nella seconda guerra mondiale, ma oggi non più in dotazione all’esercito, delle dimensioni di circa 12 cm. di altezza e 45 mm. di larghezza e caricato con gr.70 di esplosivo; L’ordigno, ancora efficiente, era di forma ogivale sulla punta e aveva quattro alette sul fondo; queste ultime erano di colore grigio scuro, mentre la testa era rossa e aveva un cappuccio di colore metallizzato. La siepe veniva potata ogni due anni, anche se capitava che ci si facessero lavori dopo i temporali o comunque quando cadevano le foglie. La bomba venne sequestrata e poi fatta brillare (udienza 7 giugno 1997).
All’udienza del 19 novembre 1997 Maurizio DALLE MURA ha precisato che l’ordigno fu ritrovato il 5 novembre 1992.
Lo stesso teste ha riferito che gli investigatori -sulla base della data di acquisto della Opel Kadett intestata al CANNAVÒ, delle dichiarazioni del GULLOTTA (che ha detto che piazzarono l’ordigno pochi giorni dopo l’acquisto della suddetta autovettura e che quando si allontanarono da Firenze scoppiò un forte temporale) e dei dati metereologici dell’osservatorio Ximeniano di Firenze- dedussero che l’ordigno al giardino Boboli fu piazzato il 17 ottobre, giorno in cui si scatenò un forte temporale su Firenze tra le 17,05 e le 18,15 con un breve intervallo tra le 17,10 e le 17,25.
L’Ispettore Andrea RATTI del Centro Operativo D.I.A. di Firenze ha accertato che dal giugno 1992, in concomitanza con l’istituzione del biglietto di accesso ai giardini, vi è un solo ingresso (quello principale di Piazza Pitti), in luogo dei tre o quattro del periodo precedente. Nel mese di ottobre i giardini erano aperti dalle 9,00 alle 18,00, ma la biglietteria lo era solo fino alle 16,30, cosicchè dopo tale orario non era più consentita l’entrata. Il dott. ZITO all’udienza dell’11 novembre 1997 ha precisato che dal 2 giugno 1992 l’accesso ai giardini Boboli di Firenze era subordinato al pagamento di un biglietto di ingresso e la disposizione era ancora in vigore al momento dell’accertamento (16 agosto 1996).
2) Opel Kadett intestata a Cannavò Roberto: il teste Stephan VALERIANI ha invece riferito sugli accertamenti sulla Opel Kadett 1.600 diesel, tg. MI-3A6478. La macchina era dapprima di tale LONGO Giorgio, il quale diede la procura a vendere alla concessionaria “Auto Cazzaniga s.r.l.” di Cernusco sul Naviglio. Quest’ultima, a sua volta, affidò l’automobile con delega alla vendita alla Concessionaria “Automobili Vicenti” di Vimodrone. Il 5 ottobre 1992 alle ore 11,30 CANNAVÒ Roberto, nato a Torino il 13 marzo 1967 e residente a Catania in via De Caro n.11, firmò una dichiarazione con la quale si assunse la responsabilità per l’acquisto dell’autoveicolo. Dallo stesso 5 ottobre 1992 alle ore 11,00 partiva la copertura assicurativa valida fino al 5 dicembre 1992 (udienza 7 giugno 1997).
3) FIAT Tempra Station Wagon che nell’ottobre 1992 era intestata a FACELLA Salvatore: il dott. Maurizio DALLE MURA, all’udienza del 19 novembre 1997 ha riferito sulla disponibilità in capo al FACELLA di una FIAT Tempra Station Wagon Select tg.TO-23642S (immatricolata nell’anno 1991 e iscritta il 27 gennaio 1992: deposizione CAPPOTTELLA il 9 dicembre 1997).
Ulteriori riscontri oggettivi alle propalazioni del FACELLA attengono all’omicidio di RAZZANO Agatino e alla sparatoria contro OROFINO Orazio, e più specificamente:
1) L’8 giugno 1992 giunse una telefonata anonima che segnalava che gli autori dell’omicidio di RAZZANO Agatino, avvenuto , in via Sestriere di Borgo San Pietro di Moncalieri, erano fuggiti a bordo di una Lancia Thema di colore verde scuro tg. Roma-86720X. Nel pomeriggio dello stesso giorno il veicolo fu trovato in via delle Cacce, all’altezza del civico n.150, chiuso a chiave e privo di evidenti segni di effrazione o altre manomissioni.
All’esito di accertamenti venne evidenziato che l’ultimo numero di targa era stato alterato, in quanto originariamente non era “0”, ma “6”. Si appurò altresì che il mezzo era stato rubato a BENINI Mauro, residente in Campi Bisenzio (FI) ed era originariamente targato FI-K93566 e di proprietà della Ditta Neuma Laser di Campi Bisenzio.
La targa Roma-86726X apparteneva invece ad una Opel Kadett 1,4 di proprietà della ditta Axus Italiana di Roma, il cui furto era stato denunciato in data 8 aprile 1992 (cfr. verbale di sequestro dell’autovettura Lancia Thema da parte del Nucleo Operativo CC Torino in data 8 giugno 1992).
2) Agatino RAZZANO, fu ucciso a Moncalieri, via Sestrieres, nella quale allora come ora si teneva quotidianamente il mercato rionale, alle 9,30 dell’8 giugno 1992, e dopo l’assassinio la figlia della vittima, Anna Maria, inseguì i killer, conformemente alle affermazioni del collaborante.
3) In seguito alla denuncia di danneggiamento di un’autovettura parcheggiata in via Catania all’altezza del civico n.11/A, verosimilmente a causa dell’esplosione di colpi d’arma da fuoco che l’avevano attinta in varie parti della carrozzeria, una pattuglia del N.O.R. della Stazione CC. di Borgo Dora di Torino si portò nella suddetta strada.
Ivi giunti, gli operanti constatarono che l’autovettura Renault 5 GTR di colore grigio scuro targata TO-31487/H presentava tre fori di proiettile ben visibili all’esterno.
Nelle adiacenze dell’automobile venivano rinvenuti tre bossoli calibro 9×19 mm., unitamente ad alcuni frammenti metallici costituenti, in origine, l’incamiciatura e il nocciolo dei proiettili medesimi -in parte nell’abitacolo del mezzo, nel quale si erano conficcati, e in parte in strada nei pressi del veicolo in questione.
Disseminati lungo la via Catania, a partire dal civico n.11/A e fino quasi all’incrocio con il lungo Dora Firenze, trovarono altri tre frammenti metallici consimili ai precedenti e notarono altresì la presenza, nei pressi dell’incrocio predetto, di scalfittura di proiettili su un segnale metallico stradale.
Sulla base di questi elementi i verbalizzanti ipotizzarono che i colpi, almeno quattro, erano stati esplosi da persona in movimento, che da via Catania era diretta verso il Lungo Dora Firenze (cfr. verbale di sequestro del materiale balistico in data 15 maggio 1992 e piantina in atti).
Le dichiarazioni del GULLOTTA sono state puntualmente riscontrate altresì da quelle di altri collaboratori: il FARINA sull’omicidio di RAZZANO Agatino e sulla sparatoria con OROFINO Orazio, il PATTI e il SINACORI sull’omicidio SCIMEMI e i rapporti con alcuni degli imputati nel presente giudizio.
A fronte di rivelazioni tanto puntuali e confermate da tanti significativi riscontri, la circostanza che il collaboratore non sia stato in grado di individuare il luogo in cui avvenne l’omicidio del “Trapanese”, nè quello in cui era rimasto in attesa dei complici a bordo della Lancia Thema (cfr. verbale di sopralluogo datato 30 marzo 1996) non può in alcun modo inficiare la complessiva attendibilità del dichiarante, tanto più che egli si recò raramente a Torino ed è quindi assolutamente verosimile che non fosse in grado di ritrovare posti nei quali andò solo in occasione dell’assassinio in parola.
D’altra parte, nel corso del medesimo sopralluogo il collaborante dapprima accompagnò gli operanti in Corso Gabetti, angolo Piazza Borromini, luogo ove era stata abbandonata, la stessa sera della sparatoria, la FIAT Uno diesel a cinque porte utilizzata per la sparatoria ingaggiata con Orazio OROFINO.
Successivamente localizzò in uno stabile sito in via Saorgio 24 l’alloggio in cui egli, MAZZEI Santo e CANNAVO’ Roberto avevano dormito dopo la predetta sparatoria.
Individuò poi il posto in cui si era verificata la sparatoria con l’OROFINO.
Riconobbe infine o nel civico 276 o in quello 284 di via Peschiera quello in cui abitava Giovanni BASTONE (il quale in effetti risultava risiedere anagraficamente al n.276).
Sulla base di tutte le sopra riportate argomentazioni, il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del GULLOTTA non può che essere pienamente positivo.
DI CARLO FRANCESCO
Francesco DI CARLO è stato escusso alle udienze del 7 maggio 1998 e del 18 maggio 1999 nella qualità di imputato di reato connesso.
Nel presente procedimento il contributo offerto dal DI CARLO è stato assai limitato, atteso che egli fu “posato” dalla “famiglia” di Altofonte nel 1982 e pertanto le sue conoscenze sono legate soprattutto alla provincia di Palermo e sono assai datate nel tempo.
Nel corso del suo esame il DI CARLO ha riferito che fu affiliato alla cosca di Altofonte a metà degli anni ’60, dapprima come soldato semplice, poi come consigliere, quindi come sotto-capo e infine come rappresentante. Durante la sua militanza nell’associazione fu sempre molto vicino a Salvatore RIINA, di cui godeva la piena fiducia, tanto che durante la latitanza del boss corleonese soltanto il DI CARLO stesso, Giacomo Giuseppe GAMBINO e colui che di volta in volta lo ospitava sapevano dove si trovasse. Nel 1982 il collaboratore fu “posato”, ma questo fatto non recise il suo legame con l’associazione, poiché egli mantenne i contatti e le amicizie, rimanendo pertanto costantemente informato sulle vicende dell’organizzazione.
Il collaborante ha riportato altresì per sommi capi le vicende della guerra di mafia combattuta tra i “viddani” corleonesi e i Palermitani di Stefano BONTADE e Salvatore INZERILLO e delineato l’organizzazione interna di “cosa nostra”.
Infine, ha individuato alcuni esponenti mafiosi di spicco della provincia di Trapani, con i quali entrò in contatto negli anni ’70 tanto per ragioni inerenti al suo lavoro, quanto per conto del RIINA.
La sua collaborazione con la Procura della Repubblica di Palermo è iniziata il 13 giugno 1996, dopo che fu stato tradotto in Italia per scontare una condanna a trentacinque anni di reclusione inflittagli nel Regno Unito per traffico internazionale di stupefacenti.
Le dichiarazioni del DI CARLO debbono essere giudicate attendibili sia sotto il profilo intrinseco che sotto quello estrinseco.
Innanzitutto, la posizione di prestigio ricoperta all’interno dell’associazione e la sua vicinanza al RIINA hanno consentito al collaboratore di essere molto bene informato sugli equilibri e le alleanze interne a “cosa nostra” quanto meno fino al 1982, sulle origini e la dinamica della guerra di mafia che in quegli anni insanguinò la Sicilia e sull’organizzazione interna della stessa.
Per le stesse ragioni è altresì assai verosimile che egli avesse contatti anche nella Sicilia occidentale, nel cui territorio il RIINA poteva contare su alcuni validi alleati (soprattutto Francesco MESSINA DENARO e Mariano AGATE), i quali gli consentirono di ottenere una totale vittoria nello scontro, di vitale importanza, contro i RIMI di Alcamo, importanti alleati dei BADALAMENTI.
Inoltre, il suo racconto -che è apparso chiaro, preciso e intrinsecamente logico- ha avuto ad oggetto quasi sempre fatti e circostanze noti al collaboratore per sua scienza diretta, cosicchè esso può essere altresì giudicato certamente genuino.
Dalle dichiarazioni del DI CARLO, poi, non è emerso che egli provasse alcun rancore o risentimento nei confronti delle persone che accusava, con le quali, del resto, non ha mai intrattenuto rapporti di particolare intensità, essendo i rispettivi interessi criminali legati ad ambiti territoriali diversi e distinti.
Infine le propalazioni del DI CARLO, con particolare riferimento all’appartenenza all’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, sono state confermate da numerosi altri collaboratori esaminati nel presente processo (il PATTI, il SINACORI, il GIACALONE, il BRUSCA, il FERRO, il BONO, il GERACI).
MILAZZO FRANCESCO
Francesco MILAZZO è stato esaminato nelle udienze del 23 settembre 1998, 22 aprile 1999 e 9 novembre 1999.
Nel corso degli esami suddetti ha riferito di essere stato affiliato alla “famiglia” di Paceco alla fine del 1983 o inizio del 1984.
Ha aggiunto che all’epoca in cui fu “combinato”, Paceco era la sede del mandamento (che il collaboratore ha chiamato “circondario”), alla cui guida era SUGAMIELI Vito, il quale, per altro, a un certo punto venne sostituito su sua stessa richiesta da Totò MINORE, capo della cosca di Trapani, città che divenne pertanto nuova sede mandamentale. Al MINORE succedette Cola GUICCIARDI, il quale morì di morte naturale e fu sostituito da VIRGA Vincenzo.
Il MILAZZO ha poi fornito ragguagli sul mandamento di Trapani e sui membri delle “famiglie” che lo componevano, oltre che sugli “uomini d’onore” della Provincia di Trapani che conosceva (cfr., per notizie più dettagliate, i paragrafi dedicati alla struttura dei mandamenti del trapanese e quelli aventi ad oggetto i singoli imputati).
Il dichiarante ha, infine, riferito di essere stato arrestato in forza di un provvedimento restrittivo in cui era accusato di essere tra i responsabili dell’omicidio dell’agente MONTALTO e di avere iniziato a collaborare con la giustizia pochi giorni dopo la sua cattura, avvenuta il 20 luglio 1997, nel corso dell’interrogatorio condotto dal Procuratore della Repubblica di Palermo dottor CASELLI.
Nel corso della sua collaborazione ha ammesso il proprio coinvolgimento nel predetto omicidio, chiamando in correità MAZZARA Vito, rappresentante della “famiglia” di Valderice e ORLANDO Franco di Trapani. Ha inoltre ammesso la propria colpevolezza con riferimento agli omicidi di MONTELEONE, Pietro INGOGLIA (anche in questi casi in concorso con il MAZZARA), Girolamo MARINO, Alberto MANCUSO, DI MAGGIO e il suo aiutante e RINDINELLA, nonché al tentato omicidio e al successivo omicidio BARBERA.
Pietro INGOGLIA, a detta del collaboratore, era originario di Partanna, o comunque dell’interno della Provincia di Trapani, ma risiedeva a Trapani. Il MILAZZO ha affermato di non essere stato tra gli esecutori materiali del delitto, ma di avere partecipato, su ordine di Vincenzo VIRGA, ad alcuni appostamenti nel corso della fase preparatoria. Il VIRGA ebbe a riferirgli in particolare altresì che la decisione era stata presa dalla Provincia (“la provincia ha deciso di ammazzare INGOGLIA”) per motivi che non precisò. L’esecuzione materiale del delitto toccò ai Trapanesi, poiché la vittima abitava in Trapani, anche se non stabilmente, dato che se ne allontanava per certi periodi. Per quest’ultima ragione, l’organizzazione dell’omicidio richiese tempo: in un’occasione addirittura lo individuarono in un campeggio vicino a San Vito Lo Capo, dove fecero appostamenti.
Le dichiarazioni del MILAZZO debbono essere giudicate attendibili sia sotto il profilo intrinseco che sotto quello estrinseco.
Innanzitutto, la posizione di prestigio ricoperta all’interno dell’associazione e i molti anni di militanza nell’organizzazione hanno comportato che il collaboratore fosse molto bene informato sugli organigrammi delle varie “famiglie” del mandamento e sui soggetti di maggiore spessore mafioso della Provincia.
Inoltre, il suo racconto -che è apparso chiaro, preciso e intrinsecamente logico- ha avuto ad oggetto quasi sempre fatti e circostanze noti al collaboratore per sua scienza diretta, cosicchè esso può essere altresì giudicato certamente genuino.
Dalle dichiarazioni del collaboratori, poi, non è emerso che egli provasse alcun rancore o risentimento nei confronti delle persone che accusava, con le quali, del resto, non ha mai intrattenuto rapporti di particolare intensità, essendo i rispettivi interessi criminali legati ad ambiti territoriali diversi e distinti.
Infine le propalazioni del MILAZZO, con particolare riferimento all’appartenenza all’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, sono state confermate da numerosi altri collaboratori esaminati nel presente processo (il PATTI, il SINACORI, il GIACALONE, il BRUSCA, il FERRO, il BONO, il GERACI).
Nel corso del procedimento sono stati acquisiti altresì riscontri oggettivi alle sue affermazioni: mentre quelli attinenti a singoli imputati verranno esaminati nelle schede relative agli stessi, in questa sede si tratterà dei riscontri aventi carattere generale.
In particolare il dottor LINARES Giuseppe, nell’ambito della deposizione resa nell’udienza del 24 marzo 1998 nel processo a carico di ALECI Diego e altri (n.250/97 R.G.) celebrato dinnanzi al Tribunale di Trapani ha riferito l’esito delle attività di riscontro compiute dal suo ufficio sulle dichiarazioni del MILAZZO, resosi latitante il 21 dicembre 1997, dopo essere stato colpito da ordinanza di custodia cautelare nell’ambito del procedimento cosiddetto “Rino 2” scaturito dalle propalazioni di SINACORI Vincenzo.
Le affermazioni del MILAZZO, oltre a svelare le vicende del mandamento di Trapani successive al 1988, hanno contribuito a fare luce su vari episodi delittuosi, tra cui il tentato omicidio BARBERA e l’assassinio di Pietro INGOGLIA.
L’omicidio di Pietro INGOGLIA (che risiedeva a Trapani in via Nunzio Nasi) venne commesso a Trapani alle ore 18,00 circa del 3 dicembre 1989 nella sede provinciale dell’INPS, dove la vittima si recava spesso a telefonare, sita in via Scontrino, che collega la Piazza Vittorio Emanuele con la Piazza della Stazione. L’INGOGLIA, che era salito sulla propria auto dopo avere effettuato una telefonata, fu assalito da alcuni individui a bordo di una vespa, i quali esplosero al suo indirizzo alcuni colpi di revolver. Per l’episodio delittuoso in esame sulla base delle propalazioni del MILAZZO è stata emessa ordinanza di custodia cautelare a carico di VIRGA Vincenzo, BICA Francesco, BONANNO Pietro Armando, LOMBARDO Giuseppe (che non partecipò all’esecuzione del delitto, ma fu presente nella fase di pianificazione e negli accertamenti preliminari alla fase operativa), i cugini COPPOLA, MILAZZO Francesco e altri uomini d’onore della famiglia di Paceco.
Il tentato omicidio di BARBERA Giovanni fu perpetrato il 3 agosto 1996 in una stradina interpoderale che si diparte dalla strada che congiunge Trapani a Castelvetrano, al km.8 da Paceco. Il BARBERA era stato come d’abitudine a prendere un caffè al bar Centrale di Paceco, detto bar Favuzza dal nome dei precedenti proprietari e stava dirigendosi al suo ovile a bordo di una FIAT Uno insieme ai due figli e ad altre tre persone. Fu affiancato da due motociclisti con casco e il passeggero gli sparò tre colpi di revolver, di cui due lo attinsero alla base della testa. Per l’episodio in esame, sulla base delle chiamate in correità del MILAZZO furono colpiti da provvedimento custodiale VIRGA Vincenzo in qualità di mandante, GIANNI Gianfranco e POMA Giuseppe come esecutori materiali, nonchè ORLANDO Francesco.
Prima delle dichiarazioni del MILAZZO, l’ORLANDO, consigliere comunale socialista, era noto agli inquirenti essenzialmente perchè suo padre Domenico, soprannominato Mimì, era un noto pregiudicato vicino a Franco LIPARI (capo dell’omonima associazione a delinquere, i cui componenti hanno subito un processo dinnanzi al Tribunale di Trapani) ed è imputato per il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso nel processo a carico di ACCARDI Gaetano e altri. Nel 1993, quando si sparse la voce che si era pentito Pietro BONANNO una serie di persone, temendo di essere coinvolte nelle sue rivelazioni, si rivolsero cautelativamente a legali e tra queste vi fu ORLANDO Francesco. Per tale ragione il suo nome divenne conosciuto agli inquirenti come persona vicina, oltre che ai LIPARI, anche a mafiosi di spicco quali Pietro Armando BONANNO, Francesco BICA e Nino BUZZITTA, consigliere della “famiglia” di Trapani (cfr. sulla figura di ORLANDO Franco altresì deposizione dell’ispettore Leonardo DE MARTINO nell’udienza del 28 febbraio 1998 nell’ambito del processo contro ALECI e altri).
POMA Giuseppe, nato a Paceco l’11 agosto 1966, il quale era già stato oggetto di attenzione da parte degli investigatori nel corso delle indagini finalizzate alla cattura di MILAZZO Francesco, svolgeva lavori di idraulica e su impianti elettrici. Sua madre era parente di Vito PARISI, boss pacecoto attualmente detenuto, e lo stesso POMA fu notato insieme a parenti del PARISI nei pressi dell’aula giudiziaria del tribunale di Trapani nella quale si teneva il processo contro ACCARDI Gaetano e altri (“Petrov”).
GIANNI Gianfranco era ben noto agli inquirenti in epoca antecedente alla collaborazione del MILAZZO:
– il 1 gennaio 1983 la questura di Trapani inviò una nota alla Compagnia dei Carabinieri del medesimo capoluogo di Provincia di Trapani chiedendo informazioni sul conto del GIANNI al fine di verificare se ci fossero i presupposti per proporlo per la diffida.
– il 3 marzo del 1983 la Squadra Mobile di Trapani pose il GIANNI in stato di fermo per furto, rapina, porto e detenzione di fucile a canne mozze e associazione per delinquere, in concorso con RINAUDO Francesco e DANESE Salvatore, per una rapina a carico di MORELLO Andrea, titolare di una macelleria e il successivo 16 marzo la Procura della Repubblica di Trapani emise un ordine di cattura per il medesimo reato;
– il 28 marzo del 1983, mentre era detenuto in forza dei predetti provvedimenti, venne denunciato per furto e rapina aggravata ai danni del cinema “Ideal” e per un’altra rapina in danno di SUCAMELE Baldassare, sempre in concorso con il RINAUDO e il DANESE;
– il 25 maggio 1984 la Questura di Milano munì il GIANNI di foglio di via obbligatorio;
– il 29 settembre 1984 venne arrestato dalla Squadra Volante per furto d’auto;
– il 14 novembre 1984 fu sottoposto a diffida dal Questore e il 6 dicembre 1985 il Prefetto di Trapani emise provvedimento di sospensione della patente di guida;
– il 27 aprile 1986 la Squadra Mobile lo denunciò in stato di irreperibilità insieme a SALERNO Carmelo per tentato omicidio ai danni di MANUGUERRA Antonino, cl.1946, e per porto abusivo di arma da fuoco;
– il 28 aprile 1986 la Procura della Repubblica di Trapani emise ordine di cattura e il GIANNI si rese irreperibile;
– il 17 maggio 1986 fu arrestato dai Carabinieri di Alcamo insieme a SALERNO Carmelo nella casa di campagna in Contrada Canalotto di Alcamo di proprietà di PIRRONE Pietro, diffidato, PIRRONE Giuseppe cl.1946, indiziato mafioso, e PIRRONE Giovanna;
– il 26 giugno 1988 il Tribunale di Trapani, sez. Misure di Prevenzione, gli irrogò la misura della sorveglianza speciale di P.S. per la durata di un anno;
– il 21 ottobre 1983 venne posto in stato di fermo per il tentato omicidio di MODICA Giuseppe cl.1959 di Paceco, insieme a SCADUTO Salvatore e SALERNO Carmelo;
– il 21 dicembre 1996 fu catturato siccome accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e venne successivamente rimesso in libertà dal Tribunale il 12 gennaio 1997.
– alla notizia della collaborazione di MILAZZO Francesco, il GIANNI si rese irreperibile, venendo catturato il 4 novembre 1997 qualche giorno dopo l’esecuzione della misura relativa all’operazione “”Halloween” del 30 ottobre 1997, dopo che era venuto un po’ allo scoperto poiché non era stata fatta trapelare la notizia che anch’egli era indagato nell’ambito di quel procedimento e aveva quindi pensato di non essere stato menzionato dal collaborante.
Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del MILAZZO non può che essere positivo.
FILIPPI BENEDETTO
Il FILIPPI è stato esaminato ai sensi dell’art.210 c.p.p. all’udienza del 30 settembre 1998 e ha reso dichiarazioni esclusivamente sulla guerra che fu combattuta ad Alcamo, alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 tra la “famiglia” guidata da MILAZZO Vincenzo e la cosca cosiddetta “dei GRECO”.
Sono state acquisite altresì le dichiarazioni rese dallo stesso all’udienza del 10 febbraio 1996 nell’ambito del procedimento contro AGRIGENTO Giuseppe e altri, utilizzabili -non essendo intervenuto il consenso dei difensori degli altri prevenuti ex art.238 c.IV c.p.p.- solo nei confronti di ALCAMO Antonino, BRUSCA Giovanni, BRUNO Calcedonio, CASCIO Antonino, FERRO Giuseppe, GERACI Francesco, LA BARBERA Gioacchino, LEONE Giovanni, MADONIA Salvatore, MESSINA DENARO Matteo, RIINA Salvatore, SINACORI Vincenzo, GANCITANO Andrea, ai sensi del comma II bis della norma citata.
Benedetto FILIPPI è stato uno degli esponenti di spicco della consorteria criminale costituitasi alla fine degli anni ’80 intorno a DAIDONE Giovanni, con lo scopo di contendere a “cosa nostra” il controllo del territorio nella zona di Alcamo.
Sulla guerra scatenatasi tra le due cosche in seguito all’omicidio dell’“uomo d’onore” CARADONNA Francesco da parte degli emergenti, avvenuto il 3 ottobre 1989, e sul contributo di fondamentale importanza fornito dalle propalazioni di Benedetto FILIPPI ci si soffermerà ampiamente nell’introduzione al paragrafo (Parte IV – Capitolo IV) in cui verrà trattata espressamente questa sanguinosa vicenda.
Nella presente sede sarà pertanto sufficiente richiamare gli elementi necessari ai fini della valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca del collaboratore. A tale proposito, appare opportuno rilevare che, nel processo che ci occupa, le dichiarazioni del FILIPPI hanno un rilievo marginale ai fini dell’accertamento della penale responsabilità degli imputati in ordine ai reati loro ascritti. Esse, infatti, sono finalizzate soprattutto a costituire un riscontro alle affermazioni dei collaboranti inseriti in “cosa nostra”, atteso che gli episodi della guerra di Alcamo in trattazione nel presente giudizio sono stati tutti perpetrati da quest’ultima associazione. Nondimeno, a giudizio della Corte, esse meritano di essere vagliate attentamente, atteso la loro fondamentale importanza ai fini della ricostruzione che si opererà delle fasi della guerra di mafia.
Sull’attendibilità del collaboratore con riferimento alle rivelazioni effettuate dallo stesso nell’ambito delle vicende relative allo scontro che vide contrapposti i due citati clan si sono già pronunciate diverse sentenze divenute irrevocabili, e in particolare, quella emessa dalla Corte d’Assise di Trapani il 21 giugno 1994 a carico di GRECO Lorenzo e altri, nonché quelle pronunciate dal Tribunale del medesimo circondario il 1 aprile 1995 e il 12 novembre 1994 rispettivamente nei confronti di ASARO Mariano e altri e PAZIENTE Gaetano e altri, integralmente confermate sul punto dalle successive decisioni in grado di appello e di cassazione (cfr. in atti, prodotte dal P.M.).
Le considerazioni svolte nei suddetti provvedimenti, a giudizio di questa Corte, debbono essere ritenute pienamente condivisibili.
Il FILIPPI -ricercato dall’Autorità di pubblica sicurezza siccome destinatario di un provvedimento restrittivo emesso il 24 aprile 1991 per fatti relativi alla guerra di mafia di Alcamo- si costituì al Commissariato di Polizia della predetta cittadina la notte del 28 settembre del 1991 e iniziò immediatamente una proficua attività di collaborazione con la giustizia, riferendo numerose informazioni sulla composizione e sulle illecite attività delle due cosche alcamesi, sulle cause e sulla dinamica dello scontro in atto e sulle singole responsabilità in ordine ai crimini consumati nell’ambito dello stesso. In particolare, consentì fin da subito agli inquirenti di rinvenire armi e munizioni utilizzate dal suo clan per la perpetrazione di numerosi crimini. Inoltre, confessò la propria partecipazione alla fase esecutiva di ben sei omicidi e a quella decisionale di almeno altri due assassinii, nonché la propria responsabilità a vario titolo in ordine a quattro rapine, alcuni furti e una estorsione, senza che, nella maggior parte dei fatti in parola fosse stato acquisito alcun significativo elemento a suo carico.
Le dichiarazioni del FILIPPI, come meglio si vedrà in seguito, furono decisive al fine della scoperta delle causali e degli sviluppi della guerra di mafia di Alcamo e all’individuazione dei responsabili dei singoli fatti criminosi che insanguinarono la città nel corso della stessa.
Infatti, sulla base di esse, dopo avere disposto le necessarie verifiche di P.G., il G.I.P. del Tribunale di Trapani emise, in data 2 novembre 1991, ordinanza di custodia cautelare in carcere contro quattordici presunti affiliati alla cosca cosiddetta dei GRECO e il 18 aprile 1992 un altro provvedimento restrittivo nei confronti di trentotto presunti affiliati alla “famiglia” mafiosa capeggiata dal MILAZZO (procedimenti che poi sfoceranno nella condanna degli imputati in ordine a molti dei delitti loro ascritti da parte della Corte d’Assise e del Tribunale di Trapani).
Le rivelazioni del FILIPPI debbono essere giudicate intrinsecamente assai attendibili.
In primo luogo, infatti, deve sottolinearsi che, come si è già precisato, egli iniziò il suo rapporto di collaborazione con l’Autorità Giudiziaria addossandosi la responsabilità per molti gravi delitti in ordine ai quali non esistevano all’epoca significativi indizi a suo carico, dimostrando in tal modo inequivocabilmente la ferma intenzione di rompere i ponti con il suo precedente stile di vita.
A tale conclusione non osta la considerazione che lo stesso FILIPPI ha lealmente ammesso di essere stato spinto ad intraprendere il cammino della collaborazione con la giustizia dal timore per la propria vita, ingenerato da un lato dalla soppressione del suo uomo di fiducia, Pietro CALVARUSO, verosimilmente da parte del gruppo avverso, e dall’altro lato da contrasti sorti con alcuni suoi consociati a causa della mancata condivisione da parte sua della linea stragista che costoro avevano deciso di attuare, spinti dai fratelli VITALE di Partinico. Sotto questo profilo, infatti, deve osservarsi che, se la chiamata in correità viene giudicata di regola meno attendibile della testimonianza a causa della possibile esistenza di interessi perseguiti dal dichiarante, non può non considerarsi altresì che tra i probabili interessi vi è quello di ottenere protezione dall’apparato statale per sé e per i propri familiari e che, in questa prospettiva, il collaborante ha tutta la convenienza a non introdurre, tra quelli veri, dati falsi, poiché l’eventuale accertamento di tale circostanza comporterebbe il concreto rischio del venire meno o comunque dell’affievolirsi di tale protezione. A ciò consegue che, anche sul piano logico, il principale interesse del collaborante è certamente quello di attenersi a una fedele rappresentazione dei fatti visti e conosciuti.
Può pertanto ritenersi dimostrato che il FILIPPI fosse inserito nel sodalizio di stampo mafioso facente capo, fino alla sua soppressione, a DAIDONE Giovanni e successivamente a un gruppo dirigente più ampio in cui lo stesso FILIPPI aveva un ruolo di primo piano. Di conseguenza, deve altresì ritenersi che egli fosse a conoscenza non solo dell’identità dei suoi consociati e degli atti criminosi imputabili al clan dei GRECO, ma altresì dell’esistenza della cosca avversaria e dei suoi membri di maggiore rilievo, fatti del resto, acclarati in numerose sentenze, tra cui, principalmente, quelle citata.
L’attendibilità del FILIPPI deve essere giudicata piena non solo con riferimento agli episodi narrati come fonte diretta, avendovi partecipato o assistito in prima persona (tra questi ultimi, in particolare, il tentativo di rapimento nei suoi confronti il 14 novembre 1989, subito dopo il sequestro del gemello Vincenzo e la sparatoria tra la pattuglia composta dagli agenti di p.s. CIOTTA e BENEDETTO e alcuni membri della “famiglia” guidata dal MILAZZO, nella quale trovò la morte il fratello di quest’ultimo, Paolo), ma anche per quelli per i quali le sue propalazioni sono state “de relato”. Sotto quest’ultimo aspetto, in particolare, egli ha appreso tutti gli episodi narrati da altri esponenti della sua stessa cosca, i quali non avrebbero avuto motivo di fornirgli false informazioni, né con riferimento a fatti relativi alla consorteria di cui tutti gli interlocutori facevano parte, né con riferimento a quelli della banda rivale. Ciò tanto più in quanto erano dapprima in procinto di scatenare una guerra contro “cosa nostra” in un territorio in cui essa era tradizionalmente molto potente e in seguito tale scontro mortale era in corso e pertanto era interesse comune che, nel caso di uccisione o impedimento di alcuni dei capi dell’associazione (come avvenne appunto per il DAIDONE e per GRECO Antonino, le principali fonti del FILIPPI per i dati attinenti alla “famiglia” facente capo al MILAZZO, i quali vennero presto eliminati), gli altri membri del gruppo avessero una approfondita conoscenza della situazione.
In ogni caso, tanto per le dichiarazioni di cui il collaboratore aveva cognizione diretta quanto per quelle riferitegli da altri, non può che propendersi per un giudizio di piena attendibilità, tenuto conto della rilevantissima mole delle sue dichiarazioni, della loro complessa articolazione, della loro intrinseca logicità, coerenza e plausibilità.
Le dichiarazioni del FILIPPI, inoltre, sono state suffragate da numerosi e significativi riscontri di natura estrinseca, evidenziati nelle citate sentenze ormai definitive, e in particolare dai seguenti elementi:
a) il reperimento, dietro sua accurata descrizione dei luoghi dell’occultamento, di due depositi sotterranei di armi di pertinenza del caln dei GRECO;
b) la conferma, da parte degli accertamenti balistici disposti dalla Corte d’Assise di Trapani,della veridicità delle indicazioni fornite circa l’utilizzazione di specifiche armi nell’esecuzione dei singoli fatti di sangue;
c) l’avvenuto arresto, su provvedimento della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo ed in base ad una precisa testimonianza de visu del FILIPPI, di BENENATI Simone, quale autore materiale dell’omicidio di GRIMALDI Baldassare, genero di GRECO Domenico;
d) l’accertato pernottamento del BENENATI e di INTERDONATO PIETRO in una stessa camera dell’albergo “Al Magadir” di Castellammare del Golfo, cosi’ come riferito dal FILIPPI;
e) il tenore dello scritto olografo rinvenuto dopo la morte di DAIDONE Giovanni, nonchè le informazioni rese dalla di lui sorella Filippa e dalla convivente NOTO Antonia circa le gravi ragioni di contrasto coi fratelli MALTESE e con il MILAZZO Vincenzo per il controllo della società di calcestruzzi “Tre Noci”;
f) le accertate fratture agli arti riportate da SCIACCA Baldassare e DARA Tommaso in circostanze perfettamente compatibili con il racconto da parte del FILIPPI dell’episodio in cui si verificarono (attentato alla vita degli stessi da parte dei membri del suo clan, su decisione di GRECO Antonino);
g) l’avvenuta intercettazione ed il successivo sequestro, subito dopo il conflitto a fuoco (nel quale trovò la morte MILAZZO Paolo) tra i passeggeri di una FIAT Panda di colore nero e personale del Commissariato di Alcamo la sera del 29 aprile 1991, di una Y 10 di colore celeste, sul quale il FILIPPI viaggiava con altri incappando -come dallo stesso riferito- in un’altra pattuglia di p.s.;
h) la sicura cointeressenza del POLLINA Antonino, quale imprenditore occulto e nonostante le sue negazioni, in azienda di autotrasporti con diretta proprietà di automezzi.
Il complesso di tali valutazioni conduce a un giudizio di complessiva sicura attendibilità sia intrinseca che estrinseca di FILIPPI Benedetto, le cui dichiarazioni hanno trovato tante specifiche conferme su fatti e persone diverse da doversi considerare degne in toto di fede (ovviamente le sue dichiarazioni de relato, in quanto tali, vanno valutate con estrema attenzione e cautela e necessitano di idonei riscontri).
GRECO LORENZO
Lorenzo GRECO, nato ad Alcamo il 16 novembre 1967, è stato esaminato nel presente procedimento ai sensi dell’art.210 c.p.p. nella qualità di imputato di reato connesso nelle udienze del 22 aprile e del 30 settembre 1998, del 12 maggio 1999
Il collaboratore ha reso dichiarazioni principalmente sulle ragioni e sugli antefatti dell’esecuzione del cugino Gaetano, avvenuta per mano di sicari di “cosa nostra” nel 1983, e sulla guerra di mafia combattuta ad Alcamo alla fine degli anni ’80.
Il GRECO appartiene a una famiglia pienamente inserita nel contesto mafioso.
Suo padre Domenico e suo zio, Lorenzo classe 1932, sono entrambi schedati mafiosi e pregiudicati. Fino alla guerra di mafia che sancì definitivamente la presa di potere della fazione “corleonese” i GRECO erano vicini alla famiglia RIMI, che dominava ad Alcamo ed erano addirittura soci d’affari con alcuni membri della stessa. Come meglio si vedrà in seguito (Parte IV, Capitolo II) uno dei figli di GRECO Lorenzo classe 1932, Gaetano, fu ucciso proprio in conseguenza dei predetti rapporti di contiguità con gli sconfitti.
Inoltre, il cugino del collaborante, GRECO Antonino, fratello dell’ucciso Gaetano, prima di essere a sua volta assassinato da sicari di “cosa nostra”, ricoprì un ruolo di primo piano nell’organizzazione criminale sorta dapprima intorno a DAIDONE Giovanni e raccoltasi, dopo la morte di quest’ultimo, proprio attorno alla sua figura.
Deve pertanto ritenersi che il GRECO, grazie all’inserimento in un siffatto contesto familiare e alla partecipazione in prima persona e con un rango di significativo rilievo (sancito con decisione divenuta irrevocabile) allo scontro armato tra la “famiglia” di “cosa nostra” e la cosca denominata “dei GRECO” fosse perfettamente a conoscenza, sia per scienza diretta che in seguito a confidenze di parenti e consociati, delle vicende oggetto delle sue propalazioni.
Queste ultime, del resto, limitatamente alla guerra di mafia combattuta alla fine degli anni ’80 ad Alcamo, sono già state valutate positivamente nella sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo emessa il 28 luglio 1995 (sostanzialmente confermata, ad eccezione di alcuni trattamenti sanzionatori inflitti ai prevenuti) al termine del giudizio di secondo grado contro la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Trapani il 21 giugno 1994 a carico dei componenti del gruppo cosiddetto dei GRECO, sulla scorta delle dichiarazioni di Benedetto FILIPPI.
Le propalazioni del GRECO, più specificamente, hanno integralmente riscontrato quelle del FILIPPI in ordine agli omicidi di CARADONNA Francesco, dei fratelli Gaspare e Mariano AGUANNO, di FIORDILINO Salvatore, di RENDA Vito e di MONTALBANO Nunzio, nonché ai tentati omicidi di INTERDONATO Pietro e CALANDRINO Girolamo.
Le narrazioni dei due collaboratori sono state, invece, lievemente divergenti in ordine agli assassinii di PROVENZANO Vito e VIOLA Vincenzo, ma le suddette modeste discrasie non hanno comportato alcuna modifica della decisione di primo grado sotto il profilo sanzionatorio.
L’intervenuta collaborazione di Lorenzo GRECO ha invece comportato modifiche alla decisione con riferimento agli omicidi CULMONE e MILOTTA. Tuttavia, nel primo caso l’integrale corrispondenza tra le versioni fornite dai due collaboranti ha determinato la condanna degli imputati, precedentemente assolti, e solo nel secondo caso ha portato all’assoluzione di due prevenuti (il cognato del GRECO MANNO Carlo e lo suocero dello stesso PIRRONE Mario), scagionati dal GRECO e ritenuti invece responsabili in primo grado esclusivamente sulla scorta delle dichiarazioni del FILIPPI, il quale, per altro, era a conoscenza della dinamica del fatto criminoso non per avervi direttamente partecipato, ma per essergli lo stesso stato riferito da GRECO Domenico.
A giudizio di questa Corte, le valutazioni adottate dalla Corte d’Assise d’Appello in ordine alla credibilità intrinseca ed estrinseca del GRECO debbono essere integralmente condivise.
Infatti, le dichiarazioni di Lorenzo GRECO si sono dimostrate quasi sempre pienamente aderenti a quelle precedentemente rese dal FILIPPI (rispetto alle quali, pertanto, si pongono in relazione di riscontro reciproco), sia pure con talune fisiologiche difformità che finiscono piuttosto con il confermare che con lo svilire la genuinità e la credibilità delle stesse, consentendo al tempo stesso di escludere il pericolo della preventiva concertazione tra collaboranti.
Inoltre, con particolare riferimento agli episodi oggetto del presente giudizio, le rivelazioni del GRECO sono assolutamente compatibili tanto con quelle del FILIPPI, quanto con quelle, contrapposte, dei collaboratori di parte “corleonese” (cfr. in special modo la piena corrispondenza delle diverse narrazioni, finanche con riguardo a molti particolari di scarso rilievo, dell’attentato in contrada Kaggera e dell’omicidio di GRIMALDI Baldassare).
D’altro canto, la complessa articolazione delle dichiarazioni del dichiarante e la loro intrinseca logicità, coerenza e precisione costituiscono un ulteriore, significativa conferma dell’attendibilità intrinseca delle stesse.
Infine, non può ritenersi, a giudizio di questa Corte, che l’attendibilità intrinseca del GRECO sia inficiata dalla possibilità che lo stesso nutra rancore e desiderio di rivalsa nei confronti dei soggetti che militavano nelle file di “cosa nostra”, in considerazione dei numerosi lutti causati da quest’ultima associazione alla sua famiglia e a persone vicine alla stessa. Infatti, il tenore letterale delle dichiarazioni del GRECO non lascia trasparire alcun sentimento di odio contro la consorteria criminale suddetta, costituendo pertanto un’ulteriore conferma della piena attendibilità delle propalazioni in parola, unitamente alle caratteristiche intrinseche e all’aderenza di stesse alle risultanze probatorie aliunde acquisite.
ZICHITTELLA CARLO, CANINO LEONARDO, SAVONA FABIO SALVATORE e BENVENUTO CROCE
Per evidenti esigenze di sintesi, il vaglio dell’attendibilità dei collaboratori in parola verrà effettuato in un’unica sede, in considerazione del fatto che le dichiarazioni degli stessi nel presente procedimento hanno essenzialmente la finalità di spiegare le causali, gli schieramenti e le dinamiche della guerra di mafia combattuta a Marsala nel 1992 e di riscontrare le propalazioni dei collaboratori di parte “corleonese”. Infatti, proprio a causa della militanza dello ZICHITTELLA, del CANINO, del SAVONA e del BENVENUTO nella fazione opposta a quella degli imputati, essi non sono a diretta conoscenza di fatti reato oggetto del presente procedimento, nonostante talvolta abbiano appreso qualche notizia relativa agli stessi nel mondo criminale marsalese in cui erano pur sempre inseriti.
Ciò premesso, in questa sede non ci si soffermerà sulle dichiarazioni di Carlo ZICHITTELLA, il promotore e il capo indiscusso del gruppo criminale che nel 1992 scatenò una lotta armata contro “cosa nostra” a Marsala, atteso che le stesse verranno dettagliatamente ripercorse nell’Introduzione al capitolo in cui sarà trattata la predetta vicenda.
Appare invece opportuno riportare brevemente le propalazioni degli altri tre collaboratori, nelle parti non concernenti la guerra di mafia in parola, al fine di meglio comprendere le figure dei medesimi.
Fabio Salvatore SAVONA -sentito dal P.M. in qualità di imputato di reato connesso all’udienza del 19 novembre 1998 e non controesaminato dai difensori per rinuncia- ha riferito che fin dagli anni 1978/79, quando era ancora minorenne, era inserito in una banda di malviventi dediti alla commissione di furti, estorsioni e rapine, insieme a PATTI Antonio, TITONE Antonino e Gaspare, GIACALONE Salvatore, ALECI Diego, RODANO Antonino e altri. Egli e i suoi complici compivano altresì reati per conto della cosca mafiosa e intrattenevano rapporti con Vincenzo D’AMICO, Francesco CAPRAROTTA e Francesco ERRERA, detto “u ciappiddaru”, che al collaboratore erano stati presentati da Nino TITONE, detto “bacaredda”.
Nel 1984 il SAVONA fu arrestato per una rapina che aveva commesso a Salemi in concorso con STABILE Antonio, LICCIARDI Michele e INGOGLIA Diego e durante la sua detenzione, protrattasi fino al dicembre 1989, ebbe modo di conoscere bene Carlo ZICHITTELLA, anch’egli ristretto nel carcere di Trapani. Inizialmente nutriva diffidenza nei confronti di quest’ultimo, poiché gli “uomini d’onore” ne parlavano male, ma in seguito, conoscendolo, mutò giudizio e divenne un suo amico sincero.
Al contrario, durante la detenzione SAVONA ebbe contrasti gravi con GERARDI Antonino a causa di un tentativo di evasione, preparato nel 1984 dal collaboratore, da Antonio STABILE e da alcuni Palermitani e fallito a causa di una “soffiata” del suddetto imputato al maresciallo FEDERICO. A causa di questa condotta il SAVONA apostrofò il GERARDI come “infame e sbirro”.
Per altro, i rapporti del collaborante con “cosa nostra” in generale e con TITONE e PATTI (che nel frattempo erano divenuti “uomini d’onore” di spicco nella “famiglia” marsalese) in particolare si erano ulteriormente deteriorati a causa dell’omicidio di RODANO Antonio, amico fraterno del SAVONA, commesso da costoro a causa di contrasti sorti con “bacaredda” per il fidanzamento della vittima con Anna, sorella di quest’ultimo e futura sposa del PATTI. Questo episodio fece capire al collaborante che la mafia uccideva per episodi di poca importanza.
Sebbene fosse stato costretto ad accettare il dominio di “cosa nostra” nella sua città, provava rancore nei confronti dei mafiosi e decise di trafficare in droga in concorso con Salvatore ASARO, nipote di Vito GONDOLA, e con alcuni palermitani, pur sapendo che gli “uomini d’onore” marsalesi non approvavano questa sua attività.
Il SAVONA, in ogni caso, era perfettamente consapevole di essere stato condannato a morte dalla mafia e per questo, quando Carlo ZICHITTELLA lo contattò alla fine del 1991 proponendogli di scatenare una guerra di mafia, accettò immediatamente consapevole della necessità di uccidere i loro nemici prima che fossero costoro a eliminarli.
Sulle vicende dello scontro armato, di cui SAVONA fu uno dei protagonisti, e sulla parte dell’esame in cui egli ha indicato i vari uomini d’onore” marsalesi ci si soffermerà in seguito.
I primi giorni di settembre del 1992, dopo essere stato gravemente ferito dal “traditore” ALECI Diego, il SAVONA decise di iniziare a collaborare con la giustizia, dato che nutriva timori per la sua incolumità.
Leonardo CANINO (sentito in qualità di imputato di reato connesso all’udienza del 19 novembre 1998), nipote di Carlo ZICHITTELLA, ha fornito un ampio resoconto della sua carriera criminale, vissuta per lo più all’ombra dello zio, a cui era molto legato.
Nel 1990 o 1991 faceva parte di un’organizzazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti insieme allo ZICHITTELLA e ad altri, tra cui lo “stiddaro” gelese IOCOLANO, i calabresi MIRTA e BELFIORE e il GRASSONELLI, originario di porto Empedocle.
In quello stesso periodo, suo zio Carlo ZICHITTELLA era impegnato a creare e a mantenere una solida alleanza con gli “stiddari”, in quanto l’aiuto di costoro gli era necessario per scatenare la guerra a “cosa nostra” nel trapanese allo scopo di salvare i membri della famiglia ZICHITTELLA dalla condanna a morte decretata nei loro confronti dalla suddetta organizzazione. Proprio allo scopo di consolidare l’alleanza, nel 1991 il collaboratore e lo zio si prestarono a commettere un omicidio a Monza per conto delle cosche di Gela, Caltanissetta e Agrigento.
La soppressione di Vincenzo D’AMICO e Francesco CAPRAROTTA li spinse ad affrettare la loro azione, dato che erano convinti che all’interno della cosca fosse in corso un regolamento di conti e volevano approfittarne. Come già quelle di SAVONA, anche le propalazioni del CANINO sulla guerra di mafia di Marsala verranno riportate dettagliatamente nell’introduzione al capitolo dedicato all’argomento.
Dopo l’assassinio del LAUDICINA, resosi conto di essere stato individuato da uomini di “cosa nostra”, andò a Torino e alcuni mesi dopo iniziò a collaborare, spinto in tal senso anche da Cristina Petronilla CULICCHIA (vedova di TITONE, con la quale aveva instaurato una relazione), che era stata contattata dal maresciallo SANTOMAURO (sul punto cfr. altresì le dichiarazioni rese dalla CULICCHIA nelle udienze del 7 e 8 marzo 1995 nell’ambito del processo a carico di PATTI Antonio + 40, cit.).
Croce BENVENUTO (sentito in qualità di imputato di reato connesso all’udienza del 19 novembre 1998) ha riferito che a partire dal 1989, dopo un periodo in cui era stato “vicino” alla stessa, fu inserito della “famiglia” di Palma di Montechiaro, che era stata ricostituita proprio in quell’anno per la ripresa di una guerra che in precedenza aveva portato all’eliminazione del gruppo facente capo ai RIBISI da parte del gruppo storico di Vincenzo SANVITO, in cui si collocava il collaboratore.
Nel 1989 la cosca a cui era affiliato si alleò con altre “famiglie” di fuoriusciti da “cosa nostra” che stavano conducendo scontri analoghi nelle province di Caltanissetta e Gela: dapprima entrò in contatto con il clan dei CALECA di Canicattì, poi, tramite contatti carcerari, con la consorteria gelese a cui apparteneva Orazio PAOLELLO, con i GRASSONELLI di Porto Empedocle, i SOLE di Racalmuto, i SANFILIPPO di Mazzarino, i RIGGIO di Riesi.
Furono proprio i GRASSONELLI, con i quali lo stesso BENVENUTO tenne i contatti a partire dal 1990 nella sua qualità di rappresentante della “famiglia” di Palma di Montechiaro, a metterlo in contatto con gli ZICHITTELLA alla fine del 1991 o inizio del 1992. In particolare, Giuseppe GRASSONELLI lo informò che aveva stretto un’alleanza con questi ultimi da oltre un anno e che si era messo a disposizione di costoro per scatenare una guerra contro “cosa nostra” di Marsala, facendogli contestualmente presente che Carlo ZICHITTELLA a sua volta aveva collaborato con loro, commettendo un omicidio a Monza per conto dei RIGGIO.
Il BENVENUTO accettò immediatamente, tanto più che a Petrosino, un comune alle porte di Marsala stava scontando un periodo di soggiorno obbligato uno dei membri del clan dei RIBISI, Francesco ALLEGRO.
La partecipazione degli “stiddari” alla guerra di Marsala, per altro, fu limitata al primo atto della stessa, la strage di Piazza Porticella, in quanto la scarsa organizzazione degli ZICHITTELLA e la condotta vile del CANINO, il quale aveva abbandonato sul luogo dell’agguato i due sicari BENVENUTO e PAOLELLO, li indussero a defilarsi e a interrompere ogni contatto con i Marsalesi.
Il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca di Carlo ZICHITTELLA, Fabio Salvatore SAVONA, Leonardo CANINO e Croce BENVENUTO deve essere positivo.
Innanzitutto, deve sottolinearsi che ciascuno di loro si è autoaccusato di gravi crimini dei quali non era neppure sospettato o per i quali non vi erano comunque gravi indizi a suo carico e non ha in alcun modo tentato di negare le proprie responsabilità in ordine agli episodi delittuosi in cui era stato chiamato in reità da altri collaboratori.
I dichiaranti in parola hanno, poi, riferito principalmente fatti rientranti nella loro diretta conoscenza, senza dimostrare alcun accanimento accusatorio nei confronti di nessun imputato. I tre marsalesi, in particolare, pur non essendo inseriti in “cosa nostra”, conoscevano certamente bene i loro avversari, atteso che lo ZICHITTELLA e il CANINO appartenevano a un nucleo familiare che da decenni conviveva, anche se sempre in modo conflittuale, con la predetta associazione mafiosa e avevano addirittura legami di parentela con alcuni importanti affiliati. Lo stesso SAVONA era uno di quei giovani (tra cui vi erano anche il PATTI, il TITONE e il GIACALONE) tenuti sotto controllo dalla “famiglia” in vista di una possibile affiliazione, che non avvenne perché il collaboratore dimostrò di possedere un’indole indocile ed entrò in contrasto con membri del sodalizio. Del resto, l’approfondita conoscenza dei loro avversari è emersa chiaramente dalla scelta del PATTI e del TITONE (i sicari più esperti della cosca) come i primi obiettivi del loro attacco, proprio in considerazione della loro pericolosità. Deve, pertanto, ritenersi che le indicazioni concordemente fornite dai collaboratori in parola sull’identità e il rango degli “uomini d’onore” marsalesi e mazaresi e sui “vicini” all’organizzazione siano complessivamente attendibili, tanto più che sono state confermate altresì dai collaboratori interni a “cosa nostra”.
Inoltre, il resoconto fornito da ciascuno dei quattro collaboratori sulla guerra di mafia di Marsala, sulle strategie adottate e le alleanze instaurate nella preparazione di essa, sulla dinamica dell’esecuzione delle azioni criminose ascrivibili al gruppo di cui facevano parte, sull’evoluzione dello scontro appare intrinsecamente logico, coerente, preciso e dettagliato.
Le propalazioni di ognuno dei dichiaranti sono pienamente coerenti con quelle degli altri, ricevendo pertanto una reciproca e significativa conferma. Per altro, tale aderenza non comporta che vi sia stato appiattimento, atteso che ciascuno dei dichiaranti ha contribuito a una più completa ricostruzione della vicenda in oggetto con elementi specifici diversi e ulteriori rispetto a quelli forniti dagli altri. Siffatti elementi, tuttavia, proprio a causa del loro rilievo non primario, non hanno inficiato l’attendibilità dello ZICHITTELLA, del CANINO, del SAVONA e del BENVENUTO, ma al contrario ne hanno esaltato la genuinità.
Un ulteriore, formidabile riscontro alla credibilità dei collaboratori in esame, del resto, è costituito dalla totale compatibilità della versione dei fatti fornita dagli stessi con quella, speculare, data dai dichiaranti affiliati a “cosa nostra”, specialmente con riferimento alla strage di Piazza Porticella e all’ultima fase del conflitto, quella successiva al “tradimento” di Diego ALECI, cioè alle vicende che i soggetti appartenenti a entrambi gli schieramenti vissero parallelamente, anche se da posizioni contrapposte (cfr. sul punto Introduzione al Capitolo V della Parte V).
Né la loro attendibilità -e in particolare quella del SAVONA e, in parte, del CANINO- può essere posta in dubbio per il fatto che essi hanno lealmente ammesso di avere iniziato a collaborare per i timori che nutrivano per le loro esistenze. Infatti, a tale proposito deve osservarsi che, se la chiamata in correità viene considerata di regola meno attendibile della testimonianza a causa della possibile esistenza di interessi perseguiti dal dichiarante, non può non considerarsi altresì che tra i probabili interessi vi è quello di ottenere protezione dall’apparato statale per sé e per i propri familiari e che, in questa prospettiva, il collaborante ha tutta la convenienza a non introdurre, tra quelli veri, dati falsi, poiché l’eventuale accertamento di tale circostanza comporterebbe il concreto rischio del venire meno o comunque dell’affievolirsi di tale protezione. A ciò consegue che, anche sul piano logico, il principale interesse del collaborante è certamente quello di attenersi a una fedele rappresentazione dei fatti visti e conosciuti.
Infine, non può sostenersi che la credibilità dei dichiaranti in parola (e soprattutto quella dello ZICHITTELLA, del CANINO e del SAVONA) sia stata inficiata dal rancore che hanno lealmente ammesso di provare nei confronti dei membri di “cosa nostra” in generale e di quelli implicati negli omicidi di Antonio RODANO, di Nicolò e Vincenzo ZICHITTELLA e di molti membri della loro “banda” in particolare. Infatti, da un lato, tale inimicizia, pur se mai negata, non è emersa in alcun modo dal tenore delle propalazioni dei collaboratori in parola, mai livorose, anche quando riguardavano i soggetti che ritenevano responsabili dei delitti predetti. Dall’altro lato, poi, come si è già detto, molto spesso le loro rivelazioni hanno trovato riscontri estrinseci che ne hanno avvalorato la veridicità.
Come si è già anticipato, le dichiarazioni dello ZICHITTELLA, del CANINO, del SAVONA e del BENVENUTO sono state avvalorate altresì da molteplici conferme oggettive, ulteriori rispetto alle propalazioni di altri dichiaranti.
In questa sede verranno tenute in considerazione solo quelle aventi carattere generale e non attinenti alla posizione di singoli imputati o a determinati fatti delittuosi, che verranno trattati nei paragrafi dedicati specificamente a tali argomenti.
Gli accertamenti effettuati dagli investigatori nell’ambito del presente processo, nonché in quelli a carico di CUTTONE Antonino + 8 e di PATTI Antonio e altri quaranta imputati hanno consentito di individuare vari riscontri alle propalazioni dei collaboratori:
1) lo ZICHITTELLA, il CANINO, il SAVONA e il BENVENUTO hanno riferito che GRASSONELLI Giuseppe si allontanò da Marsala la mattina del 14 marzo 1992, giorno della strage di piazza Porticella, per recarsi ad Agrigento per evitare che suo padre, il quale doveva essere scarcerato in quei giorni, potesse subire attentati da parte dei loro nemici. In effetti GRASSONELLI Salvatore, padre di Giuseppe -il quale era un personaggio di spicco della omonima famiglia di Porto Empedocle, che aveva dato origine, nel 1986, alla faida con il clan MESSINA – ALBANESE nel predetto centro abitato- fu scarcerato dalla casa circondariale di Agrigento il 15 marzo 1992 e inviato a Menfi con obbligo di dimora (cfr. deposizione del maresciallo SANTOMAURO all’udienza del 19 dicembre 1995 nel processo a carico di PATTI Antonio + 40 celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Trapani).
2) ZICHITTELLA Carlo, CANINO Leonardo e SAVONA Fabio Salvatore hanno affermato che i primi due furono coinvolti in un sinistro mentre stavano recandosi in automobile in Sicilia prima dell’omicidio di LO PRESTI Angelo. Gli inquirenti hanno appurato che lo ZICHITTELLA, che era alla guida del veicolo, e il CANINO subirono un incidente stradale nella prima mattinata del 29 marzo 1992 sull’autostrada del sole nei pressi di Orvieto, riportando entrambi lesioni personali (cfr. deposizione SANTOMAURO all’udienza del 19 dicembre 1995 nel processo a carico di PATTI Antonio + 40).
3) ZICHITTELLA Carlo e SAVONA Fabio Salvatore furono effettivamente codetenuti nel carcere di Trapani dal 16 febbraio al 22 dicembre 1983, dal 13 novembre 1984 al 9 maggio 1985, dal 29 maggio al 30 agosto 1985, dal 22 ottobre all’8 novembre 1985, dall’11 al 14 agosto 1986 (cfr. deposizione SANTOMAURO all’udienza del 24 maggio 1996 nel citato processo a carico di PATTI Antonio + 40)
4) INGOGLIA Diego, a detta del SAVONA, era “vicino” a “cosa nostra” e aveva contrasti con Diego ALECI, il quale premeva perché fosse ucciso, poiché aveva alzato le mani contro il padre di quest’ultimo sul peschereccio di cui i due erano comproprietari, tentando di buttarlo in mare e aveva tenuto solo per sé la barca, estromettendo il socio. L’ispettore Vito PELLEGRINO ha confermato che l’INGOGLIA era un pescatore (cfr. sua audizione all’udienza del 29 luglio 1995 nel citato processo a carico di PATTI Antonio + 40), mentre il PATTI ha affermato che l’ALECI lo contattò tramite l’INGOGLIA, confermando così implicitamente da un lato la circostanza che quest’ultimo era schierato dalla parte di “cosa nostra” e dall’altra l’esistenza di rapporti di confidenza, se non di amicizia, tra l’ALECI e l’INGOGLIA (cfr. suo esame all’udienza del 17 dicembre 1998). Del resto, il fatto che i due uomini avessero contrasti e fossero legati a due fazioni contrapposte non è logicamente incompatibile con la richiesta di aiuto rivolta dal primo al secondo e la correlativa accettazione di quest’ultimo. La domanda di soccorso dell’ALECI, infatti, ben può essere stata determinata dalla circostanza che l’altro fosse l’unico soggetto schierato dalla parte dei “corleonesi”. La disponibilità dell’INGOGLIA, d’altro canto, può facilmente spiegarsi con l’interesse di costui a guadagnare, con una tale condotta, da un lato la gratitudine e il perdono dell’ALECI per eventuali torti passati e contemporaneamente la defezione dal campo avversario del suo più pericoloso nemico personale, e dall’altro lato la riconoscenza di “cosa nostra” per l’importante aiuto fornito nella guerra, assicurando la collaborazione di un traditore infiltrato nel clan avverso.
5) Nel tardo pomeriggio del 10 gennaio 1992 a Monza fu assassinato di SCIVOLI Rosario, nato a Mazzarino (CL) il 7 novembre 1954, fatto di cui si accusò CANINO (cfr. deposizione SANTOMAURO nell’udienza tenutasi il 21 gennaio 1997 nel procedimento a carico di CUTTONE Antonino + 8 celebrato dinnanzi al Tribunale di Marsala).
Sulla base delle dichiarazioni confessorie ed eteroaccusatorie del CANINO e dello ZICHITTELLA vennero rinviati a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Monza per rispondere dell’omicidio suddetto RIGGIO Salvatore, GRASSONELLI Giuseppe e MARGIOTTA Maurizio in qualità di mandanti e il terzo anche per avere fornito supporto logistico, CASCINO Salvatore e CAMMARATA Francesco come esecutori materiali unitamente ai due collaboratori, ADORNO Filippo per avere fornito ai sicari supporto logistico.
Alla luce delle propalazioni del CANINO e dello ZICHITTELLA, alle quali nel corso del giudizio si aggiunsero quelle di altri collaboratori e in particolare di RIGGIO Salvatore, reputate attendibili, tutti gli imputati vennero condannati per i delitti loro ascritti con la sentenza emessa dalle Corte d’Assise di Monza in data 24 gennaio 1996, divenuta irrevocabile il 23 settembre 1997 per GRASSONELLI, RIGGIO, MARGIOTTA, CASCINO e CAMARATA e il 14 dicembre 1998 per ADORNO (cfr. decisione menzionata della Corte d’Assise di Monza, prodotta dal P.M. all’udienza del 18 febbraio 2000).
L’accertamento giudiziale della partecipazione del CANINO e dello ZICHITTELLA all’omicidio dello SCIVOLI, oltre a costituire un importante riscontro della generale attendibilità dei collaboratori di giustizia in parola, conferma altresì le loro dichiarazioni relativamente all’alleanza che il secondo intessè con “stiddari” delle province di Agrigento e di Caltanissetta per ottenere supporto militare nella “guerra” che si accingeva a scatenare, e che in effetti iniziò pochi mesi dopo con l’agguato di piazza Porticella contro il PATTI e il TITONE, proprio avvalendosi in qualità di esecutori materiali di killer provenienti dalle citate provincie
6) Carlo ZICHITTELLA si è autoaccusato dell’omicidio di un tale PLATANIA nel periodo tra gli assassinii dei due fratelli DENARO, in concorso con DENARO Vincenzo e con MARINO Francesco, detto “cappellone” e ha aggiunto che tale delitto fu una delle cause dell’assassinio del DENARO e dell’odio dei mafiosi per il collaboratore. Il PATTI ha confermato puntualmente il racconto dello ZICHITTELLA, affermando che “cosa nostra” addossò a quest’ultimo e al DENARO la responsabilità dell’eliminazione del PLATANIA e decretò la loro condanna a morte (cfr. suo esame all’udienza del 21 gennaio 1999).
Gli inquirenti, dal canto loro, hanno accertato che PLATANIA Salvatore, nato a Catania il 22 febbraio 1937 e residente a Torino, arrivò a Catania per motivi personali la mattina del 9 aprile 1982 e lo stesso giorno verso le 14,00 partì per Marsala a bordo della sua Renault Fuego tg.TO-X58921 per andare da amici; da allora non ci furono più notizie di lui; il 14 aprile il fratello Antonino ne denunciò la scomparsa ai CC di Catania e vennero fatte indagini anche a Marsala sulla base di una telefonata anonima, ma senza esito. (cfr. deposizione SANTOMAURO resa nell’udienza del 22 aprile 1999).
Sulla base delle propalazioni confessorie ed eteroaccusatorie di Carlo ZICHITTELLA lo stesso è stato rinviato a giudizio dinnanzi alla Corte d’Assise di Trapani per rispondere dell’omicidio di PLATANIA Salvatore, in concorso con MARINO Francesco e con DENARO Vincenzo, deceduto, ed è stato condannato alla pena di anni otto e mesi sei di reclusione, previa concessione delle attenuanti prevista dall’art.8 L.203/91 e generiche prevalenti sulla contestata aggravante della premeditazione. Al contrario, la Corte, nonostante abbia giudicato pienamente attendibile il collaboratore, ha assolto il MARINO perché non è stata raggiunta la piena prova della sua penale responsabilità in assenza di riscontri individualizzanti alla chiamata in correità da parte dello ZICHITTELLA (cfr. sentenza 30 gennaio 1998 della Corte d’Assise di Trapani, confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo e divenuta irrevocabile il 1 luglio 1999).
Pertanto, le propalazioni dello ZICHITTELLA sono state ritenute attendibili anche in relazione al fatto delittuoso in parola, essendo stato il proscioglimento del MARINO ai sensi del secondo comma dell’art.530 c.p.p. stato dettato esclusivamente dall’assenza di riscontri individualizzanti.
Deve sottolinearsi che l’omicidio PLATANIA ebbe un rilievo fondamentale nella vita di Carlo ZICHITTELLA e in particolare nei suoi rapporti con “cosa nostra”. Verosimilmente, infatti, egli era uno di quei giovani che erano “a disposizione” della “famiglia” e, grazie ai suoi buoni rapporti con Mimì DE VITA e Angelo LO PRESTI, veniva tenuto sotto osservazione dai vertici della stessa ai fini di una sia eventuale affiliazione. La partecipazione a un assassinio commesso senza avere ottenuto l’autorizzazione del rappresentante della cosca mafiosa marsalese costituì un’infrazione imperdonabile alle ferree regole imposte dall’organizzazione alla malavita locale e fu sanzionata da “cosa nostra”, come sempre avviene in questi casi (cfr. infra Capitolo I), con la condanna a morte dei responsabili, eseguita nei confronti di DENARO Vincenzo. Lo ZICHITTELLA non fu invece eliminato in quanto rimase a lungo detenuto e dopo la sua scarcerazione emigrò a Torino (cfr. altresì sub omicidi di DENARO Francesco e DENARO Vincenzo, infra, “Parte IV – Capitolo VII”).
Infine, deve sottolinearsi che le propalazioni dei suddetti collaboratori sono state ritenute attendibili nel procedimento a carico di Antonio PATTI e altri quaranta imputati celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Trapani, all’esito del quale Orazio PAOLELLO e Giuseppe GRASSONELLI sono stati condannati all’ergastolo per l’omicidio di Antonino TITONE e il tentato omicidio di Antonio PATTI e Gaspare RAIA (cosiddetto agguato di Piazza Porticella) e altri gravi reati commessi nell’ambito della guerra di mafia di Marsala, proprio grazie alle propalazioni accusatorie dei loro complici ZICHITTELLA, CANINO, SAVONA e BENVENUTO (cfr. citata sentenza 18 luglio 1996 della Corte d’assise di trapani, divenuta irrevocabile nei confronti dei predetti imputati e prodotta dal P.M. all’udienza del 18 febbraio 2000).
Alla luce delle predette considerazioni non può che concludersi che Carlo ZICHITTELLA, Fabio Salvatore SAVONA, Leonardo CANINO e Croce BENVENUTO sono pienamente attendibili, sia sotto il profilo intrinseco che sotto quello estrinseco.
SAIA ANTONINO e FARINA DOMENICO
Per ragioni di brevità, le posizioni di SAIA Antonino e FARINA Domenico verranno trattate unitariamente, atteso che entrambe hanno avuto ad oggetto fatti che nel presente procedimento hanno un’incidenza secondaria, attenendo essenzialmente a episodi verificatisi a Torino e ai rapporti tra alcuni imputati e membri dell’organizzazione criminale piemontese facente capo ai fratelli MIANO.
Antonino SAIA, escusso all’udienza del 4 febbraio 1999, ha rivelato di essere stato affiliato al clan dei Cursoti di Catania fin dal 1976 e di essersi trasferito a Torino per ordine del suo capo MANFREDI Corrado, in quanto nella città etnea era ricercato.
Nel capoluogo piemontese si inserì in un’organizzazione composta da personaggi del clan dei “Cursoti” allontanatisi da Catania che gestiva traffici di sostanze stupefacenti e che era legata, oltre che all’organizzazione “madre”, alla banda dei fratelli MIANO fino al 1982, quando se ne separò per sopravvenuti contrasti.
Durante il periodo di permanenza a Torino conobbe anche alcuni personaggi della Sicilia occidentale, tra cui BASTONE Giovanni, un tale soprannominato “l’architetto” e che poi apprese dagli atti processuali chiamarsi “Calcedonio” e un tale CAVASINO Giuseppe, soprannominato “Pippo u barbiere”, il quale fungeva da tramite tra i Catanesi e i Mazaresi per traffici di stupefacenti a cui erano entrambi interessati.
Il collaboratore ha aggiunto che la sua conoscenza con il BASTONE risaliva alla fine del 1980 o all’inizio del 1981, quando il Mazarese chiese a Roberto MIANO il piacere di uccidere Francesco DENARO, detto “carrozza”, con il quale aveva contrasti. Il MIANO accettò, affidando il compito di eseguire l’omicidio allo stesso SAIA, a Carmelo GIUFFRIDA e ad Angelo SCIOTTI. Sui due attentati compiuti dai catanesi alla vita del DENARO ci si soffermerà più ampiamente in seguito, nel paragrafo dedicato all’omicidio dello stesso.
Nel 1983 il SAIA fu arrestato e l’anno successivo cominciò a collaborare con la giustizia.
Domenico FARINA, citato per essere esaminato in qualità di imputato di reato connesso, all’udienza del 26 novembre 1998 ha dichiarato di avvalersi della facoltà di non rispondere. Pertanto il P.M. gli ha allora contestato, ai sensi dell’art.513 c.p.p. come interpretato dalla sentenza della Corte Costituzionale VEDI GLI ESTREMI, le dichiarazioni rese il 5 giugno 1995 al Procuratore della Repubblica di Torino Marcello MADDALENA:
In quell’occasione il FARINA, detenuto dal 16 marzo 1992 in forza di provvedimento di custodia cautelare emesso dal G.I.P. di Catania per reati in materia di armi e droga, manifestò l’intenzione di collaborare con la Giustizia e riferì i fatti di cui era a conoscenza sull’omicidio di RAZZANO Agatino e su altri fatti criminosi.
In ordine al primo episodio, il FARINA dichiarò che all’epoca del delitto era in carcere a Catania e che parecchi mesi dopo l’assassinio, aveva chiesto notizie in merito allo stesso a Carmelo PRIVITERA, soprannominato “u scirocco”, il quale era ristretto nella stessa casa circondariale. Il collaboratore ha aggiunto che era interessato a sapere quanto era accaduto, in quanto che conosceva il RAZZANO fin da bambino e aveva lavorato insieme a lui a Catania vendendo bombole di gas. Il PRIVITERA in quell’occasione gli aveva rivelato che la vittima era stata uccisa in un mercato e che il mandante dell’omicidio era stato Santo MAZZEI, mentre l’esecutore era stato Roberto CANNAVÒ. Il PRIVITERA aveva aggiunto che il RAZZANO era stato ucciso per “cose vecchie”, che egli ignorava, e gli aveva raccontato altresì, quanto alla dinamica del delitto, di avere saputo dal CANNAVÒ che una donna, probabilmente la moglie o la figlia del RAZZANO, lo aveva inseguito.
Il PRIVITERA, a detta del FARINA, gli aveva riferito anche di essere il responsabile, insieme a MAZZEI Santo, dell’omicidio di un uomo perpetrato sempre a Torino nel 1992 per conto di Giovanni BASTONE, il quale nutriva sentimenti di inimicizia nei confronti della vittima (sulle dichiarazioni del collaboratore sul punto ci si soffermerà più dettagliatamente nella scheda dedicata al delitto SCIMEMI).
Infine, il medesimo PRIVITERA e COLOMBRITA Giovanni, durante il periodo di comune detenzione nel carcere di Catania, avevano raccontato al FARINA che nello stesso periodo in cui avevano commesso l’assassinio da ultimo menzionato, Santo MAZZEI, un certo “Salvatore”, amico di Giovanni BASTONE, e altri due individui, uno dei quali doveva essere CANNAVÒ Roberto, avevano sparato a un tale OROFINO, senza per altro riuscire a colpirlo, nonostante avessero ridotto la sua autovettura, a detta del PRIVITERA, come un “colabrodo”.
Il FARINA aggiunse infine di avere visto il CANNAVÒ in carcere a Catania nell’isolamento, proprio il giorno in cui la polizia lo andò a prendere per portarlo fuori dal carcere in seguito al suo pentimento. In quell’epoca il CANNAVÒ era in cella con Girolamo RANNESI, nipote di Giuseppe PULVIRENTI, detto “il malpassoto”. Ha detto di non sapere se il CANNAVÒ, che all’epoca della deposizione poteva avere 27 o 28, pur dimostrandone di meno, fosse ancora detenuto o meno.
Il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei due collaboratori in esame, a giudizio di questa Corte, deve essere positivo.
Con riferimento al primo profilo, entrambi hanno fornito un resoconto dei fatti intrinsecamente logico e coerente e, quanto al SAIA, aderente a quello reso in precedenza sugli stessi episodi davanti al altre Autorità Giudiziarie.
Inoltre, il medesimo SAIA ha ammesso di essere stato affiliato al clan catanese dei “Cursoti” fin dal 1976 e di essere responsabile in ordine a molti gravi reati.
Dalle parole di entrambi i collaboratori, poi, non è emerso alcun accenno che potesse fare ritenere che nutrissero acredine o inimicizia nei confronti degli odierni imputati, che del resto, essi o non conoscono affatto o conoscono quasi sempre solo superficialmente.
Sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca, inoltre, le propalazioni dei due collaboratori hanno trovato numerose conferme sia nelle dichiarazioni di altri “pentiti”, sia in dati di carattere oggettivo. In questa sede, come sempre, si darà conto soltanto dei riscontri di carattere generale, rimandando per quelli attinenti a specifici episodi oggetto del presente giudizio e a singoli imputati ai paragrafi dedicati alla trattazione dei medesimi.
L’attendibilità delle propalazioni del SAIA sulla sua appartenenza al clan dei “Cursoti” e sull’attentato perpetrato a Torino ai danni di Francesco DENARO è stata affermata dalla sentenza emessa il 27 aprile 1994 dalla Corte d’Appello di Torino, divenuta irrevocabile (cfr. Faldone XIX prodotto dal P.M.).
Con riferimento a tale ultimo episodio, sul quale -come si è già precisato- ci si soffermerà ampiamente nella scheda dedicata espressamente a quel fatto delittuoso, in questa sede è sufficiente precisare che il BASTONE è stato condannato alla pena di quattordici anni di reclusione quale mandante del tentato omicidio del DENARO sulla scorta delle dichiarazioni, tra loro sostanzialmente conformi, rese da Carmelo GIUFFRIDA, Roberto MIANO e Antonino SAIA e di una intercettazione telefonica avvenuta venerdì 20 marzo 1981 tra il BASTONE (il quale chiamava dall’utenza della ditta “Euro Trans Africa” di Mazara del Vallo, che egli era solito utilizzare) e Roberto MIANO (che rispondeva dall’utenza 756763 intestata a una latteria sita in via Tassoni 59 a Torino e gestita da ITALIANO Filomena), nella quale quest’ultimo descrisse il conflitto a fuoco.
Le dichiarazioni del SAIA sono state del pari ritenute attendibili dalla Corte d’Assise d’Appello di Torino nelle sentenze del 27 settembre 1990 e del 27 aprile 1993 con riferimento alla sua confessata appartenenza al clan dei “Cursoti” (per la quale ha riportato la condanna alla pena di ventuno anni e dieci mesi di reclusione e £.12.000.000 di multa); ai rapporti tra gli affiliati all’organizzazione criminale operanti a Catania e a Torino; al collegamento organico di questi ultimi al sodalizio criminale facente capo ai fratelli MIANO; al contrasto tra i gruppi cosiddetti dei “Cursoti” e di SANTAPAOLA e rappacificazione tra gli stessi nel settembre 1982; ai rapporti con alcuni Mazaresi e in particolare con il BASTONE, ma altresì BRUNO Calcedonio, “l’architetto”; al ruolo di tramite tra Catanesi e Mazaresi ricoperto da Giuseppe CAVASINO; infine, ai rapporti di DENARO Francesco con MURA Antonino a Torino per traffico di droga.
Pertanto -essendo state le propalazioni rese dal SAIA nel presente procedimento coerenti e conformi a quelle dello stesso nel processo di Torino- il giudizio sull’attendibilità estrinseca del collaboratore in parola non può che essere pienamente positivo.
A una identica valutazione deve parimenti giungersi con riferimento a Domenico FARINA, le cui affermazioni (in ordine sia alla compatibilità delle fonti delle notizie riferite sia al contenuto delle stesse) hanno trovato numerose conferme in dati oggettivi evidenziati nella deposizione del maresciallo Dario SOLITO all’udienza del 26 novembre 1998 e in particolare:
– il FARINA ha dichiarato che dopo avere inutilmente chiesto di conferire con il dott. CASELLI, domandò di essere sentito dal dott. MADDALENA, di cui gli avevano parlato detenuti con i quali egli aveva avuto a che fare nel carcere di Paliano, e in particolare Gabriele PAUTASSO, Antonio MASSIMO e un tale “Bruno”, imputato per il sequestro di bambini. Gli inquirenti hanno identificato PAUTASSO Gabriele (nato a Torino il 14 luglio 1947, detenuto dal 22 luglio 1992 al 25 gennaio 1994), MASSIMO Antonio (nato a Frignano, CE, il 29 luglio 1963, detenuto dal 15 maggio 1993 al 7 ottobre 1994) e hanno accertato che costoro furono codetenuti con FARINA, che venne ristretto a Paliano dal 30 ottobre 1993 al 7 ottobre 1994. “Bruno” è stato invece identificato con CAPPELLI Bruno (nato a Moncalieri l’11 marzo 1954), con cui il FARINA fu detenuto nella Casa Circondariale di Belluno e che era pregiudicato per sequestro di persona a scopo di estorsione;
– il FARINA ha affermato che nel 1991 avrebbe dovuto compiere rapine -che per altro non vennero perpetrate- in concorso con FINOCCHIARO Felice, PRIVITERA Giovanni e un certo Giuseppe, cognato di Stellario Antonino STRANO, il quale ultimo abitava in una mansarda in una strada vicino a una piazzetta in fondo a Corso Agnelli. Gli investigatori hanno identificato FINOCCHIARO Felice (nato a Catania il 12 ottobre 1961, residente in San Pietro Clemenza, via Umberto n.231 e domiciliato a Catania), PRIVITERA Giovanni, detto “peri ri addina” (nato a Catania l’8 giugno 1967, ivi residente in via Pantelleria n.41), VACCALUCCIO Giuseppe (nato a Catania il 7 novembre 1958), cognato di Stellario Antonio STRANO, in quanto coniugato con STRANO Angela, sorella del predetto Stellario;
– all’epoca dell’omicidio di RAZZANO Agatino, nato a Catania il 2 luglio 1947 (8 giugno 1992), il FARINA era detenuto a Catania, come dallo stesso affermato;
– il RAZZANO, fu ucciso a Moncalieri, via Sestrieres, nella quale allora come ora si teneva quotidianamente il mercato rionale, alle 9,30 dell’8 giugno 1992, e dopo l’assassinio la figlia della vittima, Anna Maria, inseguì i killer; conformemente alle affermazioni del collaborante;
– nel periodo successivo al suddetto, Carmelo PRIVITERA, detto “u scirocco” (nato a Catania il 18 ottobre 1957), fu ristretto nel carcere di Catania dal 25 settembre 1992 al 25 giugno 1993, periodo nel quale nella stessa casa circondariale era detenuto anche il FARINA (cfr. altresì doc. 22 prodotto dal P.M.), le cui propalazioni sono state pertanto pienamente riscontrate;
– il FARINA ha affermato che esecutore materiale dell’omicidio RAZZANO fu Roberto CANNAVÒ e che vide quest’ultimo (che all’epoca della deposizione aveva circa ventisette o ventotto anni, pur dimostrandone meno) nel carcere di Catania, nel quale divideva la cella con Girolamo RANNESI, nipote di Giuseppe PULVIRENTI, detto “il malpassoto”. Ha detto di non sapere se il CANNAVÒ, che all’epoca della deposizione poteva avere ventisette o ventotto anni, pur dimostrandone di meno, fosse ancora detenuto o meno. Gli inquirenti hanno identificato il CANNAVÒ come l’omonimo, nato a Torino il 13 marzo 1967 e dell’età di venticinque anni all’epoca dell’interrogatorio reso dal SAIA al dottor MADDALENA. Hanno inoltre accertato che il FARINA, Roberto CANNAVÒ e Girolamo RANNESI (coniugato con GRAZIOSO Agata, figlia di GRAZIOSO Giuseppe, genero di PULVIRENTI Giuseppe, detto “u Malpassoto”) furono codetenuti nel carcere di Catania successivamente prima del 27 marzo 1993 , quando il primo fu trasferito a Roma Rebibbia;
– gli inquirenti hanno accertato che nella tarda serata del 14 maggio 1992, nel Quartiere Borgo Dora di Torino ci fu sicuramente una sparatoria, tanto che la mattina successiva fu richiesto il loro intervento, nel cui corso venne appurato che una Renault 5 presentava tracce di diversi colpi d’arma da fuoco; in quella stessa via, poco più avanti, vi era altresì un cartello stradale che presentava fori riconducibili a colpi d’arma da fuoco; dell’episodio, sicuramente riconducibile a una sparatoria, fu redatto un rapporto giudiziario trasmesso all’A.G. (cfr. verbale di sequestro, datato 15 maggio1992 di materiale balistico operato dal Nucleo Operativo CC Torino prodotto dal P.M. e dichiarazioni di GULLOTTA Antonino che confermato che si verificò il tentato omicidio).
Alla luce delle predette considerazioni e dei riscontri individuati alle sue dichiarazioni anche il giudizio sull’attendibilità estrinseca del FARINA deve essere positivo.
LICCIARDI MICHELE
Michele LICCIARDI è stato escusso all’udienza del 4 giugno 1998 in qualità di imputato di reato connesso.
Le sue dichiarazioni nel presente procedimento hanno una portata del tutto marginale, attenendo soltanto ai suoi rapporti con L’ALA Natale e ai loro comuni propositi di vendetta, nonchè ad alcune confidenze ricevute dal vecchio “uomo d’onore” di Campobello di Mazara.
Sul tenore delle propalazioni del LICCIARDI ci si soffermerà più dettagliatamente nel paragrafo dedicato alla vicenda di Natale L’ALA, mentre in questa scheda ci si limiterà a un brevissimo excursus al solo scopo di delineare la figura del collaboratore in parola.
Il LICCIARDI ha affermato che aveva motivi personali di rancore nei confronti di “cosa nostra”, in quanto uno degli affiliati dell’associazione in parola, TITONE Antonino, era, a suo parere, responsabile della morte del suo amico DI GIORGI Gaspare, avvenuta il 12 dicembre 1981.
Nel 1984 -dopo il suo ritorno a Marsala successivo alla sua scarcerazione e all’allontanamento dal luogo di soggiorno obbligato- venne contattato da un certo VINCI, nipote di Antonio RODANO. Costui gli raccontò che il TITONE, PATTI Antonio e GIACALONE Salvatore erano gli autori dell’omicidio dello zio, dovuto all’opposizione del primo al fidanzamento della vittima con sua sorella, e gli propose di andare a Milano a procurarsi le armi necessarie per assassinare i tre “uomini d’onore” predetti e vendicare così sia il DI GIORGI che il RODANO. Sebbene il collaboratore avesse accettato prontamente la proposta, coinvolgendo altresì CURATOLO Vincenzo e CAMMARERI Saverio, il loro piano fallì poiché il 29 marzo 1985 il LICCIARDI fu arrestato per essersi allontanato dal luogo di soggiorno obbligato e per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti.
Il collaboratore rimase in carcere per due anni e tre mesi e trascorse un circa un anno al soggiorno obbligato, rientrando a Marsala nell’ottobre o novembre 1988. Sebbene avesse interrotto i rapporti con il VINCI, poiché in questo lasso di tempo costui fu arrestato a Milano per traffico di sostanze stupefacenti, non depose i suoi propositi di vendetta.
Nel 1989 il L’ALA, che aveva conosciuto nel 1986 durante la sua detenzione, gli confidò che intendeva scatenare una guerra contro la “famiglia” mafiosa di Campobello di Mazara, con i cui membri (e in particolare con il rappresentante, Nunzio SPEZIA) aveva contrasti insanabili dovuti al fatto che costoro avevano assassinato i suoi nipoti Pino e Andrea ALA e che egli aveva avuto una violenta lite pubblica con lo SPEZIA, che in quell’occasione aveva apostrofato come “cornuto”, per il rifiuto opposto da quest’ultimo alla sua richiesta di restituzione al legittimo proprietario di alcuni capi sottrattigli dai mafiosi. Il LICCIARDI a sua volta esternò il suo odio per la cosca marsalese e si accordò con il L’ALA che egli avrebbe curato l’eliminazione dei Campobellesi e il suo interlocutore quella dei Marsalesi.
I due uomini coinvolsero nel progetto altresì CURATOLO Vincenzo, LAZZARA Carmelo, BARBERA Giacomo, PRINZIVALLI PELLEGRINO Nino, SCAVUZZO Pietro, MAZZARA Pietro, MARTINO Giovanni e PANTALEO Giacomo.
L’azione di questa aggregazione criminale si concretò soltanto nell’attentato alla vita di SPEZIA Nunzio, a cui conseguì la vendetta di “cosa nostra” estrinsecatasi nell’omicidio del L’ALA e in vari attentati ai suoi accoliti, vicenda su cui ci si soffermerà più dettagliatamente in seguito.
Il giudizio sull’attendibilità del LICCIARDI deve essere positivo.
Egli, infatti, non ha esitato ad accusarsi di vari gravi delitti, tra cui il tentato omicidio dello SPEZIA, senza cercare in alcun modo di attenuare le sue responsabilità, ma anzi assegnando a se stesso una posizione di primo piano nell’ambito del gruppo coagulatosi intorno al L’ALA.
Le sue dichiarazioni appaiono intrinsecamente precise, coerenti e dettagliate. Il collaboratore, inoltre, si è limitato a riportare notizie a sua diretta conoscenza o comunque raccontategli da soggetti, quali il VINCI e il L’ALA, che non avevano alcun motivo di mentirgli, dato che proprio a causa dei riferiti motivi di astio che avevano nei confronti di “cosa nostra” avevano deciso di scatenare -alleandosi con il LICCIARDI- una guerra nei confronti della predetta associazione, mettendo così a repentaglio la loro stessa vita e, nel caso del L’ALA, perdendola.
Infine, non può ritenersi che l’intrinseca attendibilità del collaboratore sia stata inficiata dal rancore che ha ammesso di provare nei confronti di “cosa nostra”, atteso che tale sentimento non appare essersi in alcun modo estrinsecato nelle sue dichiarazioni, che si profilano serene e obiettive.
Sotto il profilo dell’attendibilità estrinseca, poi, le propalazioni del LICCIARDI sono state sostanzialmente confermate da quelle di altri collaboratori e testimoni, oltre che da numerosi riscontri di carattere oggettivo, dei quali in questa sede, per ragioni di brevità, si darà conto limitatamente a quelli di carattere generale, rimandando per quelli più specifici alla trattazione dei singoli episodi e alle schede degli imputati a cui attengono.
In particolare, le dichiarazioni del LICCIARDI in ordine alla rapina alla sala da ballo “Mille Stelle” (secondo le quali egli stesso, il VINCI, il CURATOLO, il CAMMARERI, PARRINO Rosario e un Catanese nel periodo carnevalizio del 1985 derubarono tutte le persone presenti e picchiarono il brigadiere CASTELLI) sono state puntualmente confermate dal PATTI, il quale ha aggiunto che per tale episodio la cosca mafiosa di Marsala aveva decretato la morte del LICCIARDI (cfr. esame PATTI all’udienza del 28 maggio 1998).
Le affermazioni del collaboratore in ordine ai suoi rapporti con il L’ALA hanno trovato piena conferma nella testimonianza di Giacoma FILIPPELLO, convivente di quest’ultimo, con riferimento sia alla formazione di un gruppo guidato dal suo uomo per muovere guerra al clan dominante a Campobello di Mazara, sia alla preparazione e all’esecuzione di un attentato ai danni di SPEZIA Nunzio, sia, infine, alla successiva vendetta dei mafiosi (sulla vicenda, cfr. paragrafo dedicato all’assassinio di L’ALA Natale, in Parte IV, Capitolo II).
Il coinvolgimento del LICCIARDI nell’attentato allo SPEZIA, avvenuto il 15 ottobre 1989, è stato accertato con sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Trapani in data 25 ottobre 1991, divenuta irrevocabile, nella quale il collaboratore ha riportato una condanna a tredici anni e otto mesi di reclusione e £.1.200.000 di multa.
La violenta reazione di “cosa nostra” all’attentato contro SPEZIA Nunzio, concretatasi nel secondo attentato e nel successivo omicidio di L’ALA Natale, e negli attentati al LAZZARA, al BARBERA, al CURATOLO, al RAGOSTA e al MERCADANTE sono stati dettagliatamente descritti dal Maggiore Raffaele DEL SOLE, il quale all’epoca dei fatti comandava la Compagnia CC. di Mazara del Vallo (cfr. sua deposizione all’udienza del 28 maggio 1998).
Il Capitano Enrico ALICANDRO ha infine confermato che il LICCIARDI e il L’ALA furono codetenuti nella casa circondariale di Trapani, dove il primo fu rinchiuso dal 27 agosto 1985 e il 30 giugno 1987 e il secondo dal 31 luglio al 5 ottobre 1986, dal 17 al 20 dicembre 1986, e dal 10 aprile 1987 al 16 gennaio 1988 (cfr. sua deposizione all’udienza del 4 ottobre 1996 nel procedimento a carico di ACCARDI Gaetano e altri, il cui verbale è stato prodotto dal P.M.).
Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, il giudizio sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del LICCIARDI non può che essere positivo.
PARTE IV
-Gli omicidi e gli altri reati fine-
PREMESSA
Nella presente sezione verranno analiticamente esaminati i singoli episodi omicidiari contestati agli imputati.
Per ragioni sistematiche e di chiarezza espositiva, i suddetti delitti saranno raggruppati in otto capitoli, individuati sulla base dell’identità degli autori, della natura giuridica dei singoli fatti delittuosi, o, infine, con specifico riferimento agli omicidi e ai loro reati satellite, dei contesti nei quali gli stessi sono maturati.
Più precisamente la sezione in esame verrà così suddivisa:
CAPITOLO I: Gli omicidi commessi dal solo Antonio PATTI o dallo stesso in concorso con altri collaboranti;
CAPITOLO II:
CAPITOLO III: La faida di Partanna
CAPITOLO IV: La guerra di mafia di Alcamo
CAPITOLO V: La guerra di mafia di Marsala
CAPITOLO VI: Gli omicidi commessi dal gruppo facente capo a MESSINA DENARO Matteo;
CAPITOLO VII: Gli altri omicidi
CAPITOLO VIII: I reati commessi in violazione della disciplina sulle armi e gli incendi.
CAPITOLO I
-GLI OMICIDI COMMESSI DA ANTONIO PATTI IN CONCORSO CON PERSONE DECEDUTE OVVERO CON SALVATORE GIACALONE-
INTRODUZIONE
In questo Capitolo saranno trattati gli omicidi di Gaspare PACE, Giovanbattista PAVIA, Gaspare DI GIORGI, Antonio RODANO, Salvatore VARISANO e Mariano NIZZA, commessi a Marsala tra il 1979 e il 1983 dal gruppo di fuoco della locale “famiglia” mafiosa guidata da Vincenzo D’AMICO, composto dapprima dai soli Antonino TITONE e Antonio PATTI e, a partire dal 1983, anche da Salvatore GIACALONE. Soltanto in occasione dell’eliminazione di Mariano NIZZA il D’AMICO richiese ed ottenne la collaborazione degli Alcamesi Vincenzo MILAZZO e Filippo MELODIA, che in quell’epoca intrattenevano strettissimi rapporti con il rappresentante della cosca marsalese.
Di tutti i predetti episodi omicidiari (con la sola eccezione di quello relativo alla soppressione del NIZZA, contestato anche al GIACALONE e del RODANO, contestato anche a quest’ultimo collaboratore e a MARCECA Vito) è imputato il solo Antonio PATTI, atteso che gli altri soggetti implicati sono stati eliminati ad opera della stessa associazione nella quale militavano.
L’inserimento nel presente capitolo dell’assassinio del RODANO è stato determinato dalla considerazione che fu il primo fatto di sangue in cui fu coinvolto Salvatore GIACALONE all’epoca non ancora affiliato alla cosca marsarese e pertanto la trattazione dello stesso appare logicamente prodromica a quella del delitto NIZZA, all’epoca del quale il collaboratore era già membro organico dell’organizzazione.
Di conseguenza, i parametri attraverso i quali verrà valutata la responsabilità dei prevenuti in relazione ai delitti in parola non saranno quelli, già analizzati, dell’art.192 c.III c.p., così come interpretato dalla prevalente giurisprudenza, bensì quelli, meno rigidi, che regolano il vaglio delle dichiarazioni confessorie.
Pertanto la valutazione della credibilità delle suddette dichiarazioni -pur se compiuta anche in questo caso alla luce della loro intrinseca coerenza, precisione e logicità e degli eventuali elementi esterni di riscontro, oltre che della intrinseca attendibilità del singolo collaboratore- non potrà non essere effettuata tramite un vaglio meno severo dei primi due citati criteri, tenuto conto da un lato del giudizio positivo già formulato sull’intrinseca attendibilità del PATTI e del GIACALONE e dall’altro lato del contenuto essenzialmente autoaccusatorio delle propalazioni dei medesimi.
La posizione del MARCECA con riferimento all’assassinio di Antonio RODANO, invece, verrà valutata alla stregua dei criteri generali enunciati in precedenza sulla chiamata di correo.
OMICIDIO PACE GASPARE
Gaspare PACE fu assassinato a Marsala il 24 marzo 1979.
Vincenzo GENOVESE e Ignazio LA TORRE, escussi nell’udienza dibattimentale del 19 marzo 1998, hanno riferito che, nella loro qualità di marescialli dei Carabinieri in servizio rispettivamente nella Compagnia di Marsala e nella Squadra di P.G. della Procura di Marsala, compirono accertamenti in ordine alla scomparsa del PACE, in seguito alla denuncia presentata alla Stazione CC di Ciavolo il 4 maggio 1979 dalla moglie del medesimo, Rita ZERILLI. Quest’ultima, in particolare, aveva denunciato il marito per violazione degli obblighi di assistenza familiare, sostenendo che si era allontanato con un’altra donna e facendo risalire la sua scomparsa al precedente 24 marzo. Aveva dichiarato inoltre che il giorno suddetto l’uomo si era recato a Salemi, come lo stesso aveva avuto modo di riferirle, e che il precedente 21 marzo si era presentato a casa loro PICCIONE Andrea, dicendo che voleva parlare con il PACE, il quale lo avrebbe potuto trovare al bar di via Salemi.
Sulla base delle dichiarazioni della donna, inizialmente gli investigatori ritennero che l’uomo fosse fuggito con l’amante. Venne comunque sentito PICCIONE Andrea, pregiudicato per reati contro il patrimonio e soggiornante obbligato, il quale ammise di avere incontrato PACE al bar di via Salemi alcuni giorni prima della sua scomparsa. Aggiunse che quest’ultimo lo aveva contattato per “fare soldi” e che, non avendo egli aderito alla proposta, gli aveva chiesto in prestito la somma di £.50.000, garantendo che glieli avrebbe restituiti il giorno successivo. Per altro, alla scadenza pattuita, il PACE gli aveva reso solo £.20.000 e si era impegnato a portargli le restanti £.30.000 il giorno successivo, senza tuttavia farlo, dato che era scomparso proprio in quella data. Il PICCIONE precisò altresì che la ZERILLI, non vedendo ritornare a casa il marito, lo aveva contattato per avere notizie e che egli si era recato nell’abitazione della donna per chiarire la vicenda, insieme a PAVIA Giovanbattista da Marsala, anch’egli in seguito assassinato. Il PICCIONE, il quale era stato detenuto insieme al PACE, dichiarò inoltre di essere a conoscenza del fatto che quest’ultimo intratteneva una relazione con una donna di nome Isabella TARDO, dalla quale aveva ricevuto lettere durante la sua carcerazione.
L’ipotesi che il PACE fosse stato assassinato venne formulata per la prima volta il giorno 22 giugno 1979, quando la ZERILLI si recò nuovamente nella caserma dei Carabinieri e riferì che, in seguito al rinvenimento (avvenuto all’inizio di aprile 1979 in una discarica in Contrada Scorciacavallo nell’agro di Marsala) della FIAT 124 in uso al PACE totalmente bruciata, aveva ricevuto una telefonata anonima in cui una voce femminile le aveva annunciato che suo marito era stato ucciso.
In effetti il 1 aprile 1979 operanti della Stazione CC. di Ciavolo, recatisi in località Scorciacavallo di Marsala in seguito a una segnalazione, avevano rinvenuto l’autovettura FIAT 124 tg. TP-62871 di proprietà di Angela SORBELLO e in possesso del Pace. L’automobile, quasi integralmente bruciata, era stata identificata grazie alla targa, ancora leggibile, e aveva le chiavi inserite in posizione di marcia nel quadro di avviamento e la prima marcia innestata (cfr. verbali di sopralluogo e di ispezione e sequestro del veicolo redatti dai CC. di Marsala e datati rispettivamente 1 e 5 aprile 1979).
Gli investigatori, alla luce di tali nuove emergenze probatorie, effettuarono indagini sulla personalità del PACE, accertando che nel 1977 egli era stato arrestato per la prima volta per un furto e non aveva rivelato i nomi dei complici. Appurarono inoltre che, dopo essere stato scarcerato, era entrato a fare parte di una banda di truffatori (di cui faceva parte anche il pregiudicato TERI Pasquale) che aveva negoziato assegni rubati alla ditta Parassiliti di Catania, previo considerevole aumento della cifra dedotta nei titoli in parola. In particolare, il ruolo del PACE era consistito nel cambiare gli assegni, recandosi a tal fine numerose volte a Salemi. In relazione a siffatta condotta delittuosa, il PACE era stato arrestato nuovamente arrestato. La sua scomparsa risaliva per l’appunto al periodo successivo alla scarcerazione in regime di libertà provvisoria, tanto che si ipotizzò altresì che avesse abbandonato la propria abitazione per il timore di essere nuovamente arrestato.
Nel corso delle indagini fu accertato inoltre che il PACE aveva rapporti con vari pregiudicati, oltre al già citato PICCIONE Andrea, e in particolare con ARCHITETTO Antonino da Marsala, soggiornante obbligato; PRINCIPATO Filippo, detto “Testa Liscia”, contrabbandiere di sigarette; PISCIOTTA Vincenzo da Mazara del Vallo; GUICCIARDI Leonardo da Salemi, gestore di una tabaccheria nella quale il PACE aveva cambiato alcuni assegni ricettati; TUMBARELLO Melchiorre, rinvenuto cadavere in una discarica in provincia di Torino; TERI Pasquale, da Marsala, complice del PACE nella truffa degli assegni; BONAFEDE Giuseppe, elettrauto di Marsala.
Il Maresciallo LA TORRE ha riferito altresì che nel corso delle indagini appurò che il PACE era stato coinvolto in un’altra vicenda eclatante, risalente al luglio 1978. In quel periodo lo scomparso si era recato a Torino per alcuni giorni, assumendo di volere cercare un lavoro in quella città, nonostante fosse stato sconsigliato dai parenti che gli avevano fatto presente che la stagione estiva non era propizia a tale fine. In un periodo immediatamente successivo alla permanenza del PACE a Torino era stato rinvenuto in una discarica di Grugliasco (TO) il cadavere parzialmente bruciato di TUMBARELLO Melchiorre, ucciso con colpi di arma da fuoco. Inoltre, poco dopo la scomparsa del PACE, il suo amico PRINCIPATO Filippo aveva riferito che nel cruscotto della FIAT 124 in uso al primo aveva visto una pistola, che in base alla sua descrizione, poteva probabilmente identificarsi in una calibro 7,65.
Le indagini sopra riferite condotte all’epoca sulla morte del PACE non consentirono di individuare i responsabili del delitto, né di accertarne il movente.
In seguito alle proprie dichiarazioni confessorie, Antonio PATTI è stato chiamato a rispondere dell’omicidio premeditato di Gaspare PACE, commesso in concorso con D’AMICO Francesco, CAPRAROTTA Francesco e TITONE Antonino, tutti deceduti.
Nel presente procedimento, in relazione al delitto in esame, si sono ritualmente costituite parti civili la Provincia di Trapani e i Comuni di Palermo e Marsala
Antonio PATTI, nell’esame reso nell’udienza del 25 marzo 1998, ha affermato che fu coinvolto nell’assassinio del PACE dal suo amico TITONE Antonino.
Quest’ultimo, nel febbraio 1979, andò a prendere l’odierno collaborante all’atto della sua liberazione dal carcere di Marsala, nel quale era stato ristretto a partire dal precedente mese di ottobre per minacce nei confronti di un certo DI DIA. I due giovani -che in seguito sarebbero divenuti cognati per avere il PATTI sposato la sorella del TITONE- erano già allora legati da un solido vincolo di amicizia e di solidarietà criminale, in quanto entrambi erano inseriti in un’organizzazione delinquenziale dedita al compimento di furti e rapine, di cui facevano parte altresì RODANO Antonio, INGOGLIA Pietro, VULTAGGIO Giuseppe e SAVONA Fabio.
Il TITONE, dopo avere accompagnato il PATTI a casa a lasciare gli effetti personali, comunicò all’amico che dovevano uccidere PACE Gaspare, detto “u zingaro”, per “fare una cortesia e dei cristiani boni di Marsala”. Dopo avere ottenuto l’immediato consenso dell’interlocutore, il TITONE gli spiegò che il PACE gli aveva chiesto armi perchè doveva “fare qualcosa di grosso” ed egli ne aveva parlato con suo zio RAIA Gaspare, il quale a sua volta aveva riferito il fatto a D’AMICO Vincenzo. Quest’ultimo, che “rispettava” il RAIA, propose di fare uccidere il PACE dal TITONE.
Il giovane, incaricato dell’esecuzione dell’omicidio, aveva dato un appuntamento a “Asparino u zingaro” nelle “pirrere” (cave) della via Salemi di Marsala, in una stalla di proprietà di CURATOLO Vincenzo, “uomo d’onore” della vecchia “famiglia” del predetto paese utilizzata in quell’epoca da RAIA Stefano, fratello di Gaspare, assumendo di avere armi a disposizione.
Il PATTI e il TITONE si recarono quindi sul luogo prestabilito per l’appuntamento, dove li raggiunse il PACE a bordo della propria autovettura, una FIAT 124 di colore verde chiaro. Il TITONE disse alla vittima che le armi erano in un luogo sottostante, dove teneva le sue capre, e la invitò a dirigervisi insieme. Durante il tragitto, gli sparò un colpo alla nuca, che fuoriuscì dalla fronte della vittima, la quale si accasciò.
Il TITONE ordinò al PATTI di avvolgere il capo dell’ucciso con un sacchetto di nylon per evitare che il sangue cadesse a terra e potesse essere notato da qualcuno e andò a chiamare il D’AMICO per spostare il cadavere. Il collaborante, mentre attendeva il ritorno del complice, eseguì l’incarico affidatogli ricoprendo il capo del morto con un sacchetto e sotterrò parzialmente il cadavere utilizzando paglia che aveva trovato sul posto.
Dopo circa mezz’ora o tre quarti d’ora il TITONE ritornò insieme al D’AMICO e a CAPRAROTTA Francesco. Tutti insieme caricarono il cadavere nel portabagagli della FIAT 124, percorsero circa 200 metri e lo gettarono all’interno di un profondo fosso, ubicato anch’esso nelle cave di via Salemi. Quindi portarono il veicolo verso la contrada Matarocco, lo bruciarono con benzina contenuta in una tanica che era a bordo della FIAT 127 del CAPRAROTTA (cfr. esame reso dal PATTI all’udienza del 25 marzo 1998).
Come è emerso dalla disamina dei dati emersi nel corso del dibattimento, l’unico elemento di prova a carico dell’imputato è la piena confessione resa dallo stesso. Pertanto ai fini della valutazione della sussistenza della penale responsabilità del medesimo in ordine all’omicidio in parola va preliminarmente esaminata la credibilità delle propalazioni autoaccusatorie del collaboratore.
A giudizio di questa Corte le dichiarazioni del PATTI relative all’assassinio di Gaspare PACE debbono essere giudicate attendibili e, di conseguenza, idonee a fondare un giudizio di responsabilità del collaborante con riferimento all’episodio delittuoso in parola.
Le propalazioni del “pentito”, per altro, avendo natura esclusivamente confessoria, non debbono essere valutate alla luce dei parametri di cui all’art.192 c.III c.p.p., ma alla luce dei meno rigidi criteri indicati nella premessa al presente capitolo.
Orbene, il racconto del PATTI è sviluppato secondo dettami di intrinseca coerenza, logicità e precisione, ripercorrendo in modo dettagliato e privo di contraddizioni interne le singole fase esecutive del delitto a sua diretta conoscenza.
La versione dei fatti fornita dal collaborante (che ha ricordato tra l’altro che la vittima si presentò al luogo fissato per il convegno con il TITONE a bordo di una FIAT 124 e che l’autovettura, dopo l’omicidio, fu data alle fiamme) ha trovato conferme non insignificanti nel verbale di sopralluogo redatto il 1 aprile 1979, nel quale si diede atto del rinvenimento della FIAT 124 in uso PACE quasi integralmente incendiata.
Le dichiarazioni del PATTI hanno ricevuto ulteriori riscontri sia fattuali che logici sulla base di altri elementi probatori in atti.
In particolare, la circostanza che il PATTI subì alcuni mesi di carcerazione tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979 per minacce aggravate nei confronti di tale DI DIA Diego, nato a Marsala il 24 luglio 1971 è stata suffragata dalla deposizione resa dal Maresciallo SANTOMAURO, il quale ha precisato che fu ristretto 20 novembre 1978 al 20 febbraio 1979 (cfr. dichiarazioni del SANTOMAURO nell’udienza del 19 dicembre 1995 nell’ambito del processo a carico di Antonio PATTI + 40, nonché certificato di detenzione del PATTI, acquisito dalla Corte ai sensi dell’art.507 c.p.p.).
Inoltre, l’esistenza di un solido rapporto di amicizia tra il PATTI e il TITONE fin dalla fine degli anni ’70 è stata ripetutamente e costantemente confermata dalle dichiarazioni dei collaboratori Salvatore GIACALONE, Carlo ZICHITTELLA, Fabio Salvatore SAVONA e Michele LICCIARDI, i quali li hanno descritti come amici pressochè inseparabili, oltre che come complici abituali nella perpretrazione di attività criminali.
Il fatto, poi, che l’esecuzione dell’omicidio sia stata affidata dal rappresentante della “famiglia” di Marsala al TITONE, che non era ancora stato “combinato” (lo fu contestualmente al PATTI, il 19 ottobre 1979: cfr. citato esame del PATTI nell’udienza del 25 marzo 1998), d’altra parte, può ben essere spiegato sulla luce di una duplice considerazione. Da un lato, e principalmente, il sicario era legato a D’AMICO Vincenzo da uno stretto legame affettivo, in quanto il primo, rimasto orfano in giovanissima età, era entrato fin da ragazzo nelle grazie del capo mafia (cfr. verbale della deposizione resa da Cristina CULICCHIA nelle udienze del 7 e 8 marzo 1995, nonché ripetute dichiarazioni di PATTI e GIACALONE in tal senso). Dall’altro lato, poi, il suo legame di parentela con RAIA Gaspare, “uomo d’onore” della “famiglia” di Marsala lo rendeva ancora più affidabile agli occhi dei capi della cosca, i quali, visto il suo coinvolgimento nella vicenda dovuto alla richiesta di armi da parte del PACE, decisero verosimilmente di metterlo alla prova in vista dell’eventuale affiliazione.
Del resto, la prassi di coinvolgere nell’esecuzione di delitti i giovani che venivano tenuti sotto osservazione per valutarne il coraggio e l’affidabilità ai fini dell’inserimento organico nell’organizzazione era comunemente applicata, quanto meno nella provincia di Trapani, e venne adottata anche nei confronti di Salvatore GIACALONE e Vincenzo SINACORI (cfr. deposizioni resi dai predetti collaboratori rispettivamente nelle udienze del 1 e del 15 aprile 1998).
Pertanto, la circostanza che il compito di sopprimere il PACE fu affidato dal D’AMICO al TITONE e al PATTI, sebbene gli stessi non fossero ancora stati “combinati”, non solo non inficia l’attendibilità delle dichiarazioni di quest’ultimo, ma al contrario, ne costituisce una logica conferma, attesa la comune diffusione di tale pratica, che era assurta quasi a prova iniziatica prodromica all’affiliazione rituale.
Infine, a giudizio di questa Corte, la credibilità delle affermazioni confessorie del collaborante non è esclusa neppure dalle circostanze che il veicolo venne rinvenuto in contrada Scorciacavallo e non in quella denominata Matarocco, dove il veicolo fu occultato a detta del PATTI, e che all’interno della FIAT 124 non venne trovato il cadavere del PACE, che secondo l’imputato vi sarebbe stato occultato.
Infatti, le predette divergenze tra il racconto del collaboratore e le risultanze del sopralluogo possono essere logicamente spiegate. Da un lato è ben possibile che il PATTI abbia indicato il luogo di occultamento del cadavere con un nome diverso da quello ufficiale, ma di uso comune tra gli abitanti del paese. Dall’altro lato, poi, è ipotizzabile che gli stessi mandanti del reato abbiano ritenuto opportuno per ragioni allo stato sconosciute di spostare l’autovettura e/o il cadavere dal luogo in cui li avevano originariamente occultato. Decisioni di tale genere, infatti, sono state adottate in varie occasioni da parte di “cosa nostra”, per sopperire al mutamento delle esigenze da soddisfare (cfr. i casi degli omicidi di D’AMICO Vincenzo e CAPRAROTTA Francesco, infra, sub Capitolo V e di Vincenzo MILAZZO e Antonella BONOMO).
Infine, non può certamente ritenersi significativa ai fini dell’attendibilità del PATTI con riferimento all’omicidio del PACE l’erronea collocazione del delitto nel mese di febbraio del 1979, anziché in marzo. Da un lato, infatti, la discrepanza tra le due date è realmente minima, specialmente se si tenga conto del notevole lasso di tempo intercorso tra l’evento e la narrazione dello stesso. Dall’altro lato, del resto, come si è già sottolineato nella scheda relativa all’esame della credibilità del PATTI, la mole e l’importanza delle informazioni fornite dal collaboratore in questione agli inquirenti, la gravità e il numero dei delitti di cui si è addossato la responsabilità e il sempre riconosciuto alto grado di attendibilità delle sue propalazioni consentono di potere escludere con certezza che il medesimo potesse sentire la necessità di accusarsi falsamente di altri crimini per legittimare la sua figura agli occhi degli inquirenti e dell’Autorità Giudiziaria. Ne consegue che non vi è ragione di ritenere che egli abbia mentito nell’attribuirsi la responsabilità dell’omicidio in esame.
Alla luce delle suesposte considerazioni, le dichiarazioni confessorie rese da Antonio PATTI in ordine all’omicidio di Gaspare PACE debbono essere giudicate pienamente attendibili e lo stesso va dichiarato responsabile del fatto delittuoso in esame. Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere all’imputato, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
OMICIDIO PAVIA GIOVAN BATTISTA
Giovan Battista PAVIA fu ucciso a Marsala la sera del 4 dicembre 1981.
La vittima, che all’epoca gestiva un vivaio insieme al padre, fu attinta da colpi d’arma da fuoco mentre viaggiava a bordo della Renault 4 rossa tg. TP-210194 intestata a sua moglie SCUDERI Maria (cfr. deposizione del Maresciallo CC. Bartolomeo SANTOMAURO all’udienza del 25 marzo 1998).
Inizialmente il fatto fu segnalato al Commissariato di Marsala da una telefonata, pervenuta alle ore 19,30 del 4 dicembre 1981, come un incidente stradale, attesi i danni riportati dalla carrozzeria dell’autovettura.
Infatti, dal fascicolo dei rilievi tecnici eseguiti il 4 dicembre 1981 dalla Sezione di Polizia Scientifica della Questura di Trapani in occasione del sopralluogo emerse che la Renault 4 era ferma in via Istria, direzione via Salemi, a circa 60 cm. da un muro.
La vettura presentava gravi danni al parafango lato guida e al cerchione anteriore sinistro e alcuni fori presumibilmente di proiettile esplosi verosimilmente dall’interno dell’abitacolo. Tale ultimo particolare fu desunto dagli investigatori sulla base delle caratteristiche dei fori stessi. In particolare, il vetro dello sportello posteriore sinistro era frantumato a raggiera, fatto che dimostrava, a parere degli operanti, che il corpo contundente che aveva provocato la rottura proveniva dall’interno dell’autovettura. Inoltre sullo sportello anteriore, all’altezza della curva superiore che combaciava con la colonnina centrale vi era un foro di circa mm.8 di diametro, in posizione quasi parallela al tetto dell’autovettura e con caratteristiche tali (dalla parte interna il foro si presentava con una forma pressochè circolare con la parte periferica ribattuta internamente e da quella esterna le lamiere avevano l’orletto ribattuto esternamente) da fare ritenere che il colpo fosse partito dai sedili anteriori della vettura (cfr. verbale di rilievi tecnici, cit.).
Vennero svolte indagini sulla personalità criminale del PAVIA e fu accertato che era pregiudicato ed era un assuntore abituale di sostanze stupefacenti del tipo cocaina. Era inoltre solito associarsi con BARRACO Sebastiano, anch’egli tossicodipendente, scomparso a Marsala il 16 novembre 1981 e conosceva anche DI GIORGI Gaspare, anch’egli assassinato (cfr. deposizione SANTOMAURO, cit.).
Nell’ambito delle investigazioni svolte nei mesi successivi alla morte del PAVIA venne sentito a sommarie informazioni testimoniali TITONE Antonino. Quest’ultimo ammise di conoscere il PAVIA, che aveva incontrato durante un periodo di comune detenzione alla Casa Circondariale di Marsala e che sapeva occuparsi di un vivaio, ma precisò che i loro rapporti si limitavano al semplice saluto. Negò di avere mai gestito affari insieme al PAVIA e di avere ricevuto confidenze di carattere personale da parte di costui. Aggiunse di avere saputo dell’omicidio dalla stampa e di non ricordare cosa avesse fatto il 4 dicembre, giorno del delitto, pur essendo certo di non averlo incontrato in quella data (cfr. verbale di s.i.t. rese dal TITONE il 30 dicembre 1981 al Commissariato P.S. di Marsala e acquisite trattandosi di atti divenuti irripetibili a causa del decesso del testimone, avvenuto il 14 marzo 1992).
Dall’esame autoptico effettuato dal dottor Michele MARINO emerse che il PAVIA era deceduto intorno alle ore 19,50-20 del 4 dicembre 1981, a causa delle lesioni prodotte da tre colpi d’arma da fuoco corta e di grosso calibro (verosimilmente una rivoltella calibro 38 a tamburo, alla luce delle caratteristiche dei fori di entrata), che lo avevano attinto rispettivamente alle regioni parietale destra, sopra orbitaria destra e anteriormente alla regione auricolare destra.
Data la direzione dei colpi, il C.T. ipotizzò che essi fossero stati esplosi:
– a brevissima distanza (come si evinceva dal fatto che i fori di entrata nell’emilato destro del cranio presentavano aloni di abbruciamento e sulla cute adiacente ai medesimi erano state rinvenute tracce di polvere da sparo),
– da un aggressore posto a destra e modicamente spostato in avanti (poichè la direzione dei colpi era da destra a sinistra, dal davanti all’indietro e dall’alto in basso) (cfr. verbale di descrizione – ricognizione e sezione del cadavere del PAVIA e consulenza medico legale effettuate dal dott. M. Marino datati 5 dicembre 1981, nonchè chiarimenti relativi all’esame autoptico forniti dal medesimo consulente tecnico il 26 maggio 1983).
Le indagini espletate dagli inquirenti all’epoca della scomparsa non portarono all’individuazione dei responsabili dell’assassinio del PAVIA.
Sulla base di dichiarazioni confessorie rese dallo stesso nell’ambito del presente procedimento, Antonio PATTI è stato chiamato a rispondere dell’omicidio premeditato di Giovan Battista PAVIA e dei reati satellite di porto e detenzione di armi comuni da sparo, perpetrati in concorso con CAPRAROTTA Francesco, D’AMICO Vincenzo e TITONE Antonino, tutti deceduti.
La Provincia di Trapani, il Comune di Alcamo e il Comune di Palermo si sono ritualmente costituiti parte civile con riferimento ai delitti in esame.
Il PATTI ha affermato che conosceva da anni Giovan Battista PAVIA, il quale gestiva insieme al padre un vivaio di piante in via Istria, a circa 200 metri dal luogo in cui abitava la madre del PATTI, nella cui casa egli in quel periodo viveva. La vittima era una persona violenta e senza scrupoli; assumeva sostanze stupefacenti, era inserito in una banda che commetteva rapine e furti ed era un “cane sciolto”, che voleva fare quello che gli pareva. Per queste ragioni non era ben visto da “cosa nostra”, i cui esponenti non tollerano che nella propria area di competenza territoriale vengano commessi atti criminosi senza il loro beneplacito.
Il PAVIA, in particolare, apparteneva alla stessa banda ed era in ottimi rapporti personali con DI GIORGI Gaspare, detto “u bandito”, che dal tempo di una comune detenzione nel carcere di Trapani chiamava “figlioccio” e da cui veniva appellato “padrino”.
Tra le causali della deliberazione dell’assassinio del PAVIA vi fu, inoltre, la convinzione di D’AMICO Vincenzo che egli fosse responsabile della scomparsa di un tale “Bastiano finanziere”, di cui la vittima era molto amica e che trafficava in droga. La “famiglia”, infatti, non poteva sopportare che nel suo territorio venissero commessi delitti da soggetti ad essa estranei e senza averne chiesto e ottenuto il consenso e pertanto il rappresentante della cosca decise che doveva essere ucciso e affidò il compito a PATTI e TITONE, i quali studiarono un piano per realizzare il crimine.
Il compito di eseguire materialmente l’omicidio venne assunto dal collaboratore, in quanto il PAVIA aveva in antipatia TITONE, mentre rispettava il PATTI e si fidava del medesimo, tanto che quando lo vedeva camminare a piedi, era solito fermarsi e dargli un passaggio a bordo della sua Renault 4 rossa verso il centro di Marsala, da cui il vivaio e la casa della madre del collaboratore distavano alcuni chilometri.
Un giorno di pioggia, il PATTI si piazzò in via Istria sotto casa di sua madre e attese che l’obiettivo si dirigesse dal vivaio verso casa. Il D’AMICO, che era appostato, a bordo della sua 127 bianca 900 super, in un luogo da cui poteva vedere il PAVIA uscire dal vicolo in cui era ubicato il vivaio, avvisò il sicario dell’arrivo della vittima designata con due colpi di clacson circa dieci secondi prima che essa gli si avvicinasse. Il PAVIA, avendo riconosciuto il PATTI, si fermò come era solito fare, si chinò per aprirgli lo sportello sul lato passeggero, che in quel tipo di automobile si poteva aprire solo dall’interno, e fece per inserire la marcia. Il sicario gli sparò subito uno o due colpi in testa, che provocarono il decesso immediato dell’obiettivo, il quale si irrigidì, mentre il veicolo continuò la sua corsa, andando a urtare contro il muro di una vecchia cantina abbandonata, appartenente a un certo Giuffrida.
Dopo avere sparato, PATTI salì a bordo di un “vespone” guidato dal TITONE e i due si diressero nella base di via Colaianni. Dopo avere nascosto il ciclomotore nelle cave lì vicine (le stesse nelle quali era stato ucciso il PACE), che usavano abitualmente per nascondere veicoli e armi, entrarono in casa, trovandovi il D’AMICO. Il PATTI, su consiglio dei due uomini, si lavò le mani con l’olio caldo per eliminare le tracce di polvere da sparo (cfr. esame reso dal PATTI all’udienza del 25 marzo 1998).
Come è emerso dalla disamina dei dati emersi nel corso del dibattimento, il principale elemento di prova a carico dell’imputato è la piena confessione resa dallo stesso. Pertanto ai fini della valutazione della sussistenza della penale responsabilità del medesimo in ordine all’omicidio in parola va preliminarmente esaminata la credibilità delle propalazioni autoaccusatorie del collaboratore.
A giudizio di questa Corte le dichiarazioni del PATTI relative all’assassinio di Giovan Battista PAVIA debbono essere giudicate attendibili e, di conseguenza, idonee a fondare un giudizio di responsabilità del collaborante con riferimento all’episodio delittuoso in parola.
Le propalazioni del “pentito”, per altro, avendo natura esclusivamente confessoria, non debbono essere valutate alla luce dei parametri di cui all’art.192 c.III c.p.p., ma alla luce dei meno rigidi criteri indicati nell’introduzione al presente capitolo.
Alla luce di queste premesse, il giudizio di attendibilità delle affermazioni in esame deve essere positivo.
In primo luogo, infatti, le dichiarazioni del collaboratore sono intrinsecamente logiche, coerenti e circostanziate, prive di qualunque discrasia e contraddizione idonea ad inficiarne o anche solo a porne in dubbio l’attendibilità.
In secondo luogo, poi, le stesse sono suffragate da significativi elementi di riscontro estrinseco, e in particolare:
1) Il PAVIA, come ha riferito il PATTI, gestiva un vivaio di piante sito in via Istria insieme al padre (cfr. citata deposizione del Maresciallo SANTOMAURO).
2) L’omicidio avvenne, come sostenuto dal collaboratore, a breve distanza dall’abitazione della madre del medesimo, sita in via Istria, nella quale il giovane all’epoca abitava, essendo scapolo (cfr. citate dichiarazione del Maresciallo SANTOMAURO, il quale ha confermato ogni particolare e ha precisato che il luogo del delitto distava circa 200-300 metri dall’edificio).
3) La vittima quando fu uccisa era effettivamente alla guida di una Renault 4 di colore rosso (cfr. verbale dei rilievi tecnici urgenti e deposizione del Maresciallo SANTOMAURO, cit.).
4) Il Maresciallo SANTOMAURO ha altresì confermato l’esistenza di rapporti di amicizia e di carattere criminale con Gaspare DI GIORGI e con associarsi con BARRACO Sebastiano, anch’egli tossicodipendente, scomparso a Marsala il 16 novembre 1981. Con riferimento a quest’ultima circostanza, la contiguità delle date degli omicidi di BARRACO e PAVIA rende assai verosimile l’affermazione del PATTI secondo cui la ragione ultima dell’eliminazione del secondo sia stata proprio il suo ritenuto coinvolgimento nell’assassinio del primo. Del resto, il fatto che “cosa nostra” non tolleri la commissione di fatti di sangue al di fuori del suo diretto controllo, oltre ad emergere ripetutamente e inoppugnabilmente da numerosi atti del presente procedimento, su cui ci si soffermerà ampiamente (particolarmente significativa appare, sotto questo profilo, la vicenda di Carlo ZICHITTELLA, trattata infra, sub Capitolo V), può ritenersi ormai un fatto notorio. Pertanto è assolutamente verosimile che il ritenuto coinvolgimento del PAVIA, già malvisto a causa del suo carattere indipendente e refrattario a uniformarsi alle regole di condotta imposte da “cosa nostra”, nella scomparsa del BARRACO abbia contribuito a rimuovere negli esponenti di primo piano della cosca di Marsala gli ultimi dubbi sulla necessità di eliminare un personaggio ormai divenuto troppo scomodo.
5) Le modalità esecutive dell’agguato descritte dal PATTI, infine, sono pienamente compatibili con le risultanze del sopralluogo e dell’esame autoptico. Il collaborante ha affermato che sparò uno o due colpi di rivoltella in capo al PAVIA, dopo che costui gli ebbe aperto la portiera dell’autovettura per consentirgli di salire, e che la vittima, morendo sul colpo, si irrigidì, cosicchè l’autovettura continuò la sua corsa, andando a collidere contro il muro di una cantina abbandonata.
Ora, dal verbale di sopralluogo è emerso che la Renault 4 del PAVIA aveva la prima marcia innestata e andò a collidere contro a un muro, riportando danni alla parte anteriore. Lo stesso Maresciallo SANTOMAURO, del resto, nella citata deposizione dibattimentale, ha precisato che nella prima segnalazione pervenuta alle Forze dell’Ordine era stato denunciato un incidente stradale, proprio a causa dell’urto contro l’edificio.
L’esame autoptico sul cadavere effettuato dal dottor MARINO, inoltre, ha evidenziato che il PAVIA fu attinto da tre colpi al capo, sparati da un aggressore posto a brevissima distanza dalla vittima (come si evinceva dagli aloni di bruciatura presenti in corrispondenza dei fori di entrata dei proiettili e dalle tracce di polvere da sparo rinvenute sulla cute adiacente ai medesimi), alla destra della medesima modicamente spostato in avanti. Le predette conclusioni tratte dal medico legale costituiscono un’ulteriore sostanziale conferma delle propalazioni del PATTI, secondo le quali egli si trovava alla destra del PAVIA, il quale era alla guida dell’autovettura, e a breve distanza dallo stesso (quanto meno con la mano che impugnava l’arma), quando esplose i colpi di rivoltella in direzione del capo della vittima. A fronte di un quadro così preciso e aderente ai risultati delle indagini espletate nell’immediatezza del delitto, l’unica imprecisione, relativa al numero dei proiettili che attinsero la vittima, non può essere certamente attribuito soverchio rilievo. Infatti da un lato la discrasia tra il racconto del collaboratore (che ha parlato di uno o due spari) e le risultanze della consulenza tecnica (nella quale si è fatto riferimento a tre colpi) può essere definita senza dubbio di lieve entità e dall’altro lato essa -proprio in considerazione della sua modesta portata- può ben essere giustificata alla luce del notevole lasso di tempo intercorso tra l’assassinio in parola e l’esame dibattimentale reso dal PATTI nel presente procedimento.
6) Le dichiarazioni confessorie del PATTI, infine, sono state confermate in ordine ad alcuni particolari anche dalle propalazioni del collaboratore di giustizia Michele LICCIARDI. Quest’ultimo, infatti, nell’esame reso nell’udienza del 3 giugno 1998, ha confermato l’esistenza di uno stretto legame di amicizia tra il PAVIA e il DI GIORGI e ha precisato che l’assassinio del primo fu posteriore di poco alla scomparsa di BARRACO Sebastiano, pur fornendo una ricostruzione parzialmente diversa dei fatti.
In particolare, il LICCIARDI ha affermato che nel 1981 il DI GIORGI, che era soprannominato “il bandito”, ma che egli chiamava “u picciriddu”, poiché era più giovane di lui, gli confidò di nutrire alcune preoccupazioni per la sua incolumità, raccontandogli che egli e Sebastiano BARRACO avevano compiuto un attentato ai danni di CRIMI Benito (e in particolare egli aveva sparato e il suo complice aveva guidato la motocicletta), su mandato di Titta PAVIA, il quale aveva nei confronti della vittima motivi personali di rancore. Il DI GIORGI, a suo dire, si era prestato poiché il CRIMI aveva trattato male sua fratello Alberto durante un periodo di comune detenzione. Aggiunse che aveva deciso a raccontargli tutto poiché qualche tempo prima era scomparso Sebastiano BARRACO, che aveva visto per l’ultima volta con il PATTI. Dopo questo omicidio, assai preoccupato per l’evolversi della faccenda, ne aveva parlato con il PAVIA, il quale gli aveva comunicato che aveva un appuntamento con il PATTI per cercare di capire cosa fosse successo. Dato che il PAVIA era stato ucciso un paio di giorni dopo questo loro incontro, proprio mentre era in macchina nelle vicinanze della casa del PATTI, il DI GIORGI si era preoccupato ancora di più, tanto che andava in giro con due pistole. Il LICCIARDI, condividendo le apprensioni dell’amico, lo invitò ad allontanarsi da Marsala, per potersi salvare. Qualche tempo dopo il predetto colloquio l’odierno collaboratore andò a casa del DI GIORGI, con il quale aveva un appuntamento, e suo padre gli disse che era uscito con “Ninuzzo Bacaredda”, soprannome di TITONE Antonino, anch’egli amico del “bandito”. LICCIARDI cercò quest’ultimo, senza trovarlo e il giorno dopo, avendo incontrato Nino TITONE in Piazza Porticella a Marsala, gli chiese dove fosse “u picciriddu”; il suo interlocutore gli rispose che non sapeva nulla. Tuttavia la sera stessa, mentre stava ritornando in carcere, due persone in motorino, una delle quali riconobbe essere proprio il TITONE, gli spararono. La sera stessa in carcere egli parlò con il suo compagno di cella Gaspare BARRACO, uomo della vecchia mafia di Marsala, raccontandogli della scomparsa del suo amico DI GIORGI, ma non dell’attentato che egli aveva subito, poiché aveva capito che non volevano ucciderlo (cosa che avrebbero potuto fare facilmente), ma solo avvertirlo di farsi i fatti suoi. Il BARRACO gli promise che se ne sarebbe occupato lui e che egli doveva stare tranquillo e pensare agli affari suoi. Da allora egli odiò gli uomini della famiglia di Marsala, poiché –gravitando nell’ambiente criminale- sapeva che il TITONE era uno di loro e che essi erano i responsabili della morte del DI GIORGI (cfr. esame del LICCIARDI nell’udienza del 3 giugno 1998).
Sebbene la versione fornita dal LICCIARDI contrasti con quella del PATTI su alcuni punti, anche rilevanti, tuttavia la riscontra pienamente con riferimento all’esistenza, tra il PAVIA e il DI GIORGI da un lato e la cosca mafiosa di Marsala dall’altro, di gravi dissapori -tali da ingenerare nei due uomini il timore di essere assassinati- e al legame tra la morte dei suddetti individui e quella del BARRACO. Tale ultimo fatto, pertanto, non può che refluire positivamente ai fini della valutazione della credibilità della confessione del PATTI.
Alla luce delle suesposte considerazioni, le dichiarazioni confessorie rese da Antonio PATTI in ordine all’omicidio di Giovan Battista PAVIA e ai reati satellite di porto e detenzione di arma comune da sparo debbono essere giudicate pienamente attendibili e lo stesso va dichiarato responsabile dei fatti delittuosi in esame. Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere all’imputato, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
OMICIDIO DI GIORGI GASPARE
Gaspare DI GIORGI, detto “Asparino u bandito” scomparve il 12 dicembre 1981.
All’epoca della sua scomparsa la vittima era soggetta a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, a causa dei suoi molteplici precedenti penali per reati contro il patrimonio, in conseguenza dei quali era stato anche più volte arrestato (cfr. deposizioni dell’Ispettore di P.S. Michele MORSELLO e del Maresciallo CC. Bartolomeo SANTOMAURO, rese rispettivamente nelle udienze del 18 e del 25 marzo 1998).
Pertanto, quando il DI GIORGI domenica 13 dicembre 1981 non adempì all’obbligo di presentarsi al Commissariato di p.s. di Marsala, gli investigatori ipotizzarono dapprima che si fosse allontanato volontariamente al fine di sottrarsi agli obblighi inerenti alla misura di prevenzione, come aveva già fatto in numerose altre occasioni.
La pista dell’omicidio venne prospettata per la prima volta quando, alcuni giorni dopo la mancata presentazione del sorvegliato speciale per la firma, il padre di quest’ultimo, Rosario DI GIORGI, si recò al Commissariato a denunciare la scomparsa del figlio. Quando il MORSELLO gli domandò perché fosse preoccupato, dato che Gaspare si era allontanato altre volte ed egli non aveva mai mostrato di nutrire apprensione alcuna, l’uomo rispose che nelle altre occasioni egli sapeva dove si trovasse il ragazzo, mentre in quel caso ne era completamente all’oscuro (cfr. deposizioni dell’Isp. MORSELLO, cit., e di Rosario DI GIORGI, resa nell’udienza del 18 marzo 1998).
Dopo la denuncia di Rosario DI GIORGI gli inquirenti sospettarono che il giovane fosse stato eliminato ed effettuarono accertamenti per verificare siffatta ipotesi.
In particolare appresero dalla madre della vittima, Angela SPARLA, che il 12 dicembre 1981, giorno della sua scomparsa, suo figlio Gaspare era uscito di casa dopo avere mangiato e averle detto di riferire al marito che era con “Ninuzzo”, che per altro la donna non era in grado di identificare (cfr. verbale di s.i.t. rese dalla SPARLA alla Polizia di Marsala il 15 dicembre 1981 e acquisite all’udienza del 18 marzo 1998 su richiesta del P.M. ai sensi dell’art.512 c.p.p. per irripetibilità sopravvenuta dovuta all’intervenuto decesso della testimone; cfr. altresì deposizione di Rosario DI GIORGI, cit.).
Essendo stata siffatta notizia confermata dalla madre della vittima, i funzionari di P.G. perquisirono l’abitazione di TITONE Antonino, noto nell’ambiente della malavita con il soprannome di “Ninuzzo”, e lo sentirono a sommarie informazioni testimoniali. Le due suddette attività di indagine, per altro, non portarono ad alcuna significativa acquisizione investigativa. La perquisizione, infatti, ebbe esito negativo (cfr. deposizione MORSELLO, cit. e verbale di vana perquisizione domiciliare eseguita il 24 dicembre 1981 da operanti del Commissariato P.S. di Marsala). Il TITONE, sentito a sommarie informazioni testimoniali, ammise di conoscere il DI GIORGI, ma precisò che tra loro non esistevano particolari rapporti, in quanto si limitavano a salutarsi e a bere insieme il caffè. Aggiunse che il DI GIORGI lo chiamava “Nino” e nè costui nè gli altri suoi amici lo identificavano con il soprannome di “Ninuzzo”. Precisò infine che non sapeva che il DI GIORGI fosse scomparso da Marsala il precedente 12 dicembre e che quel giorno non aveva un appuntamento con quest’ultimo, nè lo aveva incontrato per caso (cfr. verbale di s.i.t. rese da Antonino TITONE al Commissariato P.S. di Marsala in data 30 dicembre 1981).
Le indagini eseguite dagli investigatori sulla scomparsa del DI GIORGI non consentirono di accertare i fatti e di individuare i responsabili.
Sulla base di dichiarazioni confessorie rese dallo stesso nell’ambito del presente procedimento, Antonio PATTI è stato rinviato a giudizio per rispondere dell’omicidio premeditato di Gaspare DI GIORGI e dei reati satellite di porto e detenzione di armi comuni da sparo, perpetrati in concorso con TITONE Antonino, deceduto.
La Provincia di Trapani, il Comune di Marsala e il Comune di Palermo si sono ritualmente costituiti parte civile con riferimento ai delitti in esame.
Antonio PATTI, in ordine al delitto in parola, ha riferito che la responsabilità dell’assassinio in esame deve essere ascritta a “cosa nostra”.
A detta del collaboratore di giustizia DI GIORGI Gaspare, detto “u bandito”, fu ucciso per due ragioni. Da un lato, egli era in ottimi rapporti con PAVIA Giovanbatista, con il quale si chiamavano rispettivamente “figlioccio” e “padrino” fin dall’epoca di una comune detenzione nel carcere di Trapani, e stava cercando di scoprire i responsabili dell’assassinio dell’amico. Dall’altro lato, aveva perpetrato una rapina nella gioielleria Russo, sita in Marsala in viale XI maggio, che per ordine di D’AMICO Vincenzo non doveva essere toccata, e pertanto doveva essere eliminato, siccome aveva “alzato un po’ la testa” e stava diventando pericoloso.
Il compito di stabilire le modalità esecutive del delitto e di commetterlo fu affidato al PATTI e al TITONE.
Il PATTI, con il quale l’obiettivo era in buoni rapporti, gli tese un tranello, chiedendogli se poteva prestargli una vespa, di cui aveva bisogno per perpetrare una rapina, impegnandosi a consegnargli in cambio una parte del bottino. Avendo il DI GIORGI accettato, il killer gli fissò un appuntamento alcuni giorni dopo, alle ore 16,00 circa, nella cava all’interno della proprietà di CURATOLO Nicola già utilizzata come luogo di esecuzione degli omicidi PACE e PAVIA.
Il PATTI si recò all’appuntamento insieme a TITONE Antonino, entrambi armati con revolver calibro 38, a bordo della Seat Ibiza bianca di quest’ultimo.
Il DI GIORGI arrivò a bordo del “vespone” e si spaventò, non appena vide il TITONE, con il quale non era in buoni rapporti e di cui non si fidava. Sebbene il PATTI avesse tentato di tranquillizzarlo, quando il TITONE si avvicinò all’obiettivo dicendogli che dovevano lasciare il motociclo più in basso, ma con la reale intenzione di sparargli, il DI GIORGI pretese che fosse solo il PATTI ad accompagnarlo a nascondere la “vespa”. Data l’impossibilità di insistere nell’originario progetto senza insospettire la vittima, l’odierno collaborante salì sul veicolo sedendosi dietro l’obiettivo, il quale iniziò la discesa a velocità ridottissima. Dopo che ebbe percorso una ventina di metri, il killer appoggiò la rivoltella calibro 38 alla testa del DI GIORGI e premette il grilletto, dandogli una spinta per farlo cadere a terra. Il PATTI, che era rimasto in piedi, vide la vittima voltarsi verso di lui e guardarlo mentre si accasciava e gli sparò un altro colpo.
Quindi con l’aiuto di TITONE, che intanto era sceso a piedi per il pendio, spostò il cadavere in un’altra zona della cava e lo ricoprì con un poco di terriccio. Infine, dopo avere gettato il “vespone” in un profondo buco all’interno della cava, i due uomini tornarono all’appartamento di via Colaianni. Non appena fu buio, D’AMICO Vincenzo, CAPRAROTTA Francesco, RAIA Gaspare, MARCECA Vito e TITONE Antonino andarono a spostare il cadavere. Il PATTI non li accompagnò, in quanto non se la sentiva, poichè ricordava come la vittima lo aveva guardato. Pertanto il collaboratore -pur essendo certo che il cadavere fu spostato dai i soggetti summenzionati, in quanto potè seguirne in parte i movimenti dall’appartamento di via Colaianni, che non era distante dal luogo dove avevano lasciato il corpo- non essendo stato presente, non ha potuto riferire dove fu nascosta la salma (cfr. esame reso dal PATTI all’udienza del 25 marzo 1998).
Come è emerso dalla disamina dei dati emersi nel corso del dibattimento, il principale elemento di prova a carico dell’imputato è la piena confessione resa dallo stesso. Pertanto ai fini della valutazione della sussistenza della penale responsabilità del medesimo in ordine all’omicidio in parola va preliminarmente esaminata la credibilità delle propalazioni autoaccusatorie del collaboratore.
A giudizio di questa Corte le dichiarazioni del PATTI relative all’assassinio di Gaspare DI GIORGI debbono essere giudicate attendibili e, di conseguenza, idonee a fondare un giudizio di responsabilità del collaborante con riferimento all’episodio delittuoso in parola.
Le propalazioni del “pentito”, per altro, avendo natura esclusivamente confessoria, non debbono essere valutate alla luce dei parametri di cui all’art.192 c.III c.p.p., ma alla luce dei meno rigidi criteri indicati nella premessa al presente capitolo.
Orbene, il giudizio sull’attendibilità delle affermazioni del PATTI sul fatto criminoso in parola deve essere positivo.
In primo luogo, le dichiarazioni del collaboratore sono intrinsecamente logiche, coerenti e circostanziate, prive di qualunque discrasia e contraddizione idonea ad inficiarne o anche solo a porne in dubbio l’attendibilità. Esse, infatti, hanno ripercorso in modo ordinato e preciso le fasi dell’omicidio del DI GIORGI, dando conto delle causali dello stesso, delle modalità esecutive e dell’occultamento del cadavere.
Il fatto che il DI GIORGI fu soppresso deve essere ritenuto certo, nonostante non sia stato rinvenuto il cadavere. Infatti, da un lato i suoi stessi genitori erano sicuri che fosse stato ucciso perché non avevano notizia alcuna dei suoi movimenti, a differenza delle altre occasioni. Dall’altro lato, poi, la circostanza che il giovane non abbia lasciato tracce della sua esistenza per un lasso di tempo così lungo costituisce un’ulteriore conferma logica del suo omicidio.
D’altra parte, le causali del delitto rivelate dal PATTI appaiono pienamente rispondenti alla mentalità e al modus operandi di “cosa nostra”, la quale non è mai stata disposta a tollerare che un individuo non si adeguasse alle direttive impartite dal rappresentante della cosca e addirittura progettasse di vendicare l’assassinio di un suo amico. Infatti, nei luoghi e nei periodi in cui la mafia aveva un saldo controllo del territorio, ogni qualvolta un soggetto si ribellava alle ferree regole imposte dalla “famiglia”, o commettendo crimini senza avere ottenuto la preventiva autorizzazione dei mafiosi, o assumendo informazioni sui responsabili di delitti, o comunque comportandosi in modo tale da mostrare indifferenza o dispregio per le imposizioni dei boss, veniva soppresso (cfr., per limitarsi ad alcuni tra i casi più emblematici dedotti nel presente giudizio, le vicende di Carlo ZICHITTELLA, di Fabio Salvatore SAVONA, di Natale L’ALA e degli INGOGLIA di Partanna).
Sempre con riferimento ai motivi che determinarono l’eliminazione del DI GIORGI, lo stretto vincolo di amicizia esistente tra quest’ultimo e Giovan Battista PAVIA (confermato, come si è già visto nella scheda dedicata all’eliminazione di costui, dal Maresciallo SANTOMAURO e dal collaboratore di giustizia Michele LICCIARDI) rendono assolutamente verosimile, sia che la vittima cercasse di scoprire i responsabili dell’assassinio dell’amico, sia che tale attività ingenerasse una qualche apprensione negli esponenti di “cosa nostra”, attesa l’indipendenza di carattere dimostrata dal giovane.
La circostanza che il cadavere -occultato a detta del PATTI nelle cave alla periferia di Marsala- non sia mai stato ritrovato, infine, costituisce un’ulteriore, significativa conferma logica della veridicità delle dichiarazioni autoaccusatorie del collaborante.
D’altra parte come si è già avuto modo di precisare, a giudizio di questa Corte, la mole e l’importanza delle informazioni fornite dal “pentito” in parola agli inquirenti, la gravità e il numero dei delitti di cui si è addossato la responsabilità e il sempre riconosciuto alto grado di attendibilità delle sue propalazioni consentono di potere escludere con certezza che il medesimo potesse sentire la necessità di accusarsi falsamente di altri crimini per legittimare la sua figura agli occhi degli inquirenti e dell’Autorità Giudiziaria. Ne consegue che non vi è ragione di ritenere che egli abbia mentito nell’attribuirsi la responsabilità dell’omicidio in esame.
Alla luce delle suesposte considerazioni, le dichiarazioni confessorie rese da Antonio PATTI in ordine all’omicidio di Gaspare DI GIORGI e ai reati satellite di porto e detenzione di arma comune da sparo debbono essere giudicate pienamente attendibili e lo stesso va dichiarato responsabile dei fatti delittuosi in esame. Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere all’imputato, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
OMICIDIO RODANO ANTONIO
La scomparsa di Antonio RODANO fu denunciata alla Compagnia Carabinieri di Marsala il 3 febbraio 1983 dalla madre Onofria CIARAVINO.
La donna dichiarò che il figlio, contrariamente alle sue abitudini, mancava da casa dalle ore 14,00 circa del precedente 1 febbraio, quando era uscito per l’ultima volta. Riferì inoltre che lo stesso 1 febbraio il giovane era stato visto dal padre alle ore 16,00 circa al bar Diego di Piazza Porticella e che TITONE Antonino le aveva detto che un tale GIANGRASSO Antonio aveva trovato in Piazza Loggia un ciclomotore che era in uso a suo figlio, il quale lo aveva avuto in prestito da un amico. La signora CIARAVINO affermò inoltre che suo figlio era stato per molti anni insieme a TITONE Anna Maria, figlia di Diego e che aveva sempre frequentato la casa della famiglia TITONE, dove era stato sempre ben accolto, fino a quando, durante un periodo di detenzione, aveva avuto una lite con il fratello della ragazza, Gaspare. In seguito a questo episodio i rapporti del giovane con la famiglia TITONE si erano guastati, tanto che ella stessa aveva ricevuto una telefonata dalla sorella di Anna Maria che la aveva invitata a restituire due fotografie di quest’ultima affidatele dal figlio. Un giorno quest’ultimo era tornato a casa in lacrime dicendole che con la sua ragazza era “tutto finito” e aveva manifestato l’intenzione di trasferirsi a Firenze (cfr. verbale s.i.t. rese il 3 febbraio 1983 al N.O.R. di Marsala e acquisite ai sensi dell’art.512 c.p.p. all’udienza del 18 marzo 1998, per sopravvenuta impossibilità di ripetizione dovuta al decesso della testimone avvenuto il 25 marzo 1986, come da comunicazione in data 16 marzo 1998 del Comandante del N.O.R.M. di Marsala Tenente Luigi DI SANTO).
Il successivo 9 febbraio 1983 la CIARAVINO aggiunse che la mattina del 2 febbraio 1983 suo figlio Antonio non era rincasato. Ella aveva pensato che avesse trascorso la notte con una donna e aveva telefonato ad alcune amiche del giovane, non riuscendo per altro a ottenere alcuna informazione (cfr. verbale di s.i.t. rese il 9 febbraio 1983 al Nucleo Operativo C.C. di Marsala).
Infine, l’11 febbraio riferì che suo figlio Antonio andava spesso a giocare a calcio di pomeriggio, portando con sé una borsa azzurra con la scritta “Adidas”, cosicchè il 1 febbraio 1983, non avendo visto in casa la suddetta borsa, ella aveva pensato che il giovane fosse uscito per tale motivo. Il mattino successivo, avendo incontrato in Piazza Porticella Nino TITONE, gli aveva chiesto dove fosse la borsa. L’uomo le aveva risposto che poteva essere dal barbiere e che gliel’avrebbe riportata egli stesso; quando lo aveva fatto, lo stesso giorno, ella aveva notato che gli indumenti contenuti al suo interno erano asciutti e che l’asciugamano non era stato utilizzato (cfr. verbale di s.i.t. rese l’11 febbraio 1983 al Nucleo Operativo C.C. di Marsala l’11 febbraio 1983).
Gli investigatori ipotizzarono immediatamente che il RODANO fosse stato soppresso alla luce di due ordini di considerazioni.
In primo luogo, in breve tempo egli era stato denunciato per più fatti delittuosi di notevole gravità, tra i quali spiccavano l’omicidio del gioielliere FORACI di Marsala del Vallo nel corso di un tentativo di rapina (fatto per il quale, per altro era stato assolto: cfr. deposizione Maresciallo Bartolomeo SANTOMAURO all’udienza del 25 marzo 1998) e le tentate estorsioni ai danni del commerciante di Marsala ALESSI Salvatore e di NIZZA Mariano, successivamente ucciso a Marsala.
In secondo luogo, lo stesso 1 febbraio 1983, in Piazza Loggia a Marsala, vicino al bar “Sutera”, dopo le ore 20,00 era stato rinvenuto, poggiato a un cavalletto, il ciclomotore utilizzato dal RODANO. L’uomo che aveva notato il veicolo, TITONE Antonino (omonimo del mafioso successivamente assassinato), lo aveva portato dal meccanico dove il RODANO era solito condurlo per le riparazioni, data l’ora tarda e la condizione di sorvegliato speciale di pubblica sicurezza di quest’ultimo. Successivamente il TITONE era andato a casa del RODANO e aveva chiesto a sua madre se il giovane fosse in casa, ottenendo la risposta, falsa, che stava riposando.
Gli inquirenti si limitarono ad escutere i genitori della vittima. Mentre la madre fornì le indicazioni sopra riportate, il padre, Paolo RODANO, dichiarò che il 1 febbraio 1983 aveva incontrato il figlio al bar “Diego”, in Piazza Porticella, distante circa settecento od ottocento metri da Piazza Loggia. Il testimone, che lavorava in un circolo ricreativo vicino al locale, vi si era recato una prima volta per ordinare il caffè e aveva notato MARCECA Vito, detto “Vito ‘u grosso”, dialogare con due uomini dell’età apparente di circa trentacinque anni, alti m.1,65 circa e con i capelli biondi. Quando era ritornato nel bar per restituire la tazzina aveva visto il figlio parlare con lo stesso MARCECA e con TITONE, mentre gli altri due uomini se ne erano andati.
Il 25 febbraio 1983 Paolo RODANO si presentò spontaneamente per riferire che il precedente giorno 22 alle ore 11,00 circa si era presentato al circolo ZICHITTELLA Giovanni, che gli aveva domandato se “TIT” (così era soprannominato suo figlio) era ritornato, ricevendo una risposta negativa. In quell’occasione raccontò inoltre che dopo la scomparsa del figlio aveva incontrato MARCECA Vito, il quale, contrariamente a quanto aveva sempre fatto, lo aveva salutato (cfr. deposizione dell’allora brigadiere Salvatore CAPPELLINO all’udienza del 1998).
Il 4 febbraio 1983 Antonino TTONE venne sentito dal N.O.R. di Marsala e riferì di conoscere la famiglia RODANO e di essere amico di quest’ultimo da tempo. Aggiunse che dopo il suo arresto con l’accusa di rapina aveva condiviso la cella con lo scomparso, il quale era stato incarcerato per il medesimo reato circa un anno prima di lui. Concluse dicendo che non gli risultava che il RODANO fosse fidanzato con sua sorella Anna Maria (cfr. deposizione del Brigadiere Salvatore CAPPELLINO, resa all’udienza del 19 marzo 1998).
Per l’assassinio di Antonio RODANO vennero denunciati TITONE Antonino, fratello della ex fidanzata della vittima, e MARCECA Vito, i quali per altro vennero prosciolti in fase istruttoria perché nei loro confronti non erano stati raccolti elementi sufficienti per il rinvio a giudizio (cfr. deposizione SANTOMAURO, cit.).
Come si è visto, gli investigatori collocarono correttamente in un contesto mafioso l’omicidio del RODANO, nonostante la vittima non risultasse direttamente inserita in tale ambito (cfr. deposizione SANTOMAURO, cit.), ma non furono in grado di acquisire idonei elementi di prova a suffragio della loro ipotesi investigativa.
Sulla base delle dichiarazioni da loro stessi rese, Antonio PATTI e Salvatore GIACALONE sono stati rinviati a giudizio per rispondere del delitto di omicidio premeditato e commesso da un numero di persone superiore a cinque in pregiudizio di Antonio RODANO, in concorso tra loro e con CAPRAROTTA Francesco, D’AMICO Vincenzo, DE VITA Domenico, EVOLA Natale, LO PRESTI Angelo e TITONE Antonino (deceduti), nonché del reato satellite di detenzione e porto dell’arma utilizzata per l’assassinio suddetto.
Nel presente giudizio si sono ritualmente costituite parti civili la Provincia di Trapani e i Comuni di Marsala e di Palermo.
Antonio PATTI ha dichiarato di essere stato l’autore materiale della soppressione del RODANO, che conosceva fin da quando erano bambini.
Prima di essere affiliati a Cosa Nostra egli e il TITONE erano inseriti nel gruppo di rapinatori di cui faceva parte anche la vittima. Nel 1979, mentre il PATTI era detenuto, RODANO, SAVONA Fabio e VULTAGGIO Giuseppe perpetrarono una rapina ai danni della gioielleria FORACI, conclusasi con l’omicidio del commerciante da parte del primo e il ferimento del VULTAGGIO da parte del commerciante. Per tale fatto criminoso furono arrestati il RODANO e il TITONE, il quale ultimo era del tutto estraneo ai fatti.
Il PATTI ha aggiunto che il RODANO -detto “u freno” perchè una volta finì all’ospedale perchè si era rotto il freno del suo motorino- era una persona molto irruenta, amante delle armi da fuoco. Era entrato in lite con il TITONE per un revolver calibro 38 cobra nuovo, che quest’ultimo gli aveva prestato e che egli era rifiutato di restituire quando ne era stato richiesto. Il RODANO, che si era molto arrabbiato per la lite, un giorno si presentò al bar ex Spatafora con due pistole “Warterr” tedesche e le mostrò a LO PRESTI Angelo, dicendogli che doveva uccidere “Ninuzzo”. Il LO PRESTI, che era “persona di famiglia” avvisò immediatamente D’AMICO Vincenzo, il quale disse che il RODANO doveva essere ucciso subito, perchè era pericoloso. Per motivi d’urgenza, questo omicidio non fu deciso dal consiglio di famiglia, i cui membri furono informati della decisione solo dopo la commissione del fatto. Per altro, il D’AMICO incaricò MARCECA Vito di controllare i movimenti del RODANO. Anche il PATTI, che aveva il compito di eseguire materialmente l’omicidio, chiese al medesimo MARCECA di tenerlo informato dei movimenti dell’obiettivo. Quest’ultimo “uomo d’onore”, infatti, frequentava spesso il bar “Diego” di Porticella, gestito da parenti del TITONE con i quali era in ottimi rapporti, e pertanto poteva agevolmente controllare il RODANO, che abitava in quella zona. Di conseguenza, a detta del PATTI, il MARCECA, pur non essendo stato esplicitamente informato della deliberazione, era consapevole della stessa. Il collaboratore, per altro, ha aggiunto che egli non gli fornì alcuna informazione utile per la realizzazione dell’omicidio.
Il PATTI, per essere pronto in ogni momento a eseguire il progetto delittuoso, portò sempre con sè per circa un mese con una pistola Smith & Wesson cromata calibro 38 che Totò MINORE, l’allora rappresentante della “famiglia” di Trapani poi fatto scomparire dai Palermitani, aveva regalato al TITONE, il quale aveva dimostrato di apprezzarla molto.
L’occasione giusta si presentò un pomeriggio, quando -mentre il PATTI si trovava in Piazza Loggia a Marsala a bordo della FIAT Ritmo bianca regalatagli dall’“uomo d’onore” mazarese BASTONE Giovanni e acquistata nuova da un concessionario di Castelvetrano- l’obiettivo gli si avvicinò per chiedergli se poteva procurargli un motociclo, che gli era necessario per perpetrare una rapina. In quel periodo, infatti, il RODANO si accompagnava a ZICHITTELLA Nicolò, insieme al quale rapinava le persone subito dopo che queste avevano prelevato denaro ai “bancomat” degli istituti di credito ubicati nelle vie circostanti. Egli gli rispose che non c’era problema e lo invitò a salire in macchina con lui per andarlo a prendere.
Il RODANO si fidava pienamente dell’odierno collaboratore, anche perchè quest’ultimo, sapendo che il primo odiava il TITONE, gliene parlava male, d’accordo con gli esponenti della “famiglia”. Il RODANO, per altro, chiese a GIACALONE Salvatore, che stava intrattenendosi con PATTI, di salire in macchina con loro. Quest’ultimo si mise alla guida dell’autovettura, l’altro collaboratore prese posto nel sedile anteriore destro e il RODANO in quello posteriore. A un certo punto il PATTI, senza che la vittima designata lo potesse vedere, impugnò l’arma, frenò improvvisamente e sparò al suo indirizzo cinque o sei colpi, provocandone la morte istantanea.
Il GIACALONE in un primo tempo si spaventò, poi si riprese e aiutò il complice a gettare il cadavere in una discarica e a ricoprirlo con l’immondizia per nasconderlo sommariamente. Quindi i due uomini ritrornarono nell’appartamento di via Colaianni, dove trovarono Natale EVOLA (un “uomo d’onore” di Castellammare del Golfo il quale si nascondeva a Marsala in quanto era latitante) che il PATTI aveva avvertito del fatto che forse avrebbe portato nel covo un uomo da uccidere, nell’eventualità che non gli si fosse presentata l’occasione per assassinarlo altrove. EVOLA ripulì la FIAT Ritmo, senza per altro riuscire a eliminare l’odore di sangue che ristagnava all’interno dell’abitacolo. Mentre attendevano il rappresentante Vincenzo D’AMICO, sopraggiunse MESSINA Francesco “u muraturi”, a cui PATTI confidò che aveva ucciso un uomo e che il cadavere era occultato provvisoriamente nelle vicinanze. Non appena fece buio, il D’AMICO, il CAPRAROTTA, il TITONE, il MESSINA e il PATTI ritornarono a piedi nella discarica, portarono la salma nella cava vicino a via Colaianni e la gettarono in un fosso. Tuttavia, essendo il cadavere era visibile, il giorno successivo, RAIA Gaspare, che conosceva la cava suddetta palmo a palmo, MARCECA Vito, D’AMICO e CAPRAROTTA spostarono il corpo in un altro luogo, lo spogliarono, gli aprirono il petto e lo riempirono di sale, perchè gli animali lo divorassero prima.
Dato che il vetro posteriore della Ritmo si era rotto e la pulizia fatta dall’EVOLA non era stata in grado di eliminare il forte odore di sangue, PATTI portò il mezzo a Castellammare del Golfo nella carrozzeria di CALABRO’ Gioacchino, il quale sostituì il vetro e pulì l’automobile, restituendogliela dopo circa quindici giorni. Dopo di che il collaboratore riportò il veicolo al concessionario di Castelvetrano e acquistò una FIAT 127 bianca (cfr. esame di Antonio PATTI all’udienza del 25 marzo 1998).
In sede di controesame il PATTI ha sostanzialmente ribadito quanto affermato in esame. Il difensore del MARCECA ha contestato al PATTI alcune dichiarazioni dallo stesso rese nell’interrogatorio del 4 luglio 1995, difformi rispetto a quelle dibattimentali, e in particolare:
– nell’interrogatorio e nell’esame disse che il giorno dell’omicidio aveva visto RODANO di fronte al bar, mentre in controesame ha dichiarato che lo notò all’interno del locale che giocava a biliardino; il collaboratore ha ribadito quest’ultima versione;
– nelle indagini preliminari riferì che egli aveva incaricato la vittima di procurargli una “vespa”, mentre in dibattimento ha affermato che fu quest’ultimo a domandargli se aveva un motociclo; anche in questa occasione il PATTI ha confermato le sue dichiarazioni dibattimentali;
– nell’interrogatorio reso al P.M. sostenne che furono TITONE, CAPRAROTTA e D’AMICO Vincenzo a spogliare il cadavere, nell’esame ha attribuito questa attività agli ultimi due, nonché a RAIA e a MARCECA, nel controesame a CAPRAROTTA, TITONE e RAIA; il collaboratore ha ribadito quest’ultima versione (cfr. controesame del PATTI all’udienza del 5 maggio 1999).
Salvatore GIACALONE ha affermato che i suoi rapporti con la “famiglia” mafiosa di Marsala cominciarono nel 1982, dopo la sua scarcerazione dalla Casa Circondariale di Marsala, nella quale aveva scontato una condanna ad alcuni mesi di reclusione per il furto di una vespa. Durante la detenzione TITONE Antonino (che era suo cugino in quanto suo padre era fratello della madre del collaboratore), ristretto nello stesso periodo per una rapina perpetrata a Mazara, nella quale c’erano stati un morto e un ferito, si era messo a sua disposizione, raccomandandogli di “stare tranquillo” e di “non parlare, non fare la spia”.
Quando fu scarcerato, il TITONE, che era stato assolto dal reato ascrittogli, gli presentò D’AMICO Vincenzo, D’AMICO Gaetano, CAPRAROTTA Francesco, MARCECA Vito, RAIA Gaspare e altri, dicendogli che erano brave persone e che poteva rivolgersi a loro qualora avesse avuto bisogno, cosa che egli fece in un’occasione, chiedendo al primo una somma di denaro e ottenendo la somma di due milioni di lire attraverso la banca di Baldassare SCIMEMI. Conosceva da tempo anche il PATTI, senza per altro sapere che era mafioso, poiché abitavano nella stessa zona.
Siccome il TITONE parlava bene di lui con gli uomini della “famiglia”, costoro cominciarono ben presto a chiedergli qualche “cortesia”, ottenendo una pronta disponibilità da parte del GIACALONE, il quale si mise subito a loro disposizione, procurando “vespe”, motociclette e automobili, senza chiedere mai il motivo, perchè non gli interessava. In un’occasione, nel 1981 o 1982, anche se del tutto inconsapevolmente, ebbe addirittura un ruolo in un omicidio. Infatti il D’AMICO, che aveva incontrato al bar Spatafora, gli domandò di andare in Piazza Porticella per vedere se c’era DENARO Vincenzo. Egli acconsentì e riferì al rappresentante della cosca che lo aveva visto in quel luogo mentre leggeva il giornale insieme a MARINO Francesco, detto “il Cappellone”. Dopo un quarto d’ora circa il DENARO fu ucciso e il collaboratore solo in quel momento comprese che la sua informazione era servita a quello scopo (cfr. infra, sul Parte IV, Capitolo VII).
Successivamente a quest’ultimo episodio il D’AMICO -nella casa di via Colaianni in cui successivamente andò ad abitare ERRERA Francesco e che egli all’epoca frequentava assiduamente, pur non essendo ancora in “famiglia”- gli disse che Antonio RODANO doveva essere eliminato, perché dava disturbo a qualche “amico” e gli chiese se era disponibile ad aiutare in questo, in quanto loro, pur “andandogli appresso” da circa un mese, non riuscivano a prenderlo. Il D’AMICO, tuttavia, non gli spiegò le ragioni per le quali l’uomo doveva essere assassinato. In quel frangente era presente anche MARCECA Vito, che stava spesso in quella casa, dove mangiava e dormiva.
GIACALONE era stato in buoni rapporti con il RODANO, insieme al quale era stato anche detenuto, ma dopo essere stati scarcerati ebbero contrasti per problemi relativi a “vespe”, che l’altro gli chiedeva spesso e che egli non gli voleva dare. Lo vedeva spesso al bar Diego di Piazza Porticella insieme a Nicolò ZICHITTELLA e in Piazza Loggia, ma, sapendo che il gruppo di D’AMICO lo voleva eliminare, si teneva lontano da lui, temendo di essere chiamato a testimoniare, qualora il fatto si fosse verificato in sua presenza.
Un giorno incontrò casualmente PATTI in Piazza Loggia e sorbì un caffè in sua compagnia al bar “Sutera”. In quell’occasione il PATTI gli disse che al RODANO serviva un “vespone” per una rapina da perpetrare insieme a Cocò ZICHITTELLA. Il GIACALONE rispose che ne aveva un paio ben conservati e che poteva andarli a prendere, se necessario. Il PATTI parlò con il RODANO, che era di fronte al bar, e all’esito del colloquio salirono tutti e tre sulla FIAT Ritmo 60 del primo. Sebbene non avesse preso accordi con il PATTI, egli comprese che in quel frangente il RODANO sarebbe stato ucciso.
L’“uomo d’onore” si mise alla guida, il GIACALONE prese posto sul sedile anteriore destro e il RODANO -che aveva lasciato il suo motorino parcheggiato nella piazza- si sedette sul sedile posteriore, dietro a quest’ultimo. La presenza del GIACALONE era stata richiesta dall’obiettivo, il quale era riluttante a salire in auto in compagnia del solo PATTI. Si recarono nelle “ciare” (terreni scoscesi e rocciosi) vicine a Marsala e fecero una prima sosta di fronte a una cooperativa, in corrispondenza di un largo e profondo fosso. Il PATTI e il RODANO scesero a cercare il motociclo, ma ritornarono senza averlo trovato. Il GIACALONE si meravigliò che non ci fosse più, ma si offrì di portarli a prendere l’altro; chiese anche al PATTI perché non avesse sparato al RODANO, dato che aveva visto che aveva una pistola, ma questi gli rispose che non era stato possibile. Dopo che furono ripartiti per raggiungere il nascondiglio del secondo “vespone”, il PATTI improvvisamente fermò la vettura, si voltò e sparò al RODANO alcuni colpi di pistola con la mano sinistra, essendo mancino. L’autovettura fu danneggiata: si ruppero il vetro laterale e quello posteriore e venne fatto qualche buco nella carrozzeria.
GIACALONE e PATTI scesero dalla macchina, scaricarono il cadavere e, dopo che il primo ebbe estratto un proiettile che stava uscendo, lo nascosero tra la spazzatura. Quindi ritornarono in via Colaianni, dove trovarono MARCECA Vito e Natale EVOLA, che trascorreva in quella casa la sua latitanza e che si offrì di pulire la macchina. A quel punto il GIACALONE se ne andò, dato che il suo compito era finito.
Nel pomeriggio ritornò all’appartamento di via Colaianni, dove incontrò il D’AMICO, il CAPRAROTTA, il TITONE, il MARCECA, i quali si complimentarono con lui. Successivamente il PATTI e il TITONE gli raccontarono che il cadavere era stato spogliato nudo, per facilitarne la decomposizione (esame del GIACALONE all’udienza del 1 aprile 1998).
In sede di controesame e di riesame il collaboratore ha sostanzialmente confermato le precedenti propalazioni (cfr. controesame e riesame del GIACALONE resi rispettivamente nelle udienze del 6 e del 12 maggio 1999).
Il difensore del MARCECA ha contestato al collaboratore due discrasie tra le sue dichiarazioni dibattimentali e quelle della fase delle indagini preliminari, e in particolare:
– nell’interrogatorio del 18 ottobre 1996 riferì che la decisione di sopprimerlo fu dovuta al fatto che si era associato a ZICHITTELLA Nicolò, mentre in sede di controesame ha specificato che la ragione della deliberazione fu la mancata restituzione della pistola prestatagli da TITONE; il collaboratore ha confermato quest’ultima versione;
– nel citato interrogatorio affermò che sapeva che PATTI era armato e che teneva la rivoltella dietro alle spalle, mentre in dibattimento ha dichiarato che non fu a conoscenza della circostanza che PATTI era armato fino a quando non vide che aveva un revolver cromato al fianco; il GIACALONE ha sostenuto che le due versioni a suo parere sono conformi.
Ciò premesso, e passando alla disamina delle posizioni dei singoli imputati, deve ritenersi che sia stata raggiunta la piena prova della penale responsabilità di Salvatore GIACALONE e di Antonio PATTI in ordine ai fatti delittuosi in trattazione.
Come è emerso dalla disamina dei dati emersi nel corso del dibattimento, i principali elementi di prova a carico dei prevenuti sono costituiti dalle piene confessioni rese dagli stessi, riscontrate reciprocamente dalle dichiarazioni dell’altro collaboratore e dagli elementi fattuali emersi dalle indagini espletate all’epoca dell’omicidio.
A giudizio di questa Corte le propalazioni in parola debbono essere giudicate attendibili e, di conseguenza, idonee a fondare un giudizio di responsabilità dei predetti collaboranti.
In primo luogo, infatti, le dichiarazioni del PATTI e del GIACALONE singolarmente considerate sono intrinsecamente logiche, coerenti, circostanziate e prive di qualunque discrasia e contraddizione idonea ad inficiarne o anche solo a porne in dubbio l’attendibilità. Esse, infatti, hanno ripercorso in modo ordinato, preciso e concorde le fasi dell’omicidio del RODANO, dando conto delle causali dello stesso, delle modalità esecutive e dell’occultamento del cadavere.
Le discrasie emerse nel corso del controesame non possono essere giudicate idonee a inficiare o comunque porre in dubbio la credibilità dei collaboratori, tenuto conto della rilevanza modesta delle stesse rispetto alla precisione dei resoconti dei medesimi sull’omicidio RODANO complessivamente considerate e del lungo lasso di tempo trascorso dall’epoca dei fatti. A tale riguardo deve essere sottolineato che le difformità tra le propalazioni rese nelle varie fasi del giudizio hanno avuto ad oggetto circostanze assolutamente marginali rispetto all’economia generale dell’azione (quali l’esatta ubicazione della pistola, il luogo preciso in cui PATTI vide il RODANO o il momento in cui il GIACALONE si accorse che il complice era armato), ovvero apprese da altri (come l’identità delle persone che provvidero alla soppressione del cadavere). Orbene, è evidente che discrasie di tal genere lungi dal revocare in dubbio l’attendibilità dei collaboratori, ne rafforzano il giudizio positivo di attendibilità, giacchè sarebbe inquietante se a oltre quindici anni di distanza dai fatti nei loro resoconti non si registrassero imprecisioni tanto più se incidenti su elementi del tutto secondari. Del resto, specialmente con riferimento al PATTI, a fronte di rivelazioni a tanto ampio raggio su una molteplicità di episodi criminosi, è impensabile che non si registrino talvolta inesattezze o veri e propri errori; se questa circostanza impone un attento vaglio delle dichiarazioni del collaboratore, certamente non ne inficia la complessiva credibilità. D’altra parte, i racconti del PATTI e del GIACALONE sono precisi e concordi sui fatti salienti dell’azione criminosa e in generale su quelli percepiti direttamente, circostanza che ne dimostra la complessiva attendibilità e genuinità, tenuto conto che sarebbe impensabile che due soggetti abbiano ricordi tanto nitidi e collimanti su dati appresi da altri a tale distanza di tempo dal verificarsi dei medesimi.
Le propalazioni dei collaboratori hanno trovato una significativa conferma altresì nelle affermazioni dell’imputato di reato connesso Michele LICCIARDI.
Quest’ultimo ha dichiarato che conosceva Antonio RODANO, con il quale egli aveva condiviso la cella per alcuni anni. La vittima gli aveva confidato di essere stato legato sentimentalmente con la sorella di Nino TITONE e di essere stato minacciato di morte da quest’ultimo, il quale non voleva che i due giovani si sposassero. Dopo la morte del RODANO, il VINCI (un nipote di quest’ultimo con il quale il collaboratore aveva progettato di vendicarne la morte) gli riferì che responsabili dell’assassinio erano stati il TITONE, il PATTI e Salvatore GIACALONE. Il collaboratore ha aggiunto che in effetti dopo l’omicidio del RODANO la sorella di TITONE sposò PATTI (cfr. esame LICCIARDI, cit).
Ora, le dichiarazioni del LICCIARDI, sebbene attengano a fatti appresi de relato, debbono essere giudicate attendibili e idonee a costituire un elemento di riscontro a quelle dei due prevenuti.
Infatti, esse non soltanto sono perfettamente conformi alle affermazioni di questi ultimi, ma hanno trovato significative conferme di carattere logico nell’inimicizia del TITONE nei confronti della vittima dovuta anche al fidanzamento di quest’ultima con la sorella dell’“uomo d’onore”, Anna Maria, che in seguito sposò il PATTI (cfr. deposizione Onofria CIARAVINO e dell’allora convivente del TITONE, Cristina CULICCHIA, nell’udienza del 7 marzo 1995 nell’ambito del processo a cario di Antonio PATTI e altri quaranta imputati celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Trapani; quest’ultima testimone, in particolare, ha dichiarato che il delitto fu dovuto al fatto che il TITONE non accettò che il RODANO aspirasse a di sposare sua sorella, della quale a suo giudizio non era all’altezza).
Inoltre, le propalazioni dei collaboranti hanno trovato riscontri sia reciproci che da dati emersi dalle indagini effettuate tanto all’epoca del delitto quanto in seguito all’inizio della loro collaborazione, e in particolare:
1) PATTI e GIACALONE hanno concordemente dichiarato che incontrarono RODANO in piazza Loggia; il dato ha trovato un’ulteriore conferma nel rinvenimento in tale luogo del ciclomotore in uso alla vittima la sera della sua scomparsa (cfr. dichiarazioni del CAPPELLINO e della CIARAVINO, la quale fu informata da TITONE Antonino, omonimo del mafioso, che il GIANGRASSO aveva trovato il motorino);
2) PATTI ha affermato che RODANO gli chiese di procuragli un motociclo per una rapina; GIACALONE ha sostanzialmente riscontrato la propalazione avendo detto che il complice gli chiese due vespe da dare alla vittima, il quale gliene aveva fatto richiesta;
3) entrambi hanno sostenuto che il PATTI invitò RODANO a salire sulla sua FIAT Ritmo bianca acquistata da un concessionario di Castelvetrano; il Maresciallo SANTOMAURO ha accertato che in effetti dal 21 dicembre 1982 il collaboratore era proprietario di una FIAT Ritmo tg. TP-235682, acquistata da un concessionario di Castelvetrano di nome TAORMINA Baldassare classe 1925, il quale fu indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso sulla base delle dichiarazioni di Giacoma FILIPPELLO (cfr. deposizione SANTOMAURO, cit.);
4) PATTI e GIACALONE hanno affermato che RODANO insistette perché in macchina salisse anche il secondo, dato che non si fidava ad andare da solo con il primo e che quest’ultimo si mise alla guida dell’autovettura, il complice sedette al suo fianco e la vittima prese posto nel sedile posteriore;
5) entrambi hanno descritto in modo concorde le modalità di esecuzione dell’omicidio e quelle afferenti al post factum, dal provvisorio occultamento del cadavere, al ritorno in via Colaianni, al lavaggio dell’automobile ad opera di EVOLA Natale, alla definitiva soppressione del corpo; un’ulteriore conferma logica delle propalazioni dei propalanti è costituita dalla circostanza che il corpo del RODANO non sia mai stato ritrovato;
6) tutti e due i collaboratori hanno precisato che nel corso dell’azione venne frantumato il vetro della FIAT Ritmo e il PATTI ha aggiunto che fece sostituire il vetro nell’officina del CALABRÒ e poco dopo vendette la macchina, acquistando una FIAT 127 dallo stesso concessionario di Castelvetrano da cui aveva acquistato la FIAT Ritmo; le citate dichiarazioni hanno trovato piena conferma negli accertamenti del Maresciallo SANTOMAURO e del carrozziere CARO Mario; il primo ha appurato che il PATTI il 17 marzo 1983 alienò la FIAT Ritmo a FASULLO Martino e la cessione venne formalmente trascritta all’A.C.I. di Trapani il 12 maggio 1983; che il 15 febbraio 1983 (quindici giorni dopo la scomparsa del RODANO) l’imputato acquistò, sempre dal TAORMINA, una FIAT 127, tg. TP-237806; la FIAT Ritmo (che era nella disponibilità di PATTI Melchiorre, nato a Campobello di Mazara il 15 giugno 1963) venne recuperata dagli investigatori nel 1995, nel corso delle attività di riscontro alle propalazioni del collaboratore e fu fatta esaminare da Mario CARO, carrozziere di Campobello di Mazara, accertando che il parabrezza anteriore e il lunotto posteriore del veicolo non erano originali, poichè, a differenza di quelli laterali, non erano quelli propri della casa di costruzione dell’autovettura (cfr. deposizioni SANTOMAURO, cit. e CARO, resa all’udienza del 25 marzo 1998);
7) il GIACALONE ha dichiarato che nel 1981/82 scontò alcuni mesi di detenzione nel carcere di Marsala per il furto di una vespa e che in quel frangente nel medesimo istituto penitenziario era ristretto anche TITONE Antonino. Nonostante tale periodo di carcerazione non risulti dalla posizione giuridica del collaboratore, la sua affermazione ha trovato conferma nel foglio matricolare del carcere di Marsala, dal quale emerge che GIACALONE Salvatore di Giuseppe e TITONE Lucia, denunciato in stato di fermo il 15 gennaio 1981 per il delitto di ricettazione di un ciclomotore Piaggio, era nato a Marsala il 18 gennaio 1963 e non il 29 dicembre 1962, come era stato erroneamente indicato in un primo momento e come era riportato nella sentenza di condanna (cfr. produzione documentale del P.M. all’udienza del 9 febbraio 2000).
Alla luce delle suesposte considerazioni, deve ritenersi raggiunta la piena prova della penale responsabilità del PATTI e del GIACALONE in ordine all’omicidio di Antonio RODANO e dei reati satellite di porto e detenzione di arma comune da sparo.
Con specifico riferimento alla posizione del GIACALONE, il fatto che PATTI ne affermi solo la presenza al momento del delitto, escludendone nel contempo ogni diretto coinvolgimento, non è elemento sufficiente ad escluderne la consapevole e volontaria partecipazione al fatto, ammessa dall’interessato.
Infatti, a fronte di un racconto dettagliato, intrinsecamente coerente e veritiero operato dal GIACALONE (come si è desunto dalla concordanza con quello del PATTI), non vi è motivo di escludere che il collaboratore in parola sia attendibile anche nella parte in cui si è dichiarato consapevole, al momento in cui salì sulla FIAT Ritmo del complice, tanto dell’esistenza del progetto di assassinare il RODANO, quanto dell’idea del killer di metterlo in atto in quell’occasione.
Né può destare meraviglia la circostanza che il GIACALONE sia stato coinvolto nell’omicidio del RODANO pur non essendo ancora stato affiliato alla cosca di Marsala, dato che l’utilizzazione di persone “vicine” all’organizzazione era una prassi comune, utilizzata, tra l’altro, per il PATTI e il SINACORI.
Del resto, il GIACALONE non aveva alcun motivo di accusarsi falsamente di questo delitto per aumentare la propria credibilità di fronte agli inquirenti, atteso che lo stesso si è addossato la responsabilità di molteplici episodi criminosi e ha fornito un significativo contributo all’attività degli inquirenti.
Deve inoltre essere giudicata sussistente l’aggravante della premeditazione, considerato, che il collaboratore era a conoscenza del progetto omicidiario ben prima dell’esecuzione del medesimo.
Pertanto, nella fattispecie concreta in esame sono stati integrati i due presupposti necessari per la configurazione dell’aggravante in parola: un apprezzabile lasso di tempo tra la risoluzione e l’azione, sufficiente a fare riflettere sulla decisione presa e a consentire il recesso dal proposito criminoso e l’esistenza nell’animo dell’imputato, senza soluzione di continuità, una risoluzione ferrea e irrevocabile, chiusa a ogni motivo di resipiscenza.
Non è stata, al contrario, raggiunta la prova certa che l’assassinio in esame sia stato perpetrato con il concorso di un numero di persone superiore a cinque, cosicchè l’aggravante di cui all’art.112 n.1 c.p. non può essere giudicata integrata.
Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere ai prevenuti, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
La posizione dell’altro imputato, MARCECA Vito, deve essere invece esaminata sulla base dei criteri generali di valutazione delle chiamate in correità adottati da questa Corte.
PATTI ha affermato che sia D’AMICO che egli stesso, dopo essere stato incaricato dell’esecuzione materiale, chiesero al MARCECA di controllare il RODANO, precisando per altro che l’imputato in parola non svolse alcuna attività in tal senso.
GIACALONE ha dichiarato che il D’AMICO nella casa di via Colaianni gli rivelò che il RODANO doveva essere eliminato, perché dava disturbo a qualche amico e gli domandò se era disponibile ad aiutare in questo, in quanto essi, pur “andandogli appresso” da circa un mese, non riuscivano a prenderlo. Ha aggiunto che in quell’occasione era presente anche MARCECA Vito, che stava sempre in quella casa, dove mangiava e dormiva.
Un ulteriore elemento a carico del MARCECA è stato fornito da Paolo RODANO, padre della vittima, il quale il pomeriggio della scomparsa del figlio vide quest’ultimo, verso le ore 16,00, in compagnia del MARCECA e di TITONE Antonino nel vicinanza del bar Diego in piazza Porticella.
Lo stesso Paolo RODANO riferì al CAPPELLINO che MARCECA dopo la scomparsa del figlio, lo aveva salutato, cosa che non aveva mai fatto (dich, CAPPELLINO, cit.).
A giudizio di questa Corte, non vi è prova che il MARCECA abbia fornito un contributo causale all’esecuzione del disegno criminoso. Infatti, il PATTI, il quale è stato l’unico ad attribuire un ruolo al prevenuto nella vicenda in parola, ha escluso da un lato che abbia preso parte alla delibera, che venne presa dal solo rappresentante della cosca, data l’urgenza dell’omicidio, e dall’altro lato che abbia svolto in concreto qualsivoglia attività finalizzata ad agevolare la soppressione del RODANO.
Il GIACALONE, dal canto suo, ha confermato la consapevolezza dell’imputato della decisione omicidiaria, ma non ha individuato condotte specifiche di costui agevolatrici dell’attività dei sicari.
Lo stesso Paolo RODANO si è limitato a raccontare un atteggiamento “informato” da parte del MARCECA, ma non ne ha indicato un attività in qualche modo collegata alla soppressione del figlio, atteso che tale certamente non può essere ritenuto l’incontro al bar, assolutamente indipendente rispetto alla scomparsa del giovane, intercettato dal PATTI.
Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, Vito MARCECA deve essere assolto dal reato ascrittogli per non avere commesso il fatto, non avendo fornito alcun contributo causale alla commissione del delitto in esame.
OMICIDIO VARISANO SALVATORE
Salvatore VARISANO fu assassinato a Marsala nella notte del 28 febbraio 1983
L’Ispettore Michele MORSELLO, il quale nella sua veste di funzionario in servizio nel Commissariato di Marsala compì accertamenti sull’omicidio in esame nel periodo immediatamente successivo allo stesso, ha riferito che la notte del 28 febbraio 1983, alle ore 0,20 circa, raggiunse l’androne di un palazzo in via Regione Siciliana in cui giaceva, riverso, il cadavere.
La vittima -il quale all’epoca della sua morte era in cassa integrazione, mentre in precedenza aveva lavorato alle dipendenze della ditta “Sicilvetro” di Marsala- non era noto alle forze dell’ordine, non essendo mai stato oggetto di indagini e non essendo sospettato di avere legami con la malavita cittadina.
Dopo l’omicidio venne effettuata una perquisizione nell’appartamento in cui aveva abitato il VARISANO. Nel corso di tale ultimo atto investigativo fu rinvenuta una sottoscrizione per la raccolta di fondi in favore di un una persona gravemente ammalata avviata su iniziativa della vittima; vennero trovati altresì appunti e lettere contenenti indirizzi di cantine sociali, nominativi e cifre.
Fu accertato altresì che in passato il VARISANO era stato oberato di debiti.
Vennero inoltre escussi i familiari del defunto (e in particolare la moglie Rosalia MONTAPERTO e la figlia Biagina VARISANO), i quali riferirono tra l’altro notizie sulla vittima e i fatti a loro conoscenza in ordine alla dinamica dell’agguato.
Alla luce della documentazione suddetta, gli inquirenti ipotizzarono che l’omicidio potesse essere collegato alla sofisticazione vinicola, ma le indagini in tal senso non portarono al conseguimento di alcun risultato (cfr. deposizione resa dall’Isp. Michele MORSELLO nell’udienza del 18 marzo 1998).
La relazione di perizia medico legale effettuata dal dottor Michele MARINO evidenziò che la morte del VARISANO era intervenuta tra la mezzanotte e le ore mezzanotte e venti circa della notte tra il 27 e il 28 febbraio 1983 ed era stata determinata dalle lesioni a cervello e cervelletto, accompagnate dalle fratture da scoppio della scatola cranica, del cuore e dei polmoni.
Le suddette lesioni erano state cagionate da colpi di arma da fuoco che avevano attinto la vittima rispettivamente alla regione mandibolare sinistra, alla regione anteriore sinistra del collo, alla regione interscapolare sinistra, alla regione intrascapolare sinistra (1 proiettile in ciascuna delle quattro aree) e alla regione scapolare sinistra in zona posteriore (2 proiettili).
I colpi, a giudizio del consulente tecnico, erano stati verosimilmente sparati da una pistola a tamburo di grosso calibro (38), come si evinceva dal fatto che non erano stati rinvenuti bossoli nel luogo del decesso, ed erano stati esplosi da distanza ravvicinata, quasi a bruciapelo, come si deduceva dalla presenza di particelle di DPA sia sulla cute che sulla stoffa all’altezza dei fori di entrata. Infine, dall’ubicazione dei fori di uscita emergeva che i colpi che avevano attinto la vittima nel tronco erano stati sparati -verosimilmente per primi- dall’indietro in avanti e leggermente dal basso verso l’alto, mentre quelli che erano penetrati nella guancia sinistra e nel collo -probabilmente quando la vittima era già a terra- erano stati esplosi da sinistra verso destra e dal basso verso l’alto (cfr. processo verbale di descrizione, ricognizione e sezione del cadavere e consulenza medico-legale redatti dal dottor Michele MARINO e datati 28 febbraio 1983).
Come si è già anticipato, le indagini condotte nell’immediatezza del delitto non condussero ad alcun risultato, mentre sono state decisive nel disvelamento delle causali, della dinamica e delle responsabilità nella perpetrazione del crimine in parola le dichiarazioni confessorie rese da Antonio PATTI.
Sulla base di tali propalazioni lo stesso collaboratore è stato rinviato a giudizio per rispondere dell’omicidio premeditato di Salvatore VARISANO e dei reati satellite di porto e detenzione di armi comuni da sparo, perpetrati in concorso con COLLETTI Carmelo, D’AMICO Vincenzo e TITONE Antonino, tutti deceduti.
La Provincia di Trapani, il Comune di Marsala e il Comune di Palermo si sono ritualmente costituiti parte civile con riferimento ai delitti in esame.
Antonio PATTI, in ordine al delitto in parola, ha riferito di essere stato l’autore materiale dell’omicidio, insieme a suo cognato TITONE Antonino.
Il collaboratore ha aggiunto che conosceva la vittima da anni e sapeva che abitava nelle case popolari di via Regione siciliana, una traversa di via Istria, dove abitava la madre dell’imputato, che lavorava alla Sicilvetro e che aveva una autovettura di marca “Zaz” di colore caffè-latte.
Una sera il PATTI e il TITONE, i quali erano stati incaricati di eseguire il delitto, notarono l’autovettura dell’obiettivo fuori dal cinema Garraffa. Decisero pertanto di attendere che uscisse dal locale, cosa che fece alle ore 22,30 circa, di seguirlo, e di ucciderlo.
I due sicari misero in atto il loro progetto e, quando il VARISANO parcheggiò la sua autovettura nei pressi del palazzo in cui abitava e si avvicinò all’ingresso, il TITONE scese dalla FIAT 127 del PATTI e gli sparò con un revolver 357 magnum, che D’AMICO poi gli disse che era stata utilizzata anche nel 1976 per uccidere, all’inizio di via Mazara, un certo VARTULIDDU, il quale lavorava alla sofisticazione dei vini.
A detta del PATTI, l’uccisione di VARISANO, il quale era uno “stiddaro”, era stata richiesta dal rappresentante di Menfi, nell’agrigentino, Carmelo COLLETTI, che egli conosceva per essergli stato presentato da TAMBURELLO Salvatore. Il COLLETTI aveva seguito le regole di Cosa Nostra: dato che l’assassinio doveva essere perpetrato in una provincia diversa, aveva interpellato prima il capo provinciale (MESSINA DENARO Francesco, di Castelvetrano, capoluogo del trapanese), il quale a sua volta aveva interessato il rappresentante del mandamento di Mazara del Vallo (retto, durante la detenzione dell’AGATE, da BRUNO Calcedonio), che aveva parlato con capo della famiglia nel cui territorio abitava l’obiettivo, la quale doveva eseguire il delitto (D’AMICO Vincenzo).
I Marsalesi, per altro, furono lieti di uccidere VARISANO, il quale era malvisto poiché compiva estorsioni in alcuni negozi e si diceva che raccogliesse fondi per una bambina ammalata e per i carcerati, ma poi se li tenesse (cfr. esame reso dal PATTI all’udienza del 26 marzo 1998).
Nel corso del presente dibattimento sono state escusse altresì la moglie e la figlia della vittima, Rosalia MONTAPERTO e Biagina VARISANO.
La prima ha riferito che sposò il VARISANO nel 1961 e che la sua famiglia visse a Favara, in provincia di Agrigento, fino al 1968, quando si trasferì a Marsala, poichè il marito -il quale aveva perso il lavoro a causa della cessione dell’azienda agricola in cui prestava la propria attività- aveva ottenuto un impiego in questa città. Ha dichiarato inoltre che per tutto il periodo in cui si frequentarono, suo marito non ebbe problemi giudiziari, ma di non sapere se ne avesse avuti precedentemente.
La sera in cui fu ucciso, l’uomo si era allontanato dalla loro abitazione -sita a Marsala in via Regione Siciliana- dopo cena, alle ore 22,00 circa, a bordo della sua Prinz color panna, dicendole che sarebbe andato al cinema. Alle 23,30-24,00 circa, ella, avendo udito il rumore dell’autovettura del marito, si affacciò alla finestra e lo vide rientrare. Riprese quindi le sue faccende domestiche e sentì dei botti, senza per altro preoccuparsi, poiché pensò che fossero mortaretti sparati in occasione del carnevale. Dopo un poco di tempo, non essendo il suo sposo rientrato in casa, si affacciò alla porta e, avendo notato molte persone sulle scale, scese in strada e vide il cadavere del marito.
Biagina VARISANO ha confermato la deposizione della madre, dichiarando in particolare che la sera della morte del padre ella aveva cenato dai genitori del suo fidanzato e poi era rincasata e si era coricata, dato che il giorno successivo doveva recarsi a Palermo all’università. Quando era già a letto sentì uno o due colpi, che in un primo momento ritenne fossero “botti” di carnevale (cfr. deposizioni della MONTAPERTO e della VARISANO rese all’udienza del 18 marzo 1998).
Come è emerso dalla disamina dei dati emersi nel corso del dibattimento, il principale elemento di prova a carico dell’imputato è la piena confessione resa dallo stesso. Pertanto ai fini della valutazione della sussistenza della penale responsabilità del medesimo in ordine all’omicidio in parola va preliminarmente esaminata la credibilità delle propalazioni autoaccusatorie del collaboratore.
A giudizio di questa Corte le dichiarazioni del PATTI relative all’assassinio di Salvatore VARISANO debbono essere giudicate attendibili e, di conseguenza, idonee a fondare un giudizio di responsabilità del collaborante con riferimento all’episodio delittuoso in parola.
Le propalazioni del “pentito”, per altro, avendo natura esclusivamente confessoria, non debbono essere valutate alla luce dei parametri di cui all’art.192 c.III c.p.p., ma alla luce dei meno rigidi criteri indicati nella premessa al presente capitolo.
Alla luce di tali premesse, il giudizio sull’attendibilità delle propalazioni in questione deve essere pienamente positivo.
In primo luogo, infatti, le dichiarazioni del collaboratore sono intrinsecamente logiche, coerenti e circostanziate, prive di qualunque discrasia e contraddizione idonea ad inficiarne o anche solo a porne in dubbio l’attendibilità. Esse, infatti, hanno ripercorso in modo ordinato e preciso le fasi dell’omicidio del VARISANO, dando conto delle causali dello stesso, delle modalità esecutive e dell’occultamento del cadavere.
Inoltre, le propalazioni del collaboratore sono state riscontrate da numerosi altri elementi di prova, costituiti dalle dichiarazioni dei testimoni e dalle risultanze della consulenza medico-legale, e in particolare:
1) Il PATTI ha affermato che conosceva il VARISANO da anni e sapeva che:
a) l’obiettivo abitava nelle case popolari ubicate nella via Regione Siciliana di Marsala, una traversa di via Istria, strada, quest’ultima, nella quale viveva la madre del PATTI; la prima circostanza è stata confermata dalle deposizioni di MONTAPERTO Rosolina e VARISANO Biagina e la seconda dal Maresciallo Bartolomeo SANTOMAURO, nelle già citate dichiarazioni rese all’udienza del 25 marzo 1998 (cfr., a quest’ultimo proposito, scheda relativa al delitto PAVIA);
- la vittima prestava la propria attività professionale alle dipendenze della ditta “Sicilvetro”; il dato è stato sostanzialmente confermato dall’Ispettore MORSELLO, il quale ha precisato che al momento della sua morte era in cassa integrazione, ma che in precedenza aveva lavorato per la suddetta azienda;
- il VARISANO era proprietario di una autovettura di marca “Zaz” di colore caffè latte; il fatto è stato confermato solo relativamente al colore dalla MONTAPERTO, mentre il collaboratore ha errato (per altro in maniera non grave, data la somiglianza tra i due modelli di veicoli) nell’indicare il modello di automobile, trattandosi in realtà di una Prinz.
- Le modalità esecutive descritte dal PATTI coincidono o sono comunque sempre compatibili con le risultanze del sopralluogo e con le propalazioni dei testi escussi:
a) a detta del collaboratore, i due killer notarono l’autovettura del VARISANO fuori dal cinema Garraffa, attesero che uscisse dal locale e lo seguirono; il fatto che la vittima la sera del delitto fosse andata al cinema è stato confermato dalla MONTAPERTO;
b) secondo il racconto del PATTI, l’obiettivo parcheggiò la sua autovettura nei pressi dell’edificio di via Regione Siciliana nel quale abitava palazzo; la circostanza ha trovato riscontro nelle parole della MONTAPERTO e di VARISANO Biagina;
c) a detta del PATTI, egli e il TITONE giunsero sul luogo del delitto a bordo della FIAT 127 del PATTI; il dato è stato confermato dal Maresciallo SANTOMAURO, il quale ha accertato che il 15 febbraio 1983 il PATTI acquistò una FIAT 127, tg. TP-237806 (cfr. deposizione resa all’udienza del 25 marzo1998);
d) secondo la versione del collaboratore, il TITONE sparò all’obiettivo con una rivoltella di calibro 357 magnum; tale circostanza è pienamente compatibile con le risultanze dell’esame autoptico, nel quale si è evidenziato che non furono rinvenuti bossoli nel luogo del decesso.
3) Infine, le propalazioni del collaboratore hanno trovato una ulteriore conferma con riferimento a una delle causali (anche se indiretta) del delitto. Il PATTI, infatti, ha affermato che, nonostante l’assassinio del VARISANO fosse stato imposto alla “famiglia” di Marsala, i membri di quest’ultima furono ben lieti di eseguirlo in quanto l’obiettivo era malvisto per varie ragioni, tra le quali vi era il sospetto che egli tenesse per sé le somme di denaro che raccoglieva sostenendo che sarebbero state utilizzate per la cura di una bambina ammalata. Orbene la circostanza è stata confermata dall’Ispettore MORSELLO, il quale ha affermato che nel corso della perquisizione eseguita nell’abitazione della vittima dopo l’omicidio venne trovata una sottoscrizione per la raccolta di fondi in favore di un ammalato grave.
Alla luce delle suesposte considerazioni, le dichiarazioni confessorie rese da Antonio PATTI in ordine all’omicidio di Salvatore VARISANO e ai reati satellite di porto e detenzione di arma comune da sparo debbono essere giudicate pienamente attendibili e lo stesso va dichiarato responsabile dei fatti delittuosi in esame. Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere all’imputato, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
OMICIDIO NIZZA MARIANO
Mariano NIZZA fu assassinato la mattina del 6 settembre 1983 all’altezza del Km.27,100 della strada statale 115 in direzione Trapani-Marsala, che stava percorrendo a bordo del ciclomotore “Ciao” Piaggio di colore bianco, che era solito utilizzare per gli spostamenti, dato che gli stata ritirata la patente di guida, essendo stato sottoposto a misura di prevenzione personale (cfr. deposizione del Maresciallo Bartolomeo SANTOMAURO all’udienza del 25 marzo 1998).
Una pattuglia dei Carabinieri in forza alla Squadra di P.G. presso la Procura della Repubblica di Marsala si portò sul luogo del delitto alle ore 7,15 in seguito alla segnalazione effettuata dall’appuntato Giacomo CROCE. Il defunto fu immediatamente identificato dall’allora Maresciallo Carmelo CANALE come NIZZA Mariano, noto all’Ufficio (cfr. verbali di sopralluogo redatti dai CC. di Marsala in data 6 e 7 settembre 1983).
Dall’esame autoptico eseguito dal dottor Michele MARINO emerse che la vittima era deceduta tra le ore 7,00 e le 7,30 del 6 settembre 1983 per le gravissime lesioni riportate negli organi vitali del collo e prodotte da colpi d’arma da fuoco a tamburo di grosso calibro (38 special) esplosi da un solo revolver e da un solo aggressore, il quale si trovava a una distanza non maggiore di due o tre metri dal bersaglio. In particolare, il NIZZA era stato colpito da tre proiettili all’altezza del condotto uditivo sinistro, della regione pettorale destra e all’emiaddome sinistro.
A parere del consulente tecnico, la vittima era stata attinta dapprima, mentre era in movimento, all’orecchio sinistro da un proiettile esploso da sinistra verso destra e orizzontalmente e successivamente, quando era già a terra, dagli altri due colpi, sparati anch’essi da sinistra a destra, ma dall’alto verso il basso (cfr. verbali di descrizione, ricognizione e sezione del cadavere e di consulenza medico-legale, redatti entrambi dal dottor MARINO in data 6 settembre 1983, nonché verbale di sequestro del 10 settembre 1983 di due pallottole di calibro 38 special rinvenute nel corso dell’autopsia).
Le indagini eseguite dagli investigatori sull’assassinio del NIZZA non consentirono di accertare i fatti e di individuare i responsabili.
Sulla base di dichiarazioni confessorie rese dagli stessi nell’ambito del presente procedimento, Antonio PATTI e Salvatore GIACALONE sono stati rinviati a giudizio per rispondere dell’omicidio premeditato e commesso da un numero di persone superiore a cinque in pregiudizio di Mariano NIZZA e dei reati satellite di porto e detenzione di armi comuni da sparo, perpetrati in concorso con D’AMICO Vincenzo, MELODIA Filippo, MILAZZO Vincenzo e TITONE Antonino, tutti deceduti.
La Provincia di Trapani, il Comune di Marsala e il Comune di Palermo si sono ritualmente costituiti parte civile con riferimento ai delitti in esame.
Antonio PATTI, in ordine al delitto in parola, ha riferito che la responsabilità dell’assassinio in esame deve essere ascritta a “cosa nostra”.
A detta del predetto collaboratore di giustizia, l’assassinio fu deliberato da D’AMICO Vincenzo, rappresentante della “famiglia” di Marsala, il quale accusava la vittima designata di avere importunato mogli e figlie di “uomini d’onore” all’interno del Supermercato “AZ” di Piazza Porticella di lo stesso NIZZA era proprietario.
L’omicidio fu eseguito da MILAZZO Vincenzo e MELODIA Filippo, per fare una cortesia a D’AMICO Vincenzo, a cui erano entrambi -ma specialmente il secondo- molto affezionati. Costoro erano uomini d’onore di Alcamo, ma in quel periodo andavano spesso a Marsala, sia perché Natale EVOLA, latitante, era nascosto in quella città in una casa in via Napoleone Colaianni che fungeva da punto d’incontro per i membri della cosca, sia perché il MILAZZO, il quale aveva nella propria disponibilità una casa in contrada Misilla, aveva una ragazza in paese.
Il NIZZA abitava in via Trapani e si recava a Marsala percorrendo sempre la suddetta strada a bordo di un ciclomotore “Ciao” Piaggio, come fu appurato dai controlli che fecero il PATTI stesso, il TITONE, il MILAZZO e il MELODIA.
Il giorno stabilito per la commissione dell’omicidio i due Alcamesi si recarono in via Trapani a bordo di un “vespone”, il PATTI e il TITONE vi si portarono con la Seat Ibiza di quest’ultimo e il D’AMICO vi andò con una Ford Fiesta grigia 1.300 targata dapprima Ancona e poi Trapani, intestata al PATTI.
Il D’AMICO era appostato nella stradina posta di fronte all’abitazione del NIZZA e, non appena vide quest’ultimo uscire di casa, avvisò i due killer, i quali, in attesa della “battuta” giravano nei paraggi a bordo del “vespone”. Il MILAZZO e il MELODIA raggiunsero l’obiettivo, gli si affiancarono e gli spararono con la Smith & Wesson cromata calibro 38 che era stata regalata al TITONE da Totò MINORE e che il PATTI aveva usato per uccidere Antonio RODANO (cfr. infra, sub Capitolo VII).
Il collaboratore -che aveva il compito di fornire appoggio ai sicari qualora ne sorgesse la necessità- era appostato nella laterale di via Trapani che portava alla chiesa di S. Venera a bordo della Seat Ibiza. Non assisitette all’agguato, ma udì gli spari e poco dopo vide il motociclo passare a forte velocità, inseguito da una BMW. Notò altresì il MILAZZO sparare all’indirizzo del conducente l’autovettura per indurlo a desistere, cosa che costui in effetti fece. Per altro, siccome gli “uomini d’onore” marsalesi conoscevano il guidatore, che si identificava in tale CAMMARERI Pietro della zona Addolorata e li aveva visti, successivamente il TITONE andò a parlargli per indurlo al silenzio.
Infine il PATTI, secondo gli accordi, salì a bordo del “vespone” e prese l’arma utilizzata per commettere l’omicidio, raggiungendo attraverso le stradine interne via Colaianni, dove era fissato l’appuntamento. Il MILAZZO e il MELODIA si recarono nel medesimo luogo a bordo della Seat Ibiza del TITONE.
Il collaborante ha altresì riferito di avere visto il “vespone” nel garage dell’appartamento di via Colaianni, ma di non sapere che ne sia stato, anche perché l’incaricato di occuparsi dei ciclomotori era il GIACALONE, a causa della sua particolare abilità in quel settore.
Ha infine precisato di non ricordarsi della presenza del suddetto GIACALONE, ma ha ammesso che poteva essere presente sul luogo del delitto, ribadendo per altro, che in quell’occasione era in macchina con il solo TITONE (cfr. esame del PATTI all’udienza del 26 marzo 1998).
Salvatore GIACALONE ha fornito una versione dei fatti sostanzialmente concordante con quella del PATTI, divergendone solo con riferimento alla propria asserita partecipazione all’agguato.
Il collaboratore ha premesso di non essere a conoscenza delle ragioni per le quali Mariano NIZZA, che era il proprietario del supermercato “AZ” di Piazza Porticella a Marsala fu assassinato, precisando che, nonostante i mafiosi non lo avessero informato, forse se avesse fatto un’esplicita richiesta glielo avrebbero spiegato, ma si astenne sempre dal chiedere delucidazioni, poiché in “cosa nostra” era molto pericoloso domandare notizie e a lui in fondo non interessava sapere i motivi che avevano portato all’omicidio.
In ogni caso era a conoscenza dell’esistenza del progetto delittuoso, in quanto D’AMICO Vincenzo lo aveva incaricato di controllare l’obiettivo. In esecuzione dell’ordine impartitogli dal rappresentante della “famiglia” il GIACALONE per due mattine successive si recò nella via Trapani, dove abitava il NIZZA, e ne osservò le abitudini, appurando che egli si recava ogni mattina al supermercato “AZ” percorrendo la predetta strada a bordo di un “Ciao” bianco, e riferì a D’AMICO quanto aveva scoperto.
Il collaboratore ha aggiunto che egli e il capo della cosca D’AMICO prelevarono un “vespone” grigio rubato e le armi da una stalla in contrada Scacciaiazzo di Marsala appartenente al secondo. Dopo averlo portato nel covo di via Colaianni, il GIACALONE preparò il ciclomotore, lavandolo, controllandone la piena efficienza, applicandogli una targa falsa e facendo il pieno. Infatti, il compito di curare la manutenzione e la preparazione dei motocicli nella cosca di Marsala era affidato a lui, data la sua particolare abilità in quel settore.
Il D’AMICO decise di agire il giorno successivo, atteso che ormai le abitudini dell’obiettivo erano loro note e che erano pronti sia armi sia il “vespone”.
Essendosi quella sera presentati nella base di via Colaianni MILAZZO Vincenzo (che vi si recava quasi tutte le sere intrattenendosi a parlare con il D’AMICO) e MELODIA Filippo, rispettivamente capo mandamento e uomo d’onore di Alcamo, il rappresentante della “famiglia” di Marsala chiese loro la “cortesia” di uccidere il NIZZA, ricevendo un pronto consenso.
I due “uomini d’onore” alcamesi quella sera si fermarono a dormire a Marsala, poiché la mattina successiva dovevano partire molto presto per eseguire l’omicidio.
Il MILAZZO e il MELODIA montarono sul “vespone” e si incaricarono dell’esecuzione materiale dell’omicidio; TITONE e D’AMICO presero posto su un’automobile e si armarono, qualora fosse stato necessario fornire un supporto ai sicari; il GIACALONE e il PATTI salirono sulla FIAT 127 del secondo con l’incarico quest’ultimo di riportare alla base gli esecutori materiali e il primo di andare a nascondere il motociclo in una tenuta di campagna a Misidda del CAPRAROTTA, che aspettava nei paraggi per fargli strada, cosa che in effetti fece, venendo poi riaccompagnato invia Colaianni dal CAPRAROTTA.
Il GIACALONE, che era nei paraggi del luogo in cui avvenne l’omicidio in una laterale di via Trapani, non vide come si svolsero i fatti. Notò però che i due sicari vennero inseguiti da una BMW nera guidata da un certo CAMMARERI, il quale rischiò molto, in quanto poco oltre c’erano TITONE e D’AMICO pronti a sparargli, cosa che per altro non ebbero bisogno di fare, poiché si allontanò quasi subito (cfr. esame reso dal GIACALONE nell’udienza del 1 aprile 1998).
Come è emerso dalla disamina dei dati emersi nel corso del dibattimento, i principali elementi di prova a carico di ciascuno degli imputati sono le piene confessioni rese dagli stessi, riscontrate da elementi fattuali emersi dalle indagini espletate all’epoca dell’omicidio e, con riferimento alla posizione del PATTI, dalle dichiarazioni del GIACALONE.
A giudizio di questa Corte le dichiarazioni del PATTI e del GIACALONE relative all’assassinio di Mariano NIZZA debbono essere giudicate attendibili e, di conseguenza, idonee a fondare un giudizio di responsabilità dei predetti collaboranti con riferimento all’episodio delittuoso in parola.
Attesa la diversa valenza probatoria delle propalazioni dei due “pentiti” (avendo carattere esclusivamente autoaccusatorio quelle del PATTI e confessorio ed eteroaccusatorio quelle del GIACALONE) appare opportuno esaminarle separatamente.
Le affermazioni del PATTI -le quali contengono solo l’ammissione della propria responsabilità e la chiamata in correità di soggetti defunti (D’AMICO Vincenzo, MELODIA Filippo, MILAZZO Vincenzo e TITONE Antonino)- non debbono essere valutate alla luce dei parametri di cui all’art.192 c.III c.p.p., ma alla luce dei criteri indicati nella premessa al presente capitolo.
Ciò premesso, la valutazione sull’attendibilità delle dichiarazioni confessorie del PATTI deve essere pienamente positivo.
In primo luogo, infatti, le dichiarazioni del collaboratore sono intrinsecamente logiche, coerenti e circostanziate, prive di qualunque discrasia e contraddizione idonea ad inficiarne o anche solo a porne in dubbio l’attendibilità. Esse, infatti, hanno ripercorso in modo ordinato e preciso le fasi dell’omicidio del NIZZA, dando conto delle causali dello stesso, delle modalità esecutive e dell’occultamento del cadavere.
Inoltre, essi hanno trovato riscontri in dati emersi dalle indagini effettuate tanto all’epoca del delitto quanto in seguito all’inizio della sua collaborazione, e in particolare:
1) I soggetti che il PATTI ha indicato come presenti, con ruoli diversi, al momento dell’esecuzione dell’assassinio, o dei quali non ha comunque escluso l’intervento (lo stesso collaboratore, D’AMICO Vincenzo, MELODIA Filippo, MILAZZO Vincenzo, TITONE Antonino e GIACALONE Salvatore), il giorno della soppressione del NIZZA erano liberi (cfr. deposizione del Maresciallo SANTOMAURO all’udienza del 25 marzo 1998);
2) La circostanza che gli Alcamesi, e soprattutto MILAZZO Vincenzo e MELODIA Filippo intrattenessero all’inizio degli anni ’80 rapporti cordiali con i Marsalesi -i quali tra l’altro li ospitarono nelle prime, difficili fasi della la guerra di mafia contro i RIMI e collaborarono attivamente alla vittoriosa controffensiva dei “corleonesi” (cfr. infra, sub Introduzione al Capitolo II)- è stata confermata in più occasioni da Salvatore GIACALONE (cfr. suo esame del 1 aprile 1998, cit.) e da Vincenzo SINACORI (il quale ultimo, in particolare, ha sottolineato che i rapporti tra il D’AMICO e il MILAZZO erano stati addirittura troppo stretti e ciò, alla lunga, aveva finito con il provocare la delazione del secondo al RIINA, risultata fatale al primo: cfr. esame SINACORI all’udienza del 15 ottobre 1998 e, sulla vicenda della soppressione dei vertici della “famiglia” di Marsala, infra, sub Capitolo V). In questo clima di rapporti cordiali e frequenti è pienamente verosimile che il D’AMICO avesse domandato la collaborazione dei due Alcamesi, la cui condizione di totale anonimato a Marsala, oltretutto, rendeva meno rischiosa l’esecuzione dell’omicidio, da compiersi di mattina in una strada trafficata;
3) Il Maresciallo SANTOMAURO ha accertato che MILAZZO Vincenzo utilizzava, all’occorrenza, una abitazione a Marsala in un posto isolato e difficile da raggiungere, in Contrada Cardella, acquistata il 2 agosto 1982 e intestata a MALTESE Vincenzo, nato ad Alcamo il 1 settembre 1943 condannato per associazione mafiosa a seguito delle propalazioni di FILIPPI Benedetto (cfr. deposizione resa dal SANTOMAURO nelle udienze del 19 dicembre 1995 e 24 maggio 1996 nel processo a carico di PATTI Antonio e altri 40 imputati). A giudizio della Corte, la circostanza che la casa nella disponibilità del MILAZZO fosse ubicata non nella contrada denominata Misilla, ma in quella detta Cardella non inficia la validità del riscontro. Da un lato, infatti, il dato rilevante è l’effettiva esistenza di una base del rappresentante del mandamento di Alcamo nel marsalese. Dall’altro lato, poi, la confusione su una circostanza tutto sommato marginale e riferita a un periodo di tempo ormai risalente (atteso che come si è più volte precisato i rapporti tra il MILAZZO e il D’AMICO si diradarono ben presto e non si ha notizia che l’edificio sia stato in qualche modo utilizzato dalla cosca di Marsala negli anni successivi) non può certamente essere ritenuta di rilevanza tale da inficiare il fatto che l’“uomo d’onore” alcamese poteva realmente disporre di una base nelle campagne marsalesi;
4) Il Maresciallo SANTOMAURO ha riscontrato che effettivamente PATTI a partire dall’8 settembre 1983 era intestatario di un’autovettura Ford Fiesta tg. AN-281416 e poi ritargata TP-245900 (cfr. deposizione SANTOMAURO all’udienza del 26 maggio 1998);
5) Il PATTI ha affermato che dai controlli preliminari all’azione appurarono che la vittima predestinata era solito recarsi al Supermercato “AZ” a bordo del proprio ciclomotore “Ciao” Piaggio percorrendo la via Trapani; il fatto è stato riscontrato dal verbale di sopralluogo, nel quale si è dato atto che il delitto fu perpetrato sulla suddetta strada, mentre il NIZZA la percorreva in direzione di Marsala a bordo di un ciclomotore dello stesso tipo di quello indicato dal collaboratore;
6) Il PATTI ha sostenuto che l’esecutore materiale sparò con un revolver calibro 38; la circostanza è stata pienamente confermata dai risultati dell’esame autoptico e dal sequestro di due proiettili del suddetto calibro rinvenuti nel cadavere.
Il GIACALONE ha fornito una versione dell’accaduto sostanzialmente coincidente con quella dell’altro collaboratore di giustizia, con riferimento tanto alla fase preparatoria (e specificamente al controllo delle abitudini dell’obiettivo e alla particolareggiata descrizione delle stesse), quanto alla fase esecutiva (identità dei sicari, numero e individuazione dei mezzi utilizzati e delle persone presenti, coinvolgimento accidentale di un certo CAMMARERI, il quale inseguì i killer a bordo di una BMW nera), quanto, infine, all’appuntamento successivo al delitto nel covo di via ritrovo Colaianni.
A giudizio di questa Corte deve ritenersi che il GIACALONE sia stato presente all’esecuzione del delitto, come sostenuto dallo stesso, e che dunque le sue affermazioni costituiscano, oltre che una piena ammissione di responsabilità, un riscontro significativo all’attendibilità del PATTI in ordine all’episodio delittuoso in parola.
Infatti, innanzitutto il GIACALONE ha fornito una descrizione degli avvenimenti estremamente dettagliata e intrinsecamente logica e coerente, tale, pertanto, da fare ritenere che egli ne fosse a conoscenza per scienza diretta e non tramite racconti altrui o per averlo appreso dalla lettura di atti processuali. Con specifico riguardo al pericolo di un appiattimento sulla versione fornita dal PATTI, in particolare, il suo racconto pur sostanzialmente coincidente con quello dell’altro collaboratore, da un lato è stato più dettagliato con riferimento ad alcuni particolari, quali il colore del motociclo del NIZZA e della BMW del CAMMARERI (rispettivamente bianco e nera) e dall’altro lato se ne è discostato non solo in ordine alla propria presenza sul luogo dell’agguato, ma altresì riguardo alla suddivisione delle persone nelle macchine e ai compiti assegnati a lui e al PATTI. In ordine a quest’ultimo profilo, in particolare, il GIACALONE ha sostenuto di avere preso posto sulla FIAT 127 del PATTI insieme a costui e che egli era stato incaricato di nascondere il “vespone” usato dai sicari in una tenuta di campagna del CAPRAROTTA e il complice aveva avuto il mandato di portare i due Alcamesi alla base di via Colaianni. Orbene, un accertamento espletato dal Maresciallo SANTOMAURO ha confermato che all’epoca dell’omicidio in questione il PATTI era titolare di un’autovettura di quel tipo, tg.TP-237806, acquistata nel febbraio precedente (cfr. citata deposizione SANTOMAURO all’udienza del 25 marzo 1998). Inoltre, e soprattutto, il GIACALONE, qualora avesse inteso accusarsi falsamente del delitto, non avrebbe certamente contraddetto il PATTI -sempre ritenuto estremamente attendibile dalle Autorità Giudiziarie che ne hanno vagliato le dichiarazioni- su punti non insignificanti come quelli in esame, ma sui sarebbe limitato, al più, a modificare qualche punto di modesto rilievo.
In secondo luogo, il GIACALONE -come si è già osservato nella scheda relativa alla credibilità dello stesso- ha fornito agli investigatori un contributo assai significativo in ordine a vari altri episodi delittuosi, cosicchè non aveva alcuna necessità di accusarsi falsamente di un ulteriore assassinio all’unico scopo verosimile di legittimarsi quale collaboratore attendibile.
Infine, il PATTI, pur ribadendo di essere certo di avere perso posto sull’autovettura del TITONE insieme a costui, non ha negato la possibilità che il GIACALONE fosse presente sul luogo del delitto.
A giudizio di questa Corte, il difetto di memoria del PATTI può essere spiegato con la considerazione che il GIACALONE era stato affiliato da pochi mesi e aveva ancora un ruolo assai defilato e secondario all’interno della cosca. È, pertanto, verosimile che l’attenzione del capo-decina della cosca di Marsala fosse concentrata soprattutto sugli esecutori materiali del delitto, sui soggetti (D’AMICO e TITONE) che erano i suoi principali punti di riferimento umano e criminale e, soprattutto, sugli avvenimenti esterni (l’omicidio e la fuga resa affannosa dall’inopinato intervento del CAMMARERI) e che lo stesso abbia dimenticato alcune circostanze di secondo piano, quali la persona accanto a cui sedeva durante l’attesa dell’esecuzione e la natura del compito -comunque di secondaria importanza- affidatogli.
Del resto, la versione del GIACALONE appare più verosimile rispetto a quella del PATTI con riferimento alla composizione dei vari gruppi, alla luce di un’ulteriore considerazione. Infatti, lo stesso PATTI ha sempre ammesso che il TITONE da un lato era il pupillo di D’AMICO Vincenzo e dall’altro lato desiderava essere sempre l’esecutore materiale degli omicidi; pertanto è verosimile che anche in questo frangente il rappresentante della “famiglia” di Marsala abbia assecondato per quanto possibile i desideri del suo protetto, assegnando al PATTI e al GIACALONE compiti diversi.
Alla luce delle predette considerazioni, deve ritenersi che le propalazioni di Salvatore GIACALONE costituiscano un’ulteriore conferma della presenza del PATTI sul luogo dell’agguato e la sua responsabilità nell’omicidio, pur con un ruolo di appoggio. La circostanza che le dichiarazioni dei due collaboratori siano parzialmente divergenti sul compito svolto dall’imputato in parola, che fu per il PATTI quello di riportare il “vespone” nel covo di via Colaianni e per il GIACALONE quello di condurvi gli esecutori materiali non può essere ritenuta significativa, tenuto conto della modesta rilevanza del particolare e del fatto che, in ultima analisi, entrambi hanno assegnato all’imputato il medesimo ruolo di appoggio alla fuga dei sicari dal luogo del delitto.
Pertanto, sulla base delle dichiarazioni rese dallo stesso collaboratore e suffragate da molteplici elementi di riscontro, Antonio PATTI deve essere ritenuto responsabile dell’omicidio di Mariano NIZZA e dei reati satellite di porto e detenzione di arma comune da sparo. Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere all’imputato, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
A un identico giudizio di responsabilità deve pervenirsi con riferimento al GIACALONE.
Come si è anticipato e per le ragioni già esposte, infatti, la sua versione dei fatti appare pienamente credibile, con particolare riferimento alla sua compartecipazione all’esecuzione del crimine, del resto non espressamente negata dal PATTI.
CAPITOLO II
LA GUERRA DI MAFIA DEGLI ANNI ’80: L’ASCESA DEI “CORLEONESI”
INTRODUZIONE
1) Cause e vicende della guerra di mafia
La seconda guerra di mafia iniziò il 23 aprile 1981 con l’omicidio, a Palermo, di Stefano BONTATE.
Tale importante capitolo della storia della mafia è stato trattato nel più volte citato processo a carico di ABBATE Giovanni + 459 celebrato davanti alla Corte d’Assise di Palermo (cd. “Maxi 1”), la cui decisione, pur se parzialmente modificata con riferimento a singole posizioni e all’entità delle sanzioni irrogate, ha superato il vaglio dei successivi gradi di giudizio e ha conseguito -quanto alla ricostruzione dei fatti in essa operata- il crisma dell’irrevocabilità.
La complessa vicenda nota come seconda guerra di mafia, decisiva nel delineare i successivi equilibri interni e le strategie di “cosa nostra”, non è inquadrabile come uno scontro aperto tra “famiglie” o tra una di queste e le altre, come era avvenuto nella prima guerra di mafia (quella svoltasi tra il 1960 e il 1963). Si trattò piuttosto di una sistematica epurazione che attraversò orizzontalmente l’organizzazione e a monte della quale vi fu una lucida strategia, attuata da un gruppo ben delineato di “famiglie” alleate tra loro allo scopo di acquisire e consolidare la loro egemonia, dopo avere fisicamente eliminato dapprima gli avversari dichiarati, cioè i soggetti più moderati e anacronistici in una organizzazione trasformatasi a livello gangsteristico-terroristico, e successivamente tutti gli individui ritenuti non completamente affidabili, a qualunque cosca appartenessero.
Questa operazione fu condotta attraverso la creazione di un sistema di alleanze all’interno delle stesse “famiglie”, che, lasciando immutata la struttura dal punto di vista formale, consentisse di sostituire tutti gli “uomini d’onore” vicini al BONTATE, al BADALAMENTI e all’INZERILLO con altri di provata fiducia. Tale strategia fu favorita anche dalle modalità di attuazione di attività illecite, come il contrabbando di tabacchi e il traffico di stupefacenti, all’epoca ormai posti in essere in maniera generalizzata dai membri dell’organizzazione senza più osservare necessariamente la rigida distinzione in “famiglie”. Infatti, attraverso le suddette attività criminali si era venuta a creare una comunanza di rilevantissimi interessi economici tale da consolidare, nel generale degrado delle vecchie strutture messe in crisi dal facile profitto, intese e alleanze negli affari ben più salde di quelle derivanti dall’appartenenza all’una o all’altra “famiglia”.
La guerra di mafia fu l’inevitabile conseguenza dell’insanabile contrapposizione tra le due opposte strategie di gestione e consolidamento del potere criminale dell’organizzazione facenti capo da un lato al gruppo di Stefano BONTATE, Gaetano BADALAMENTI e Salvatore INZERILLO e dall’altro lato ai “Corleonesi” guidati da Luciano LEGGIO, Salvatore RIINA e Bernardo PROVENZANO.
Prima di trattare sommariamente le vicende della guerra di mafia, appare opportuno delineare brevemente le modalità attraverso le quali la fazione legata alla “famiglia” di Corleone conquistò un’importanza sempre crescente all’interno di “cosa nostra”, a partire dalla faida che, tra il 1960 e il 1963, contrappose il gruppo legato ai potenti e spregiudicati fratelli Salvatore e Angelo LA BARBERA, giovani capi rispettivamente del mandamento di Palermo centro e della “famiglia” di Porta Nuova ricompresa nel predetto mandamento, ad altri componenti della “Commissione” (Michele CAVATAIO, Antonino MATRANGA, Mariano TROIA, Salvatore MANNO, Calcedonio DI PISA).
Il conflitto si concluse con la vittoria di questi ultimi, ma fu necessario sciogliere la “commissione” e creare un triumvirato provvisorio per la riorganizzazione della struttura di “cosa nostra”, a seguito dei numerosi omicidi compiuti nel corso dello scontro e della reazione dello Stato. Il triumvirato provvisorio nel 1969/70 era composto da Stefano BONTATE, Gaetano BADALAMENTI e Salvatore RIINA, fedelissimo di Luciano LEGGIO.
Negli anni successivi, approfittando della detenzione dei primi per il processo detto “dei 114”, il RIINA consolidò la posizione raggiunta e incrementò il potere suo e della sua fazione all’interno dell’associazione.
Dapprima, violando il divieto in seno a “cosa nostra” di commettere sequestri in Sicilia, decise autonomamente di sequestrare Luciano CASSINA, appartenente a una famiglia di ricchi imprenditori impegnati in importanti appalti di opere pubbliche per la manutenzione delle strade e della rete fognaria di Palermo.
Questa azione costituì un grave colpo all’immagine di BONTATE e BADALAMENTI, avendo dimostrato l’incapacità degli stessi di garantire un determinato equilibrio nei rapporti tra l’associazione mafiosa e la classe imprenditoriale palermitana. Pertanto costoro, non appena scarcerati, protestarono vivacemente con Luciano LEGGIO, il quale, dopo un periodo di latitanza a Catania, si era reinserito nell’organismo direttivo al posto del suo luogotenente, a causa del malcontento causato dalla condotta spregiudicata di quest’ultimo. LEGGIO, tuttavia, liquidò le loro rimostranze assumendo che ormai la faccenda si era conclusa con il pagamento del riscatto e la liberazione dell’ostaggio.
I “Corleonesi” decisero e realizzarono -anche in questo caso autonomamente- l’eliminazione del Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro SCAGLIONE nel maggio del 1971 e del maresciallo di Pubblica Sicurezza in pensione Angelo SORINO a San Lorenzo il 10 gennaio 1974.
Questo atteggiamento autonomo e svincolato dalle decisioni degli organismi di vertice dell’associazione a delinquere, volto ad affermare la propria potenza e contemporaneamente a minare l’autorevolezza dei maggiori esponenti della fazione loro avversa, continuò da parte dei “Corleonesi” anche negli anni successivi, sebbene nel 1974 fosse stata ricostituita la “commissione provinciale” di Palermo di “cosa nostra” e il capo di essa fosse divenuto Gaetano BADALAMENTI.
Nel 1975 fu sequestrato e scomparve Luigi CORLEO, suocero dell’“esattore” di Salemi Antonino SALVO. Anche in questa occasione, sia il capo mafia di Riesi Giuseppe DI CRISTINA nelle dichiarazioni rese prima di essere assassinato al capitano dei Carabinieri di Gela Alfio PETTINATO, sia Gaetano BADALAMENTI, il quale ne parlò con BUSCETTA, si mostrarono certi che i responsabili fossero proprio membri della “famiglia” di Corleone, specializzati proprio in tali attività. Per altro, neppure BADALAMENTI, il cui autorevole intervento era stato richiesto da Antonino SALVO al fine di recuperare quanto meno il cadavere, potè ottenere quel risultato.
Nel 1977 a Ficuzza, nel territorio di Corleone, venne assassinato il Tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe RUSSO. L’autorizzazione a commettere l’omicidio era stata negata nel 1975 o nel 1976 dalla “commissione”, la cui volontà, ancora una volta, non fu tenuta in alcuna considerazione.
Nel 1978 l’equilibrio di potere all’interno della “commissione” mutò a favore dei “Corleonesi”, dapprima con l’espulsione dall’associazione mafiosa di Gaetano BADALAMENTI, poi con l’assassinio, in via Leonardo da Vinci a Palermo, di Giuseppe DI CRISTINA (30 maggio 1978), fraterno amico di Stefano BONTATE e Salvatore INZERILLO, e infine con la nomina a capo della “commissione” di Michele GRECO, descritto da BUSCETTA e CONTORNO come un uomo dalla personalità debole (tanto da subire la posizione di GRECO Giuseppe cl.1952 all’interno della sua stessa “famiglia”) e succube di LEGGIO e dei suoi uomini. L’ormai evidente strapotere dei Corleonesi emerse chiaramente nella vicenda relativa all’omicidio DI CRISTINA, nel quale si verificò una palese violazione delle regole di “cosa nostra”, dato che esso fu commesso nel territorio di Salvatore INZERILLO, nel quale fu abbandonata la macchina usata dai sicari, senza che quest’ultimo fosse stato avvisato del delitto.
Tra il 1979 e il 1980 vennero uccisi importanti esponenti delle Istituzioni: il dirigente della Squadra Mobile di Palermo Boris GIULIANO, l’onorevole Cesare TERRANOVA, il presidente della Regione Siciliana Piersanti MATTARELLA e il capitano dei Carabinieri di Monreale Emanuele BASILE, anche in questi casi all’insaputa di BONTATE e INZERILLO.
I “Corleonesi”, come si è visto, fin dagli anni ’70 si resero responsabili di sistematiche violazioni delle regole di “cosa nostra”, per le quali non vennero mai puniti, come invece accadde per gli altri, ivi compreso lo stesso capo della “commissione” Gaetano BADALAMENTI, che commisero analoghe scorrettezze. Evidentemente, essi sapevano di potere contare già allora sull’appoggio incondizionato di molte “famiglie”. La sistematica ascesa della fazione in parola e la contemporanea perdita di forza e autorevolezza di quella contrapposta portò, nel 1980, al raggiungimento all’interno della “commissione” della Provincia di Palermo di una maggioranza di capi mandamento certamente favorevoli ai Corleonesi, come si coglieva dalle più volte citate dichiarazioni del DI CRISTINA al PETTINATO (tale ultima circostanza è stata confermata nel presente processo da Francesco DI CARLO, il quale nell’udienza celebrata il 7 maggio 1998 ha affermato che anche prima della guerra di mafia il RIINA e i suoi collaboratori avevano assunto una posizione di predominio nell’organizzazione, e da Vincenzo SINACORI, che, all’udienza del 15 aprile 1998, ha accennato alla sostanzialmente sudditanza del GRECO rispetto al RIINA).
Il DI CRISTINA, il BUSCETTA e il CONTORNO indicarono come capi mandamento componenti del gruppo dei Corleonesi, oltre a RIINA e PROVENZANO, anche Bernardo BRUSCA di San Giuseppe Iato, Francesco MADONIA di Resuttana Colli, Giacomo Giuseppe GAMBINO di San Lorenzo e Antonino GERACI di Partinico.
Le dichiarazioni dei collaboratori sul punto trovarono vari riscontri in fatti evidenziati nei rapporti dei Carabinieri del 25 agosto 1978 e della Squadra Mobile di Palermo del 7 febbraio 1981 (parzialmente riportati nella già citata sentenza di primo grado nel procedimento contro ABBATE Giovanni + 459). In particolare, la presenza di rapporti e collegamenti tra membri delle “famiglie” di Corleone, San Giuseppe Iato, Partinico, Resuttana, San Lorenzo, Ciaculli, Corso dei Mille e Altofonte era evidenziata da numerose circostanze:
– la scoperta di un “covo” in Corso dei Mille n.192 frequentato da vari membri delle predette “famiglie”;
– la scoperta di una base in via Pecori Girardi usato come deposito di armi e droga e in cui si rinvennero documenti, tra cui due agende telefoniche, attestanti siffatti legami;
– la stipulazione da parte di Giacomo Giuseppe GAMBINO del contratto per la fornitura di energia elettrica dell’appartamento di Largo San Lorenzo in cui fu arrestato Leoluca BAGARELLA e in cui in precedenza aveva dimorato Salvatore RIINA con la sua famiglia;
– l’esistenza di un rapporto matrimoniale tra GAMBINO e ANSELMO Rosario (famiglia della Noce), in quanto la sorella del primo, Francesca, era sposata con SPINA Calogero, figlio di SPINA Raffaele, entrambi affiliati alla “famiglia” della Noce e rispettivamente nipote e fratello di SPINA Caterina, moglie dell’ANSELMO;
– l’arresto di BONANNO Armando, MADONIA Giuseppe e PUCCIO Vincenzo (organici rispettivamente alle cosche di San Lorenzo, Resuttana e Ciaculli) vicino a Monreale in occasione dell’omicidio del capitano Emanuele BASILE.
Alla fazione facente capo ai Corleonesi, come si è già accennato si opponevano i capi mandamento “moderati”, i quali avversavano la linea stragista, perché avevano compreso che la prevedibile reazione dello Stato di fronte a crimini di tale portata che colpivano altresì uomini delle Istituzioni avrebbe colpito indiscriminatamente tutte le “famiglie”.
Come si evince dalla circostanza sopra riportate, i due schieramenti contrapposti rappresentavano due antitetiche concezioni sul modo di gestire il potere mafioso a Palermo. L’ala moderata tradizionalista era fautrice di una gestione degli interessi e dei traffici illeciti dell’associazione che cercava, come sempre, una infiltrazione non violenta nei gangli vitali della società attraverso collegamenti e cointeressenze con il mondo politico e imprenditoriale. Al contrario, l’ala innovatrice -raggiunta con il traffico degli stupefacenti la piena indipendenza economica dal sistema di clientele politico affaristiche- mirava all’eliminazione di qualsiasi ostacolo si frapponesse al libero svolgimento dei suoi traffici e all’instaurazione del nuovo metodo di terrorismo mafioso in aperta sfida al potere dello Stato. Tale ultimo modo di operare comportava un’inversione di tendenza del nuovo corso della gestione del potere mafioso. Infatti, mentre nella prima ottica l’omicidio di un rappresentante dello Stato era considerato come extrema ratio, nella seconda costituiva non solo il mezzo più sbrigativo per eliminare fisicamente qualsiasi oppositore, ma anche il modo più incisivo per seminare panico e terrore tra la popolazione.
Stante la natura e la gravità dei contrasti, che investivano lo stesso vertice della struttura organizzativa e la strategia generale dell’associazione criminosa, appariva perfettamente aderente alla logica che uno dei due schieramenti dovesse prevalere sull’altro. Del resto, BUSCETTA ricevette sia dal BONTATE che da Antonio SALAMONE (rappresentante della “famiglia” di San Giuseppe Iato) la confidenza delle loro intenzioni di uccidere Salvatore RIINA, in quanto le fila della fazione “moderata” andavano assottigliandosi per la defezione di vari personaggi in precedenza vicini a loro e poi passate dalla parte avversa. In particolare, il primo affermò di volerlo uccidere personalmente durante una riunione, in quanto solo un gesto così audace ed eclatante poteva consentirgli di recuperare il prestigio perduto, mentre il secondo rivelò di volerlo uccidere perché all’interno della sua cosca sentiva diminuire sempre di più il suo potere a vantaggio di Bernardo BRUSCA, legato ai “Corleonesi”.
Gennaro TOTTA, uomo vicino ai GRADO per i loro traffici di stupefacenti, rivelò che Stefano BONTATE aveva tentato di mettere in atto il suo proposito omicidiario nei confronti di RIINA, invitandolo a una riunione con il pretesto della restituzione dell’equivalente di kg.50 di eroina che INZERILLO doveva al Corleonese. Quest’ultimo, per altro, aveva fiutato l’agguato e aveva inviato gregari al suo posto. La mancata restituzione di quanto promesso aveva confermato i suoi sospetti. BONTATE, vistosi scoperto, aveva ordinato una vettura blindata e girava armato, ma non riuscì ugualmente a sottrarsi alla morte. Certamente questo episodio accelerò la resa dei conti tra le due fazioni, che per altro, come si è già visto, era inevitabile.
I collaboratori di giustizia di parte corleonese hanno insistito sul fatto che la guerra di mafia fu provocata, o quanto meno accelerata, proprio da questo tentativo di eliminare RIINA e i suoi più fedeli seguaci da parte del BONTATE.
A tale proposito, Francesco DI CARLO (il quale dalla metà degli anni ‘60 al 1982 fece parte della “famiglia” di Altofonte, suo paese di nascita, inserita nel mandamento di San Giuseppe Iato) ha riferito che i Palermitani, pur essendo succubi dei Corleonesi, preparavano una ribellione. A tal fine diedero un appuntamento a RIINA, a GAMBINO e ad altri loro uomini fidati per eliminarli. Il RIINA, che non si fidava, mandò all’appuntamento il GAMBINO e Favuzzo GANCI, i quali capirono la situazione e la portarono alla conoscenza del loro capo. Il RIINA mandò a chiamare un uomo dello schieramento avverso, che tradì e ammise che se fossero andati tutti all’appuntamento sarebbero stati uccisi. Per questo motivo, i Corleonesi si risolsero a dare inizio alla guerra di mafia. Dapprima furono eliminati i capi, BONTADE e INZERILLO. La strategia dei Corleonesi si rivelò vincente non solo per i risultati militari raggiunti, ma anche perchè alcuni personaggi di primo piano dell’organizzazione (tra cui Saro RICCOBONO e Totò SCAGLIONE) che inizialmente avevano fatto parte dell’altro schieramento, resisi conto dello strapotere dei “Corleonesi” e dell’inevitabile esito dello scontro, chiesero di incontrarsi con i vertici di quest’ultima fazione e cercarono di avvicinarsi ad essa, venendo dapprima ricevuti, ma in seguito ugualmente eliminati. BADALAMENTI, invece, a detta del DI CARLO, fu “tragediato” dai Corleonesi: addirittura BRUSCA disse che i membri della sua famiglia di sangue erano “sbirri”, fatto falso, dato che “BADALAMENTI sbirri non ce n’erano stati mai, i BADALAMENTI erano gente con la testa sulle spalle” (cfr. esame reso dal DE CARLO nell’udienza celebratasi il 7 maggio 1998).
Vincenzo SINACORI (il quale all’epoca della guerra di mafia era appena stato affiliato alla “famiglia” di Mazara del Vallo, di cui negli anni successivi sarebbe divenuto una figura di primissimo piano), dal canto suo, ha rivelato che, a quanto gli raccontarono, il gruppo facente capo a BADALAMENTI, BONTATE e INZERILLO voleva prendere il predominio sull’intera organizzazione e per questo decise di eliminare il RIINA, il quale all’epoca era un capo mandamento del palermitano e in alcuni periodi era stato altresì capo provinciale. Costui, tuttavia, essendo venuto a conoscenza del progetto, decise di agire per primo, prevenendo gli avversari. Ordinò quindi l’assassinio di Totuccio INZERILLO e Stefano BONTATE, scatenando la guerra di mafia (cfr. esame reso dal SINACORI all’udienza del 15 aprile 1998).
In ogni caso, indipendentemente dalle responsabilità di ciascuna delle due fazioni rivali nello scatenamento della guerra di mafia, è indubbio che i Corleonesi e i loro alleati spazzarono via gli avversari -i quali, posti di fronte a un attacco tanto violento, reagirono quasi dovunque debolmente e con azioni assai sporadiche- e tutti coloro che erano sospettati di prestare loro aiuto, indipendentemente dal grado coinvolgimento che questi ultimi avessero nelle vicende e nella struttura di “cosa nostra”.
Dopo l’eliminazione di BONTATE e Salvatore INZERILLO (rappresentante della “famiglia” di Passo di Rigano, ucciso l’11 maggio 1981) e l’esclusione da “cosa nostra” di Calogero “Gigino” PIZZUTO (poi ucciso) vennero assassinati gli altri rappresentanti e capi mandamento ritenuti apertamente avversi o comunque non completamente affidabili, onde sostituirli con uomini di provata fede, attraverso il ricorso a tradimenti e la creazione di alleanze trasversali all’interno delle stesse “famiglie”, in modo che le sostituzioni avvenissero senza sconvolgere la struttura organizzativa delle suddette. La “commissione”, infatti, ormai saldamente in mano ai “Corleonesi”, all’unanimità, in piena concordia, poteva e doveva bloccare sul nascere qualsiasi tentativo di riscossa da parte delle persone considerate “vicine” agli uccisi e nel contempo punire coloro che anche in ipotesi potevano avere appoggiato il disegno criminoso di BONTATE di uccidere RIINA.
In tale quadro vanno inseriti, tra gli altri gli omicidi di:
– GNOFFO Ignazio (rappresentante della “famiglia” di Palermo centro) avvenuto il 15 giugno 1981;
– INZERILLO Giuseppe (rappresentante della “famiglia” di Uditore) scomparso nello stesso periodo del precedente;
– BADALAMENTI Antonino (rappresentante della “famiglia” di Cinisi) avvenuto il 19 agosto 1981;
– PIZZUTO Calogero (rappresentante della “famiglia” di Castronovo di Sicilia e capo mandamento) avvenuto il 29 settembre 1981;
– DI PERI Giovanni (rappresentante della “famiglia” di Villabate) avvenuto il 25 dicembre 1981;
– DI MAGGIO Giuseppe (rappresentante della “famiglia” di Brancaccio) avvenuto il 19 ottobre 1982;
– SCAGLIONE Salvatore (rappresentante della “famiglia” della Noce) e RICCOBONO Rosario (rappresentante della “famiglia” di Partanna-Mondello) scomparsi il 30 novembre 1982;
– SORCE Antonino (rappresentante della “famiglia” di Villagrazia) avvenuto il 12 aprile 1983.
Nel medesimo contesto sopra descritto si realizzò altresì una ben programmata campagna militare che comprendeva, tra l’altro, l’assassinio di GRECO Giovanni (“Giovannello”), CONTORNO Salvatore, BADALAMENTI Gaetano e BUSCETTA Tommaso, la mancata eliminazione dei quali provocò una impressionante serie di omicidi di persone loro legate da vincoli di parentela o amicizia del tutto estranee alle dinamiche e alle logiche associative (cfr. omicidio di BADALAMENTI Silvio), anche in relazione ai tenaci propositi di vendetta e di riscossa manifestati dal BADALAMENTI.
Quest’ultimo, pur espulso da “cosa nostra”, già dopo l’omicidio di Stefano BONTATE aveva offerto il suo aiuto a Salvatore INZERILLO, il quale tuttavia lo aveva rifiutato. Dopo l’assassinio di quest’ultimo, il BADALAMENTI contattò anche i GRADO e, nell’agosto del 1982, in Brasile, Tommaso BUSCETTA. Anche quest’ultimo oppose un diniego alle proposte dell’anziano boss di Cinisi, rimanendo fermo nel suo proposito anche dopo la scomparsa per “lupara bianca” dei suoi figli Antonio e Benedetto, avvenuta a seguito della diffusione della voce che BUSCETTA si era alleato con BADALAMENTI. Con tale condotta, il futuro collaboratore aveva sperato che venissero lasciati in pace gli altri suoi familiari.
Contemporaneamente, analoghi rivolgimenti avvenivano nelle altre province siciliane. A Catania Benedetto SANTAPAOLA rimase padrone incontrastato del campo con l’eliminazione di Alfio FERLITO, attuata con l’aiuto dei Palermitani. A Caltanissetta ed Enna, dopo l’assassinio di Giuseppe DI CRISTINA e Francesco CINARDO (entrambi legati a BONTATE) si procedette alla restaurazione del sistema di alleanze messo in crisi dalla uccisione di Francesco MADONIA, fiero avversario del DI CRISTINA, mediante il ritorno al predominio assoluto di MADONIA Giuseppe, figlio dell’ucciso Francesco. Nell’agrigentino si verificarono numerosi omicidi, tra cui anche quello, perpetrato il 30 luglio 1983, di Carmelo COLLETTI, capo mandamento della Provincia.
2) La guerra di mafia nella provincia di Trapani
La guerra di mafia che divampava nel territorio palermitano si sviluppò anche nella provincia di Trapani, nella quale vennero eliminati o “posati” tutti gli uomini d’onore legati alla fazione perdente e venne consacrata la posizione di assoluto predominio di boss emergenti fedelmente alleati e molto vicini a RIINA Salvatore, tra cui in primo luogo AGATE Mariano di Mazara del Vallo (già imputato e condannato nel primo maxi-processo) e MESSINA DENARO Francesco di Castelvetrano.
Tra l’agosto del 1981 e i primi mesi del 1984 nella provincia di Trapani, e precisamente nelle zone di Alcamo-Castellammare del Golfo e della valle del Belice- venne perpetrato un numero impressionante di omicidi. Tra gli altri furono eliminati: TADDEO Francesco a Tre Fontane il 25 agosto 1981, i cugini ZUMMO Giuliano e Paolo a Gibellina il 13 settembre 1981, LA COLLA Calogero lo stesso giorno 13 settembre 1981, PALMERI Giuseppe a Santa Ninfa il 15 settembre 1981, Vito DI PRIMA il 16 settembre 1981, MANGIAPANE Saro ad Alcamo lo stesso 16 settembre 1981, BUCCELLATO Antonino a Castellammare del Golfo il 30 settembre 1981, MILAZZO Giuseppe e MANCINO Salvatore a Gambassi Terme il 16 ottobre 1981, RENDA Mariano ad Alcamo il 24 aprile 1982, FONTANA Antonio a Castelvetrano il 5 agosto 1982, ALA Giuseppe e STALLONE Pietro a Tre Fontane il 22 agosto 1982, ALA Andrea a Campobello di Mazara il 13 settembre 1982, GARGALIANO Giuseppe ad Alcamo Marina il 18 febbraio 1983, GRECO Gaetano ad Alcamo il 7 maggio 1983, BADALAMENTI Silvio a Marsala il 2 giugno 1983, BIONDO Agostino ad Alcamo l’8 luglio 1983, BONURA Agostino il 18 ottobre 1983, GIGLIO Nicolò nelle campagne di Fulgatore il 15 febbraio 1984 e CAMARDA Gaspare ad Alcamo il 22 marzo 1984.
Alcuni degli uccisi erano mafiosi di spicco in “famiglie” delle zone citate.
PALMERI Giuseppe detto “carvuneddu” (rappresentante della “famiglia” di Santa Ninfa e reggente di quella di Salemi dopo la morte di ZIZZO) e DI PRIMA Vito anch’egli di Santa Ninfa erano uomini legati alla fazione “corleonese” e per questo, prima dello scoppio della guerra di mafia, erano stati chiamati a fare parte della commissione provinciale trapanese di “cosa nostra”, guidata da Cola BUCCELLATO di Castellammare del Golfo. La loro eliminazione fu decretata perché dopo l’inizio delle ostilità assunsero una posizione moderata e pacificatrice e tale condotta non era tollerata nel campo dei vincitori, i quali ritenevano che chi cercava di comporre i contrasti interni all’associazione non fosse una persona fidata e potesse diventare un nemico (cfr. esame reso nella veste di imputato di reato connesso da Francesco DI CARLO all’udienza del 7 maggio 1998, il quale ha aggiunto che probabilmente alla loro uccisione non furono estranei contrasti con altri esponenti della fazione, dato la guerra di mafia era divenuta un pretesto per uccidere i propri nemici personali all’interno dell’organizzazione).
Per lo stesso motivo, a detta del DI CARLO, dopo il 1982, fu assassinato Totò MINORE, rappresentante della “famiglia” di Trapani e figura di primo piano nella provincia. Secondo quanto riferito da Giovanni BRUSCA, Vincenzo SINACORI e Pietro BONO, invece, l’eliminazione di quest’ultimo fu dovuta, al fatto che era stato accusato di avere tenuto una condotta ambigua o addirittura di vero e proprio “doppio gioco”. In particolare, il BRUSCA ha riferito che al MINORE e a Cola BUCCELLATO (che per questo venne “posato”, dopo l’assassinio di suo figlio Franco) era stato imputato di avere passato ai RIMI la notizia che i “corleonesi” li cercavano per assassinarli (cfr. esame del BRUSCA all’udienza del 3 giugno 1998). Il BONO ha affermato di avere saputo da Alfonso PASSANANTE, Nunzio SPEZIA e Leonardo BONAFEDE che MINORE pareva essersi schierato con Totuccio INZERILLO e con i BADALAMENTI (cfr. suo esame all’udienza del 15 aprile 1998). SINACORI, infine, ha dichiarato che MINORE era accusato di stare solo nominalmente dalla parte dei “corleonesi”, mentre di fatto non collaborava, in quanto diceva di non avere visto uomini della parte avversa, mentre poi si scopriva che li aveva incontrati (cfr. suo esame all’udienza del 15 aprile 1998).
A giudizio della Corte, il tenore stesso delle motivazioni addotte da questi ultimi collaboratori in ordine all’omicidio del MINORE pare confermare sostanzialmente la versione del DI CARLO, cosicchè deve ritenersi verosimile che a cagionare la morte del predetto “uomo d’onore” sia stato proprio il tentativo di sopire i contrasti tra le due parti avverse e fermare la spirale di violenza che stava divampando. Del resto, Pietro BONO non è “uomo d’onore” e pertanto non è a conoscenza di molti retroscena delle vicende di cui ha riferito e il SINACORI e il BRUSCA all’epoca delle vicende in trattazione erano molto giovani e anch’essi sapevano solo le notizie che venivano loro riferite dai capi, i quali avevano tutto l’interesse a fornire ai giovani “soldati” giustificazioni valide per omicidi di autorevoli personaggi della mafia. Del resto, come si è visto, l’equiparazione di ogni incertezza e attitudine moderata a un vero e proprio tradimento sembra essere in linea con il generale atteggiamento dei “corleonesi”, i cui vertici mirarono a imporre nelle posizioni di vertice solo uomini di provata e assoluta fedeltà.
L’assassinio dei cugini Paolo e Giuliano ZUMMO di Gibellina (uno dei quali era figlio di Pasquino ZUMMO, deceduto nel 1979 e vecchio capo mafia della zona), dei fratelli Giuseppe e Andrea ALA di Campobello di Mazara (nipoti di Natale L’ALA), di Pietro VACCARA di Santa Ninfa e di Antonio FONTANA furono verosimilmente dovuti ai legami che essi intrattenevano con la fazione avversa a quella “corleonese” o a uomini di quest’ultima caduti in disgrazia, come PALMERI e DI PRIMA.
Infine, va inserito nella strategia di decapitazione della parte avversa e della soppressione di tutti coloro che avrebbero potuto costituire un pericolo l’omicidio di Antonino BUCCELLATO nella zona di Castellammare del Golfo. La vittima, infatti, dopo Cola BUCCELLATO classe 1901, era, a giudizio degli investigatori, il personaggio di maggior carisma mafioso del paese, carisma acquisito anche a seguito dei rapporti di affinità che lo legavano con la famiglia RIMI di Alcamo, alla quale apparteneva sua moglie (cfr. deposizione Mar. Bartolomeo SANTOMAURO all’udienza del 29 aprile 1998).
In altri casi, gli uccisi erano persone vicine a esponenti della fazione avversa ai “Corleonesi”, o ritenute tali, anche in ragione di vincoli familiari.
In tale contesto vanno inseriti gli omicidi di BADALAMENTI Silvio (che fu eliminato in quanto era parente di Gaetano BADALAMENTI, dato che era risultato impossibile colpire quest’ultimo e che si pensava che la vittima potesse essere un suo fiancheggiatore), GIGLIO Nicolò, TADDEO Francesco, GRECO Gaetano, RENDA Mariano e CAMARDA Gaspare, sui quali ci si soffermerà ampiamente nei paragrafi dedicati espressamente alla trattazione dei loro assassinii.
Per altro, allo scopo di delineare il grado di cinismo e di violenza indiscriminata raggiunto dalla fazione “corleonese” nella guerra di mafia, appare opportuno effettuare un accenno a quelli che sono, a giudizio di questa Corte, i casi più tristemente emblematici in tal senso: l’eliminazione degli Alcamesi Agostino BIONDO e Leonardo BONURA. Costoro, infatti, erano certamente estranei all’azione criminale degli uomini legati ai RIMI, ma furono ugualmente assassinati solo perché sospettati di essere fiancheggiatori di questi ultimi.
Il BIONDO da molti anni svolgeva la funzione di custode del Motel Beach e vendeva acqua per conto dei RIMI, i quali gli avevano offerto quell’impiego dopo che aveva perduto tutti i suoi animali a causa di un’alluvione e aveva pertanto dovuto abbandonare la sua attività di vendita di latte. Non aveva voluto lasciare il lavoro neppure dopo il verificarsi dei primi, allarmanti episodi delittuosi perché quella fonte di reddito era l’unica di cui disponeva.
Il BONURA, invece, era un giovane docente di tecnica professionale alle scuole medie di Alcamo, molto mite e benvoluto. Fu assassinato in quanto era intimo amico del giovane Leonardo RIMI (su questi ultimi omicidi le figure delle vittime saranno più diffusamente analizzate nei paragrafo dedicato agli episodi delittuosi in esame nella parte IV, capitolo II).
Ciò premesso in generale, la guerra di mafia nel trapanese ebbe sviluppi diversi nella zona del Belice, dove non venne organizzata alcuna resistenza armata all’attacco degli alleati dei Corleonesi, e in quella di Alcamo, nella quale invece, almeno inizialmente, una reazione vi fu ed ebbe una notevole efficacia, tanto da costringere i “corleonesi” ad allontanarsi dal paese per salvare la vita.
Vincenzo SINACORI, a tale proposito, ha affermato che la guerra di mafia nel trapanese fu vinta ad Alcamo, proprio per la capacità militare che connotava il gruppo facente capo ai RIMI e che costrinse i vincenti a “fare terra bruciata” intorno a loro per riconquistare il territorio, eliminando tutti coloro che ritenevano fossero loro vicini e li aiutassero (cfr. citata deposizione SINACORI all’udienza del 15 aprile 1998; cfr. altresì sulla strategia del “terreno bruciato” intorno ai RIMI la deposizione del dottor CERTA all’udienza dell’8 aprile 1998).
La frattura della cosca alcamese, spaccata tra coloro che mantennero fede alla vecchia alleanza con i BADALAMENTI e coloro che si schierarono dalla parte dei “corleonesi”, è stata confermata altresì, nel più volte citato esame del 23 aprile 1998, da Giuseppe FERRO, il quale ne era stato informato da Mariano AGATE.
A giudizio di questa Corte, è opportuno soffermarsi brevemente sulle motivazioni e sulla esecuzione dell’omicidio di Gaetano GRECO, emblematico ai fini dell’individuazione delle logiche che guidarono l’azione della fazione vincente e dell’inesorabilità delle loro statuizioni, oltre che delle insanabili ferite che la loro stessa violenza produsse e che nel corso degli anni favorirono la loro caduta.
Gaetano GRECO apparteneva a una famiglia di noti pregiudicati (suo padre Lorenzo era uno schedato mafioso, con precedenti penali e già colpito da misura di prevenzione), ma era incensurato e dedito al lavoro.
I GRECO erano vicini ai RIMI (e in particolare al capo famiglia Vincenzo) e avevano interessi economici in comune nel campo agricolo: CAMARDA Mario (fratello di Gaspare, entrambi assassinati per mano di “cosa nostra”) riferì agli inquirenti che le due famiglie gestivano in società un allevamento di bovini in contrada Fico. Nelle indagini successive all’omicidio di Gaetano GRECO gli investigatori appurarono che, oltre a quello in contrada Fico, ne gestivano in società anche uno in Contrada Murana.
Nel luglio del 1982 Gaetano GRECO, accortosi che era stato appiccato un incendio in un terreno dei RIMI ubicato nei pressi del suo ovile in Contrada Murana, tentò di intervenire per spegnere il fuoco, ma ne fu impedito dagli autori del fatto, che erano ancora in loco.
Per punirlo di questa indebita ingerenza, nell’agosto o settembre dello stesso anno il GRECO fu fatto segno di colpi d’arma da fuoco, mentre stava rientrando in città dal suo ovile in contrada Murana.
GRECO Lorenzo ha rivelato che seppe dai suoi cugini Antonino e Gaetano che quest’ultimo prima di essere ucciso aveva subito un attentato ad opera di Baldassare SCIACCA e Cola MANNO, che aveva riconosciuto. Gaetano era stato fatto oggetto di colpi d’arma da fuoco da parte di attentatori appostati nei pressi di una stradella mentre stava passando a bordo della sua Ritmo di colore blu per portare ad Alcamo il latte che aveva appena munto nel suo ovile in Contrada Murana. Il giovane -che dopo il fatto era rimasto in casa per alcuni giorni- era stato ferito di striscio e l’autovettura aveva riportato fori di proiettile ed era stata portata da un lattoniere amico per le riparazioni. In seguito suo padre Lorenzo era stato chiamato da Cola MANNO e da MELODIA Vincenzo, i quali gli avevano detto che l’attentato era stato fatto a scopo intimidatorio e gli avevano dato la loro parola d’onore che non lo avrebbero ucciso se avesse fatto cessare la società per l’allevamento di pecore e mucche che Gaetano aveva con Leonardo e Filippo RIMI in contrada Murana e in contrada Fico. Gaetano, accogliendo l’invito dei predetti individui, dopo qualche mese aveva ceduto la quota di animali di Leo RIMI a una persona di Roma e in tal modo si era tranquillizzato, nella certezza che non avendo più rapporti con i RIMI non sarebbe stato più toccato. Tuttavia, nonostante la condotta remissiva tenuta da Gaetano e le promesse fatte a Lorenzo, l’anno successivo la fazione dei “corleonesi” lo aveva assassinato ad Alcamo (cfr. esame reso da Lorenzo GRECO in qualità di imputato di reato connesso all’udienza del 22 aprile 1998).
Le propalazioni del GRECO sono state sostanzialmente confermate dalle dichiarazioni di Giuseppe FERRO e da elementi emersi dalle indagini successive all’assassinio di Gaetano GRECO.
Il FERRO -pur identificando in modo parzialmente diverso gli attentatori in Cola MANNO e Natale EVOLA- ha per il resto riscontrato la versione fornita dal GRECO. In particolare, ha rivelato che i GRECO non avevano denunciato alle forze dell’ordine l’attentato subito da Gaetano, ma il padre della vittima, Lorenzo, aveva contattato emissari del gruppo facente capo ai Corleonesi, i quali gli avevano detto che, se il ragazzo non avesse avuto più legami con i RIMI, essi non avrebbero cercato di ucciderlo una seconda volta. Il padre si era impegnato in quel senso e il giovane si era tranquillizzato, tanto da riprendere le sue normali abitudini. A detta del FERRO, anche BAGARELLA nel 1992-93, durante la seconda guerra di mafia di Alcamo, gli aveva fatto capire che i GRECO avevano ragione, anche se per “cosa nostra” a quel punto era necessario eliminarli per difendere il proprio predominio sul territorio (cfr. sue dichiarazioni, cit. all’udienza del 23 aprile 1998).
Il dottor CERTA, che all’epoca era dirigente del Commissariato di Alcamo, ha confermato l’effettivo verificarsi dell’attentato, le modalità di esecuzione dello stesso, il silenzio dei GRECO. In particolare, ha riferito che la notizia era trapelata solo dopo l’omicidio del giovane ed era venuta a conoscenza degli inquirenti tramite una fonte confidenziale, la cui attendibilità era stata tuttavia confermata da Giuseppe VIRZÌ e da precisi riscontri oggettivi. Il VIRZÌ aveva rivelato che era nei pressi del luogo dell’agguato e si era portato nel posto da cui provenivano i colpi, vedendo a terra tre bossoli di fucile da caccia e notando che il lunotto posteriore della FIAT Tipo del GRECO era rotto. Lo stesso VIRZI’ e PARISI Domenico -il quale era fidanzato con GRECO Anna, sorella di Gaetano, e si era recato sul posto con GRECO Lorenzo senior- avevano aggiunto che quest’ultimo, giunto in contrada Murana, aveva deciso che la notizia non doveva trapelare. Dopo avere appreso di questo episodio, funzionari di P.G. avevano rinvenuto in contrada Giardinello, limitrofa a quella denominata Murana, un lunotto di una FIAT Tipo forato da proiettili e avevano desunto che fosse quello dell’ucciso (per tutte le notizie su Gaetano GRECO, v. deposizione del dottor Salvatore CERTA all’udienza dell’8 aprile 1998, nonché paragrafo dedicato all’omicidio in questo stesso capitolo).
Ciò premesso, prima di ricostruire per sommi capi le vicende della guerra di mafia nella zona di Alcamo, appare opportuno spendere alcune parole per descrivere la famiglia RIMI.
Quest’ultima era guidata dal patriarca Vincenzo, che era ritenuto il capo mafia del paese ed era noto come il “cardinale di Alcamo”. Egli aveva due figli: Filippo, sposato con VITALE Giovanna da Castellammare, la cui sorella Teresa era a sua volta coniugata a Gaetano BADALAMENTI da Cinisi, e Natale. L’altra sua figlia, Antonia, era sposata con il più volte citato BUCCELLATO Antonino di Castellammare del Golfo, detto “lu adduzzu”, ucciso il 30 settembre 1981. Filippo RIMI, a sua volta, aveva due figli, denominati Vincenzo e Leonardo, rispettivamente come il nonno paterno e materno (per la stessa ragione anche il primogenito di Tano BADALAMENTI si chiama Leonardo). Questi ultimi sposarono rispettivamente PALAZZOLO Maria Rosaria e DI TRAPANI Giuseppina, entrambe appartenenti a famiglie inserite nel contesto mafioso di Cinisi. Attraverso legami di parentela acquisiti tramite matrimoni, pertanto, alcune famiglie della vecchia mafia controllavano tutta la costa da Castellammare del Golfo fino alle porte di Palermo (cfr. deposizione del dottor Salvatore CERTA all’udienza dell’8 aprile 1998).
In un primo tempo, i RIMI riuscirono a restituire ai loro avversari colpo su colpo, attentando alla vita di MILOTTA Stefano e uccidendo dapprima LA COLLA Calogero e poi, il 16 ottobre del 1981 a Gambassi Terme, in Toscana, MILAZZO Giuseppe e MANCINO Salvatore (cfr. esami di Vincenzo SINACORI, cit., e di Giuseppe FERRO, quest’ultimo all’udienza del 23 aprile 1998; a proposito dell’ultimo duplice omicidio, Francesco DI CARLO, nel più volte citato esame reso nell’udienza del 7 maggio 1998, ha specificato che la morte del MILAZZO, che ricopriva la carica di sotto-capo o consigliere della “famiglia”, fu decisa perché costui, contattato dai RIMI, rifiutò di farsi coinvolgere nella guerra, tenuto conto della situazione).
Dopo l’assassinio di Antonino BUCCELLATO (avvenuto il 30 settembre 1981) gli uomini della famiglia RIMI scomparvero, lasciando alle loro donne o a loro fiduciari il compito di gestire, per quanto possibile, i loro interessi nel paese d’origine. All’epoca le forze dell’ordine non riuscirono ad accertare con sicurezza dove fossero i RIMI, ma certamente non erano ad Alcamo. Solo alcuni anni dopo si rintracciarono i membri superstiti della famiglia (Leonardo RIMI era stato assassinato a Cinisi): Filippo e Vincenzo furono arrestati nel 1985 a Carpi (MO), dopo che nel 1983-84 era stata segnalata la loro presenza a Sarzana, vicino a La Spezia (cfr. deposizioni del dottor CERTA, cit., e del Mar. Bartolomeo SANTOMAURO all’udienza del 29 aprile 1998).
Di fronte alla reazione dei RIMI, gli esponenti più in vista della fazione alcamese che dopo lo scoppio della guerra di mafia si era alleata con i Corleonesi si rifugiarono presso altre “famiglie” per ricevere protezione. Si nascosero nei territori di Marsala e Mazara del Vallo Stefano MILOTTA, Filippo MELODIA, i fratelli Gaspare e Baldassare SCIACCA, Cola MANNO e Vincenzo MILAZZO, mentre Antonino MELODIA, il quale in quell’epoca aveva una posizione defilata e pertanto non era in pericolo, andava a portare loro le notizie sullo sviluppo della situazione ad Alcamo (cfr. dichiarazioni rese sul punto da Vincenzo SINACORI, cit., nonché da Antonio PATTI e Salvatore GIACALONE, questi ultimi rispettivamente nelle udienze del 23 e del 22 aprile 1998).
Le convergenti propalazioni dei collaboranti sul punto hanno trovato altresì conferme obiettive in altri elementi di prova emersi nel dibattimento.
Il Maresciallo Bartolomeo SANTOMAURO, escusso nelle udienze del 19 dicembre 1995 e del 24 maggio 1996 nel processo a carico di PATTI Antonio e altri, ha riferito che MILAZZO Vincenzo aveva nella sua disponibilità una abitazione sita in un posto isolato e difficile da raggiungere in Contrada Cardella, nel territorio del comune di Marsala, acquistata il 2 agosto 1982 e intestata a MALTESE Vincenzo, nato ad Alcamo il 1 settembre 1943 e condannato per associazione mafiosa a seguito delle propalazioni di FILIPPI Benedetto (cfr. verbali delle citate udienze, prodotte dal P.M.).
Lo stesso SANTOMAURO ha inoltre dichiarato che nel lasso di tempo in parola non si trovavano ad Alcamo i fratelli Sciacca, che nel 1982 erano stati denunciati ed erano in stato di irreperibilità. Ha aggiunto altresì che da intercettazioni telefoniche dell’utenza del centro carni facente capo ai fratelli BURZOTTA e a BASTONE Giovanni (effettuate nell’ambito di un’indagine a carico di soggetti di Mazara del Vallo della Compagnia di Carabinieri di Marsala iniziata nell’81 e ultimata nell’86 e compendiata in un rapporto firmato dal Capitano GEBBIA) emergeva che vi erano stati contatti telefonici tra BASTONE Giovanni e Gaspare e Baldassare SCIACCA da un lato e SCIACCA Francesco, che chiamava da Treviso, dall’altro. In particolare nella conversazione del 16 ottobre 1982 (cioè il giorno successivo agli arresti del 15 ottobre 1982) BASTONE aveva parlato al suo interlocutore in maniera molto criptica di un’operazione avvenuta in Alcamo e gli aveva consigliato di leggere il giornale, perchè lì vi erano i nomi di tutti i “giocatori”.
La controffensiva della fazione “corleonese” fu guidata militarmente proprio dagli uomini di Mazara del Vallo, coadiuvati da elementi di “famiglie” e mandamenti vicini. Infatti, gli appartenenti alle cosche di Alcamo e Castellammare, date le difficoltà in cui si dibattevano, non erano in grado di gestire la situazione e pertanto il loro contributo si limitò -come meglio si vedrà nelle parti relative alle trattazioni dei singoli omicidi- a compiere le necessarie attività di controllo e informazione e a fornire i supporti logistici e a partecipare alla perpetrazione di alcuni omicidi.
Sotto tale profilo, Vincenzo SINACORI nel corso del più volte citato esame dibattimentale ha riferito che a LEONE Giovanni, che era capo decina della “famiglia” di Mazara del Vallo, fu affidata la cura del settore operativo e che alle azioni parteciparono numerosi “uomini d’onore” della medesima cosca (MESSINA Francesco, BRUNO Calcedonio, GANCITANO Andrea, BURZOTTA Diego e lui stesso) e di quelle di Marsala (PATTI Antonio, TITONE Antonino e GIACALONE Salvatore) e di Castelvetrano (FURNARI Saverio, FURNARI Vincenzo e NASTASI Antonino).
Le dichiarazioni del SINACORI sono state confermate dal PATTI e dal GIACALONE, i quali hanno sottolineato l’esistenza in quel periodo di stretti contatti tra gli Alcamesi e i Marsalesi e i Mazaresi, sia sotto il profilo operativo, sia sotto quello dei rapporti personali, che erano molto stretti, soprattutto con Vincenzo D’AMICO (cfr. citati esami resi dai due imputati alle udienze del 23 e del 22 aprile 1998).
Oltre all’eliminazione fisica di tutti i fiancheggiatori o presunti tali del clan avverso, la strategia della fazione “corleonese” mirò a privare i RIMI di ogni sostegno economico: tra il 1981 e il 1983 vennero compiute varie attività criminose (e in particolare incendi e danneggiamenti) a danno di beni di questi ultimi (cfr. citata deposizione del dottor CERTA).
Come si è visto, le modalità attraverso le quali gli alleati dei “corleonesi” condussero la guerra nelle zone di Alcamo e Castellammare del Golfo non si discostarono, quanto ai metodi di azione e alla volontà di colpire indiscriminatamente tutti coloro che potevano costituire anche astrattamente una minaccia o che prestassero aiuti di qualsiasi tipo ai loro nemici, da quelli adottati nel palermitano.
All’epoca della prima guerra di mafia di Alcamo cominciò, dunque, la fulminea ascesa di Vincenzo MILAZZO, figlio di Giuseppe.
Costui -sebbene fosse noto agli “uomini d’onore” di Marsala fin da ragazzo, poiché frequentava l’istituto enologico della città e fosse stato descritto dai vecchi mafiosi ai giovani come un “bravo ragazzo”, da rispettare siccome figlio di un autorevole personaggio (cfr. esame PATTI, cit.)- venne “combinato” proprio in questo periodo (probabilmente nel 1982), insieme ad Antonino e a Filippo MELODIA (cfr. esami degli imputati SINACORI, cit., e BRUSCA all’udienza del 3 giugno 1998).
Non appena, nel corso della guerra di mafia, venne ricostituita la “famiglia” di Alcamo il MILAZZO ne divenne il “rappresentante”, in quanto uomo di fiducia dei “corleonesi”.
Strinse in breve tempo stretti legami non solo con gli esponenti più autorevoli delle cosche di Mazara del Vallo e Marsala, ma altresì con Giovanni BRUSCA e lo stesso RIINA. Per altro, mentre negli anni i rapporti con i primi si incrinarono (cfr. esame di Giuseppe FERRO, cit., nel quale il collaborante ha precisato che MILAZZO, parlandogli dell’omicidio di RENDA Mariano, commentò che i Mazaresi non potevano avere troppe pretese solo perché avevano assassinato il medesimo RENDA e Saro MANGIAPANE), forse a causa di un desiderio di maggiore autonomia rispetto agli altri mandamenti della Provincia, i rapporti con i Palermitani rimasero saldi fino alla repentina eliminazione del MILAZZO, su ordine dello stesso RIINA, avvenuta nell’estate del 1992 (sull’esistenza di rapporti privilegiati da parte di MILAZZO con Giovanni BRUSCA e RIINA, cfr. dichiarazioni di Giuseppe FERRO e Giovanni BRUSCA, rese rispettivamente nelle udienze del 30 settembre e del 1 ottobre 1998).
Il MILAZZO era certamente un personaggio complesso, appartenente anche culturalmente alla nuova mafia, spregiudicato nella gestione dei rapporti personali e dei traffici illeciti e che vantava supposti legami con la massoneria tramite il suo amico Mariano ASARO (cfr. esame di Antonio PATTI, cit.).
Sfruttando e consolidando rapporti già instaurati da suo padre Giuseppe (cfr. sul punto, oltre alle dichiarazione di Antonio PATTI già citata, anche la deposizione di FOIS Antonio Michele all’udienza del 22 aprile 1998, nella quale il maresciallo ha accennato al fatto che padrino di cresima di Paolo MILAZZO, fratello minore di Vincenzo, fu Giuseppe EVOLA, mafioso di spicco di Castellammare del Golfo), riuscì in breve tempo a conquistare una posizione di assoluto e incontrastato controllo sul mandamento di Alcamo. Sotto questo profilo, appare emblematica la vicenda della società “Tre noci”. Il Maresciallo FOIS, nella citata deposizione, ha riferito che, nel corso di indagini svolte anche in Toscana su esponenti delle due avverse fazioni in guerra, venne a conoscenza del fatto che nel 1981 PIRRONE Liborio, pregiudicato e socio della “Tre Noci”, mentre veniva tradotto da Alcamo a Trapani confidò agli investigatori che aveva dovuto simulare un furto di £.5.000.000 in assegni per pagare la tangente a Natale RIMI (il quale pur essendo lontano dalla Sicilia continuava a raccogliere il “pizzo”), dato che l’impresa non era in condizione di reperire contanti. Natale RIMI, oltre a percepire la tangente, partecipava agli utili d’impresa, in quanto aveva battezzato un figlio di MELODIA Luciano, uno degli allora soci, e in seguito addirittura subentrò a quest’ultimo come socio occulto. Già prima dell’inizio della guerra anche il MILAZZO pretese una tangente, pari a £.2.000 ogni metro cubo di calcestruzzo prodotto giornalmente dalla società e successivamente acquistò la quota di un quattordicesimo dell’intero pacchetto azionario, grazie al finanziamento di MANCINO Salvatore, poi ucciso a Gambassi Terme insieme al padre del MILAZZO (nel corso delle indagini fu trovato l’atto di acquisto della quota da parte del MILAZZO).
Il MILAZZO, infine, era certamente inserito nel traffico internazionale degli stupefacenti, come dimostra la vicenda della raffineria di contrada Virgini (v. Parte I, Capo 2) e la proposta che fece, a detta di Antonio PATTI (cfr. dichiarazioni cit.), di gestire in società con Filippo MELODIA e Vincenzo D’AMICO un traffico di droga proveniente dalla Thailandia.
La conclusione vittoriosa della guerra di mafia portò al consolidamento di un nuovo assetto dell’associazione mafiosa nel trapanese.
Anteriormente ad essa, il territorio della provincia era diviso in cinque mandamenti e capo provinciale era Cola BUCCELLATO di Castellammare del Golfo (cfr. esami, più volte citati, di FERRO, BRUSCA, SINACORI).
Quando lo scontro militare si concluse, vennero modificati il numero dei mandamenti e alcune delle sedi degli stessi, nonché l’assetto di numerose “famiglie” e i personaggi alla guida della struttura provinciale della mafia.
I mandamenti furono ridotti a quattro: Alcamo, Mazara del Vallo, Trapani e Castelvetrano.
Il capo della Commissione, Cola BUCCELLATO (a cui in quel periodo furono assassinati un figlio, un cognato e un cugino), venne “posato” mentre si trovava in carcere, nel 1983, e fu sostituito da Francesco MESSINA DENARO di Castelvetrano (cfr. dichiarazioni di FERRO e BRUSCA).
Molti uomini d’onore furono “posati” o comunque persero il precedente prestigio a causa dei legami con personaggi legati alla fazione perdente. Il PATTI, facendo riferimento alla cosca di Marsala, in cui era inserito, ha affermato che quando cominciarono a sorgere contrasti con i RIMI i Mazaresi, guidati dal rappresentante AGATE Mariano e dal sottocapo MESSINA Francesco, avevano “posato” molti dei membri della “famiglia” di Marsala -città che fino ad allora aveva guidato il mandamento- in quanto erano legati al gruppo avverso e avevano invitato il D’AMICO, fino ad allora un semplice soldato, a “farsi una famiglia”, di cui sarebbe divenuto il rappresentante (cfr. esame del PATTI nelle udienze del 25 e 26 marzo 1998).
In conclusione, anche nella provincia di Trapani, la guerra di mafia comportò radicali mutamenti in “cosa nostra” e consacrò l’ascesa di personaggi (come Mariano AGATE, Vincenzo MILAZZO e Francesco MESSINA DENARO) vicini al RIINA e incondizionatamente fedeli allo stesso. Questi uomini guidarono l’organizzazione per oltre un decennio, facendo integralmente propria la strategia terroristica propugnata dai “corleonesi”, partecipando con i loro uomini -spesso anche in posizioni di primo piano- alle loro attività criminose e rendendo la provincia una delle loro più fidate e sicure roccaforti. Solamente negli anni ’90 il sistema di potere costruito da questi personaggi e consolidato dai loro collaboratori è stato incrinato da faide interne, da ribellioni di bande rivali nei loro territori provocate dai predetti contrasti interni e dalle lacerazioni conseguite alla guerra degli anni ’80, dal diffondersi del fenomeno della collaborazione di giustizia e dall’azione repressiva degli organi statali.
3) Attività di indagine e ipotesi investigative
L’azione degli inquirenti all’inizio degli anni ’80 era resa molto difficoltosa dall’atteggiamento omertoso della popolazione, anche nei casi in cui le vittime erano legate ai possibili testimoni da legami di parentela, e dall’impossibilità di avvalersi dei collaboratori di giustizia per la ricostruzione dei fatti.
Sotto il primo profilo, emblematici sono i casi degli omicidi di GIGLIO Nicolò e di GRECO Gaetano (sui predetti episodi ci si soffermerà ampiamente nei paragrafi agli stessi dedicati in questo stesso capitolo), i cui parenti sostanzialmente rifiutarono di prestare ogni collaborazione agli investigatori (cfr. deposizioni del mar. FOIS e del dottor CERTA, cit., nonché del Capitano Antonio D’ANDREA, escusso nell’udienza del 1 aprile 1998).
Tra le poche, lodevoli eccezioni vanno annoverati i casi della madre di Leonardo BONURA, la quale assistette all’assassinio del figlio e fornì un’ampia descrizione della dinamica del delitto e delle caratteristiche fisiche dei sicari, e dei fidanzati marsalesi ANGILERI Pietro Riccardo e CANALE Giulia, i quali in occasione dell’omicidio di Silvio BADALAMENTI riferirono agli inquirenti di avere veduto transitare dalla loro casa, vicina al luogo in cui era avvenuto il crimine, due automobili delle quali indicarono il tipo e, quanto a una di esse, anche la sigla della provincia sulla targa (AN).
Nonostante le notevoli difficoltà in cui operavano, gli investigatori, di fronte al susseguirsi di un numero impressionante di omicidi, inserirono gli omicidi verificati nella valle del Belice e quelli perpetrati nella zona di Alcamo e Castellammare in un unico contesto.
In particolare, con riferimento agli assassinii commessi nella valle del Belice gli inquirenti, ipotizzarono che tra essi vi fossero collegamenti in considerazione sia della personalità degli uccisi, sia delle modalità esecutive (luoghi pubblici nei quali venivano commessi ad eccezione del delitto DI PRIMA, utilizzazione dello stesso tipo di arma, una pistola calibro 38, la presenza sui luoghi dei fatti delittuosi di una Golf o di una Uno bianca), sia del fatto che vi erano stati fatti di sangue anche ad Alcamo e Castellammare del Golfo, dove si pensava che fosse iniziata una guerra di mafia tra il clan dei RIMI, che fino ad allora aveva comandato in quelle zone e quello emergente dei MILAZZO, composto da soldati dei primi che si erano ribellati.
Cominciarono quindi a sospettare che nella valle del Belice fosse operativo un gruppo di fuoco che stava eliminando personaggi legati alla vecchia nomenclatura mafiosa della zona, che si identificava con MESSINA DENARO Francesco a Castelvetrano, con gli ACCARDO a Partanna, gli ZUMMO a Gibellina, i PALMERI a Santa Ninfa, gli ALA a Campobello di Mazara e altri personaggi a Poggioreale e a Salaparuta. In particolare, fu avanzata l’ipotesi che la ragione scatenante della guerra fosse l’esigenza da parte di nuovi gruppi emergenti di controllare la zona di Castelvetrano e quella marittima del Belice, e specialmente il faro di Tre Fontane, per sbarcare prodotti da trasformare in sostanza stupefacente, senza dovere chiedere il permesso o pagare una certa quota alle famiglie fino ad allora dominanti.
Sebbene ad Alcamo la situazione fosse un po’ diversa dato che la lotta contro la “famiglia” dominante pareva essere condotta da personaggi precedentemente inseriti nella stessa, nell’ambito dello scenario sopra delineato fu ipotizzato che alla base della guerra iniziata dagli emergenti contro i RIMI e i loro alleati ci fosse l’interesse della fazione “corleonese” a controllare la zona marittima che andava dalla foce del Belice fino a Torretta Granitola per potervi gestire attività illecite (come il contrabbando di sigarette e il traffico di sostanze stupefacenti: a tale proposito è emblematico il già citato episodio dello sbarco di Torretta Granitola) (cfr. deposizioni, citate, di CERTA, D’ANDREA e FOIS).
Nonostante le predette ipotesi si siano dimostrate sostanzialmente corrette, gli inquirenti non riuscirono in nessun caso a individuare i responsabili dei fatti delittuosi. La struttura stessa di “cosa nostra”, infatti, dominata dalla più rigorosa segretezza, rendeva quasi impossibile, in assenza di fortunate coincidenze, la scoperta degli autori materiali degli omicidi. Infatti le indagini in quell’epoca venivano condotte senza potere contare su rilevanti apporti informativi di persone inserite nel contesto criminale, ma delineando la figura dell’ucciso e cercando di scoprire le ragioni che ne avevano determinato la morte, attraverso appunti, testimonianze, semplici sensazioni e l’esame del contesto in cui il delitto era avvenuto. Pertanto, ad esempio, ad Alcamo -dove era in corso una guerra di mafia- era evidente che l’assassino dell’esponente di uno dei due gruppi doveva essere ricercato nell’altro; al contrario, nella valle del Belice, dove non c’era una guerra dichiarata, era molto più difficile individuare i responsabili (cfr. deposizione D’ANDREA, cit.).
Soltanto negli anni ’90, grazie all’apporto dei collaboratori di giustizia, è stato possibile verificare la sostanziale correttezza di taluni degli scenari ipotizzati dagli investigatori e, soprattutto, disvelare i nomi degli autori di numerosi assassinii commessi nella guerra di mafia in esame.
Nel presente capitolo verranno esaminati alcuni degli omicidi commessi nella provincia di Trapani nell’ambito della seconda guerra di mafia, o comunque connessi e conseguenti alle vicende della stessa.
Gli episodi saranno raggruppati in quattro parti: nella prima saranno esaminati fatti delittuosi commessi nella zona di Alcamo-Castellammare (eliminazione di RENDA, GARGAGLIANO, GRECO Gaetano, BIONDO, BONURA e CAMARDA), nella seconda quelli perpetrati nella valle del Belice (soppressione di LIPARI, TADDEO, ZUMMO Giuliano e Paolo, PALMERI, FONTANA, ALA, BADALAMENTI e GIGLIO), nella terza la vicenda di Natale L’ALA culminata con il suo assassinio, nella quarta il duplice omicidio BUFFA e D’AGATI, realizzato a Rimini.
A) OMICIDI COMMESSI NELLA VALLE DEL BELICE
OMICIDIO VITO LIPARI
Il 13 agosto 1980, verso le ore 9,30, sulla strada provinciale che da Triscina conduceva a Castelvetrano, nella contrada “Canalotto” venne rinvenuto cadavere, a bordo della propria autovettura Volkswagen Golf tg. TP-198052, il Sindaco di Castelvetrano LIPARI Vito, raggiunto da diversi colpi di pistola e di fucile caricato a lupara.
A trovare il cadavere fu il cognato LEGGIO Francesco, il quale, transitando casualmente per la stessa strada diretto a Triscina, riconobbe la macchina del congiunto e, resosi conto dell’accaduto, provvide ad avvisare le forze dell’ordine tramite un altro passante.
Dopo pochi minuti sopraggiunsero la Polizia e i Carabinieri di Castelvetrano, che eseguirono i rilievi.
Si appurò che il LIPARI in quel periodo abitava nella sua villetta a Triscina e che ogni mattina, più o meno a quella stessa ora, era solito recarsi a con la sua autovettura a Castelvetrano per svolgere le mansioni inerenti al suo ufficio di sindaco.
L’automobile dell’ucciso era fuori dalla sede stradale, ruotata verso il lato destro con la parte anteriore e ferma contro un terrapieno in prossimità dell’ingresso a una stradella interpoderale; la stessa presentava i cristalli delle portiere di sinistra completamente frantumati e quello della portiera anteriore destra in parte squarciato e in parte lesionato. Sulla fiancata di sinistra, all’altezza dei finestrini, i verbalizzanti rinvennero alcuni fori di entrata di proiettili, i cui orifici di uscita erano sulla parte destra del parabrezza e sulla fiancata anteriore destra del veicolo. L’autovettura aveva il motore spento, la terza marcia innestata e le chiavi girate nel quadro di accensione.
Il corpo del LIPARI dal posto di guida era scivolato sul sedile anteriore destro con la testa reclinata sulla portiera.
Nel corso del sopralluogo, sull’asfalto vennero rinvenute altresì due tracce di frenatura di differente larghezza e lunghe circa quarantasei metri, un’ogiva di proiettile di pistola conficcata sul terrapieno al limitare destro della strada, che si presentava cinque metri oltre il termine delle tracce di frenata cosparsa dei cocci dei cristalli dell’autovettura del sindaco. Da tali rilievi gli inquirenti dedussero che gli aggressori avessero affiancato l’autovettura della vittima esplodendo i primi colpi d’arma da fuoco e poi, fermato il veicolo su cui viaggiavano, avessero finito il LIPARI con altri colpi sparati da breve distanza.
Venne disposta l’immediata attuazione di posti di blocco e di una battuta nei dintorni per il rinvenimento di tracce utili al fine di individuare gli assassini e per la ricerca di eventuali testimoni oculari.
Giunse inoltre sul luogo il Vice Pretore di Castelvetrano, che procedette all’ispezione giudiziale e ordinò il trasporto del cadavere al cimitero di Castelvetrano per l’esecuzione delle operazioni di ispezione, descrizione e riconoscimento del cadavere, le quali furono compiute alle ore 12,10 dello stesso giorno.
Intanto, alle ore 12,00, nei pressi di un posto di blocco in prossimità del bivio per Samperi (località ubicata a circa trenta chilometri dal luogo in cui fu commesso l’omicidio) furono avvistate due autovetture -una FIAT 127 di colore bianco e una Renault- i cui conducenti, alla vista dei militari, repentinamente e con l’evidente scopo di sottrarsi ai dovuti controlli, effettuarono una svolta a destra immettendosi in una stradella interpoderale. I due veicoli vennero prontamente inseguiti e fermati dai carabinieri, che accertarono che sulla FIAT 127 tg. Tp-172145 avevano preso posto i mazaresi Mariano AGATE e Antonino RISERBATO, quest’ultimo proprietario e conducente del mezzo, e sulla Renault 30 tg.NA-E29851 si trovavano i tre catanesi Benedetto SANTAPAOLA, Francesco MANGION e Rosario ROMEO.
Dopo essere stato bloccato, l’AGATE, sorvegliato speciale di p.s., esibì una patente di guida intestata al fratello Giuseppe su cui era stata apposta una fotografia dell’imputato. Il trucco venne scoperto per la presenza al posto di blocco di militari della stazione di Mazara del Vallo che riconobbero Mariano AGATE. A questo punto anche il ROMEO ammise di essere sottoposto a Catania a misura di prevenzione. Atteso che il comportamento degli occupanti delle due autovetture aveva dato luogo a sospetti, i carabinieri, dopo avere proceduto all’arresto del ROMEO e dell’AGATE nella flagranza del reato di violazione degli obblighi della sorveglianza speciale e, per ciò che concerne il secondo, del delitto di falso in documenti, condussero tutti e cinque nei locali della stazione di Mazara del Vallo per svolgere gli opportuni accertamenti.
Dato che il MANGION e il SANTAPAOLA fornirono versioni diverse circa i loro movimenti (il secondo disse che si erano accordati alle ore 13,00 circa del giorno precedente per compiere il viaggio a Mazara del Vallo, mentre il primo negò di avere visto il SANTAPAOLA il 12 agosto), vennero arrestati per reticenza e falsa testimonianza.
A tarda notte il SANTAPAOLA venne associato alla casa circondariale di Marsala, e l’AGATE, il ROMEO e il MANGION a quella di Mazara del Vallo. Alle 21,30 il RISERBATO fu invece rilasciato.
Vennero inoltre assunti a sommarie informazioni alcuni testimoni.
Leonardo PIPITONE dichiarò che quella mattina, verso le ore 8,30 o 8,40 aveva lasciato Triscina dirigendosi sulla strada provinciale verso Castelvetrano a bordo della propria vespa 50 e, dopo avere percorso alcuni chilometri, era stato sorpassato dall’autovettura del sindaco. Poco dopo, a causa della caduta del carter del motociclo, era stato costretto a fermarsi per raccoglierlo e risistemarlo al suo posto; quindi, continuando il percorso, si era imbattuto nell’autovettura ferma del LIPARI, accanto alla quale vi era il LEGGIO, che lo aveva informato dell’accaduto e lo aveva assicurato di avere informato le forze dell’ordine.
Tano GENCO riferì che la mattina del 13 agosto intorno alle ore 9,20, mentre stava eseguendo lavori nelle adiacenze della sua casa sita a circa cqntocinquanta metri dalla sede stradale, aveva udito colpi d’arma da fuoco in rapida successione, poi urla, quindi uno stridore di gomme e infine, dopo qualche minuto, altri quattro o cinque colpi d’arma da fuoco. Precisò inoltre che gli pareva che i primi spari fossero stati esplosi da fucile da caccia (tanto che egli non aveva dato peso all’accaduto, ritenendo si trattasse di cacciatori), mentre quelli successivi gli sembrarono di diversa tonalità. Affermò infine che dopo qualche minuto il figlio, incuriosito, era andato a vedere cosa fosse successo e al suo ritorno gli aveva riferito dell’omicidio.
Marco CARUSO a sua volta disse che il LIPARI -dopo l’omicidio, avvenuto a Palermo, di REINA Michele, segretario provinciale D.C. di quella città- lo aveva invitato ad accompagnarlo armato durante gli spostamenti compiuti nel periodo della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1979, alle quali lo stesso LIPARI si presentava candidato.
Caterina LEGGIO, vedova dell’ucciso, riferì che il marito apparteneva alla corrente “dorotea” della D.C. ed era molto legato sia personalmente che politicamente a Nino e Ignazio SALVO di Salemi, incurante della accuse che già la stampa rivolgeva a costoro di essere al centro di affari poco puliti e di essere in collegamento con frange mafiose.
Successivamente Antonino SALVO confermò che era stato molto legato al LIPARI sia politicamente che personalmente, tanto da raccoglierne le confidenze e da essere rimasto assai addolorato per la mancata elezione alla camera dei deputati nelle elezioni politiche del 1979.
Una importante svolta nelle indagini si verificò il 16 agosto 1980, quando, alle ore 00,20, i Carabinieri di Castelvetrano, nel corso di una perlustrazione, rinvennero in contrada Giacosia-Fontanelle, la carcassa completamente distrutta dalle fiamme dell’autovettura FIAT 128 rally di colore rosso, tg. TP-113890, che risultava rubata nelle vicinanze dell’Hotel “Stella d’Italia” di Marsala l’8 agosto alla proprietaria CHIRCO Giacoma, la quale l’aveva posteggiata in via Rapisardi (cfr. rapporto 19 marzo 1981, citato nella sentenza n.2/8 della Corte d’Assise di Trapani emessa l’11 giugno 1988). Gli operanti, mediante l’escussione di BELLAFIORE Pietro, PARRINO Gaspare, LAZIO Giuseppe e MESSINA Vincenzo, appurarono che la medesima era stata abbandonata in quel luogo nella tarda mattinata del 13 agosto ed era stata vista bruciare nella tarda serata dello stesso giorno.
Il 7 novembre 1980 il Maresciallo Nicolò BRUNO, in servizio al commissariato di P.s. di Castelvetrano, riferì di avere saputo da fonte confidenziale attendibile che la signora CARUSO Liliana, applicata di segreteria presso la scuola elementare di Gibellina, la mattina del delitto, viaggiando alla guida della sua autovettura da Triscina a Castelvetrano, giunta nei pressi del luogo dell’omicidio, aveva notato una persona che cercava di mettere in moto un’autovettura e altri due uomini salire su un’altra macchina e scappare; la donna aveva poi aggiunto che si era recata a Triscina dal marito e poi era nuovamente ritornata sul luogo del delitto con quest’ultimo; che la figlia, la quale viaggiava con lei, le aveva detto che i due fuggivano con una macchina bella; che ella era tentata di telefonare.
La signora CARUSO fu identificata in PARISI Maria Liliana, coniugata con CARUSO Antonino. Escussa, disse che al momento del delitto era in casa con le figlie e aveva appreso la notizia da una vicina, alla quale in seguito aveva affidato le bambine per recarsi con il marito sul luogo del delitto.
CARUSO Antonino confermò sostanzialmente la versione della moglie.
La loro figlia Elisabetta, invece, riferì che:
– quella mattina era uscita dalla loro casa di Triscina con la madre e la sorella Ambra verso le ore 8,40 a bordo della loro FIAT 126 e, dopo essersi fermate a fare la spesa in un negozio di generi alimentari e una macelleria di Triscina, avevano imboccato la strada provinciale per Castelvetrano;
– a un certo punto la madre si era fermata e la bambina aveva notato davanti a loro un’autovettura bianca con all’interno un solo uomo;
– contemporaneamente aveva notato che una FIAT 128 rossa con due persone a bordo, proveniente da una stradella non asfaltata sulla sinistra, aveva sbarrato la via alla macchina bianca costringendola a fermarsi; subito dopo la vettura rossa a marcia indietro si era riportata sul lato sinistro della strada e uno dei suoi occupanti, quello seduto a fianco del guidatore, aveva sparato due o tre colpi, mentre l’uomo alla guida dell’autovettura bianca si era abbassato sul lato opposto al sedile di guida;
– la madre, spaventata, aveva invertito il senso di marcia ed erano ritornate a Triscina ove avevano trovato il padre, il quale, messo al corrente dell’accaduto, aveva raccomandato loro di non uscire di casa, poiché gli uomini che avevano sparato, se le avessero riconosciute, avrebbero potuto venire a casa e fare loro del male;
– prima che la madre invertisse il senso di marcia, aveva visto l’autovettura rossa fuggire in direzione Castelvetrano e, mentre stavano ritornando a Triscina, aveva udito altri colpi d’arma da fuoco.
Nel rapporto a firma congiunta datato 29 ottobre 1984 il Comandante della Compagnia dei CC. e il dirigente del commissariato di P.S. di Castelvetrano denunciarono alla Procura della Repubblica l’AGATE, il SANTAPAOLA, il MANGION, il ROMEO e il RISERBATO per l’omicidio del LIPARI e per i reati connessi di detenzione e porto illegittimo in luogo pubblico di armi comuni da sparo (un fucile e due rivoltelle calibro 38) e di furto aggravato dell’autovettura FIAT 128 rubata a Giacoma CHIRCO.
Al termine del dibattimento di primo grado, la Corte d’Assise di Trapani con sentenza emessa l’11 giugno 1988 dichiarò gli imputati responsabili dei delitti loro ascritti e condannò l’AGATE, il SANTAPAOLA, il MANGION e il ROMEO all’ergastolo e RISERBATO Antonino a ventinove anni di reclusione.
La Corte di primo grado ritenne inverosimile la giustificazione addotta dagli imputati sulla presenza dei Catanesi nel mazarese. Costoro, infatti, asserirono che il SANTAPAOLA aveva la necessità di acquistare meloni e pomodori e che a tal fine aveva contattato l’AGATE e si era fatto accompagnare dal MANGION e dal ROMEO.
I Giudici reputarono inoltre significativi il comportamento sospetto tenuto dagli imputati quando si accorsero del posto di blocco e concretatosi nell’immissione in una stradina laterale nel tentativo di evitare i militari e la circostanza che i medesimi si trovavano su una strada che era la prosecuzione naturale della via di fuga (direzione Castelvetrano) intrapresa dagli assassini, poiché tutti i possibili percorsi tra i tre punti cardine della vicenda (luoghi dell’omicidio, dell’abbandono della FIAT 128 rossa e del controllo dei prevenuti) avevano sbocco sulla statale 115.
La decisione di primo grado venne riformata dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che con sentenza pronunciata il 16 luglio 1992 e passata in giudicato il 17 febbraio 1993 prosciolse i prevenuti per non avere commesso il fatto.
Sulla base delle dichiarazioni rese da Antonio PATTI e Vincenzo SINACORI, gli stessi sono stati rinviati a giudizio per avere cagionato con premeditazione la morte di Vito LIPARI in concorso con GANCITANO Andrea, LEONE Giovanni e NASTASI Antonino, oltre che con CAPRAROTTA Francesco, CLEMENTE Giuseppe e MESSINA Francesco, deceduti.
Nel presente giudizio si sono ritualmente costituiti parte civile la Provincia di Trapani e i Comuni di Castelvetrano e di Palermo.
Vincenzo SINACORI ha confessato di avere partecipato all’omicidio di Vito LIPARI.
Ha affermato che fu il suo amico GANCITANO a coinvolgerlo, per consentirgli di diventare lui stesso una “persona di rispetto”. Il collaboratore, infatti, pur non sapendo che molte delle persone che partecipavano allo sbarco delle sigarette di contrabbando sul litorale mazarese erano mafiose, riteneva che fossero soggetti rispettabili e si accorgeva che la gente voleva loro bene, perchè avevano un comportamento irreprensibile.
La mattina dell’omicidio il SINACORI e il GANCITANO, il quale la sera precedente aveva avvisato l’amico che quel giorno sarebbero dovuti andare a Castelvatrano, partirono da Mazara del Vallo diretti in quel paese a bordo della Golf diesel del secondo. Il GANCITANO durante il tragitto comunicò all’odierno collaboratore che stavano recandovisi al fine di commettere un omicidio per fare un piacere ai Castelvetranesi. A quell’epoca il SINACORI non conosceva nessuno di quest’ultimo paese, con la sola eccezione, forse, di Pino CLEMENTE il vecchio, il quale talvolta era andato alla cantina di Mariano AGATE. Infatti gli unici contatti che aveva avuto con “uomini d’onore” che non fossero mazaresi erano stati in occasione degli sbarchi di sigarette, che compivano insieme ai Marsalesi. Quando il GANCITANO gli rivelò la ragione della trasferta, il collaboratore non reagì, poichè da un lato era amico di quest’ultimo e dall’altro lato gli piacevano le persone che il medesimo frequentava.
Andarono in una fattoria di campagna in zona Belvedere, nell’agro di Castelvetrano, nella quale Pino CLEMENTE accudiva ai suoi animali. Il GANCITANO scese dalla macchina ed entrò in una casetta che era là, mentre il SINACORI attese in automobile. In seguito il GANCITANO uscì insieme a LEONE Giovanni, MESSINA Francesco, CLEMENTE Giuseppe il vecchio e NASTASI Antonino, il quale ultimo non era noto al collaboratore.
Il propalante ha proseguito il suo racconto affermando che l’agguato avvenne circa alle ore 8,30-9,00 del mattino, mentre il LIPARI stava recandosi da Triscina, località balneare, a Castelvetrano, per ragioni connesse alla sua carica. Egli si mise alla guida di una FIAT 128 rossa, che (a quanto successivamente gli raccontarono il MESSINA o il LEONE) era stata rubata dai Marsalesi, il LEONE salì al suo fianco, il GANCITANO e il NASTASI si posizionarono nel sedile posteriore rispettivamente sul lato destro e su quello sinistro. Quest’ultimo rimaneva abbassato per evitare il rischio che qualcuno lo riconoscesse, dato che era originario di Castelvetrano e nella stagione estiva la strada era trafficata, essendo Triscina una località balneare. Il LEONE aveva un fucile a canne mozze e il GANCITANO un revolver, che erano stati procurati dai Castelvetranesi. Il gruppo di fuoco si diresse a Triscina.
Attuarono il piano che era stato predisposto: la macchina con a bordo i killer si portò in una traversa della strada che da Triscina portava a Castelvetrano, che la vittima designata era solita percorrere. MESSINA Francesco era nei pressi, a bordo della sua FIAT 127 bianca, con una funzione di appoggio.
Dopo che tre suoni di clacson ebbero segnalato che l’autovettura dell’obiettivo si stava avvicinando, essi si immisero nella strada che da Triscina portava a Castelvetrano, lasciarono passare l’autovettura e -dopo che il NASTASI ebbe loro confermato che si trattava del LIPARI- si affiancarono alla Golf e la superarono. In questi ultimi attimi il LEONE gli sparò con il fucile a canne mozze e il GANCITANO fece lo stesso con il revolver. Il LIPARI fu colpito dalla prima fucilata e perse il controllo della macchina, che si fermò in una cunetta lì vicina, ubicata nei pressi di una curva. Il LEONE scese e sparò alla vittima il colpo di grazia con un revolver calibro 38.
Non appena il killer fu risalito sulla macchina, che era rimasta accesa, il gruppo di fuoco ripartì; tuttavia il motore dell’autovettura, che era vecchia, stava per spegnersi e non lo fece perchè il LEONE ebbe la prontezza di riflessi di tirare l’aria.
Il gruppo di fuoco ritornò nella fattoria del CLEMENTE, dove i componenti dello stesso si separarono: il NASTASI rimase lì; il LEONE salì sulla FIAT 127 del MESSINA, il GANCITANO si mise alla guida della sua Golf e il SINACORI si assunse il compito di portare la FIAT 128 a Mazara del Vallo. Tuttavia, sulla strada che dal Belvedere portava al boschetto Antalbo quest’ultimo veicolo si bloccò definitivamente ed egli montò a bordo della Golf del GANCITANO, il quale lo seguiva. Il collaboratore non provvide personalmente a bruciare l’autovettura, ma MESSINA Francesco o qualcun altro gli disse che era stata incendiata.
Nel pomeriggio apprese che per l’omicidio del LIPARI erano stati arrestati Nitto SANTAPAOLA, Francesco MANGION, Franco ROMEO, Mariano AGATE e Nino RISERBATO. Sapeva che i primi tre non c’entravano e si erano recati a Mazara per raggiungere Trapani e incontrarsi con i MINORE, senza sapere che quel giorno sarebbe stato commesso un omicidio.
Il SINACORI ha concluso dicendo che non conosceva il LIPARI, ma alle precedenti elezioni avevano avuto l’indicazione di votare per lui, che era risultato il primo dei non eletti. Egli, infatti, anche se all’epoca non era affiliato, era già vicino alla “famiglia” e ne riceveva i dettami (cfr. esame del SINACORI all’udienza del 15 aprile 1998, nonché controesame e riesame effettuati il 12 maggio 1999, nei quali ha confermato e specificato quanto affermato nella prima sede).
Antonio PATTI ha riferito che nei primi anni ‘80 fu incaricato da Vincenzo D’AMICO di rubare una macchina a quattro sportelli e che eseguì l’ordine asportando una FIAT 128 bianca a quattro sportelli da via Mario Rapisardi, che è una traversa che si diparte da via XI Maggio sulla destra, poco prima che essa sbocchi in Piazza della Repubblica. L’automobile era in un posteggio, in cui potevano trovare posto una ventina di veicoli, ubicato di fronte a un palazzo con l’ascensore e circa quaranta metri dopo l’albergo Stella e la pasticceria DI GAETANO. Commise il reato sforzando il deflettore dello sportello, penetrando nell’abitacolo e mettendo in moto la vettura con una chiave che serviva per aprire le scatolette di carne Simmenthal.
Il PATTI ha aggiunto che -dopo essere andato a riferire al D’AMICO e al CAPRAROTTA che aveva rubato l’autovettura ed essersi recato con costoro in campagna a prendere una doppietta calibro 12 a canne mozze- andò a riprendere la FIAT 128 che aveva occultato. Quindi i tre uomini si recarono nella fattoria di Pino CLEMENTE, sita nell’agro di Castelvetrano nei pressi dell’ingresso del paese, e consegnarono a costui il veicolo e l’arma, ritornando poi a Marsala.
Il PATTI ha affermato altresì che, pur non essendo stato informato di nulla, aveva capito che il fucile e l’autovettura sarebbero stati usati per uccidere qualcuno, tanto che alcuni giorni dopo, leggendo sul Giornale di Sicilia che era stato assassinato Vito LIPARI, il Sindaco di Castelvetrano, collegò immediatamente i fatti. Ha aggiunto che successivamente, insieme al D’AMICO e al CAPRAROTTA, andò a trovare Mariano AGATE, il quale era stato arrestato insieme a tre Catanesi ed era detenuto nel carcere di Mazara del Vallo con due di loro, mentre il terzo, SANTAPAOLA, era recluso a Marsala, in isolamento. Nonostante fossero stati arrestati per l’assassinio di LIPARI, i Catanesi si professarono estranei al fatto criminoso e dissero che erano venuti nel trapanese per altri motivi.
Il collaboratore ha aggiunto che, pur non sapendo nulla dell’omicidio in esame, riteneva che fossero coinvolti i Castelvetranesi e qualche Mazarese, e in particolare Giovanni LEONE, il quale all’epoca era latitante e si trovava in tutti i luoghi nei quali erano commessi assassinii (cfr. esame del PATTI reso all’udienza del 7 maggio 1998).
Ciò premesso in generale, deve darsi un giudizio pienamente positivo sull’attendibilità di Antonio PATTI e di Vincenzo SINACORI in ordine al delitto in trattazione.
Le loro dichiarazioni confessorie , infatti, da un lato intrinsecamente logiche e coerenti e dall’altro lato supportate da significativi riscontri, appaiono ampiamente idonee a fondare nei confronti degli stessi un giudizio di colpevolezza.
In ordine al primo aspetto, non può non sottolinearsi che i racconti dei due collaboratori (e in particolare, ai fini che ci occupano, quello del SINACORI, non avendo il PATTI fornito un contributo causale apprezzabile, per le ragioni che si specificheranno in seguito) sono estremamente precisi, dettagliati e costanti e sono stati ribaditi nel loro nucleo essenziale anche in sede di controesame, con aggiunta di ulteriori specificazioni là dove richieste dai difensori dei chiamati in correità.
Quanto al secondo profilo, il resoconto degli avvenimenti fornito dal SINACORI ha riportato numerose e importanti conferme di carattere estrinseco, tanto nelle investigazioni effettuate nell’immediatezza del delitto e culminate nel menzionato procedimento a carico dell’AGATE, del SANTAPAOLA, del MANGION e del ROMEO, quanto nelle attività di accertamento a riscontro delle propalazioni dei collaboratori, delegate dal P.M. al dottor LINARES e al Maresciallo SANTOMAURO.
Con riferimento alle affermazioni del PATTI relative al furto dell’autovettura e all’utilizzazione della stessa nell’assassinio del LIPARI, per altro, deve puntualizzarsi subito che le stesse non appaiono idonee a fondare nei confronti del dichiarante un giudizio di penale responsabilità in ordine ai delitti ascrittigli.
Infatti, il Maresciallo SANTOMAURO ha appurato che il 16 agosto 1980 in località Fontanella di Castelvetrano, sita tra Castelvetrano e Campobello di Mazara, venne rinvenuta bruciata l’autovettura FIAT 128 rossa tg. TP-113890, rubata a Marsala l’8 agosto 1980 (cioè pochi giorni prima del delitto, come asserito dal PATTI) a CHIRCO Giacoma. L’autovettura in particolare era stata asportata in zona Cassato, in via Rapisarda, all’interno del parcheggio dell’Hotel Stella (cfr. deposizione resa dal Maresciallo SANTOMAURO all’udienza del 26 maggio 1998 e altresì sentenza della Corte d’Assise di Trapani emessa l’11 giugno 1988).
Orbeene, a giudizio di questa Corte, non è stata raggiunta la piena prova che il veicolo rubato dal PATTI sia quello usato per il delitto in trattazione. Infatti, in primo luogo il collaboratore ha affermato che l’autovettura che egli asportò era di colore bianco e non rosso, come quella su cui viaggiarono gli assassini del LIPARI. Inoltre, e soprattutto, il dichiarante ha ricordato di avere sforzato il deflettore dello sportello, mentre dagli atti processuali è emerso che il marito della signora CHIRCO lasciò l’autovettura con le chiavi inserite, cosicchè certamente il ladro, se anche commise un’effrazione per entrare nell’abitacolo per non essersi accorto che la portiera era aperta, certamente la mise in moto utilizzando le chiavi. Pertanto, deve reputarsi che il veicolo usato per commettere l’omicidio non fu quello rubato dal PATTI.
Il coinvolgimento nell’assassinio del Sindaco di Castelvetrano di CLEMENTE Giuseppe classe 1927 da parte di entrambi i collaboratori, d’altra parte, è plausibile sulla base delle risultanze emerse dagli atti del dibattimento.
Il CLEMENTE, che abitava a Castelvetrano ed è deceduto per malattia, aveva una fattoria in località Belvedere di Castelvetrano, dove allevava bovini e ovini (cfr. deposizione del Maresciallo SANTOMAURO, cit.).
Nella sentenza emessa dal Tribunale di Marsala in data 21 dicembre 1992 e divenuta definitiva il 27 marzo 1995 il CLEMENTE -condannato alla pena di sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso- è stato definito un elemento di spicco della “famiglia” di Castelvetrano, guidata da MESSINA DENARO Francesco, della cui figlia Rosalia (moglie dell’imputato GUTTADAURO) fu padrino di battesimo.
Nella suddetta decisione si è puntualizzato altresì che lo stesso CLEMENTE era socio della società “Enologica Castelseggio”, insieme a MESSINA DENARO Francesco, MAROTTA Antonino, FURNARI Saverio e altri soggetti sospetti mafiosi (cfr. deposizione di Matteo BONANNO nelle udienze del 12, 19 e 26 gennaio 1998 nel processo contro AGATE Giuseppe e altri, celebrato dinnanzi al Tribunale di Marsala).
Alla luce delle suesposte risultanze dibattimentali, a giudizio di questa Corte, può ritenersi pienamente dimostrato che il CLEMENTE, il cui status di “uomo d’onore” è attestato da sentenza irrevocabile, fosse altresì persona di spicco nella cosca di Castelvetrano, particolarmente vicina all’indiscusso capo della stessa, MESSINA DENARO Francesco, di cui era non solo socio in affari, insieme ad altri mafiosi di rango, ma addirittura compare, per averne battezzato la figlia. In quest’ottica, il suo coinvolgimento in un omicidio che fu certamente voluto dai Castelvetranesi, avendo come bersaglio un politico locale che probabilmente era legato allo schieramento avverso a quello dei “corleonesi”, si profila come assolutamente plausibile.
Le dichiarazioni del SINACORI hanno a loro volta riportato numerosi riscontri, in primo luogo con riferimento alla causale del delitto.
Innanzitutto, le sue propalazioni sono compatibili con quelle del PATTI, il quale ha affermato che i Marsalesi portarono nella fattoria del CLEMENTE un fucile calibro 12: in ordine alle armi, infatti, il SINACORI ha affermato che vennero fornite dai Castelvetranesi, come l’autovettura.
Inoltre, con riferimento alla causale del delitto, questo Giudice ritiene di condividere le considerazioni contenute nella più volte citata sentenza della Corte d’Assise di Trapani, nella quale il movente del delitto è stato individuato nella collocazione politica della vittima in uno schieramento all’epoca vicino alla fazione opposta rispetto a quella degli emergenti “corleoesi”.
Nella suddetta decisione, infatti, si è sottolineato come l’ucciso fosse legato sia sotto il profilo politico che personale ai cugini SALVO di Salemi, i quali del resto non negarono mai la circostanza, ammettendo anzi di averne cospicuamente finanziato la campagna elettorale del 1979, nella quale il LIPARI risultò il primo dei non eletti con ben 46.000 preferenze.
Il dott. MESSINEO nella sua deposizione dibattimentale affermò in particolare che la vittima, al fine di incrementare meglio la propria campagna elettorale, si era avvalso dell’appoggio logistico di appartenenti a note famiglie mafiose, quali i BUCCELLATO, i BONVENTRE, i SACCO e gli ALA (fatto, quest’ultimo, confermato altresì da CARUSO Marco, “guardaspalle” armato del LIPARI, il quale ebbe modo di conoscere proprio i BONVENTRE e i BUCCELLATO durante la campagna elettorale in Castellammare del Golfo).
Il LIPARI, pertanto, gestiva con decisa spregiudicatezza la propria ascesa politica, abbondantemente suggellata, a livello locale, dall’accumularsi di cariche di sottogoverno, che gli fornivano indubbi vantaggi sia in termini di consenso che di controllo dell’attività politico-amministrativa: quella di presidente dell’ospedale di Castelvetrano, quella di presidente del consorzio per l’area di sviluppo industriale di Trapani fino al maggio 1980 e di dirigente amministrativo della stesso.
Sotto tale profilo appare significativa la vicenda della gara di appalto indetta per l’esecuzione dei lavori di costruzione della strada di accesso al bacino marmifero di monte Cocuccio, aggiudicata il 26 agosto 1980 alla ditta di PALAZZOLO Salvatore -imprenditore di Castellammare del Golfo legato alle locali famiglie BUCCELLATO e BONVENTRE e cancellato dall’albo dei costruttori in applicazione della legge “Rognoni-La Torre”- andava collocato proprio nel contesto dei legami del LIPARI con persone inserite in contesto mafioso.
Da tutti i citati elementi emerge l’immagine di un uomo politico strettamente legato al gruppo politico mafioso facente capo ai cugini SALVO (a quell’epoca), ai BUCCELLATO, ai BONVENTRE, ecc. e pertanto schierato su posizioni opposte a quelle della fazione degli allora emergenti “corleonesi”.
Pertanto, è pienamente verosimile che -come sostenuto nel rapporto degli inquirenti e nella sentenza della Corte d’Assise di Trapani- il delitto debba collocarsi nel maturando assetto degli interessi in gioco nel trapanese e in modo particolare nel determinarsi concreto di un significativo polo di riferimento attorno alla figura del LIPARI, vivificato e abbondantemente rafforzato dai gruppi di pressione sopra indicati, tali da farne una variabile scarsamente controllabile per la metodologia di comportamento ostentata e per le potenzialità di contrapposizione dimostrate.
Ciò spiega la realizzazione dell’omicidio da parte di un gruppo di fuoco della fazione vincente di “cosa nostra”. L’utilizzazione di uomini di un altro mandamento della provincia (sconosciuti sul luogo del delitto), supportati da alcuni Castelvetranesi per la predisposizione della base logistica e dei mezzi e per dare la “battuta”, d’altronde, è verosimile non solo perché rientra nella prassi operativa dell’organizzazione in parola, ma altresì perché discende da regole di elementare prudenza, che era necessario rispettare soprattutto nel caso di un omicidio “eccellente”, a cui sarebbero certamente seguite indagini particolarmente attente.
Le propalazioni del SINACORI hanno trovato conferma anche con riferimento ai rapporti che egli, a suo dire, intratteneva all’epoca del fatto con Andrea GANCITANO e altri uomini d’onore Mazaresi e Marsalesi e la sua partecipazione agli sbarchi di sigarette di contrabbando sulla costa è stata confermata dall’arresto del collaboratore, avvenuto il 7 marzo a Torretta Granitola. In questa occasione furono bloccati, all’interno di una FIAT 127 tg.TP-200884 D’AMICO Vincenzo, CAPRAROTTA Francesco, MARCECA Vito, PICCIONE Michele, BURZOTTA Diego e SINACORI Vincenzo (cfr. deposizione di Leonardo DE MARTINO all’udienza del 30 gennaio 1997). La vicenda dello sbarco di Torretta Granitola ha dato luogo a una complessa vicenda processuale, che portò alla condanna di tutti gli imputati in primo grado e in appello per molti gravi reati, tra cui detenzione e porto abusivi di pistole e munizioni, violenza privata e minacce aggravate a pescatori per costringerli ad allontanarsi dal luogo in cui doveva avvenire lo sbarco delle sigarette. I prevenuti vennero poi prosciolti nel giudizio di rinvio in seguito ad annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza d’appello sul presupposto che non era stato provato il contributo causale di ciascuno dei soggetti alla realizzazione dei fatti imputati agli stessi e della consapevolezza e volontà da parte di ciascuno alla commissione dei reati (cfr. sentenze emesse il 24 giugno 1986 dal Tribunale di Marsala, l’8 gennaio 1988 dalla Corte d’Appello di Palermo, il 20 dicembre 1988 dalla Corte di Cassazione, il 22 novembre 1989 dalla Corte d’Appello di Palermo, prodotte dal P.M. all’udienza del 21 febbraio 2000).
Il dottor LINARES e il Maresciallo SANTOMAURO hanno riscontrato le propalazioni del SINACORI anche con riferimento ad altri aspetti del racconto dell’omicidio dallo stesso fornito:
a) MESSINA Francesco all’epoca dell’assassinio del LIPARI era intestatario dell’autovettura FIAT 127 tg.TP173187 il 26 aprile 1978 e ceduta il 10 agosto 1983 (cfr. deposizione LINARES, cit);
b) GANCITANO Andrea in quello stesso periodo aveva la disponibilità della Volkswagen Golf tg.TP-200033 intestata a suo fratello Giacomo (cfr. sentenza della Corte d’Assise di Trapani, cit.);
c) nel lasso di tempo in parola CAPRAROTTA Francesco, CLEMENTE Giuseppe, GANCITANO Andrea, MESSINA Francesco, NASTASI Antonino, PATTI Antonio e SINACORI Vincenzo erano liberi, mentre LEONE Giovanni era latitante (cfr. deposizioni SANTOMAURO e LINARES, cit).
Inoltre, la dinamica dell’agguato descritta dal SINACORI è compatibile con le risultanze probatorie emerse dalle più volte citate sentenze della Corte d’Assise di Trapani e della Corte d’Assise d’Appello di Palermo.
Quanto all’orario dell’attentato, SINACORI ha dichiarato che esso fu perpetrato alle ore 8,30-09,00 circa. Il dato è compatibile con le dichiarazioni dei testimoni Leonardo PIPITONE e Tano GENCO hanno collocato l’agguato tra le ore 8,40 e le 9,20 e con il fatto che le forze dell’ordine vennero avvisate alle 9,30.
Il collaboratore ha altresì affermato che l’omicidio avvenne sulla strada Triscina – Castelvetrano, circostanza appurata dai verbalizzanti intervenuti sul luogo del delitto e confermata nelle menzionate decisioni. Le caratteristiche del luogo in cui venne eseguito il delitto, inoltre, sono compatibili con le affermazioni del collaboratore.
Secondo il racconto del SINACORI, i sicari erano a bordo della FIAT 128 rossa che era stata rubata a quanto gli confidarono LEONE e GANCITANO dai Marsalesi. Il dato è stato confermato, oltre che dal PATTI, anche dalla circostanza che un’autovettura di quel tipo e colore rubata a Marsala fu rinvenuta bruciata il 16 agosto 1980 nella contrada Giacosia-Fontanelle di Castelvetrano;
In ordine al post factum, poi, il SINACORI ha affermato che egli si assunse il compito di portare la FIAT 128 a Mazara, ma l’auto, il cui motore si era già quasi spento durante l’agguato, si fermò definitivamente sulla strada che dal Belvedere portava al boschetto Antalbo e se ne andò abbandonandola, venendo a sapere successivamente dal MESSINA che era stata incendiata. Il luogo in cui l’autovettura fu rinvenuta bruciata -la contrada Giacosia-Fontanelle di Castelvetrano- è del tutto compatibile con il Boschetto Antalbo indicato dal collaboratore come il posto in cui fu abbandonata la FIAT 128, come anche i tempi dell’avvistamento dell’autovettura da parte dei testimoni BELLAFIORE Pietro, PARRINO Gaspare, LAZIO Giuseppe e MESSINA Vincenzo. Questi ultimi, infatti, riferirono di averla vista nella tarda mattinata del 13 agosto e di avere notato che era stata bruciata la sera dello stesso giorno (cfr. sentenza della Corte d’Assise di trapani, cit.).
Infine, la versione del SINACORI non è stata smentita dalle risultanze degli accertamenti svolti nell’immediatezza del delitto neppure con riferimento alla dinamica dell’omicidio in senso stretto.
Egli, infatti, ha sostenuto che il LEONE e il GANCITANO spararono alla volta del LIPARI i primi colpi, utilizzando rispettivamente un fucile a canne mozze e una rivoltella calibro 38, quando la loro autovettura si affiancò a quella della vittima e che il LEONE scese dall’autovettura e con un revolver calibro 38 esplose il colpo di grazia all’obiettivo, quando la Golf di quest’ultimo (che ne aveva perso il controllo) si fermò in corrispondenza di una cunetta.
La narrazione del SINACORI è compatibile con i dati probatori emersi sotto vari profili:
a) l’autovettura del LIPARI venne rinvenuta con la chiave inserita nel quadro di accensione e la terza marcia innestata, fatto da cui può inferirsi che il veicolo arrestò improvvisamente il suo movimento;
b) la Volkswagen Golf presentava i vetri delle due portiere di sinistra frantumati e quello della portiera anteriore destra in parte squarciato e in parte lesionato, nonché fori di entrata di proiettili sulla fiancata di sinistra e corrispondenti fori di uscita sulla fiancata anteriore destra e sulla parte destra del parabrezza; l’obiettivo, inoltre, risultava attinto da una rosata di proiettili al fianco sinistro, oltre che da sei colpi di rivoltella calibro 38, alcuni dei quali sparati a bruciapelo. Da questi dati può desumersi innanzitutto che i sicari utilizzarono un fucile calibro 12 caricato a pallettoni e almeno un revolver (anche se il numero dei proiettili rinvenuti induce a ipotizzare che ne usarono due). Inoltre è compatibile con i dati emersi in dibattimento che in effetti nei confronti del Sindaco di Castelvetrano furono esplosi nella prima fase dell’agguato sia un colpo di fucile caricato a pallettoni (che ferì il bersaglio), sia alcuni proiettili di rivoltella calibro 38 (che invece in parte lo mancarono). Infatti, la carrozzeria della Golf del LIPARI fu danneggiata proprio da pallottole di revolver di tale calibro e da questa imprecisione di tiro, come correttamente osservato dai Giudici della Corte d’Assise di Trapani, può logicamente inferirsi che i colpi in parola siano stati esplosi da una carta distanza e prima di quelli di grazia. Ne discende che nella fase iniziale dell’agguato è pienamente verosimile che abbiano sparato due killer, l’uno con il fucile e l’altro con la pistola, atteso che sarebbe illogico che un solo sicario abbia usato due diverse armi prima di scendere dalla FIAT 128 e finire l’obiettivo con il colpo di grazia. Infine, è coerente con il racconto del SINACORI il fatto che la vittima fu attinta anche da colpi di grazia al capo, sparati verosimilmente dopo che la Volkswagen Golf, ormai senza controllo, si fu fermata.
c) il teste Tano GENCO dichiarò di non avere assistito all’agguato, ma di avere udito dapprima alcuni colpi, che gli parvero di fucile, poi urla, quindi stridore di freni e infine altri spari che gli sembrarono di tonalità diversa rispetto ai primi. La ricostruzione “fonica” dell’agguato effettuata dal suddetto testimone è complessivamente compatibile con quella fatta dal SINACORI. L’unico punto di contrasto concerne il fatto che al GENCO inizialmente sembrò di sentire soltanto colpi di fucile; la contraddizione, per altro, è ben spiegabile con una percezione auditiva parziale -focalizzata sul suono più noto al soggetto o comunque dominante- da parte del testimone, dovuta alla contestualità temporale dell’esplosione dei colpi. Per il resto, le due versioni sono coerenti, e in particolare lo stridore di freni deve verosimilmente attribuirsi a una brusca manovra compiuta dal SINACORI, pilota della FIAT 128, non appena si accorse che la Golf del LIPARI si era fermata.
d) il dato emerso dall’autospia, secondo cui il LIPARI decedette istantaneamente per le lesioni cardio – polmonari provocate dal colpo di fucile caricato a pallettoni, è ancora una volta coerente con l’affermazione del SINACORI che il LIPARI perse immediatamente -senza riprenderlo successivamente- il controllo della macchina che andò a fermarsi vicino a una cunetta, postulando quindi che fosse quanto meno stato ferito gravemente.
Né appaiono incompatibili con il resoconto fornito dal SINACORI le tracce di frenata di due autovetture diverse lunghe circa quarantasei metri, presenti sul manto stradale, pressappoco cinquanta metri prima del luogo in cui la Golf del LIPARI arrestò la sua corsa. Da un lato, infatti, è probabile che le tracce in parola non siano inerenti all’omicidio in esame, come è stato sostenuto con un’ampia e congrua motivazione, che questo Giudice condivide, dalla Corte d’Assise di Trapani nella più volte citata decisione. Dall’altro lato, poi, anche a prescindere da tale evenienza, non è sicuramente inverosimile che autovetture che procedevano a velocità certamente non moderatissima abbiano lasciato sull’asfalto segni di tal fatta, dopo che il conducente di una si esse, colpito a morte, perse il controllo del mezzo e quello della FIAT 128 fu costretto ad adeguare le sue manovre a quelle dell’alto veicolo.
A fronte di tanti e così significativi riscontri, la veridicità delle dichiarazioni del SINACORI non può essere inficiata dalle parziali differenze con il racconto fornito da CARUSO Elisabetta, la quale per altro nel dibattimento dinnanzi alla Corte d’Assise ritrattò tutto quanto detto in fase istruttoria, affermando che le sue parole erano state frutto della sua fantasia, alimentata dalla lettura dei giornali e da pressioni psicologiche e suggerimenti da parte degli inquirenti. Orbene, anche prescindendo dalla motivazione fornita dalla allora giovanissima testimone per la ritrattazione, la sua descrizione dell’agguato -per altro compatibile con quella del collaboratore con riferimento al punto in cui la FIAT 128 dei sicari era in attesa dell’arrivo dell’obiettivo e al colore e al tipo dell’autovettura stessa- deve essere giudicata inattendibile in ordine alla dinamica dell’esecuzione in senso stretto.
Infatti i Giudici della Corte d’Assise di Trapani, per armonizzare la descrizione della giovanissima testimone con le risultanze del sopralluogo e con le dichiarazioni del GENCO, furono costretti a ipotizzare che il killer avesse esploso il colpo di fucile durante la manovra di arretramento della FIAT 128 (circostanza per altro non affermata affatto dalla propalante, come evidenziato nella sentenza di secondo grado) e non fosse sceso subito dalla macchina. Tuttavia, una tale ricostruzione dei fatti appare sostanzialmente illogica, atteso che sarebbe stato incongruo che i killer costringessero l’autovettura della vittima a fermarsi, per poi fare marcia indietro per collocarsi a fianco della stessa, consentendo all’obiettivo di darsi alla fuga e contemporaneamente vanificando l’effetto sorpresa, essenziale in un tipo di agguato di tal genere, per di più paventato dal LIPARI.
Né appaiono idonee a inficiare il resoconto del SINACORI le dichiarazioni di MESSINA Vita, confidente di PARISI Liliana (madre della CARUSO) e fonte confidenziale del Maresciallo BRUNO, atteso che la fonte primaria ha sempre negato di avere rivelato tali particolari all’amica. Del resto, una tale versione dei fatti, in sé molto generica, confligge radicalmente anche con quella fornita da Elisabetta CARUSO, la quale non ha fatto alcun cenno alla seconda macchina.
Infine, non può essere condiviso l’argomento difensivo secondo cui il SINACORI non avrebbe partecipato all’agguato, ma avrebbe riferito notizie apprese dalla lettura dei quotidiani. Questa ricostruzione, infatti, non appare verosimile in quanto -anche ammettendo che il collaboratore abbia letto le cronache giornalistiche sul delitto, fatto verosimile data l’importanza dello stesso e l’arresto dell’AGATE- non è credibile che a distanza di oltre quindici anni egli conservi un ricordo tanto preciso di un episodio in cui non era stato personalmente coinvolto.
Alla luce delle suesposte considerazioni, le dichiarazioni confessorie rese da Vincenzo SINACORI in ordine all’omicidio premeditato di Vito LIPARI debbono essere giudicate pienamente attendibili sulla base dei criteri di valutazione indicati nell’Introduzione al Capitolo I e lo stesso deve essere dichiarato responsabile dei fatti delittuosi suddetti.
Non può essere giudicata integrata l’aggravante prevista dall’art.112 n.1 c.p., in quanto, come meglio si preciserà in seguito, non è stata raggiunta la piena prova che l’assassinio del Sindaco di Castelvetrano sia stato perpetrato da un numero di persone superiore a cinque, atteso che può essere dimostrato pienamente provato soltanto il coinvolgimento dei due collaboratori
Deve invece essere giudicata sussistente l’aggravante della premeditazione, considerato che Vincenzo SINACORI venne messo a parte del progetto omicidiario o comunque ne intuì l’esistenza con un certo anticipo rispetto alla realizzazione del medesimo. Pertanto, nella fattispecie concreta in esame sono stati integrati per il prevenuto in parola i due presupposti necessari per la configurazione dell’aggravante in parola: un apprezzabile lasso di tempo tra la risoluzione e l’azione, sufficiente a fare riflettere sulla decisione presa e a consentire il recesso dal proposito criminoso e l’esistenza nell’animo dell’imputato, senza soluzione di continuità, una risoluzione ferrea e irrevocabile, chiusa a ogni motivo di resipiscenza.
Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere al prevenuto, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
Antonio PATTI deve invece essere assolto dal fatto delittuoso ascrittogli, in quanto, non essendo stato dimostrato che l’autovettura che egli rubò sia quella effettivamente usata per l’omicidio, non vi è prova che abbia fornito un contributo causale alla commissione del reato.
Le posizioni degli altri imputati, GANCITANO Andrea, LEONE Giovanni e NASTASI Antonino debbono essere invece esaminate sulla base dei criteri generali di valutazione delle chiamate in correità adottati da questa Corte. Per ragioni di chiarezza espositiva, appare opportuno analizzarle singolarmente e riportare sinteticamente le dichiarazioni del SINACORI a loro carico.
A detta di quest’ultimo, il GANCITANO fu colui che lo coinvolse nell’assassinio e che, nel corso del viaggio da Mazara del Vallo a Castelvetrano, gli rivelò il motivo della trasferta; fu, insieme al LEONE, l’esecutore materiale del delitto; rientrò a Mazara insieme al SINACORI.
Il NASTASI ebbe il compito di controllare che la persona a bordo della Volkswagen Golf il cui arrivo era stato segnalato al gruppo di fuoco fosse realmente l’obiettivo.
Il LEONE è stato indicato come l’esecutore materiale del crimine, insieme al GANCITANO e come colui che sparò alla vittima il colpo di grazia.
Dagli atti processuali è emerso, come si è avuto già modo di sottolineare, che il GANCITANO era proprietario di una Volkswagen Golf e che i tre imputati erano liberi al momento dell’omicidio.
Inoltre, il SINACORI ha confermato che il BURZOTTA, suo fraterno amico, in quell’epoca gravitava già nell’orbita della “famiglia” mazarese, pur non essendo formalmente affiliato, mentre il GANCITANO era già “uomo d’onore”. Il LEONE era addirittura capo-decina e in questa veste fu tra gli organizzatori dell’azione militare della fazione legata ai “corleonesi” (cfr. citato esame del SINACORI all’udienza del 15 aprile 1998).
Non può essere considerato, invece, un riscontro l’affermazione del PATTI, puramente ipotetica e frutto di sua una deduzione, che nell’assassinio del LIPARI fosse coinvolto il LEONE, che in quel periodo era sempre sul luogo in cui venivano commessi crimini.
Anche la circostanza che il LEONE -in quanto capo decina della cosca di Mazara del Vallo- fosse spesso in prima linea nell’organizzazione e nell’esecuzione degli omicidi all’epoca della guerra di mafia dei primi anni ’80 (cfr. più volte citato esame del SINACORI) non è un elemento di per sé sufficiente a dimostrarne inoppugnabilmente, in assenza di ulteriori elementi di riscontro, il coinvolgimento nel fatto delittuoso in trattazione.
Orbene, a giudizio di questa Corte, gli elementi di riscontro acquisiti nell’ambito del dibattimento sono idonei a dimostrare la generale credibilità del SINACORI in ordine all’omicidio LIPARI e ad attestare la sua conoscenza, già a quell’epoca, quanto meno con il GANCITANO e il LEONE, ma non possono, in assenza di specifici riscontri individualizzanti essere ritenuti sufficienti per un’affermazione di penale responsabilità degli imputati in esame.
Alla luce delle sopra esposte considerazioni, gli imputati in parola debbono essere assolti dai fatti delittuosi in parola per non essere emersa la piena prova che li abbiano commessi.
OMICIDIO TADDEO FRANCESCO
L’omicidio di Francesco TADDEO fu perpetrato la sera del 25 agosto 1981 nella piazza di Tre Fontane. La pattuglia della Stazione di Campobello di Mazara che fu inviata sul luogo del delitto dopo che, alle ore 22,00 o 22,30 circa, il fatto era stato segnalato alla Centrale Operativa di Castelvetrano accertò che contestualmente era stato ferito Antonino GRECO, appuntato dell’Arma in congedo (cfr. deposizione del Maresciallo SANTOMAURO, resa all’udienza del 26 maggio 1998).
Il cadavere fu rinvenuto in posizione supina e a breve distanza dallo stesso vi erano due ogive, di cui una leggermente deformata, di calibro 38 e del tipo usato per i revolver di marca “Smith & Wesson” (cfr. verbali di ispezione giudiziale e di sopralluogo effettuati rispettivamente in data 26 e 27 agosto 1981).
Nel verbale di descrizione e sezione del cadavere fu evidenziato che il TADDEO era stato attinto da sei proiettili, dei quali due erano penetrati nel torace (nella linea parasternale sinistra a cinque centimetri dal giugulo, e lungo la linea ascellare media a sei centimetri dal cavo ascellare) e gli altri nel capo (alla costa del sopracciglio sinistro, all’angolo esterno dell’occhio sinistro, sopra l’orecchio sinistro, allo zigomo destro).
Antonino GRECO, che era nella piazza di Tre Fontane al momento dell’agguato, venne colpito da due proiettili nella parete addominale, riportando una duplice ferita all’addome con perforazioni in più parti dell’ileo. Venne ricoverato nell’Ospedale di Mazara del Vallo, dove fu sottoposto a intervento chirurgico e dimesso, pienamente ristabilito, l’8 settembre 1981. Le lesioni guarirono nel termine di quaranta giorni, compreso il periodo di ripresa funzionale (cfr. relazione di perizia medico legale datata 7 maggio 1983, nonché referto medico dell’ospedale di Mazara del Vallo datato 25 agosto 1981, doc. 24 prodotto dal P.M.).
TADDEO Francesco era nato a Campobello di Mazara il 9 ottobre 1940. Era incensurato e all’epoca in cui fu ucciso era diffidato di p.s.. Non aveva precedenti penali o di polizia, a parte la diffida, ed era un assiduo frequentatore di bische clandestine (cfr. deposizione del Maresciallo SANTOMAURO all’udienza del 21 gennaio 1997 nel processo a carico di CUTTONE Antonino + 8 celebrato davanti al Tribunale di Marsala, nonché deposizione del 26 maggio 1998, cit.).
Gli investigatori -come si è già precisato nell’Introduzione al presente capitolo, alla quale si rimanda- collegarono il delitto in esame ad altri commessi nello stesso periodo nella Valle del Belice, e in particolare a quelli di cugini ZUMMO a Gibellina, di Giuseppe PALMERI e di Pietro VACCARA a Santa Ninfa, di Vito DI PRIMA, di Antonio FONTANA a Castelvetrano, di Giuseppe ALA a Tre Fontane e di Andrea ALA a Campobello di Mazara. Individuarono la causale dei suddetti omicidi in uno scontro tra gli uomini legati alla mafia tradizionale e quelli facenti parte di gruppi emergenti, interessati al controllo del territorio, e soprattutto delle coste, per potere esercitare il traffico di sostanze stupefacenti (cfr. deposizione del Cap. Antonio D’ANDREA all’udienza del 1 aprile 1998).
Tuttavia, le indagini espletate in tale direzione, che pure era sostanzialmente corretta, non consentirono di individuare i responsabili del fatto criminoso in trattazione.
Sulla base delle dichiarazioni rese da Antonio PATTI, lo stesso è stato rinviato a giudizio per avere cagionato con premeditazione la morte di Francesco TADDEO e lesioni personali, per errore nell’uso delle armi, ad Antonino GRECO, in concorso con AGATE Mariano, BASTONE Giovanni, BRUNO Calcedonio, BURZOTTA Diego e LEONE Giovanni, oltre che con TITONE Antonino, deceduto, nonché per avere illegittimamente detenuto e portato in luogo pubblico, al fine di commettere l’omicidio in parola, revolver di calibro 38.
Nel presente giudizio si sono ritualmente costituiti parte civile la Provincia di Trapani e il Comune di Palermo.
Antonio PATTI ha ammesso di avere partecipato all’omicidio in esame, che fu perpetrato a Tre Fontane, una località marittima vicina a Campobello di Mazara.
Il collaboratore ha affermato che su ordine del rappresentante della famiglia di Marsala, Vincenzo D’AMICO, egli e suo cognato TITONE Antonino andarono a Mazara del Vallo, nella cantina di Mariano AGATE, dove trovarono l’AGATE stesso, Giovanni BASTONE, Calcedonio BRUNO, Diego BURZOTTA e un altro giovane, che poteva essere Vincenzo SINACORI o Andrea GANCITANO. Quando arrivarono, l’AGATE disse loro che dovevano uccidere una persona a Tre Fontane. Il PATTI ha precisato che egli non conosceva la vittima, ma che forse il TITONE sapeva chi fosse. Il collaboratore non è stato in grado neppure di riferire perchè il TADDEO fu ucciso, in quanto non glielo dissero ed egli non fece domande poiché chiedere informazioni non date spontaneamente era rischioso.
L’azione, a detta del PATTI, fu organizzata in ogni particolare dai Mazaresi, anche se gli esecutori materiali furono egli e il TITONE. La decisione di servirsi di sicari di un altro paese fu dovuta al fatto che essi potevano passare inosservati a Tre Fontane, a differenza dei Mazaresi, la cui città era vicinissima alla località balneare e pertanto sarebbero stati facilmente riconosciuti.
Il collaboratore ha precisato altresì che usarono gli stessi revolver di calibro 38 di cui abitualmente si servivano per commettere gli omicidi in quel periodo, poiché solo nel 1984 Mariano AGATE acquistò nuove pistole.
Tutti i presenti all’incontro nella cantina, ad eccezione dell’AGATE, andarono a Tre Fontane. Il PATTI si mise alla guida di un “vespino” 50 elaborato come 125 con a bordo il TITONE. Il BASTONE, il BRUNO, il BURZOTTA e il quarto uomo presente, che poteva essere -come si è detto- il SINACORI o il GANCITANO, li seguirono come appoggio, utilizzando le autovetture dei primi, rispettivamente una FIAT Ritmo 85 di colore marrone scuro e una Renault 4 rossa.
Il collaboratore ha aggiunto che il gruppo di fuoco raggiunse la piazza di Tre Fontane, dove già si trovava Giovanni LEONE, il quale trascorreva la latitanza presso un uomo d’onore di Campobello, PASSANANTE Alfonso. Il collaboratore sapeva che il LEONE in quel periodo era nascosto da quest’ultimo “uomo d’onore”, ma non era a conoscenza del fatto che sarebbe stato presente sul luogo dell’omicidio, in quanto il ruolo che gli era stato assegnato era solo quello di guidare la vespa, poichè era molto abile. Ha per altro aggiunto che era invece possibile che il TITONE fosse stato informato della presenza del LEONE, poiché nell’esecuzione dell’agguato sapeva esattamente cosa doveva fare.
A un certo punto il LEONE fece un cenno al TITONE, indicandogli una persona, che stava chiacchierando con altri tre o quattro uomini. Suo cognato, ricevuta la segnalazione, si avvicinò subito al gruppetto, ma il capo decina della cosca di Mazara del Vallo gli fece cenno con la mano di fermarsi, dato che aveva visto avvicinarsi una camionetta dei Carabinieri. Quando quest’ultimo veicolo si fu allontanato, il LEONE diede nuovamente il via al TITONE, il quale si avvicinò all’obiettivo e gli sparò due o tre colpi in rapida successione. L’uomo cadde a terra, il killer si allontanò e il PATTI, che nel frattempo era sceso dal “vespino” e se ne era allontanato di circa due metri, esplose all’indirizzo della vittima uno o due spari come colpo di grazia. Dopo avere eseguito l’omicidio, i sicari se ne andarono a bordo del motociclo e il PATTI -seguendo il consiglio che gli aveva dato l’AGATE prima che partissero dalla sua cantina- lanciò un grido, per aumentare ulteriormente il panico tra la gente, ottenendo pienamente il risultato.
Sulla strada del ritorno a Mazara, i due esecutori materiali consegnarono il “vespino” e le armi che avevano sparato a Gaspare LOMBARDO, “uomo d’onore” di Campobello di Mazara, e salirono su una delle autovetture di appoggio, tenendo con loro, come sempre facevano, le pistole che non erano state utilizzate, poichè, essendo esse “pulite”, non c’era pericolo. Dopo alcuni giorni i Campobellesi riconsegnarono loro la vespa e le armi.
Dopo essersi liberati delle pistole usate per il delitto, il PATTI e il TITONE si divisero: il primo fu accompagnato dal BASTONE e dal BURZOTTA a Mazara e poi a Marsala, mentre il secondo se ne andò con Calcedonio BRUNO, con il quale aveva un ottimo rapporto.
Il collaboratore ha concluso il suo racconto dicendo che il giorno dopo lesse su un quotidiano che nell’azione era stato ferito un carabiniere o un ex carabiniere, il quale era stato colpito da un proiettile poichè si trovava di fronte all’ucciso (cfr. esame PATTI all’udienza del 7 maggio 1998).
In sede di controesame, il collaboratore ha sostanzialmente confermato le precedenti dichiarazioni, ad eccezione di alcuni particolari marginali. In particolare, ha affermato che:
– i due sicari portarono il “vespino” da Marsala, mentre nell’interrogatorio del 28 giugno 1995 sostenne che quando giunsero a Tre Fontane, vi avevano trovato il mezzo già preparato (il collaboratore, a tale proposito, ha chiarito che in quell’occasione aveva inteso riferirsi alla base e non al motociclo);
– dopo l’esecuzione lasciarono il “vespino” in una casa malandata in Tre Fontane, mentre in sede di esame dichiarò che lo avevano consegnato, insieme alle armi utilizzate, a Gaspare LOMBARDO (versione per altro non incompatibile con la prima) e nell’interrogatorio del 28 giugno 1995 assunse che i sicari erano risaliti sul “vespino” e si erano allontanati ripercorrendo la strada dalla quale erano arrivati, giungendo alla cantina, dove avevano trovato i Mazaresi;
– l’azione fu interrotta dal segnale del LEONE, il quale aveva visto avvicinarsi una camionetta dei Carabinieri, mentre nell’interrogatorio del 28 giugno 1995 non aveva menzionato l’episodio;
– all’epoca dell’omicidio sapeva che il LEONE era “uomo d’onore”, mentre nel più volte menzionato interrogatorio del 28 giugno 1995 aveva assunto di essere venuto a conoscenza della circostanza successivamente (cfr. controesame del PATTI reso nelle udienze del 12 e 13 maggio 1999).
Pietro BONO, pur non avendo partecipato all’omicidio ha riferito alcune notizie relative allo stesso, confermando sotto certi profili le dichiarazioni del PATTI.
Ha affermato che conosceva il TADDEO, il quale era un suo compaesano, aggiungendo che faceva parte -con Silvestro MESSINA, Nicolò MESSINA di Mazara del Vallo, soprannominato “Cola Nasca”, Pietro INGOGLIA- della cosiddetta “banda VANNUTELLI” di Mazara del Vallo, che era mal tollerata dai Campobellesi, ma, a quanto sentì dire, era protetta da ALA Giuseppe, detto “Pino il Grosso”.
Il collaboratore ha aggiunto che lo SPEZIA e il PASSANANTE gli dissero che il TADDEO conosceva fatti che lo avrebbero portato alla morte. In effetti, attentarono alla sua vita varie volte, finchè non riuscirono ad ammazzarlo. L’anno in cui la vittima fu uccisa, l’AGATE gli disse che LEONE Giovanni era a Tre Fontane nel mese di agosto proprio per curare l’eliminazione del TADDEO e lo invitò a mettersi a disposizione del suddetto “uomo d’onore”, se avesse avuto bisogno. In effetti il BONO quell’estate o quella dell’anno successivo incontrò il LEONE per ben due volte a Tre Fontane, una volta in piazza e una volta sulla strada, in motocicletta. (cfr. esame e controesame del BONO resi rispettivamente alle udienze del 15 aprile 1998 e del 12 maggio 1999).
Nel corso dell’istruttoria dibattimentale è stato escusso anche GRECO Antonino, appuntato dei Carabinieri che aveva prestato servizio nella Sezione di P.G. della Procura della Repubblica di Marsala e che si era congedato circa due mesi prima del fatto, ferito nell’agguato al TADDEO.
Il testimone ha riferito che la sera dell’omicidio egli si era recato in piazza per cercare un certo INGIANNI e riferirgli che la tassa relativa al porto d’armi era aumentata di £.75.000. Nella piazza di Tre Fontane c’era molta gente ed egli incontrò il TADDEO, il quale gli indicò il fratello della persona che cercava. Dopo questo dialogo, i due uomini si separarono e il testimone mentre stava parlando con quest’ultimo udì alcune detonazioni di pistola. Al terzo colpo si voltò e sentì un intenso dolore, come se fosse stato colpito da un calcio nella parte sinistra dello stomaco. Infilò istintivamente le mani in tasca alla ricerca della pistola, senza trovarla, dato che non l’aveva più da quando si era congedato. Poco dopo gli si avvicinò un suo amico, a cui egli chiese di portarlo in ospedale. Il testimone ha aggiunto che uno dei proiettili, che lo aveva colpito nella parte sinistra dello stomaco, era uscito da quella destra.
Il GRECO ha specificato che quando egli fu colpito, il TADDEO era a circa venticinque metri di distanza da lui, cosicchè non potè vederlo: seppe della sua morte otto giorni dopo in ospedale.
Quanto alla dinamica del delitto, in dibattimento il testimone è stato comprensibilmente generico, dato il lungo lasso di tempo trascorso. Tuttavia, escusso dal Pretore di Mazara del Vallo in data 27 agosto 1981 dichiarò che quando si era voltato nella direzione della provenienza dei colpi, aveva visto, a circa due metri dal TADDEO, di fronte a lui, due giovani, dei quali uno era alto m.1,80 con capelli biondi, ricci, radi, lunghi e tagliati a caschetto e l’altro -che impugnava una pistola- era un poco più basso del primo con i capelli chiari, lisci e portati all’indietro; entrambi indossavano un giubbotto di colore beige e avevano circa ventiquattro o venticinque anni ed erano di costituzione regolare. Il GRECO aggiunse che appena era stato attinto dal colpo si era inginocchiato per evitare di essere colpito da altri proiettili e in quel momento aveva visto i due giovani allontanarsi a bordo di un vespone bianco. Dalle contestazioni rivoltegli dalle parti è emerso altresì che quando fu nuovamente escusso in data 8 settembre 1981 dal sostituto procuratore confermò sostanzialmente le precedenti dichiarazioni, aggiungendo che aveva sentito le detonazioni subito dopo avere finito di parlare con INGIANNI Giuseppe e che, voltatosi di scatto dopo avere sentito dolore, vide due giovani che si davano alla fuga a bordo di uno scooter. Ribadì che il più basso impugnava una pistola, aveva i capelli di castano chiaro e indossava una giacca bianca al di sotto della quale portava un gilet di tela blu e gli parve che avesse la faccia truccata; il secondo aveva i capelli biondi, era alto circa m.1,80, era magro e indossava indumenti di colore bianco (cfr. deposizione del GRECO all’udienza del 1 aprile 1998 e interrogatorio reso dallo stesso al Pretore di Mazara del Vallo in data 27 agosto 1981, prodotto all’udienza del 17 gennaio 2000).
Ciò premesso in generale, e passando alla disamina delle posizioni processuali dei singoli imputati, non possono esservi dubbi sulla penale responsabilità di Antonio PATTI in ordine ai delitti ascrittigli.
Infatti, le dichiarazioni confessorie rese dallo stesso, da un lato intrinsecamente logiche e coerenti e dall’altro lato supportate da significativi riscontri, appaiono ampiamente idonee a fondare nei confronti del propalante un giudizio di colpevolezza.
In ordine al primo aspetto, non può non sottolinearsi che il racconto del collaboratore è estremamente preciso, dettagliato e costante, essendo stato ribadito anche in sede di controesame, pur se con alcune discrasie di modestissima rilevanza.
Sotto il secondo profilo, deve innanzitutto osservarsi che le dichiarazioni del PATTI hanno trovato significativi, anche se necessariamente parziali riscontri da parte del BONO, il quale non fu coinvolto nell’esecuzione dell’omicidio, ma ebbe solo il compito di “mettersi a disposizione” del LEONE, qualora costui glielo avesse chiesto.
Entrambi i collaboratori, infatti, hanno affermato che nell’omicidio TADDEO ebbero un ruolo fondamentale i Mazaresi, e in particolare l’indiscusso e carismatico capo mandamento, Mariano AGATE, il quale decise di affidare ai Marsalesi il compito di eseguire materialmente il delitto e ordinò personalmente al BONO di mettersi a disposizione del LEONE, qualora costui gli chiedesse aiuto.
Sebbene il PATTI non abbia saputo riferire alcunchè sulla causale del delitto e il BONO sia stato molto generico, il sicuro coinvolgimento nel fatto di sangue di Mariano AGATE e di sicari marsalesi consente di imputare senza dubbio l’omicidio a “cosa nostra”. Del resto, la “banda VANNUTELLI”, nella quale il TADDEO a detta del BONO e della FILIPPELLO era inserito venne sterminata dalla mafia, verosimilmente in quanto non era ligia alle regole imposte dall’organizzazione e, forse proprio per questo motivo, era vicina alla fazione campobellese allora guidata da ALA Giuseppe.
Non può essere invece condivisa la lettura alternativa dell’omicidio in parola propugnata dalla difesa. L’Avv. Oddo, in particolare, ha valorizzato la pista inizialmente seguita (senza esito alcuno) dagli inquirenti, secondo cui la morte del TADDEO sarebbe stato da addebitare a TERNASCHI Piero, detto “Tommy”. Quest’ultimo, infatti, alcuni giorni prima, a causa del suo comportamento con ragazze locali, aveva avuto un grave diverbio con PANARELLO Giovanni, nipote del TADDEO, culminato con il ferimento con uno stiletto del giovane Campobellese da parte dell’avversario. A seguito dello scontro, il TADDEO cercò il TERNASCHI e in particolare chiese di lui ad un amico, Giuseppe CAMMISA, parlando con il quale minacciò sostanzialmente il ragazzo lombardo di morte facendo con la mano il segno di premere il grilletto (cfr. deposizione del colonnello D’ANDREA all’udienza del 16 dicembre 1999).
Come si è già sottolineato, l’ipotesi investigativa delineata, avanzata nel rapporto giudiziario del 29 agosto 1981 (prodotto dalla difesa all’udienza del 17 gennaio 2000 con il consenso delle altre parti), non ha avuto alcun esito, essendo basata su indizi assai labili, quali la lite sopra indicata e il falso alibi -per altro immediatamente smascherato in seguito alle ammissioni della ragazza- che il TERNASCHI aveva imposto a Piera PILATO di fornirgli (cfr. verbale di s.i.t. rese dalla donna ai Carabinieri di Campobello di Mazara in data 27 agosto 1981). Al contrario, come si vedrà, le dichiarazioni confessorie ed eteroaccusatorie del PATTI sono state confermate da significativi elementi che consentono di affermare con certezza che egli prese parte all’omicidio del TADDEO su ordine di Mariano AGATE.
Le dichiarazioni del collaboratore sono inoltre logicamente verosimili anche sotto altri profili. In particolare, l’identità dei soggetti coinvolti nel delitto secondo il racconto del PATTI i ruoli che essi avrebbero avuto appaiono assolutamente compatibili con l’organigramma di “cosa nostra” nel mandamento di Mazara del Vallo all’inizio degli anni ’80.
Infatti -a parte la già precisata posizione dell’AGATE, sulla quale per altro ci si soffermerà ulteriormente nella scheda dedicata specificamente al medesimo imputato- il coinvolgimento di killer di Marsala (“famiglia” inserita nel mandamento di Mazara del Vallo) per evitare che qualcuno potesse eventualmente riconoscerli o che l’obiettivo si insospettisse è un espediente non soltanto logicamente verosimile, ma altresì notoriamente usato spesse volte (per citare soltanto alcuni esempi, in entrambe le guerre di mafia combattute ad Alcamo negli anni ’80 vennero utilizzati a tal fine sicari dei mandamenti di Mazara o di San Giuseppe Iato e lo stesso fu fatto per gli omicidi di Vito LIPARI e Gaetano D’AMICO).
Nel caso in esame, del resto, la “famiglia” di Marsala poteva annoverare tra i suoi esponenti il PATTI e il TITONE, due sicari che già allora erano noti per la loro fredda spietatezza e abilità. Pertanto, anche sotto questo profilo appare pienamente credibile che il D’AMICO (il quale nella sua qualità di rappresentante della cosca a cui i due sicari erano affiliati era il naturale tramite per la loro utilizzazione in un territorio esterno a quello di competenza della suddetta articolazione territoriale di “cosa nostra”) abbia prescelto proprio i due cognati per la commissione dell’omicidio del TADDEO.
Anche la riferita presenza con funzioni di appoggio -e pertanto più defilate e tali da non attrarre l’attenzione- di altri “uomini d’onore” del mandamento di Mazara del Vallo è conforme alle modalità usualmente seguite dalla mafia, atteso che membri della cosca direttamente interessata all’omicidio da commettere sono sempre presenti, per fornire il necessario supporto logistico ai sicari venuti da altre zone.
Le dichiarazioni del PATTI hanno trovato ulteriori significative conferme, oltre che negli atti irripetibili presenti nel fascicolo per il dibattimento, nella deposizione, più volte menzionata, del Maresciallo SANTOMAURO, in ordine ai seguenti punti:
1) a detta del collaboratore, l’incontro tra i componenti del gruppo di fuoco avvenne a Mazara del Vallo nella cantina di Mariano AGATE.
Il Maresciallo SANTOMAURO ha affermato che all’epoca il predetto imputato aveva una cantina vinicola nel suo paese e Vincenzo SINACORI ha confermato che, prima dell’arresto del suo rappresentante, avvenuto il 1 maggio 1982, il luogo di incontro della cosca mazarese era la cantina in parola (cfr. deposizione SANTOMAURO, cit. ed esame del SINACORI reso all’udienza del6 maggio 1998).
2) il PATTI ha riferito che la prima azione dei sicari fu bloccata per il passaggio nella piazza di una camionetta dei carabinieri.
Il Maresciallo SANTOMAURO ha appurato che a Tre Fontane il giorno dell’assassinio era stato era stato effettivamente predisposto dal Comandante della Stazione CC di Campobello di Mazara un servizio di pattuglia dalle 21,00 alle 24,00 per controllare i sorvegliati speciali di p.s., che normalmente d’estate si trasferivano in Campobello; la pattuglia in circolazione per questo servizio fu la prima ad arrivare sul luogo del delitto, essendo stata allertata dato che in precedenza “era transitata per la frazione di Tre Fontane.
3) il collaboratore ha affermato che Calcedonio BRUNO aveva una Renault 4 di colore rosso.
Il Maresciallo SANTOMAURO ha accertato ai sensi dell’art.507 c.p.p. che il BRUNO ebbe la disponibilità della Renault 4 di colore rosso targata TP-169757 dal 20 ottobre 1977 al 28 novembre 1988 (cfr. deposizione del SANTOMAURO all’udienza del 7 febbraio 2000).
4) il PATTI ha detto che Giovanni BASTONE aveva una FIAT Ritmo di colore marrone.
L’ispettore Domenico SPEZIA ha accertato ai sensi dell’art.507 c.p.p. che RIGGIO Rosa, moglie del BASTONE, fu intestataria della FIAT Ritmo di colore marrone targata TO-36943 dal 25 ottobre 1980 al 25 settembre 1982, quando la cedette a LUPPINO Vito.
5) a detta del PATTI i sicari utilizzarono revolver calibro 38.
Il dato è stato confermato dal rinvenimento, in sede di sopralluogo, di due ogive di proiettili di tale calibro (cfr. verbale di sopralluogo, cit.).
6) il numero di colpi sparati dai killer e i punti di impatto degli stessi quali emergono dal racconto del collaborante (dapprima due o tre colpi furono esplosi dal TITONE e poi uno o due dal dichiarante, allo scopo di finire il TADDEO) sono compatibili con quelli che effettivamente attinsero la vittima (cfr. verbale di descrizione del cadavere, cit.).
7) tutte le persone chiamate dal PATTI in correità erano libere il momento dell’omicidio, tranne LEONE, che era latitante, come specificato dallo stesso collaboratore.
Infine, la dinamica dell’agguato descritta dal collaboratore è perfettamente compatibile con il racconto di Antonino GRECO, appuntato dei Carabinieri in pensione ferito dagli assassini del TADDEO.
Il GRECO, come si è già detto, ha sostenuto che la sera dell’omicidio si intrattenne brevemente con il TADDEO nella piazza di Tre Fontane e, mentre si stava allontanando da quest’ultimo, udì alcuni colpi d’arma da fuoco. Al terzo sparo si voltò per vedere cosa stava accadendo e provò un intenso dolore alla parte sinistra dello stomaco. Prima di essere accompagnato all’ospedale da un amico, notò molte persone che scappavano, tra le quali un giovane con una pistola in mano e il braccio alzato.
Il testimone nell’immediatezza del fatto riferì altresì che i due killer avevano l’età apparente di ventiquattro o venticinque anni ed erano di costituzione regolare. Uno dei due era alto circa m.1,80, magro e aveva i capelli biondi, ricci, radi, lunghi e tagliati a caschetto e l’altro, quello che impugnava l’arma, era un poco più basso del primo e aveva i capelli chiari, lisci e portati all’indietro (cfr. deposizione resa da Antonino GRECO all’udienza, cit.).
Le dichiarazioni del GRECO hanno confermato le parole del collaboratore sotto diversi profili, e in particolare:
– il PATTI ha dichiarato che l’omicidio del TADDEO fu perpetrato nella piazza di Tre Fontane e la circostanza è stata confermata sia dal Maresciallo SANTOMAURO che dal GRECO;
– il collaboratore ha affermato implicitamente che la piazza era affollata, tanto che egli prima di darsi alla fuga con il TITONE urlò per aumentare la confusione; il GRECO ha confermato l’assunto, specificando che sul luogo del delitto c’era molta gente;
– il “pentito” ha sostenuto che esecutori materiali del delitto furono egli stesso e il TITONE; la descrizione dettagliata che ne diede il GRECO nei giorni immediatamente successivi al fatto si attaglia ai due Marsalesi: sarebbero stati due giovani dell’apparente età di ventiquattro o venticinque anni, uno dei quali alto circa m.1,80 e l’altro un poco più basso, entrambi con i capelli chiari e quello più alto anche radi;
– a detta del PATTI i killer utilizzarono una vespa 50 truccata 125; il GRECO ha sostanzialmente confermato il dato dicendo che vide i due uomini allontanarsi a bordo di un vespone bianco.
La circostanza che il testimone abbia parlato di una vespa 125 anziché di un vespino come ha fatto il collaboratore e che abbia descritto il killer più alto (il PATTI) come biondo (mentre i capelli dell’odierno collaboratore sono di colore castano scuro) non sono certo idonee -a fronte di una versione dei fatti tanto precisa, circostanziata e dettagliata- a porre in dubbio la veridicità del racconto del propalante marsalese, atteso che si tratta di circostanze assolutamente marginali a fronte dell’assoluta precisione del resoconto del “pentito” e che, tra l’altro, potrebbero discendere anche da una errata percezione della scena da parte del testimone.
Come si è già specificato, in sede di controesame sono emerse alcune discrasie tra le dichiarazioni rese dal PATTI nelle diverse sedi.
A giudizio di questa Corte, le stesse, attenendo a particolari complessivamente secondari, specie se confrontati con il numero e l’importanza dei punti su cui le propalazioni sono state invece costanti e confermate da riscontri estrinseci tali da fare ritenere senza dubbio che il collaboratore fosse presente al momento dell’agguato, non possono essere assolutamente giudicate idonee a inficiare la piena credibilità del collaborante in ordine all’episodio delittuoso in esame.
Del resto, è comprensibile che, dato il lungo lasso di tempo trascorso tra il momento dell’omicidio e quello in cui sono state rese le dichiarazioni, il PATTI abbia dimenticato o confuso alcuni particolari che probabilmente ai suoi occhi erano secondari (siccome non attinenti direttamente all’esecuzione del delitto), fissando nella memoria solo quelli che gli parevano più rilevanti. Ciò tanto più che il collaboratore è stato coinvolto in un notevole numero di assassinii, con lo stesso ristretto gruppo di persone e con modalità di preparazione ed esecuzione spesso simili, e che pertanto è ben possibile che abbia sovrapposto nel suo ricordo fatti concernenti episodi diversi e aventi ad oggetto circostanze marginali nella complessiva dinamica del delitto.
Alla luce delle suesposte considerazioni, le dichiarazioni confessorie rese da Antonio PATTI in ordine all’omicidio premeditato di Francesco TADDEO, al ferimento per errore nell’uso delle armi di GRECO Antonino e ai reati satellite di porto e detenzione di arma comune da sparo debbono essere giudicate pienamente attendibili sulla base dei criteri di valutazione indicati nell’Introduzione al Capitolo I e pertanto lo stesso deve essere dichiarato responsabile del fatti delittuosi suddetti.
Con riferimento alla fattispecie di cui all’art.82 c.II c.p. è appena il caso di osservare che si versa in una tipica ipotesi di aberratio ictus plurioffensiva, atteso che gli assassini, oltre a uccidere il loro obiettivo, ferirono altresì Antonino GRECO a causa di un errore nell’uso delle armi.
Non è stata integrata l’aggravante prevista dall’art.112 n.1 c.p., dato che non è stata raggiunta la prova che l’omicidio in parola sia stato perpetrato con il concorso di un numero di persone pari o superiore a cinque, essendo stato dimostrato solo il coinvolgimento del PATTI, dell’AGATE e di una terza persone, probabilmente il TITONE, che eseguì materialmente il delitto insieme al collaboratore.
Deve invece essere giudicata sussistente l’aggravante della premeditazione, considerato, che il collaboratore era a conoscenza del progetto omicidiario fin dal momento in cui arrivarono alla cantina di AGATE a Mazara del Vallo.
Pertanto, nella fattispecie concreta in esame sono stati integrati i due presupposti necessari per la configurazione dell’aggravante in parola: un apprezzabile lasso di tempo tra la risoluzione e l’azione, sufficiente a fare riflettere sulla decisione presa e a consentire il recesso dal proposito criminoso e l’esistenza nell’animo degli imputati, senza soluzione di continuità, una risoluzione ferrea e irrevocabile, chiusa a ogni motivo di resipiscenza.
Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere ai prevenuti, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
Le posizioni degli altri imputati, AGATE Mariano, BASTONE Giovanni, BRUNO Calcedonio, BURZOTTA Diego e LEONE Giovanni debbono essere invece esaminate sulla base dei criteri generali di valutazione delle chiamate in correità adottati da questa Corte. Per ragioni di chiarezza espositiva, appare opportuno analizzarle separatamente e riportare sinteticamente le dichiarazioni dei collaboratori a loro carico.
AGATE MARIANO
Il PATTI, quanto al contributo causale del suddetto prevenuto alla realizzazione del progetto criminoso, ha dichiarato che egli e il TITONE, su ordine di D’AMICO Vincenzo, si recarono a Mazara del Vallo nella cantina dell’AGATE, dove li stavano attendendo gli altri componenti del gruppo di fuoco. Ivi giunti, fu lo stesso rappresentante del mandamento a spiegare ai due sicari marsalesi che dovevano uccidere una persona a Tre Fontane e a consigliare al PATTI di lanciare un grido dopo avere ucciso l’obiettivo per aumentare ulteriormente il panico degli astanti.
Il BONO, dal canto suo, ha affermato che l’anno in cui fu assassinato il TADDEO l’AGATE gli confidò che LEONE Giovanni era a Tre Fontane nel mese di agosto proprio per curare l’esecuzione di quel crimine e invitò il collaborante di “mettersi a disposizione”, se il prevenuto ne avesse avuto bisogno.
Come si è già precisato, il Maresciallo SANTOMAURO ha accertato che in quel periodo l’AGATE era libero e aveva effettivamente nella sua disponibilità una cantina a Mazara del Vallo dove si incontravano abitualmente gli “uomini d’onore” o i fiancheggiatori che si recavano in quel paese. Quest’ultima circostanza è stata confermata altresì da tutti i collaboratori escussi.
È inoltre pacifico che l’AGATE già all’epoca dell’omicidio in esame era il capo mandamento di Mazara del Vallo, nel cui territorio era ricompresa la “famiglia” di Marsala e una delle personalità più autorevoli e vicine al RIINA della Provincia di Trapani.
Le dichiarazioni del PATTI, pertanto, sono supportate da significativi riscontri di carattere fattuale e logico e sono quindi idonee a fondare un giudizio di penale responsabilità in capo all’imputato.
In primo luogo, infatti, sia il PATTI che il BONO hanno concordemente accusato l’AGATE di essere direttamente coinvolto nell’organizzazione dell’omicidio in trattazione. In particolare, la circostanza che esso sia stato commesso da un sicario marsalese (cioè del mandamento guidato dal prevenuto), rafforza significativamente la chiamata in reità del BONO, in sé generica.
Inoltre, deve sottolinearsi che il prevenuto, in virtù della sua posizione di capo mandamento del PATTI e di personaggio di primo piano all’interno di “cosa nostra”, aveva il potere, secondo le regole interne dell’organizzazione, di ordinare al killer di Marsala di commettere un omicidio al di fuori del territorio della loro cosca di appartenenza.
Del pari, e per le stesse ragioni, aveva l’autorevolezza di chiedere al BONO -il quale, pur non essendo inserito nell’associazione a delinquere, era comunque “vicino” alla stessa e, come ha sempre sottolineato, in ottimi rapporti personali e commerciali con lo stesso AGATE- di fornire ai sicari ogni aiuto che costoro gli chiedessero.
Alle suesposte considerazioni consegue che la chiamata in correità del PATTI -intrinsecamente attendibile a causa della precisione, coerenza e costanza del racconto- è stata ampiamente riscontrata, con specifico riferimento alla posizione dell’AGATE, da significativi elementi di ordine fattuale e logico, tra cui in primo luogo le dichiarazioni del BONO. Ne consegue che le prove addotte dall’accusa a carico del prevenuto sono ampiamente idonee a fondare un giudizio di penale responsabilità dello stesso in ordine ai delitti ascrittigli.
BASTONE GIOVANNI, BRUNO CALCEDONIO e BURZOTTA DIEGO
Con riferimento alla posizione degli imputati in parola, il PATTI ha riferito che quando egli e TITONE su ordine del rappresentante della famiglia di Marsala andarono a Mazara del Vallo nella cantina di Mariano AGATE, vi trovarono, oltre a quest’ultimo, anche Giovanni BASTONE, Calcedonio BRUNO, Diego BURZOTTA e una quarta persona, che poteva essere Vincenzo SINACORI o Andrea GANCITANO. Ha aggiunto che tutti i presenti, ad eccezione dell’AGATE, partirono alla volta di Tre Fontane, utilizzando anche le autovetture Giovanni BASTONE e di Calcedonio BRUNO, rispettivamente una FIAT Ritmo 85 di colore marrone scuro e una Renault 4 rossa. Infine, dopo che i killer ebbero consegnato il vespino e le armi usate per l’omicidio a Gaspare LOMBARDO, vennero riaccompagnati a Marsala il PATTI dal BASTONE e dal BURZOTTA e il TITONE da Calcedonio BRUNO.
Il maresciallo SANTOMAURO ha accertato che i tre imputati in parola erano liberi all’epoca dell’omicidio.
Inoltre, il SINACORI ha confermato che il BURZOTTA, suo fraterno amico, in quell’epoca gravitava già nell’orbita della “famiglia” mazarese, pur non essendo formalmente affiliato e che il BRUNO e il BASTONE erano già membri autorevoli della cosca (cfr. citato esame del SINACORI all’udienza del 15 aprile 1998).
La circostanza che gli ultimi due fossero noti agli investigatori come mafiosi di vaglia è confermata altresì dalle deposizioni dell’allora Capitano Nicolò GEBBIA e del dottor Calogero GERMANÀ alle udienze del 24 febbraio e dell’11 marzo 1993 nel procedimento a carico dei due suddetti imputati celebrato dinnanzi alla Corte d’Assise di Trapani avente ad oggetto gli omicidi di DENARO Francesco, PALMERI Giuseppe e ZUMMO Giuliano e Paolo (cfr. verbali delle deposizioni suddette, prodotte dal P.M. e schede dedicate ai predetti fatti delittuosi).
Infine, come si è già sottolineato, gli accertamenti effettuati ai sensi dell’art.507 c.p.p. hanno dimostrato che il BASTONE e il BRUNO all’epoca dell’omicidio avevano la disponibilità rispettivamente di una FIAT Ritmo marrone e di una Renault 4 rossa, come sostenuto dal collaboratore.
Alla luce di tutte le sopra riportate considerazioni, tuttavia, il BASTONE, il BRUNO e il BURZOTTA debbono essere assolti in ordine ai delitti di cui ai capi 6 e 7 della rubrica per non essere stata raggiunta la piena prova che abbiano commesso il fatto.
Infatti, in base ai già precisati principi adottati da questa Corte in ordine alla valutazione delle chiamate in correità, le sole dichiarazioni del PATTI -pur se valutate positivamente sotto il profilo della intrinseca consistenza e dell’esistenza di validi riscontri esterni di carattere generale- non possono essere ritenute sufficienti a fondare un giudizio di responsabilità, in assenza di riscontri individualizzanti. Infatti, gli elementi sopra riportati provano soltanto che il collaboratore conosceva i prevenuti e che gli stessi già allora erano inseriti nell’associazione mafiosa o erano comunque “vicini” alla stessa, ma non costituiscono certamente riscontri individualizzanti che confermino il loro coinvolgimento nello specifico episodio delittuoso in trattazione.
LEONE GIOVANNI
Il PATTI, quanto al contributo causale del suddetto prevenuto alla realizzazione del progetto criminoso, ha dichiarato che il LEONE, che allora trascorreva la latitanza presso Alfonso PASSANANTE di Campobello di Mazara, era nella Piazza di Tre Fontane quando vi giunsero i due killer. Ha aggiunto che fu lo stesso imputato a indicare al TITONE la vittima, poi, mentre quest’ultimo stava avvicinandosi al gruppetto in cui la stessa si trovava, a fermarlo per l’arrivo di una camionetta dei Carabinieri e infine a dargli il definitivo segnale che poteva agire.
Il BONO ha affermato che l’anno in cui fu assassinato il TADDEO l’AGATE gli confidò che LEONE Giovanni era a Tre Fontane nel mese di agosto proprio per curare l’esecuzione di quel crimine e invitò il collaborante di “mettersi a disposizione”, se costui ne avesse avuto bisogno. Ha aggiunto che lo stesso anno o quello successivo lo vide per ben due volte a Tre Fontane, una volta in Piazza e una per strada, in motocicletta.
Il Maresciallo SANTOMAURO ha accertato che il LEONE era latitante fin dal 1978, quando, mentre era in soggiorno obbligato a Sennori in Sardegna, non era rientrato nel luogo suddetto dopo avere ottenuto il permesso di trascorrere qualche giorno a Mazara del Vallo; dopo essersi reso irreperibile, fu colpito da un provvedimento restrittivo per espiazione di pena in relazione alla violazione della misura di prevenzione; rimase latitante fino al 20 febbraio 1991, quando fu arrestato a Bardonecchia.
Inoltre, come si è già specificato, il SINACORI ha confermato che il LEONE ricopriva all’epoca il ruolo di capo decina della “famiglia” di Mazara del Vallo (cfr. esame SINACORI all’udienza del 15 aprile 1998, cit.).
A giudizio di questa Corte, il LEONE deve essere assolto in ordine ai delitti in trattazione per non essere stata raggiunta la piena prova che abbia commesso il fatto.
Infatti, le dichiarazioni del PATTI -pur se valutate positivamente sotto il profilo della intrinseca consistenza e dell’esistenza di validi riscontri esterni di carattere generale- non sono state supportate da riscontri individualizzanti idonei a fondare un giudizio di penale responsabilità a carico del prevenuto. In particolare, gli elementi sopra riportati provano soltanto che il collaboratore conosceva l’imputato e che lo stesso già allora era inserito nella cosca di Mazara del Vallo, ma non costituiscono certamente riscontri individualizzanti che confermino il coinvolgimento del LEONE nello specifico episodio delittuoso in trattazione.
Con specifico riferimento alle parole del BONO, è vero che il collaboratore ha affermato che l’estate in cui fu commesso il delitto l’AGATE gli ordinò di fornire al LEONE il supporto che costui gli avesse eventualmente chiesto, ma è vero altresì che in concreto non gli fu domandato nulla. Pertanto, non può ritenersi che la richiesta dell’AGATE al BONO costituisca un elemento di prova a carico del prevenuto in parola, non potendosi escludere che il LEONE in concreto non abbia apportato alcun contributo causale alla determinazione dell’evento. Né l’esistenza di un apporto dell’imputato può essere desunta logicamente dalla sua presenza a Tre Fontane nell’estate del 1982, atteso che il BONO non è stato in grado di specificare se lo vide in paese quello stesso anno o quello successivo.
OMICIDIO DI ZUMMO GIULIANO E ZUMMO PAOLO
I cugini Giuliano e Paolo ZUMMO furono assassinati la sera di domenica 13 settembre 1981 nella piazza antistante al bar “Bonanno” di Gibellina, l’uno a circa dodici metri e l’altro a non più di venticinque metri dal locale (cfr. deposizione del Maresciallo SANTOMAURO resa all’udienza del 26 maggio 1998 e planimetria dei luoghi, in atti).
L’allora Capitano dei Carabinieri Antonio D’ANDREA, che nella sua veste di Comandante della Compagnia CC. di Castelvetrano diresse le indagini, ha riferito che i due cadaveri risultavano attinti da numerosi proiettili di arma da fuoco, oltre che dal cosiddetto colpo di grazia. Gli operanti intervenuti eseguirono i necessari accertamenti, le foto, i rilievi. Nel corso del sopralluogo i verbalizzanti rinvennero un’ogiva di proiettile calibro 38 sparato con un revolver, come desunsero dalla circostanza che sul luogo dell’agguato non trovarono bossoli espulsi.
Gli inquirenti identificarono le persone che si trovavano sul posto, le quali per altro affermarono che non avevano visto nulla che potesse essere utile alle indagini: la risposta più frequente fu che avevano giudicato che i colpi che avevano udito fossero stati prodotti da mortaretti carnevalizi.
Con riferimento al movente dell’omicidio, dato che in quel periodo la zona del Belice a differenza di quella di Castelvetrano e di Mazara del Vallo risultava tranquilla, gli investigatori in un primo momento ritennero che si potesse trattare di un regolamento di conti interno o di una soppressione di rivali eseguita da altri soggetti più agguerriti e più pericolosi per subentrare nella conduzione della delinquenza mafiosa operante nella zona. Infatti uno dei due cugini era figlio di Pasquino ZUMMO, capo mafia storico della zona di Gibellina morto nel 1979, e le stesse vittime erano indiziate mafiose e legate da rapporti di frequentazione con PALMERI Giuseppe e DI PRIMA Vito di Santa Ninfa, che sarebbero stati anch’essi assassinati pochi giorni dopo. Inoltre, tutti i soggetti nominati erano inserite nel contesto mafioso tradizionale, facente capo ai BONTADE, ai BADALAMENTI, ai RIMI, agli ZIZZO di Salemi (cfr. deposizioni del Capitano D’ANDREA e del Maresciallo SANTOMAURO, cit. nonchè del maresciallo Antonio Michele FOIS, resa all’udienza del 22 aprile 1998).
Vennero inoltre eseguite le autopsie sui cadaveri delle vittime.
La morte di ZUMMO Giuliano, nato ad Alia il 4 agosto 1940, avvenuta tra le 21,00 e le 22,00 del 13 settembre 1981, fu cagionata dalle lesioni da colpi d’arma da fuoco che avevano interessato il cuore e il cervello, mentre le altre ferite, che avevano riguardato il tronco, pur se gravissime, non erano state mortali.
Più specificamente, la vittima era stata attinta da nove colpi d’arma da fuoco, che avevano interessato:
– uno la regione temporale sinistra;
– quattro il dorso, e in particolare tre l’emitorace destro e uno l’emitorace sinistro;
– uno la regione lombare;
– tre i glutei.
A giudizio del consulente tecnico, la direzione dei colpi era postero-anteriore e gli stessi erano stati esplosi entro il limite delle brevi distanze, cioè non oltre i due metri, come poteva desumersi dall’esito positivo della ricerca delle polveri su frammenti di stoffa.
Inoltre gli spari erano stati esplosi da almeno due armi, verosimilmente corte, a tamburo e di grosso calibro (38). Avuto riguardo alla sede dei fori d’entrata, che si trovavano alle spalle della vittima e al numero dei colpi, i consulenti conclusero che gli aggressori erano stati due (cfr. relazione di consulenza medico-legale redatta in data 13 settembre 1981 dal dottor Michele MARINO).
La morte di ZUMMO Paolo, nato a Gibellina il 19 gennaio 1939, intervenuta tra le ore 21,00 e le 22,00 del 13 settembre 1981, fu causata dalle lesioni da colpi d’arma da fuoco che avevano interessato la massa cerebrale.
La vittima era stata attinta da tre proiettili, penetrati:
– uno in corrispondenza della zona zigomatica destra, con tramite che andava in senso anteo-posteriore fino alla regione occipitale, dove era stato rinvenuto;
– uno all’altezza della regione cervicale con tramite direzione posterio-anteriore con foro d’uscita all’altezza della pinna natale sinistra;
– uno all’altezza del dorso lungo la paravertebrale sinistra con tramite a direzione postero-anteriore dal basso verso l’alto, con ritenzione all’altezza della VII C..
I colpi erano stati esplosi entro il limite delle brevi distanze (quantificato dal perito come inferiore ai due metri), come poteva desumersi dall’esito positivo della ricerca delle polveri su frammenti di stoffa. Essi, inoltre, erano stati sparati da una sola arma, verosimilmente corta e di grosso calibro.
Avuto riguardo alla sede dei fori di entrata, il consulente concluse che la vittima era stata aggredita da una sola persona, la quale si trovava in posizione anteriore rispetto alla stessa. In seguito allo sparo allo zigomo, lo ZUMMO era crollato a terra, girandosi con movimento di torsione e durante la caduta era stato attinto alla regione cervicale e al dorso, al quale ultimo era stata colpito con direzione postero-anteriore (cfr. relazione di perizia medico-legale redatta in data 13 settembre 1981 dal dottor Michele MARINO).
Nonostante avessero individuato l’esatto contesto criminale in cui il duplice omicidio era maturato, gli investigatori, non avendo ricavato informazioni utili dall’esame dei testimoni, non furono in grado di individuare i responsabili del delitto.
BASTONE Giovanni e BRUNO Calcedonio sono stati protagonisti di una complessa vicenda processuale avente ad oggetto l’omicidio di Francesco DENARO, commesso a Marsala il 30 luglio 1981, quello dei cugini ZUMMO e quello di Giuseppe PALMERI.
Come meglio si spiegherà nel capitolo dedicato all’assassinio del DENARO (cfr. infra, sub Parte IV – Capitolo VII), le imputazioni aventi ad oggetto gli ultimi due delitti erano basate sugli esiti della perizia STRAMONDO, su cui ci si soffermerà ampiamente in seguito, che stabilivano in maniera inequivoca che Francesco DENARO, il PALMERI e Giuliano ZUMMO erano stati uccisi con la medesima rivoltella calibro 38 e che un’altra arma dello stesso tipo era stata utilizzata per sopprimere gli ultimi due individui.
La Corte d’Assise di Trapani e la Corte d’Assise d’Appello di Palermo, mentre hanno giudicato il BASTONE e il BRUNO responsabili dell’eliminazione del DENARO, li hanno assolti con riferimento agli altri due episodi criminosi loro ascritti, sul presupposto che la indubbia matrice mafiosa di tutti gli omicidi in esame e l’accertata appartenenza dei prevenuti alla “famiglia” di Mazara del Vallo non poteva essere ritenuta idonea di per sé a dimostrare la penale responsabilità dei prevenuti in ordine a tali ultimi reati. Infatti, le predette Corti hanno osservato che -atteso che un medesimo gruppo criminale solitamente si avvale, oltre che di più killer, anche di un certo numero di armi e automezzi- la semplice identità delle rivoltelle usate per commettere più delitti non era sufficiente a consentire l’individuazione nel BRUNO e nel BASTONE gli autori materiali, oltre che dell’omicidio DENARO, anche di quelli dei cugini ZUMMO e del PALMERI. In particolare, il compendio probatorio ulteriore a carico dei prevenuti, costituito all’epoca soltanto dalle dichiarazioni de relato dello SCAVUZZO, che aveva ricevuto le confidenze di Girolamo MARINO durante un periodo di comune detenzione, non poteva essere certamente ritenuto sufficiente a dimostrare con tranquillizzante certezza la penale responsabilità degli imputati in ordine ai delitti loro ascritti (cfr. sentenze della Corte d’Assise di Trapani e della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, divenuta irrevocabile sul punto il 6 dicembre 1995, emesse rispettivamente il 19 giugno 1993 e il 3 marzo 1995, prodotte dal P.M. all’udienza del 24 febbraio 2000).
Sulla base delle dichiarazioni rese da Antonio PATTI, lo stesso è stato rinviato a giudizio per avere cagionato con premeditazione la morte dei cugini Paolo e Giuliano ZUMMO, in concorso con AGATE Mariano, BURZOTTA Diego, FUNARI Vincenzo e LEONE Giovanni, oltre che con D’AMICO Vincenzo, RAGONA Leonardo e TITONE Antonino (deceduti), e con BASTONE Giovanni e BRUNO Calcedonio (nei confronti dei quali si è già proceduto), nonché per avere illegittimamente detenuto e portato in luogo pubblico, al fine di commettere l’omicidio in parola, revolver di calibro 38.
Nel presente giudizio si sono ritualmente costituiti parte civile la Provincia di Trapani e i Comuni di Gibellina e di Palermo.
Antonio PATTI, esaminato dal P.M., ha ammesso di avere partecipato all’omicidio dei cugini ZUMMO, i quali erano “uomini d’onore” di Gibellina.
Ha affermato di non sapere perchè ne fu decisa l’eliminazione, ma di ritenere che essa fosse collegata alla guerra di mafia in corso all’inizio degli anni ‘80.
Ha riferito che nel mese di agosto del 1980 o 1981 Vincenzo D’AMICO lo inviò a Mazara del Vallo da Mariano AGATE, il quale gli comunicò che dovevano essere uccise persone di Gibellina. Nella cantina di AGATE erano presenti altresì Vincenzo FUNARI di Gibellina, suocero di Vincenzo SPEZIA, figlio di Nunzio, Calcedonio BRUNO, Giovanni BASTONE, Giovanni LEONE, Diego BURZOTTA, Andrea GANCITANO e Nino TITONE.
Mariano AGATE informò il PATTI che doveva andare a conoscere una persona per ucciderla e a questo fine lo affidò al FUNARI. I due “uomini d’onore” andarono a Gibellina a bordo della FIAT 127 del secondo, autovettura che era di colore latte e caffè (o giallo ocra, che a detta del collaboratore erano lo stesso colore) e “un po’ malandata”.
Il PATTI quella notte rimase a dormire in un villino, che ha descritto come molto bello e silenzioso. Gli portò la cena un affiliato alla cosca di Gibellina di nome RAGONA, che non conosceva e che era tarchiato, ben vestito, di circa cinquanta anni, con “una faccia da campagnolo” e che, pur non essendo zoppo, si aiutava con un bastone per camminare, forse in considerazione della sua stazza. Il collaboratore ha specificato di avere riconosciuto quest’uomo in una ritrazione fotografica.
Fu FUNARI Vincenzo a ordinare al PATTI il duplice omicidio. Tuttavia, essendo le vittime designate “uomini d’onore”, era necessario anche il consenso di Francesco MESSINA DENARO, capo del mandamento di Castelvetrano, di cui faceva parte Gibellina.
La mattina successiva, una domenica, Vincenzo FUNARI condusse il PATTI in una zona alta di Gibellina, dove, a detta del collaboratore, forse vi era un acquedotto, particolare che desunse dalla presenza di acqua a terra e di un cancello. In quel luogo erano presenti anche Giovanni BASTONE, Giovanni LEONE, Calcedonio BRUNO, Diego BURZOTTA e Antonino TITONE, oltre a un ragazzo di cui non ha saputo indicare il nome.
Quest’ultimo lo accompagnò in paese con la sua macchina, portandolo dapprima in giro e poi entrando nel bar, molto affollato, al cui interno era l’obiettivo. Il giovane gli indicò la vittima designata con un cenno degli occhi; il collaboratore, dopo averlo focalizzato, consumò ciò che aveva ordinato e uscì dal locale da solo, incontrandosi fuori con il suo accompagnatore. Infine ritornarono al luogo da cui erano partiti, che fungeva da punto di appoggio e dove trovarono gli altri complici. Vincenzo FUNARI procurò ai membri del gruppo di fuoco polli arrostiti, panini e bibite per pranzare.
Il commando si mise in azione quando era già buio. A bordo di una FIAT 127 a due porte rubata si collocarono Calcedonio BRUNO, che era alla guida, il PATTI, seduto al suo fianco, Giovanni LEONE e Nino TITONE, i quali presero posto nei sedili posteriori. Gli altri si appostarono fuori Gibellina.
I cugini ZUMMO passavano sempre la serata nel bar al cui interno l’odierno collaboratore quel giorno aveva visto uno di loro. I killer passarono ad alta velocità davanti al locale per controllare che le vittime designate ci fossero e, verificata positivamente la loro presenza, il BRUNO fece una manovra di inversione del senso di marcia. Appena ebbe girato, prima il PATTI e poi il TITONE e il LEONE scesero dalla macchina. Gli obiettivi, che probabilmente si aspettavano un agguato, capirono che cosa stava succedendo e uno dei due (quello che il collaboratore aveva visto la mattina), nel tentativo di fuggire, corse verso il PATTI, il quale gli sparò due o tre colpi, attingendolo al capo. Il LEONE e il TITONE corsero dietro all’altro ed esplosero alcuni colpi d’arma da fuoco alle sue spalle, riuscendo a ferirlo alle gambe e poi a ucciderlo.
Quindi i sicari salirono nuovamente sulla FIAT 127 e ritornarono nella cantina di Mariano AGATE a Mazara, senza cambiare mezzo, nè lasciare le armi, sebbene vi fossero in appoggio il BASTONE e il BURZOTTA con automobili “pulite”, poichè non ebbero il tempo di fare il cambio. A tale ultimo proposito il P.M. ha contestato al collaboratore che nell’interrogatorio del 5 luglio 1995 riferì che le armi utilizzate per il delitto erano state prese in consegna dal ragazzo di cui non sapeva il nome, ad eccezione del fucile calibro 12, che avevano tenuto con loro e il PATTI ha ribadito la versione odierna, aggiungendo che decisero di non disfarsi delle pistole e del fucile per potersi difendere qualora fossero incappati in un posto di blocco (cfr. esame del PATTI all’udienza del 7 maggio 1998).
Nel controesame e nel riesame effettuati nell’udienza del 13 maggio 1999 il PATTI ha sostanzialmente confermato le precedenti dichiarazioni, integrandole in alcuni punti.
Con riferimento al ruolo di Mariano AGATE, il collaboratore ha affermato che fu informato che avrebbe dovuto uccidere una persona da Vincenzo FUNARI durante il tragitto da Mazara del Vallo a Gibellina, ma ha ribadito che, essendo la vittima un “uomo d’onore” per il suo omicidio era necessario l’avallo del capo mandamento, che era Francesco MESSINA DENARO, il quale si consultava sempre con l’AGATE prima di agire. Del resto, la circostanza che quest’ultimo fosse a conoscenza del progetto omicidiario era dimostrato, a suo parere, dal fatto che autori del delitto furono uomini del mandamento di Mazara del Vallo.
Il collaboratore ha aggiunto che erano presenti con funzioni di appoggio il BASTONE con la sua FIAT Ritmo e il BURZOTTA con un’autovettura che il collaboratore non ha saputo precisare (cfr. controesame e riesame del PATTI all’udienza del 13 maggio 1999).
Vincenzo SINACORI, interrogato dal Presidente all’udienza del 16 febbraio 2000, ha sostenuto che FUNARI Vincenzo divenne rappresentante della cosca di Gibellina dopo l’omicidio dei cugini ZUMMO, i quali erano legati ai RIMI, aggiungendo di non sapere chi in precedenza comandasse a Gibellina.
Ciò premesso in generale, e passando alla disamina delle posizioni processuali dei singoli imputati, non possono esservi dubbi sulla penale responsabilità di Antonio PATTI in ordine ai delitti ascrittigli.
Infatti, le dichiarazioni confessorie rese dallo stesso, da un lato intrinsecamente logiche e coerenti e dall’altro lato supportate da significativi riscontri, appaiono ampiamente idonee a fondare nei confronti dello stesso un giudizio di colpevolezza.
In ordine al primo aspetto, non può non sottolinearsi che il racconto del collaboratore è estremamente preciso, dettagliato e costante, essendo stato ribadito, con alcune ulteriori precisazioni, anche in sede di controesame e di riesame.
Sotto il secondo profilo, debbono innanzitutto ribadirsi le osservazioni effettuate con riferimento all’omicidio TADDEO sulla piena compatibilità delle propalazioni del PATTI con le ulteriori risultanze dibattimentali relative al numero dei soggetti coinvolti e alla partecipazione all’azione di killer e di altre persone con compiti di appoggio del mandamento di Mazara del Vallo, nonchè all’organigramma di “cosa nostra” nella Provincia di Trapani all’inizio degli anni ’80.
In particolare, la circostanza affermata dal PATTI e confermata, pur se genericamente, dal SINACORI (cfr. esame e controesame di quest’ultimo resi rispettivamente alle udienze del 6 maggio 1998 e del 12 maggio 1999), che l’assassinio dei cugini ZUMMO deve essere inserito nella guerra di mafia combattuta all’inizio degli anni ’80 e che il gruppo a cui va ascritta la responsabilità del suddetto crimine è lo stesso a cui sono da addebitare altri omicidi commessi nel medesimo periodo nella zona e di cui il medesimo PATTI si è autoaccusato chiamando in correità altri “uomini d’onore”, è riscontrata dalla perizia balistica eseguita dal Maresciallo Carmelo STRAMONDO su incarico del G.I. di Marsala.
Il perito ha esaminato reperti balistici relativi agli omicidi di DENARO Francesco, PALMERI Giuseppe, ZUMMO Giuliano e ZUMMO Paolo, e in particolare:
– OMICIDIO PALMERI GIUSEPPE:
- quattro proiettili calibro 38 special (R1-R2-R3-R4), di cui uno ritenuto non utile ai confronti perché privo di contrassegni identificatori e tre che presentavano tracce di cinque rigature ad andamento destrorso;
- cinque proiettili calibro 38 special (R11-R12-R13-R14-R15), di cui tre ritenuti non utili o scarsamente utili ai confronti e due che presentavano tracce di sei rigature ad andamento destrorso;
– OMICIDIO ZUMMO GIULIANO:
- due proiettili calibro 38 special (R5-R6), di cui uno ritenuto non utile ai confronti perché privo di contrassegni identificatori e uno che presentava tracce di cinque rigature ad andamento destrorso;
- due proiettili calibro 38 special (R16-R17), di cui uno ritenuto non utile ai confronti e uno che presentava tracce di sei rigature ad andamento destrorso;
– OMICIDIO DENARO FRANCESCO:
- quattro proiettili calibro 38 special (R9-R10-R18-R19), che presentavano tracce di cinque rigature ad andamento destrorso;
- quattro bossoli calibro 38 special (già contrassegnati con le sigle R1-R2-R3-R4), di cui tre ritenuti non utili o scarsamente utili ai confronti e due che presentavano tracce di sei rigature ad andamento destrorso;
– OMICIDIO ZUMMO PAOLO:
- due proiettili calibro 38 special (R7-R8), ritenuti non utili ai confronti perché prive di contrassegni identificatori.
Il consulente ha precisato preliminarmente che sulla base dei contrassegni caratteristici dell’arma (concernenti sia il tipo di arma, sia l’arma specifica) è possibile un giudizio di certezza relativo all’identità o alla mancata identità.
All’esito dell’esame comparato dei reperti, il Maresciallo STRAMONDO è pervenuto alle seguenti conclusioni:
– una prima arma con canna solcata da cinque rigature destrorse dell’ampiezza di mm.2,6, identificabile in un revolver calibro 38 special dei vari modelli della marca “Smith & Wesson” venne usata per gli omicidi di PALMERI Giuseppe(R1-R2-R3), ZUMMO Giuliano (R5) e DENARO Francesco (R9-R10);
– una seconda arma, di tipo analogo alla precedente, fu utilizzata per l’assassinio di DENARO Francesco (reperti R18-R19);
– una terza arma con canna solcata da 6 rigature ad andamento destrorso ampie mm.1,8, identificabile con un revolver calibro 38 special dei vari modelli della marca “Astra”, fu usata per gli omicidi di PALMERI Giuseppe (R11-R12) e ZUMMO Giuliano (R16);
– i proiettili R4 (omicidio PALMERI), R6 (omicidio ZUMMO Giuliano) e R7-R8 (omicidio ZUMMO Paolo), provenienti da una o più armi con canna solcata con cinque rigature ad andamento destrorso, identificabili con revolver calibro 38 special dei vari modelli della “Smith & Wesson”- sono risultate non utili ai confronti perché eccessivamente danneggiati e privi di contrassegni identificatori;
– i proiettili repertati R13-R14-R15 (omicidio PALMERI) e R17 (omicidio ZUMMO Giuliano), provenienti da una o più armi con canna solcata da sei rigature destrorse sono risultate non utili ai confronti perché eccessivamente danneggiati o privi di contrassegni identificatori (cfr. deposizione cit. e consulenza tecnica datata 3 marzo 1989 e prodotta all’udienza dell’8 aprile 1998).
Come si è già accennato, pertanto, le risultanze della perizia STRAMONDO costituiscono un importante riscontro alle dichiarazioni del collaboratore, il quale ha addebitato l’esecuzione degli omicidi dei cugini ZUMMO, di PALMERI Giuseppe e di DENARO Francesco a killer del mandamento di Mazara del Vallo o comunque a soggetti che agivano su richiesta, nell’interesse e previa predisposizione di un’adeguata organizzazione da parte delle cosche di questo mandamento, come affermato dal PATTI.
Con riferimento ai primi due episodi criminosi, inoltre, confermano -oltre all’originaria ipotesi formulata dagli investigatori secondo la quale essi dovevano essere ricondotti a un unico disegno criminoso finalizzato all’eliminazione di personaggi legati al vecchio assetto mafioso da parte degli emergenti- anche le propalazioni in tal senso del PATTI, che ha specificato che gli omicidi in parola, e in generale quelli perpetrati fino al 1984, furono commessi utilizzando le stesse armi (intendendo verosimilmente un numero assai ristretto di revolver) e una FIAT 127 rubata.
Le dichiarazioni del “pentito” hanno trovato ulteriori significative conferme, oltre che negli atti irripetibili presenti nel fascicolo per il dibattimento. nella deposizione, più volte menzionata, del Maresciallo SANTOMAURO e in particolare:
1) a detta del collaboratore, l’incontro tra i componenti del gruppo di fuoco avvenne a Mazara del Vallo nella cantina di Mariano AGATE.
Il MarescialloSANTOMAURO ha affermato che all’epoca il predetto imputato aveva una cantina vinicola nel suo paese e Vincenzo SINACORI ha confermato che, prima dell’arresto del suo rappresentante, avvenuto il 1 maggio 1982, il luogo di incontro dei membri della cosca mazarese era la cantina in parola (cfr. deposizione SANTOMAURO, cit. ed esame del SINACORI reso all’udienza del6 maggio 1998);
2) il PATTI ha affermato che l’omicidio fu consumato di domenica quando era già buio.
Entrambe le circostanze sono state confermate dal Maresciallo SANTOMAURO (cfr. deposizione SANTOMAURO, cit.);
- a detta del collaboratore, i sicari utilizzarono rivoltelle calibro 38.
Il dato è stato riscontrato dal verbale di sopralluogo, dalla relazione medico legale e dalla consulenza dello STRAMONDO;
4) secondo il PATTI, nel duplice omicidio fu coinvolto un tale RAGONA, anziano e claudicante, che riconobbe in fotografia.
Il Maresciallo SANTOMAURO ha identificato l’individuo predetto, riferendo che:
– si trattava di RAGONA Leonardo, nato a Gibellina il 20 marzo 1922 e deceduto per cause naturali il 16 settembre 1984; apparteneva alla famiglia mafiosa di Gibellina, come molti suoi parenti;
– la famiglia RAGONA era composta da Leonardo, Antonino, classe 1912, Pietro, classe 1913, Vincenzo, classe 1924, Giuseppe, classe 1926, tutti indiziati mafiosi, Calogero e Stefano; il fratello di maggiore spessore criminale era Vincenzo, che nel 1978 fu proposto per la sorveglianza di p.s. insieme a BONAFEDE Leonardo, a persone di Castelvetrano e ai MINORE di Trapani; Francesco, classe 1965, figlio di Stefano, fu amministratore della società facente capo a LOMBARDINO Paolo, che aveva affidato al giovane tale incarico, non potendolo ricoprire personalmente atteso che era sottoposto a misura di prevenzione; il predetto Francesco fu testimone di nozze al matrimonio di FUNARI Vincenzo di Gibellina; lo stesso Francesco e Tommaso, anche lui nipote di RAGONA Leonardo, il 21 agosto 1988 furono avvistati dal comandante della stazione CC di Gibellina seduti a un tavolo del Ristorante “Due Palme” di Santa Ninfa insieme a FUNARI Vincenzo e LOMBARDO Gaspare, quest’ultimo mafioso di Campobello di Mazara legato a SPEZIA Nunzio (cfr. deposizione SANTOMAURO, cit.);
5) il collaboratore ha riferito che la base operativa era in una “zona alta di Gibellina, dove forse c’era un acquedotto”.
Il Maresciallo SANTOMAURO ha individuato la zona, riferendo che si trattava dell’impianto dell’acquedotto ESA, e precisamente dei contenitori dell’acqua che all’epoca riforniva Gibellina, ubicati in Contrada Selinella La Pietra, la quale, pur essendo in territorio di Salemi, era alla periferia di Gibellina (cfr. citata deposizione SANTOMAURO);
6) il PATTI ha affermato che Calcedonio BRUNO aveva una Renault 4 di colore rosso.
Il Maresciallo SANTOMAURO ha accertato ai sensi dell’art.507 c.p.p. che il BRUNO ebbe la disponibilità della Renault 4 di colore rosso targata TP-169757 dal 20 ottobre 1977 al 28 novembre 1988 (cfr. deposizione del SANTOMAURO all’udienza del 7 febbraio 2000).
7) il PATTI ha detto che Giovanni BASTONE aveva una FIAT Ritmo di colore marrone.
L’ispettore Domenico SPEZIA ha accertato ai sensi dell’art.507 c.p.p. che RIGGIO Rosa, moglie del BASTONE, fu intestataria della FIAT Ritmo di colore marrone targata TO-36943 dal 25 ottobre 1980 al 25 settembre 1982, quando la cedette a LUPPINO Vito.
8) con riferimento all’esecuzione dei delitti il PATTI ha dichiarato che gli esecutori materiali furono tre: egli stesso sparò due o tre colpi al capo di uno degli obiettivi, mentre il LEONE e il TITONE, evidentemente con due pistole diverse, inseguirono l’altra vittima designata e la uccisero.
Le suddette circostanze sono state confermate nelle autopsie, che hanno accertato che ZUMMO Paolo fu attinto da tre proiettili esplosi dalla medesima arma verosimilmente corta e di grosso calibro e da una distanza di non oltre due metri (fu pertanto l’obiettivo ammazzato dal PATTI) e che ZUMMO Giuliano fu colpito da nove pallottole sparate da almeno due armi diverse, verosimilmente corte e di grosso calibro, con fori di entrata alle spalle (fu dunque l’uomo ucciso da LEONE e TITONE);
9) tutti i soggetti che secondo il racconto del collaboratore parteciparono all’azione e sono stati identificati (AGATE Mariano, MESSINA DENARO Francesco, BASTONE Giovanni, BRUNO Calcedonio, BURZOTTA Diego, FUNARI Vincenzo, RAGONA Leonardo, TITONE Antonino e lo stesso PATTI) all’epoca del delitto erano liberi, ad eccezione del LEONE, che come si è già precisato era latitante.
Alla luce delle suesposte considerazioni, le dichiarazioni confessorie rese da Antonio PATTI in ordine all’omicidio premeditato di ZUMMO Giuliano e Paolo e ai reati satellite di porto e detenzione di arma comune da sparo debbono essere giudicate pienamente attendibili sulla base dei criteri di valutazione indicati nell’Introduzione al Capitolo I e pertanto lo stesso deve essere dichiarato responsabile del fatti delittuosi suddetti.
Non può ritenersi integrata l’aggravante prevista dall’art.112 n.1 c.p., in quanto non è stata raggiunta la prova che l’assassinio dei cugini ZUMMO sia stato perpetrato con il concorso di un numero di persone pari o superiore a cinque.
Deve invece essere giudicata sussistente l’aggravante della premeditazione, considerato, che il collaboratore era a conoscenza del progetto omicidiario fin dal giorno precedente a quello in cui andò alla cantina di AGATE a Mazara del Vallo.
Pertanto, nella fattispecie concreta in esame sono stati integrati i due presupposti necessari per la configurazione dell’aggravante in parola: un apprezzabile lasso di tempo tra la risoluzione e l’azione, sufficiente a fare riflettere sulla decisione presa e a consentire il recesso dal proposito criminoso e l’esistenza nell’animo dell’imputato, senza soluzione di continuità, una risoluzione ferrea e irrevocabile, chiusa a ogni motivo di resipiscenza.
Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere al prevenuto, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
Le posizioni degli altri imputati, AGATE Mariano, BURZOTTA Diego, FUNARI Vincenzo e LEONE Giovanni debbono essere invece esaminate sulla base dei criteri generali di valutazione delle chiamate in correità adottati da questa Corte.
Essi debbono essere assolti in ordine ai delitti di cui ai capi 10 e 11 della rubrica per non essere stata raggiunta la piena prova che abbiano commesso il fatto.
Infatti, in base ai già precisati principi adottati da questa Corte in ordine alla valutazione delle chiamate in correità, le sole dichiarazioni del PATTI -pur se valutate positivamente sotto il profilo della intrinseca consistenza e dell’esistenza di validi riscontri esterni di carattere generale- non possono essere ritenute sufficienti a fondare un giudizio di responsabilità, in assenza di riscontri di carattere individualizzante.
In particolare, la circostanza che tutti gli imputati all’epoca dei fatti fossero organici a “famiglie” della Provincia di Trapani non è di per sé sufficiente a provarne la penale responsabilità, in quanto un medesimo gruppo criminale solitamente si avvale di più killer, con la conseguenza che la semplice appartenenza a cosche mafiose di tutti i prevenuti non può reputarsi riscontro individualizzante sufficiente a consentire l’individuazione degli autori materiali del delitto nei soggetti in parola, anche in presenza della prova dell’identità delle armi usate.
Alcune brevi considerazioni debbono essere spese in ordine all’alibi addotto da AGATE Mariano con riferimento all’omicidio in parola.
All’udienza del 12 gennaio 2000 la difesa del suddetto imputato ha prodotto il verbale di dichiarazioni rilasciate ai sensi dell’art.38 disp. att. c.p.p. in data 1 luglio 1999 da Paul WARIDEL all’Avv. ANANIA.
Il WARIDEL, dopo avere sostenuto di avere conosciuto l’AGATE nel 1973 e di averlo incontrato varie volte, ha riferito che tra il 10 e il 19 settembre 1981 il capo mandamento di Mazara del Vallo dimorò all’Hotel “Nova Park” di Zurigo. Ha specificato che in quell’occasione l’odierno imputato doveva incontrarsi con il capitano di nazionalità greca TZAGARIS, che di faceva chiamare “Angelo”, per negoziare l’acquisto di una partita di tabacco lavorato estero che il marinaio ellenico avrebbe dovuto imbarcare in Albania e sbarcare in Sicilia, sulle coste del trapanese.
A detta del WARIDEL, il soggiorno elvetico dell’AGATE si protrasse alcuni giorni più del previsto, in quanto lo TZAGARIS, il quale avrebbe dovuto vedere il Mazarese la sera dell’11 settembre, arrivò a Zurigo con alcuni giorni di ritardo a causa di un contrattempo. Il WARIDEL ha sostenuto di avere assistito alle trattative e ha precisato che il prevenuto ad affare concluso si fece portare la somma di denaro pattuita come contropartita della partita di tabacco di contrabbando (quattrocento milioni di lire). Pur non avendo egli visto il corriere, venne informato dall’AGATE che le banconote erano state trasportate in Svizzera dalla Sicilia da un suo giovane compaesano, il quale aveva viaggiato in automobile e occultato la valuta all’interno della ruota di scorta.
Il WARIDEL ha precisato infine che l’AGATE ricevette la somma di denaro il 12 settembre 1981.
L’episodio narrato dal propalante deve essere giudicato storicamente vero.
Lo stesso SINACORI, infatti, ha confermato che effettivamente nel 1981 egli portò una ingente somma di denaro (trecentocinquanta milioni di lire) all’AGATE, che si trovava a Zurigo o a Ginevra, nascondendola nella ruota di scorta. Ha specificato altresì che il denaro doveva essere utilizzato per pagare a un contrabbandiere greco soprannominato “Angelo” il corrispettivo di una partita di tabacco lavorato estero (cfr. esame del SINACORI da parte dell’Avv. ANANIA all’udienza del 9 novembre 1999).
D’altra parte la circostanza che all’epoca dei fatti le “famiglie” del mandamento di Mazara del Vallo esercitassero il contrabbando di sigarette ha trovato una significativa e tranciante conferma nel più volte citato episodio dello sbarco di Torretta Granitola e nelle affermazioni del PATTI in tal senso.
Ciò premesso, tuttavia, non appare plausibile che il WARIDEL, a distanza di circa diciannove anni, possa ricordare con precisione i giorni in cui si verificò il soggiorno elvetico di AGATE Mariano, tanto più che si tratta di un episodio a cui egli era personalmente estraneo e che quindi lo coinvolse (e lo interessò) marginalmente.
Del resto, la stessa tardività dell’assunzione della deposizione e della produzione della stessa agli atti (tale da non consentire di verificarne la veridicità nel corso del giudizio di primo grado) inducono a dubitare della veridicità della stessa. D’altra parte, i buoni e addirittura confidenziali rapporti personali che legano il WARIDEL all’odierno imputato, e che traspaiono all’evidenza dalle sue dichiarazioni, consentono di spiegare la ragione per la quale il primo ha tentato di costituire un alibi al secondo.
OMICIDIO PALMERI GIUSEPPE
PALMERI Giuseppe, detto “carvuneddu”, fu assassinato la sera del 15 settembre 1981 davanti al bar “Vittoria” di Santa Ninfa.
Come si è già anticipato nell’Introduzione al presente Capitolo e nelle schede relative agli omicidi TADDEO e ZUMMO, gli inquirenti, in considerazione della personalità della vittima, collocarono immediatamente l’episodio criminoso nel contesto della guerra tra fazioni di “cosa nostra” che infuriava in quegli anni e che aveva portato all’eliminazione di molti personaggi indiziati mafiosi.
Il PALMERI era ritenuto dagli investigatori il capo mafia di Santa Ninfa, legato agli ZUMMO e più in generale alla mafia tradizionale: gli ZIZZO di Salemi, gli INGOGLIA di Partanna, CRIMI Leonardo di Vita, VACCARA Pietro di Santa Ninfa, anch’egli ucciso, i RIMI di Alcamo.
Fin dal 1966 venne indagato dall’ufficio istruzione di Roma e tratto in arresto insieme ai fratelli MANCUSO di Alcamo -considerati i pionieri del traffico di stupefacenti con gli Stati Uniti d’America- e a un certo CANEBA di Palermo; nell’ambito di questo procedimento l’ucciso fu condannato in primo grado a dieci anni di reclusione e £.200.000.000 di multa.
Dopo essere stato scarcerato, il PALMERI ritornò a Santa Ninfa e, nel 1970, gli venne irrogata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno nel comune di Cittadella in provincia di Padova. Durante il periodo di tempo in cui si trovava in quest’ultimo paese, ricevette la visita di D’AMICO Gaetano, fratello di Vincenzo.
Nel 1973, quando era ancora a Cittadella, fu accusato di essere coinvolto in un vasto traffico di stupefacenti, poiché tentò, in concorso con INGOGLIA Pietro, ucciso nel 1989, di vendere trentadue chilogrammi di eroina a due soggetti, poi rivelatisi agenti della narcotici americana. Nel procedimento penale di primo grado instaurato dinnanzi al Tribunale di Padova a conclusione della predetta operazione, il PALMERI, CRIMI Leonardo e l’INGOGLIA furono condannati, venendo per altro assolti dalla Corte d’Appello di Venezia per insufficienza di prove.
Come nel caso del duplice omicidio dei cugini ZUMMO, avvenuto due giorni prima, gli inquirenti furono colpiti dalla teatralità dell’assassinio, che -come il precedente- fu perpetrato in luogo affollato, davanti a un bar, con le stesse modalità e con lo stesso tipo di armi (revolver calibro 38) usate per il delitto di Gibellina.
Inoltre, gli investigatori erano a conoscenza del fatto che tra il PALMERI e gli ZUMMO -e tra i mandamenti di Santa Ninfa e Gibellina che facevano loro capo- non risultavano esserci contrasti, circostanza da cui desunsero che costoro erano stati assassinati da personaggi appartenenti a uno stesso gruppo criminale nemico.
I testimoni sentiti non fornirono elementi utili alle indagini, anche se si accertò che al momento dell’agguato all’interno del bar, c’era anche BIANCO Giuseppe, detto “u principino”, odierno imputato. Appurarono altresì che all’omicidio era stato presente Vito DI PRIMA, che era sospettato di esserne complice nelle attività illecite e che fu ucciso alcuni giorni dopo l’omicidio PALMERI. Tuttavia, contrariamente a come era stato fatto per quest’ultimo e per i cugini ZUMMO, il DI PRIMA fu prelevato in casa, fu portato in campagna e fu verosimilmente torturato prima di essere ammazzato.
Per altro, inizialmente gli investigatori -partendo dal presupposto che in passato il PALMERI era stato arrestato in Italia settentrionale per essere stato trovato in possesso di trentadue chilogrammi di eroina- ipotizzarono che egli non avesse le risorse economiche per gestire la raffineria di eroina il cui proprietario sarebbe stato lo ZIZZO e che di conseguenza, per portare a termine il compito, che gli sarebbe stato affidato, di raffinare sostanza stupefacente e per riuscire in tal modo a farsi scegliere come responsabile effettivo del mandamento di Salemi, avesse deciso di “tagliarne” una parte e di venderla per conto proprio, al fine di autofinanziarsi. Partendo da questa ipotesi gli inquirenti inferirono che il delitto fosse dipeso da uno sgarro nell’ambito della raffinazione della droga, che la vittimaaveva avuto il compito di fare (cfr. deposizioni dell’allora capitano Antonio D’ANDREA, del Maresciallo Antonio Michele FOIS e del Maresciallo Bartolomeo SANTOMAURO, rese rispettivamente alle udienze del 1 aprile, del 22 aprile e del 26 maggio 1998).
L’autopsia consentì di accertare che la morte di PALMERI Giuseppe, nato a Santa Ninfa il 9 agosto 1915, era avvenuta alle ore 20,50 circa del 15 settembre 1981 ed era stata cagionata dalle gravissime lesioni accertate a carico del cervello, del fegato, del rene destro e della matassa intestinale, provocate da armi da fuoco corte di grosso calibro (verosimilmente calibro 38 a tamburo), come si potè desumere dal rinvenimento nel contesto del corpo di proiettili compatibili con armi di tale tipo e caratteristiche.
La vittima, in particolare, era stata attinta da dieci colpi, che erano penetrati:
– uno all’altezza della bozza frontale sinistra a cm.6 al di sopra dell’arcata sopracciliare e all’altezza dell’attaccatura dei capelli, fuoriuscendo, dopo avere seguito un tramite che andava dall’alto in basso e da destra verso sinistra, all’altezza della regione retroauricolare destra;
– uno all’altezza della guancia sinistra a cm.4 dall’angolo labiare sinistro con direzione da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso, con tramite che sfociava in cavità toracica;
– uno nel III medio della mandibola sinistra a cm.4 al di sotto di quello della guancia penetrante in cavità;
– uno lungo la mammaria esterna di sinistra a cm.5 dal capezzolo, con penetrazione in cavità toracica;
– uno lungo la mammaria esterna a circa cm.13 dalla stessa;
– uno lungo l’ascellare anteriore sinistro a cm.18 sotto la regione mammaria;
– uno nella regione epigrastrica cm.4 a sinistra della linea mediana;
– uno cm.5 a sinistra dell’ombelico;
– due nella regione colica sinistra equidistante cm.3.
Dalla sede dei fori di entrata e di uscita (ubicati nella parte anteriore del corpo), dalla direzione (antero-posteriore) e dal numero dei colpi, il consulente desunse che il PALMERI, guardasse gli aggressori e che costoro fossero in due.
A parere del consulente, infine, la presenza di tracce di polvere da sparo su frammenti di stoffa nei punti dell’impatto con i proiettili provava che gli assassini avevano esploso i colpi da una distanza non superiore ai due metri (cfr. consulenza medico-legale sul cadavere della vittima, effettuata il 15 settembre 1981 dal dottor Michele MARINO).
Le indagini condotte all’epoca del delitto, pur avendo consentito di individuare esattamente il contesto criminale in cui era maturato l’assassinio e le causalità dello stesso, non consentirono non soltanto di scoprirne i diretti responsabili, ma neppure di individuare, anche orientativamente, i membri del gruppo a cui i fatti criminosi in parola andavano ascritti. Infatti, le inchieste in quell’epoca venivano condotte senza potere contare su rilevanti apporti informativi di persone inserite nel contesto criminale, né sul contributo di testimoni, e pertanto, dove non si verificava una vera e propria faida tra due gruppi ben individuati (come nello stesso periodo avveniva ad Alcamo), era oltremodo difficile ottenere risultati investigativi significativi.
BASTONE Giovanni e BRUNO Calcedonio sono stati protagonisti di una complessa vicenda processuale avente ad oggetto l’omicidio di Francesco DENARO, commesso a Marsala il 30 luglio 1981, quello dei cugini ZUMMO e quello di Giuseppe PALMERI.
Come meglio si spiegherà nel capitolo dedicato all’assassinio del DENARO (cfr. infra, sub Parte IV – Capitolo VII), le imputazioni aventi ad oggetto gli ultimi due delitti erano basate sugli esiti della perizia STRAMONDO, su cui ci si soffermerà ampiamente in seguito, che stabilivano in maniera inequivoca che Francesco DENARO, il PALMERI e Giuliano ZUMMO erano stati uccisi con la medesima rivoltella calibro 38 e che un’altra arma dello stesso tipo era stata utilizzata per sopprimere gli ultimi due individui.
La Corte d’Assise di Trapani e la Corte d’Assise d’Appello di Palermo, mentre hanno giudicato il BASTONE e il BRUNO responsabili dell’eliminazione del DENARO, li hanno assolti con riferimento agli altri due episodi criminosi loro ascritti, sul presupposto che la indubbia matrice mafiosa di tutti gli omicidi in esame e l’accertata appartenenza dei prevenuti alla “famiglia” di Mazara del Vallo non poteva essere ritenuta idonea di per sé a dimostrare la penale responsabilità dei prevenuti in ordine a tali ultimi reati. Infatti, le predette Corti hanno osservato che -atteso che un medesimo gruppo criminale solitamente si avvale, oltre che di killer, anche di un certo numero di armi e automezzi- la semplice identità delle rivoltelle usate per commettere più delitti non era sufficiente a consentire l’individuazione nel BRUNO e nel BASTONE gli autori materiali, oltre che dell’omicidio DENARO, anche di quelli dei cugini ZUMMO e del PALMERI. In particolare, il compendio probatorio ulteriore a carico dei prevenuti, costituito all’epoca soltanto dalle dichiarazioni de relato dello SCAVUZZO, che aveva ricevuto le confidenze di Girolamo MARINO durante un periodo di comune detenzione, non poteva essere certamente ritenuto sufficiente a dimostrare con tranquillizzante certezza la penale responsabilità degli imputati in ordine ai delitti loro ascritti (cfr. sentenze della Corte d’Assise di Trapani e della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, divenuta irrevocabile sul punto il 6 dicembre 1995, emesse rispettivamente il 19 giugno 1993 e il 3 marzo 1995, prodotte dal P.M. all’udienza del 24 febbraio 2000).
Sulla base delle dichiarazioni rese da Antonio PATTI, lo stesso è stato rinviato a giudizio per avere cagionato con premeditazione e in numero di persone superiore a cinque la morte di Giuseppe PALMERI, in concorso con AGATE Mariano, BURZOTTA Diego e LEONE Giovanni, oltre che con D’AMICO Vincenzo, MESSINA Francesco e VACCARA Pietro (deceduti), nonché con BASTONE Giovanni e BRUNO Calcedonio, separatamente giudicati, nonché per avere illegittimamente detenuto e portato in luogo pubblico, al fine di commettere l’omicidio in parola, revolver di calibro 38.
Nel presente giudizio si sono ritualmente costituiti parte civile la Provincia di Trapani e il Comune e di Palermo.
Antonio PATTI, esaminato dal P.M., ha ammesso di avere partecipato all’omicidio, avvenuto a Santa Ninfa nello stesso anno in cui erano stati uccisi i cugini ZUMMO. Il collaboratore ha affermato che aveva visto la vittima una sola volta nella cantina di Mariano AGATE e che in quel frangente gli era stata presentata come Peppino “’u carvuneddu”, poiché era scura di pelle. Ha aggiunto che non conosceva il cognome di quest’uomo, che aveva circa cinquantacinque anni e i capelli neri. Per questa ragione, egli era stato immediatamente in grado di ricostruire la dinamica dell’omicidio, ma solo dopo avere letto il decreto di rinvio a giudizio era venuto a conoscenza del suo nome, ragione per la quale, errando, in un primo momento aveva detto che il suo cognome era DI PRIMA.
Il collaboratore ha affermato di non essere in grado di indicare la ragione per la quale fu deciso di uccidere “Peppino ‘u carvuneddu”, pur ritenendo che la deliberazione fosse stata presa nell’ambito della guerra di mafia in corso all’epoca.
Il PATTI ha proseguito il suo racconto sostenendo che venne inviato da Vincenzo D’AMICO, che in quel periodo ricopriva un ruolo di primo piano in “cosa nostra”, a Mazara del Vallo dove Mariano AGATE gli diede mandato di ammazzare quell’uomo.
Anche in quest’occasione, a detta del collaboratore, i sicari usarono le armi (revolver di calibro 38) di cui allora erano soliti servirsi, poiché solo nel 1984 Mariano AGATE acquistò nuove pistole.
Il gruppo di fuoco partì da Mazara del Vallo a bordo della FIAT 127 di colore rosso amaranto (o rosso sangue) usata anche per il duplice omicidio ZUMMO a Gibellina. Alla guida del veicolo si pose Calcedonio BRUNO, mentre il PATTI e Giovanni LEONE sedettero rispettivamente a fianco del pilota e sul sedile posteriore. Li seguirono, come appoggio, Giovanni BASTONE con la sua FIAT Ritmo 85 marrone scuro e Andrea GANCITANO, con la sua Golf GT bianca, sulle quale salirono anche Diego BURZOTTA e Vincenzo SINACORI.
Usarono come punto di appoggio a Santa Ninfa la sede di una società di calcestruzzo di Rosario CASCIO (e in particolare un capannone tipo eternit sotto cui venivano parcheggiati i veicoli) e lì attesero alcune ore che lo stesso CASCIO desse loro la “battuta”. Il PATTI ha affermato che venne a conoscenza del cognome di quest’ultimo dopo averlo riconosciuto in una ritrazione fotografica. Ha aggiunto che il CASCIO gli venne presentato da Mariano AGATE a Mazara del Vallo e che aveva una macchina di grossa cilindrata: un’Alfa Romeo, oppure una FIAT 131 o 124.
Quando i killer arrivarono sul luogo dell’agguato, la vittima si trovava su un marciapiede fuori da un bar. Il gruppo di fuoco giunse dalla strada di fronte al locale e si fermò a una ventina di metri dall’obiettivo. Il PATTI e LEONE scesero dalla FIAT 127, mentre il BRUNO, che era alla guida, restò a bordo. Il LEONE si avvicinò al PALMERI, che era seduto, estrasse uno dei due revolver che aveva nella cintola e gli sparò cinque o sei colpi, tutti nel petto. Dopo avere scaricato la prima rivoltella, il LEONE (il quale poteva sparare solo con la destra, poiché nella sinistra aveva solo il dito pollice e il mignolo) la passò nell’altra mano, estrasse la seconda pistola che teneva alla cintura ed esplose ulteriori colpi. Il PALMERI, mentre il suo assassino compiva queste operazioni, si alzò, si avvicinò al suo aggressore e tentò di agguantarlo; il suo assassino lo respinse con una mano e lo finì.
Prima che i sicari si dessero alla fuga, il PATTI lanciò un grido per creare confusione, come già aveva fatto in occasione dell’omicidio TADDEO a Tre Fontane, e sparò un colpo in aria. Quindi la FIAT 127 si allontanò, andando direttamente a Mazara, senza cambiare autovettura. Le macchine di appoggio li precedevano, battendo la strada, per controllare che tutto fosse tranquillo. Andrea GANCITANO, che era da solo sulla sua Golf GT bianca e guidava la fila, all’ingresso dell’autostrada di Castelvetrano, prese le armi e le nascose sul ciglio della strada, oltre il guard-rail vicino ad alcuni alberi, coprendole un poco. La fila di autovetture era chiusa dal BASTONE, che era a bordo della sua FIAT Ritmo 85, insieme a Diego BURZOTTA. I tre veicoli arrivarono a Mazara del Vallo alla cantina di Mariano AGATE nell’ordine sopra riportato. Il giorno dopo il PATTI e il GANCITANO andarono a recuperare le armi.
Il collaboratore ha infine affermato di avere sentito parlare di VACCARA Pietro, ma di non ricordare a che proposito (cfr. esame del PATTI all’udienza del 7 maggio 1998).
In sede di controesame e di riesame, il PATTI ha sostanzialmente confermato le sue precedenti affermazioni, precisando in particolare che nella dichiarazione di intenti aveva nominato l’assassinio di un tale soprannominato “u nivuru” e che il 28 giugno 1995 aveva identificato la vittima come “Vito DI PRIMA detto Carvuneddu”. Ha giustificato il proprio sbaglio, dicendo di avere fatto confusione.
In realtà a giudizio di questa Corte l’errore del collaboratore -che ha ad oggetto soltanto l’indicazione del nome della vittima e non la dinamica del fatto- è giustificabile alla luce di diverse considerazioni. Innanzitutto, egli conosceva assai superficialmente l’ucciso avendolo visto una sola volta nella cantina dell’AGATE a Mazara del Vallo e probabilmente costui gli era stato indicato solo con il soprannome (“Peppino u carvuneddu”) con il quale era verosimilmente noto. Inoltre il DI PRIMA era originario dello stesso paese del PALMERI e certamente assai vicino allo stesso, tanto che era presente sulla scena del delitto in trattazione e fu a sua volta soppresso pochi giorni dopo l’altro. Deve pertanto reputarsi che la confusione da parte del PATTI sul nome della vittima sia stata ingenerata da commenti su questi ultimi fatti a cui egli assistette. Del resto, l’esatta indicazione, oltre che delle modalità dell’omicidio, del nome di battesimo e del soprannome della vittima (“Peppino u carvuneddu”), non riferibili assolutamente al DI PRIMA, che si chiamava Vito e che fu rapito prima di essere assassinato, indicano con evidenza che il PATTI aveva inteso narrare la dinamica della soppressione del PALMERI.
I difensori degli imputati hanno contestato al collaboratore alcune discrasie tra le propalazioni rese nel corso dell’esame e durante i primi interrogatori, e in particolare che nell’interrogatorio del 5 luglio 1995:
– egli non fece alcun cenno alla sosta nell’impianto di calcestruzzi a Santa Ninfa in attesa della “battuta”;
– dichiarò che in questa occasione egli non aveva sparato;
– affermò di non ricordare il tipo di autovetture utilizzate dal BASTONE e dal BURZOTTA;
– non parlò del cambio di pistola da parte del LEONE né del tentativo di aggressione ad opera del PALMERI;
– sostenne che durante l’esecuzione dell’azione, il BURZOTTA e il BASTONE erano stati certamente presenti sul luogo del delitto, ma non fu in grado di ricordare dove si trovassero.
Il PATTI in ordine alla prima discrasia ha affermato di avere fatto riferimento alla sosta all’impianto di calcestruzzi già in fase di indagini preliminari, in un interrogatorio successivo a quello citato.
Riguardo al secondo punto ha dichiarato che, dicendo di non avere sparato, aveva inteso riferirsi alla circostanza che non aveva esploso colpi all’indirizzo della vittima.
Relativamente al terzo e al quarto profilo ha precisato di essersi ricordato di molti dati nel corso del tempo e di avere effettuato in più occasioni precisazioni e integrazioni delle precedenti propalazioni.
Quanto all’ultima difformità si è limitato a specificare di essere comunque certo che il BASTONE e il BURZOTTA erano in zona. Anche in questo caso il contrasto è di modestissima rilevanza, atteso che il PATTI ha sempre affermato la presenza dei due uomini nel commando che curò l’esecuzione del PALMERI.
Le parole del PATTI hanno avuto una generica conferma dal SINACORI, il quale ha riferito che PALMERI, soprannominato “Carvuneddu” per il colorito scuro della sua pelle, era un “uomo d’onore” di Santa Ninfa e un personaggio della vecchia guardia e fu ucciso in quel periodo sempre perché era legato ai RIMI. Il SINACORI ha aggiunto che lo conobbe superficialmente per averlo visto nella cantina di Mariano AGATE e che in seguito seppe che era un trafficante di stupefacenti e MESSINA DENARO Matteo gli confidò che era stato in soggiorno obbligato con uno degli INGOGLIA di Partanna (cfr. esame SINACORI all’udienza del 6 maggio 1998, confermato nel controesame del 12 maggio 1999).
La propalazioni del SINACORI, pur se generiche e aventi ad oggetto circostanze apprese de relato, non possono non essere giudicate tendenzialmente attendibili, tenuto conto del fatto che egli fin dall’inizio degli anni ’80, nonostante ricoprisse un ruolo non certo di spicco all’interno di “cosa nostra”, godeva già di una certa considerazione -tanto che, come si è già precisato nella scheda dedicata alla generale attendibilità dello stesso- poteva permettersi di chiedere delucidazioni su omicidi addebitabili a decisione dei vertici del mandamento, a differenza di PATTI e GIACALONE, i quali hanno più volte precisato che non si permettevano di chiedere spiegazioni, poiché poteva essere pericoloso. Pertanto, certamente il SINACORI già all’epoca era verosimilmente a conoscenza di molte circostanze di cui molti altri “soldati” non sapevano nulla. Inoltre lo stesso imputato in seguito acquisì una posizione di assoluto rilievo all’interno della organizzazione criminale e dunque venne indubbiamente a conoscenza di molti ulteriori dettagli.
Ciò premesso in generale, e passando alla disamina delle posizioni processuali dei singoli imputati, non possono esservi dubbi sulla penale responsabilità di Antonio PATTI in ordine ai delitti ascrittigli.
Infatti, le dichiarazioni confessorie rese dallo stesso, da un lato intrinsecamente logiche e coerenti e dall’altro lato supportate da significativi riscontri, appaiono ampiamente idonee a fondare nei confronti degli stessi un giudizio di colpevolezza.
In ordine al primo aspetto, non può non sottolinearsi che il racconto del collaboratore è estremamente preciso, dettagliato e costante, essendo stato ribadito, con alcune ulteriori precisazioni, anche in sede di controesame e di riesame.
Le discrasie tra le propalazioni effettuate dal collaboratore in sede di esame dibattimentale e di indagini preliminari, in alcune circostanze sono state adeguatamente giustificate dal medesimo e negli altri casi hanno ad oggetto fatti di rilevanza modestissima.
Pertanto l’indubbia esistenza di alcune difformità tra le dichiarazioni rese dal PATTI nelle diverse occasioni in cui è stato escusso non possono assolutamente inficiarne la credibilità in ordine al fatto delittuoso in esame, tenuto conto da un lato della scarsa importanza dei punti su cui le medesime vertono e dall’altro lato della complessiva precisione, coerenza e logicità delle rivelazioni del collaboratore (tali da fare ritenere che egli fosse certamente presente sulla scena del delitto e non abbia appreso i fatti da altri), nonchè delle numerose conferme estrinseche ricevute, su elementi ben più significativi.
Infine, il PATTI ha affermato che al momento della partenza del gruppo di fuoco da Mazara del Vallo era presente anche il SINACORI, che per altro non si unì ai componenti dello stesso. Quest’ultimo imputato, d’altra parte, ha escluso recisamente di avere partecipato all’omicidio.
Orbene, a giudizio della Corte deve credersi alla versione fornita da quest’ultimo collaboratore, il quale da un lato non ha alcun interesse a negare la sua responsabilità in ordine al fatto di sangue in trattazione, avendo confessato di avere perpetrato un certo numero di assassinii e dall’altro lato certamente ha un migliore ricordo del fatto, attenendo alla sua stessa presenza. D’altra parte, l’errore del PATTI è ben comprensibile tenuto conto del fatto che già allora egli aveva verosimilmente avuto modo di vedere varie volte il SINACORI nella cantina di Mariano AGATE, che entrambi frequentavano, cosicchè è verosimile che abbia confuso episodi diversi, tanto più che non ha incluso il coimputato in questione tra i componenti del gruppo di fuoco e gli ha attribuito un ruolo secondario, in posizione defilata e distante da quella in cui si trovava il dichiarante, lontana dalla sua diretta percezione. In ogni caso, come si è già precisato nella scheda dedicata all’attendibilità del PATTI, a fronte di una tale ricchezza e importanza delle rivelazioni del medesimo l’esistenza di alcuni errori o imprecisioni nei suoi ricordi, anche su dati rilevanti (quale è certamente la presenza di alcuni individui in determinate occasioni), non solo non ne inficia la generale attendibilità, ma al contrario ne esalta la genuinità, atteso che sarebbe assai inquietante se le propalazioni del collaboratore (aventi ad oggetto spesso fatti assai datati) non presentasse imprecisioni o lacune.
Sotto il profilo dei riscontri estrinseci, debbono innanzitutto ribadirsi le osservazioni effettuate con riferimento all’omicidio TADDEO (che qui si intendono totalmente richiamate relativamente ad AGATE), sulla piena compatibilità delle propalazioni del PATTI con le ulteriori risultanze dibattimentali relative al numero dei componenti del gruppo di fuoco e all’appartenenza degli stessi al mandamento di Mazara del Vallo e all’organigramma di “cosa nostra” nella Provincia di Trapani all’inizio degli anni ’80.
In particolare, la circostanza affermata dal PATTI e confermata, pur se genericamente, dal SINACORI che l’assassinio del PALMERI deve essere inserito nella guerra di mafia combattuta all’inizio degli anni ’80 e che il gruppo a cui va ascritta la responsabilità del suddetto crimine è lo stesso a cui sono da addebitare altri omicidi commessi nel medesimo periodo nella zona e di cui il PATTI si è autoaccusato chiamando in correità altri “uomini d’onore”, è riscontrata dalla perizia balistica eseguita dal Maresciallo Carmelo STRAMONDO su incarico del G.I. di Marsala.
In questa sede si richiama quanto già dettagliatamente riferito nella scheda relativa all’omicidio dei cugini ZUMMO, limitandocisi a riportare gli elementi più significativi.
Il perito ha esaminato reperti balistici relativi agli omicidi di DENARO Francesco, PALMERI Giuseppe, ZUMMO Giuliano e ZUMMO Paolo e ha concluso che:
– una prima arma con canna solcata da cinque rigature destrorse dell’ampiezza di mm.2,6, identificabile in un revolver calibro 38 special dei vari modelli della marca “Smith & Wesson” venne usata per gli omicidi di PALMERI Giuseppe, ZUMMO Giuliano e DENARO Francesco;
– una seconda arma, di tipo analogo alla precedente, fu utilizzata per l’assassinio di DENARO Francesco;
– una terza arma con canna solcata da sei rigature ad andamento destrorso ampie mm.1,8, identificabile con un revolver calibro 38 special dei vari modelli della marca “Astra”, fu usata per gli omicidi di PALMERI Giuseppe e ZUMMO Giuliano;
– i proiettili R4 (omicidio PALMERI), R6 (omicidio ZUMMO Giuliano) e R7-R8 (omicidio ZUMMO Paolo), provenienti da una o più armi con canna solcata con cinque rigature ad andamento destrorso, identificabili con revolver calibro 38 special dei vari modelli della “Smith & Wesson”- sono risultate non utili ai confronti perché eccessivamente danneggiati e privi di contrassegni identificatori;
– i proiettili repertati R13-R14-R15 (omicidio PALMERI) e R17 (omicidio ZUMMO Giuliano), provenienti da una o più armi con canna solcata da sei rigature destrorse sono risultate non utili ai confronti perché eccessivamente danneggiati o privi di contrassegni identificatori (cfr. deposizione cit. e consulenza tecnica datata 3 marzo 1989 e prodotta all’udienza dell’8 aprile 1998).
Come si è già accennato, pertanto, le risultanze della perizia STRAMONDO costituiscono un importante riscontro alle dichiarazioni del collaboratore, il quale ha addebitato l’esecuzione degli omicidi dei cugini ZUMMO, di PALMERI Giuseppe e di DENARO Francesco a killer del mandamento di Mazara del Vallo o comunque a soggetti che agivano su richiesta, nell’interesse e previa predisposizione di un’adeguata organizzazione da parte delle cosche di questo mandamento, come affermato dal PATTI.
Con riferimento ai primi due episodi criminosi, inoltre, confermano, oltre all’originaria ipotesi formulata dagli investigatori secondo la quale essi dovevano essere ricondotti a un unico disegno criminoso finalizzato all’eliminazione di personaggi legati al vecchio assetto mafioso da parte degli emergenti, anche le propalazioni in tal senso del PATTI, che ha specificato che gli omicidi in parola, e in generale quelli perpetrati fino al 1984, furono commessi utilizzando le stesse armi (intendendo verosimilmente un numero assai ristretto di revolver) e una FIAT 127 rubata.
Le dichiarazioni del PATTI hanno trovato ulteriori significative conferme, oltre che negli atti irripetibili presenti nel fascicolo per il dibattimento, nella deposizione, più volte menzionata, del Maresciallo SANTOMAURO e in particolare:
- a detta del PATTI, il PALMERI era soprannominato “carvuneddu”.
La circostanza è stata riscontrata dal SINACORI e dal SANTOMAURO (cfr. citati esame del collaboratore e deposizione del verbalizzante);
2) il collaboratore ha dichiarato che la vittima fu intercettata davanti a un bar a Santa Ninfa.
Il dato è stato confermato nella planimetria dei luoghi e dalla deposizione del Maresciallo SANTOMAURO;
3) il collaboratore ha affermato che Calcedonio BRUNO aveva una Renault 4 di colore rosso.
Il Maresciallo SANTOMAURO ha accertato ai sensi dell’art.507 c.p.p. che il BRUNO ebbe la disponibilità della Renault 4 di colore rosso targata TP-169757 dal 20 ottobre 1977 al 28 novembre 1988 (cfr. deposizione del SANTOMAURO all’udienza del 7 febbraio 2000).
4) il PATTI ha detto che Giovanni BASTONE aveva una FIAT Ritmo di colore marrone.
L’ispettore Domenico SPEZIA ha accertato ai sensi dell’art.507 c.p.p. che RIGGIO Rosa, moglie del BASTONE, fu intestataria della FIAT Ritmo di colore marrone targata TO-36943 dal 25 ottobre 1980 al 25 settembre 1982, quando la cedette a LUPPINO Vito.
5) secondo il PATTI i sicari utilizzarono revolver di calibro 38, facenti parte del ristretto novero di cui solitamente si servivano nel mandamento di Mazara del Vallo fino al 1984, quando AGATE acquistò altre armi. L’autopsia ha confermato che la vittima fu attinta da proiettili del calibro indicato dal collaboratore (cfr. atto irripetibile, cit.).
D’altra parte, la perizia STRAMONDO ha evidenziato che in effetti gli omicidi del PALMERI, dei cugini ZUMMO e di Francesco DENARO vennero perpetrati utilizzando le medesime rivoltelle di calibro 38;
6) il PATTI ha precisato che il LEONE dapprima esplose contro l’obiettivo tutto il caricatore di una delle due pistole con cui era armato, poi sparò altri colpi con l’altra.
Tale versione dei fatti è pienamente compatibile con l’autopsia, che ha accertato che la vittima fu attinta da dieci proiettili;
7) il maresciallo SANTOMAURO ha accertato che tutte le persone a detta del PATTI coinvolte nel delitto (lo stesso collaboratore, AGATE Mariano, BURZOTTA Diego, D’AMICO Vincenzo, MESSINA Francesco, BASTONE Giovanni e BRUNO Calcedonio) erano libere quando lo stesso fu commesso, ad eccezione del LEONE, il quale era latitante.
L’uomo che a detta del collaboratore accolse i membri del gruppo di fuoco nell’impresa di calcestruzzi e che si sarebbe chiamata Rosario CASCIO deve essere verosimilmente identificata con VACCARA Pietro, che egli ha affermato di avere sentito talvolta nominare.
A tale proposito, il Maresciallo SANTOMAURO ha accertato che:
- il VACCARA era un ex bracciante agricolo, il quale, frequentando “certi soggetti”, era diventato un imprenditore, cioè un azionista di un’impresa di calcestruzzi che produceva conglomerati, la “Bitume Edil” di Santa Ninfa; era stato denunciato più volte, era stato diffidato e sorvegliato speciale di p.s.;
- all’epoca dell’omicidio PALMERI aveva una FIAT 125 colore amaranto, tg. TP-109288;
- aveva nella sua disponibilità un immobile in Contrada Ferro, alla periferia di Santa Ninfa, verso Castelvetrano;
- era fisicamente assai somigliante a CASCIO Rosario;
- all’epoca di questo omicidio VACCARA era libero (cfr. citata deposizione SANTOMAURO).
Alla luce delle suesposte considerazioni, le dichiarazioni confessorie rese da Antonio PATTI in ordine all’omicidio premeditato di Giuseppe PALMERI e ai reati satellite di porto e detenzione di arma comune da sparo debbono essere giudicate pienamente attendibili sulla base dei criteri di valutazione indicati nell’Introduzione al Capitolo I e pertanto lo stesso deve essere dichiarato responsabile del fatti delittuosi suddetti.
Non può invece ritenersi integrata l’aggravante prevista dall’art.112 n.1 c.p., non essendo stato provato che l’assassinio in esame fu perpetrato con il concorso di un numero di persone pari o superiore a cinque.
Deve invece essere giudicata sussistente l’aggravante della premeditazione, considerato, che il collaboratore era a conoscenza del progetto omicidiario fin dal momento del suo arrivo a Mazara del Vallo.
Pertanto, nella fattispecie concreta in esame sono stati integrati i due presupposti necessari per la configurazione dell’aggravante in parola: un apprezzabile lasso di tempo tra la risoluzione e l’azione, sufficiente a fare riflettere sulla decisione presa e a consentire il recesso dal proposito criminoso e l’esistenza nell’animo dell’imputato, senza soluzione di continuità, una risoluzione ferrea e irrevocabile, chiusa a ogni motivo di resipiscenza.
Quanto alla determinazione della sanzione da infliggere al prevenuto, si rinvia al capitolo della presente sentenza dedicato espressamente a tale profilo.
Le posizioni degli altri imputati, AGATE Mariano, BURZOTTA Diego, e LEONE Giovanni debbono essere invece esaminate sulla base dei criteri generali di valutazione delle chiamate in correità adottati da questa Corte.
Essi debbono essere assolti in ordine ai delitti di cui ai capi 10 e 11 della rubrica per non essere stata raggiunta la piena prova che abbiano commesso il fatto.
Infatti, in base ai già precisati principi adottati da questa Corte in ordine alla valutazione delle chiamate in correità, le sole dichiarazioni del PATTI -pur se valutate positivamente sotto il profilo della intrinseca consistenza e dell’esistenza di validi riscontri esterni di carattere generale- non possono essere ritenute sufficienti a fondare un giudizio di responsabilità, in assenza di riscontri di carattere individualizzante.
In particolare, la circostanza che tutti gli imputati all’epoca dei fatti fossero organici a “famiglie” del mandamento di Mazara del Vallo non è di per sé sufficiente a provarne la penale responsabilità, in quanto un medesimo gruppo criminale solitamente si avvale di più killer, con la conseguenza che la semplice appartenenza a cosche mafiose di tutti i prevenuti non può reputarsi riscontro individualizzante sufficiente a consentire l’individuazione degli autori materiali del delitto nei soggetti in parola, anche in presenza della prova dell’identità delle armi usate.
Le suddette considerazioni appaiono particolarmente fondate nel caso in esame, atteso che proprio in ordine all’omicidio PALMERI, il PATTI ha dimostrato di avere un ricordo poco preciso delle persone coinvolte, atteso che ha inserito tra i partecipanti il SINACORI, il quale certamente non c’era, e non è stato costante nell’indicazione tra i compartecipi del BASTONE e del BURZOTTA.
Quanto all’alibi addotto da Mariano AGATE, in questa sede si richiamano integralmente le considerazioni svolte nella scheda relativa all’omicidio dei cugini ZUMMO, data la perfetta identità dell’argomento difensivo.
OMICIDIO FONTANA ANTONIO
Antonio FONTANA fu assassinato a Castelvetrano la mattina del 5 agosto 1982.
Il Maresciallo Salvatore INTERLANDI, che all’epoca era in servizio al N.O.R. di Castelvatrano, ha riferito che il 5 agosto 1982, alle ore 10,00-10,30 circa, la Compagnia li informò che era in corso una sparatoria in un’officina di via Mazara n.73 a Castelvetrano.
Una pattuglia si recò subito in loco, constatando che dentro all’officina c’era il cadavere di una persona che fu identificata per l’appunto in FONTANA Antonio. La salma giaceva in posizione supina, con le spalle addossate alla parete, il capo reclinato sul lato destro quasi a toccare la spalla, il gomito appoggiato alla base del buttatoio e un mozzicone di sigaretta stretto tra il dito indice e il medio.
All’interno dell’officina gli inquirenti notarono sei fori di pallettoni di lupara e trovarono due frammenti di borra di cartucce, vari pallettoni e un proiettile calibro 38 (cfr. verbale di sopralluogo datato 5 agosto 1982).
Rinvennero altresì l’autovettura targata TP-153068 di proprietà del FONTANA, dal cui esame emerse che il fanalino anteriore sinistro era effettivamente stato smontato per eseguire riparazioni, come affermato dal meccanico (cfr. verbale di ispezione dell’autovettura del 5 agosto 1982).
Il Maresciallo INTERLANDI escusse a sommarie informazioni persone informate sui fatti, tra cui il proprietario dell’officina MISTRETTA Antonio, suo fratello Benito Giovanni e Giuseppe TUMMINIA, sulle quali ci soffermerà più dettagliatamente in seguito.
Il consulente tecnico Edoardo SCALICI accertò che la morte del FONTANA era stata determinata da lesioni prodotte da sette colpi di arma da fuoco che avevano attinto la vittima al tronco e al capo seguendo tramiti di direzioni divergenti tra di loro, verosimilmente dovute a movimenti di inclinazione e contemporanea rotazione del tronco e del capo compiuti dalla vittima nel succedersi dei proiettili.
In particolare, la vittima era stata attinta da:
– un colpo di pistola calibro 38 alla testa con foro di ingresso posto cm.4 a sinistra della coda del sopracciglio sinistro, seguito da tramite diretto da sinistra a destra e leggermente dall’indietro in avanti con ritenzione di un proiettile calibro 38 verniciato nel lobo parietale sinistro;
– un colpo di rivoltella calibro 38 alla testa con foro di ingresso posto cm.5 sopra l’elice di sinistra seguito da tramite diretto da sinistra a destra e leggermente da dietro in avanti con ritenzione di un proiettile calibro 38 verniciato in fossa cranica media;
– un colpo di revolver, presumibilmente calibro 38, alla testa con foro di ingresso posto cm.9 sopra l’elice di sinistra, seguito da tramite sottocutaneo diretto dall’avanti all’indietro e foro di uscita posto cm.4 dietro al precedente;
– un colpo di pistola, presumibilmente di calibro 38, al tronco, con foro d’ingresso posto al di sotto della clavicola destra, seguito da tramite intratoracico diretto dall’avanti all’indietro con foro di uscita posto all’angolo inferiore della scapola destra;
– un colpo di rivoltella, presumibilmente calibro 38, al tronco con foro di ingresso posto cm.4,5 al di sotto dell’aureola mammaria di sinistra, seguito da tramite intratoracico diretto dall’avanti all’indietro, da sinistra verso destra e leggermente dall’alto verso il basso, con foro di uscita posto sulla linea mediana cm.23 al di sotto dell’occipite;
– un colpo di revolver, presumibilmente calibro 38, al dorso, con foro di entrata posto cm.2 al di sotto della spalla sul lato esterno del braccio sinistro, seguito da tramite diretto da sinistra a destra, dal basso verso l’alto con foro di uscita posto sul lato posteriore del collo cm.6 a destra;
– un colpo di pistola calibro 38 al braccio sinistro con foro di ingresso posto sul lato mediale del gomito sinistro, seguito da tramite da destra verso sinistra e con ritenzione di un proiettile calibro 38 verniciato cm.2 sopra il gomito sinistro sul lato esterno.
Sulla base del numero di proiettili che avevano colpito la vittima e di quelli rinvenuti sul luogo dell’agguato, il consulente tecnico giunse alla conclusione che nell’azione delittuosa erano state utilizzate due rivoltelle calibro 38. Infatti, le pallottole trovate nel corso dell’autopsia erano del calibro predetto verniciate in oro, con sei rigature sinistrorse e, quella rinvenuta nel corso del sopralluogo dell’identico calibro, ma camiciata e con cinque rigature destrorse. Tenuto conto che nel corso del sopralluogo erano stati rinvenuti altresì quattordici frammenti di pallettoni appartenenti al n.11/0 della Numerazione Unica Italiana e che tali pallettoni erano usualmente impiegati nel caricamento di una cartuccia da caccia calibro 12 nel numero complessivo di nove disposti in tre strati di tre pallettoni sovrapposti, il consulente dedusse anche che nell’evento delittuoso fossero stati esplosi contro il FONTANA due colpi di fucile caricati a pallettoni e che gli stessi fossero andati a vuoto (cfr. relazione di consulenza medico legale del dott. SCALICI datata 7 agosto 1982).
Gli investigatori accertarono altresì che il FONTANA era uno schedato mafioso, sospettato di essere inserito nella cosca di ZUMMO Pasquino di Gibellina, suo paese di origine e che all&rsq