La PUNCIUTA

 

Tradotto dalla  lingua siciliana punciuta  significa puntura e dà il nome al rito di iniziazione per i membri di Cosa nostra.

La persona che deve essere iniziata viene condotta in una stanza alla presenza di tutti i componenti della Famiglia locale in riunione. Uno dei momenti chiave, da cui la cerimonia prende il nome, è la puntura dell’indice della mano che l’iniziato utilizza per sparare con una spina di arancio amaro o, a seconda del clan mafioso, con un’apposita spilla d’oro[1][2].

Il sangue fuoriuscito viene usato per imbrattare un’immaginetta sacra a cui in seguito viene dato fuoco mentre il nuovo affiliato la tiene tra le mani e pronuncia un giuramento solenne: “giuro di essere fedele a cosa nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento”[1].

Successivamente, vengono ricordati al nuovo affiliato gli obblighi che dovranno essere rigorosamente rispettati: non desiderare la donna di altri uomini d’onore; non rubare agli altri affiliati; non sfruttare la prostituzione; non uccidere altri uomini d’onore, salvo in caso di assoluta necessità; evitare la delazione alla polizia; mantenere con gli estranei il silenzio assoluto su Cosa Nostra; non presentarsi mai da soli ad un altro uomo d’onore estraneo, poiché è necessaria la presentazione rituale da parte di un terzo uomo d’onore che conosca entrambi e garantisca la rispettiva appartenenza a Cosa Nostra[1][2].

Evoluzione storica  La descrizione più antica del rituale della “punciuta” si trova in un rapporto giudiziario della questura di Palermo risalente al febbraio 1876[3]. Tuttavia la magistratura ha accertato come alcuni soggetti, pur non affiliati in maniera formale a Cosa Nostra attraverso il rito della punciuta, rivestano ruoli assai importanti all’interno delle Famiglie, con particolare riferimento agli imprenditori che, giustificando la propria vicinanza alla mafia con la necessità di lavorare in un contesto ambientale ostile, con la loro condotta traggono notevoli vantaggi di ordine economico e rafforzano la posizione sociale della Famiglia[4].  Alla fine degli anni novanta alcuni analisti hanno ipotizzato che la mafia abbia scelto di ripensare i propri principi fondanti tendendo a far coincidere la struttura criminale primaria con la famiglia naturale[5] e pertanto, per riconoscere gli affiliati, è sufficiente il solo legame di sangue senza necessità della punciuta[6][7][8].  Tuttavia il ritrovamento della formula del giuramento e l’elenco delle regole da rispettare nel covo dei latitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo nel novembre 2007 nonché le indagini degli organi inquirenti[9] e le recenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Pulizzi[10], Manuel Pasta[11] e Sergio Flamia[12] hanno dimostrato che il tradizionale rito della punciuta persiste ancora oggi[1].


LA FORMULA DI AFFILIAZIONE ALLA MAFIA SEQUESTRATA DAI CARABINIERI

Un blitz antimafia dei carabinieri del Ros  ha permesso di sventare un sequestro di persona, liberando l’ostaggio e arrestando gli 8 responsabili e di trovare una formula manoscritta di affiliazione mafiosa.  “Ne ho passato mura e muraglia a ogni passo ne scioglievo una maglia”: comincia la formula di affiliazione al clan Fragalà, disarticolato dai Carabinieri del Ros con numerosi arresti tra Roma e Catania. Il testo, scritto a stampatello su un foglio a righe, contiene numerosi errori di ortografia. “3 cavaglieri di battaglia – si legge – dell’anno 1777 dalla Spagna si imbarcavano e in Sicilia si incontrarono, proseguirono per la Calabria e si riunivano, proseguirono per Napoli e si riunivano e si sparpagliarono, ma un bel giorno del 1973 sette cavaglieri di mafia si riunivano nella fortezza a Catania, fecero un giuramento di sangue e lo depositarono in una damigianella fina e finissima e lo nascosero nella fortezza, guai chi lo scoprirà, da una a sette coltellate alla schiena verrà colpito, battezzo questo locale come lo battezza Salvatore Fragalà, ‘La Scimmia’. Se loro lo battezzano con fiori, catene, camicia di forza e ferri – prosegue la formula – alzo gli occhi al cielo vedo una stella volare con parola d’omertà”. Si passa poi “alla prima e seconda votazione sull’amico. Se prima lo conoscevo come giovane onorato da oggi in poi lo conosco come picciotto e mafioso, giura di dividere centesimo per millesimo a questa società e guai se porterà infamità, sarà a discarico della società e a carico del compare, a questo punto faccio il giuramento di sangue, bacio la fronte a tutti i componenti di cui sono presenti a tavola, ci devono essere un fazzoletto di seta annodato un coltello e l’immagine di San Michele Arcangelo e si fa presente che un nuovo mafioso è tra noi e si lavora”.04 giugno 2019



LA ‘PUNCIUTA’ CON IL SANGUE. L‘UOMO D’ONORE AVEVA I BRIVIDI  Il pentito Giovanni Vitale racconta i retroscena di un’affiliazione.  “Lui era contento, felice” di essere stato combinato. Talmente euforico che Giuseppe Fricano violò la regola della riservatezza. Si presentò in un chiosco, nei pressi del carcere Ucciardone di Palermo, e diede la bella notizia. Era diventato un uomo d’onore, iniziava la scalata che lo avrebbe portato alla reggenza del mandamento di Resuttana.

Di quel giorno ha una memoria nitida il neo pentito Giovanni Vitale:“… lui era contento .. lui era contento, quindi l’ha condivisa questa notizia”. Al chiosco c’erano anche “Antonio Taralla, Gigetto e Antonino Siragusa”. Il “battesimo” si era svolto nel rispetto della tradizione. Per nascondere la sua affiliazione Fricano avrebbe dovuto mentire. Inevitabile, infatti, che gli amici gli chiedessero cosa fosse successo per via di quel “fazzolettino nella mano”. “È stato punto”, racconta Vitale. Nella nuova Cosa nostra si rispetta il vecchio rito della punciuta, con il sangue che macchia l’immagine sacra, poi bruciata sul palmo della mano del nuovo uomo d’onore.

Dopo il rito Fricano “era emozionato e diceva che aveva i brividi”.Il suo padrino era stato Alessandro D’Ambrogio, reggente del mandamento di Porta Nuova e allora uomo forte dell’intera Cosa nostra palermitana. La sua forza si manifestò anche nel fatto di essere riuscito ad imporre a Resuttana uno che a Resuttana non era nato. Fricano era il capo, ma “io so – dice Vitale – che rispondeva a Biondino”.

La stella di Fricano avrebbe brillato ancora per poco. La sua nomina, ha riferito Vito Galatolo, boss pentito dell’Acquasanta, era “una cosa che a noi non ci stava bene perché non c’era l’autorizzazione dei Madonia… non ci stava bene a nessuno…”. Alla fine Fricano, l’insospettabile meccanico di via Libertà, arrestato nel blitz Apocalisse del giugno del 2015, dovette farsi da parte, nonostante avesse avuto uno sponsor d’eccezione, come D’Ambrogio. Quel giorno all’Ucciardone, però, c’era spazio solo per l’emozione.  (da livesicilia.it)


Note

Bibliografia

  • Girolamo Lo Verso e Gianluca Lo Coco, Come cambia la mafia: esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche in un paese che cambiaFrancoAngeli, 1999
  • Girolamo Lo Verso e Gianluca Lo Coco, La psiche mafiosa: storie di casi clinici e collaboratori di giustizia, FrancoAngeli, 2003
  • Pietro Grasso, Alberto La Volpe, Per non morire di mafiaSperling & Kupfer editori, 2009
  • Antonio Balsamo, Vania Contrafatto, Guglielmo Nicastro, Misure patrimoniali contro la criminalità organizzataGiuffrè Editore, 2010

Borsellino e il generale “punciutu” Cavaliero:“La vedova Borsellino mi disse che Subranni era…” “Circa dieci anni fa, sei o otto mesi prima del matrimonio di Manfredi (Borsellino, ndr), la signora Agnese utilizzò un’espressione nei con­fronti del generale Subranni”. Le parole dell’ex sostituto procuratore di Marsala, Diego Cavaliero, amico e col­lega di Paolo Borsellino negli anni di Mar­sala, ora giudice del lavoro a Salerno, han­no riacceso l’atten­zione su una rivelazio­ne di cin­que anni fa. “La signora Agnese – ha spe­cificato Cavallero deponendo al pro­cesso sulla trattativa – mi disse che poco tempo prima di morire, in un mo­mento di rabbia, il marito le aveva detto che il gene­rale Subranni era punciuto (af­filiato a Cosa Nostra, ndr). E che in quella occa­sione Paolo aveva vomi­tato appena tornato a casa”. Alle domande del pm Roberto Tartaglia Cavaliero ha risposto senza esitazione. Anche quando ha ricordato “la frenesia” di Borsellino al pensiero di aver perduto la sua agenda rossa. Era il 12 luglio 1992 e il giudice palermitano era venuto a Salerno per fare da padrino al battesimo del primo figlio di Cavaliero. “Lo andai a prendere a Baia e andammo da mia madre. Ricordo che Paolo aveva appoggiato l’agenda rossa sul letto. Appena scendemmo dalla mac­china Paolo ebbe la percezione che non aveva l’agenda. Era visibilmente agitato. Mi fece ‘smontare’ la macchina, alzare i sedili… Non trovandola mi fece tornare a Baia, e lì la trovammo sul letto dove l’ave­va lasciata. Solo allora si tranquillizzò. Era un maniaco delle annotazioni. Era l’archi­viazione fatta persona.”.

“La consapevolezza della fine”  “Il 28 giugno 1992 – ha raccontato anco­ra Cavaliero – c’incontrammo a Giovinaz­zo per un congresso. Le misure di prote­zione per Bor­sellino erano aumentate. Mi manifestò la sua forte preoccupazione, non lo disse apertamente, mi invitò ad accom­pagnarlo a prendere le sigarette e mi disse: Sai, quando muore una persona cara tu vai al funerale e ti addolori perché hai la con­sapevolezza che la tua fine è più vici­na. La cosa mi turbò molto”.

“Il suo umore era completamente diver­so, aveva perso quella giovialità che lo ca­ratterizzava, e il 12 luglio, al battesimo, si vedeva che era ‘assente’. Io venni a Paler­mo dopo la mor­te di Falcone e alloggiai a casa di Borselli­no. Lui era preoccupato. Ricordo la came­ra ardente… Paolo mi aveva detto: Fino a quando c’è Giovanni mi fa da parafulmi­ne”. Cavaliero ha quin­di ricordato “il moto di stizza” di Paolo Borsellino nel sa­pere della telefonata della batteria del Vi­minale che lo cercava da parte del prefetto Vincenzo Parisi. La percezione del si­gnificato della “fret­ta” che aveva Borselli­no per cercare di “forni­re una chiave di lettura di quella che era stata la morte di Falcone” è stato un al­tro aspetto fonda­mentale della deposizione di Cavaliero. “Che Paolo avesse fretta era evidente – ha specificato – Di­ceva di avere bisogno di una giornata di 48 ore. Era evi­dente che stesse inseguendo qualcosa dal punto di vista investigativo”.

Il pm Tartaglia ha ripre­so il verbale di interrogatorio di Cavaliero del 2012 in cui emergevano ulteriori dettagli in me­rito alle confidenze della vedova del giudi­ce. “C’era una nota fondamentale di ama­rezza nella signora Borsellino, di ca­rattere generale – aveva deposto allora – per ciò che riguar­dava gli sviluppi investigativi, ciò che più o meno stava succedendo nell’ambito delle indagini dell’epoca per la morte del marito. Mi disse che pratica­mente il ma­rito ave­va capito, non si capi­sce bene cosa, in quella condizione di fre­nesia…”. Ma cosa poteva aver capito il giudice Borselli­no in quei 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio? Nel pe­riodo successivo al 19 luglio ’92 il rappor­to tra Cavaliero e la fa­miglia Bor­sellino si era rinsaldato ancora di più. Nel mese di agosto del ’92 lo stesso magi­strato campa­no aveva portato la si­gnora Agnese e i suoi tre figli nella sua casa di villeggia­tura vici­no Salerno per dar loro un po’ di respiro. “In quel periodo la signora Agnese è sem­pre stata molto criti­ca su tutto ciò che le gravitava attorno, si lamentava che c’era­no amici e conoscenti che non aveva­no mai partecipato alla loro vita e che ora in­vece volevano un posto in prima fila…”.Alla domanda se avesse mai conosciuto una persona di nome Angelo Sinesio Ca­valiero ha risposto negativamen­te. I SICILIANI DICEMBRE 2014

 

Rito di iniziazione della Mafia.  

Per entrare in un’ organizzazione criminale spesso si deve ottemperare a un vero e proprio “rito di iniziazione”. C’ è molta emozione tra i partecipanti perchè nuovi membri entrano a far parte di una “ famiglia onorata”. ll padrino afferma:”La Mafia non esiste, è un’ invenzione puramente letteraria da noi chiamata ”Cosa Nostra”, state cioè per essere “combinati”, al termine della cerimonia di iniziazione voi farete parte della famiglia. Sarete uomini d’ onore, con tutti i privilegi e tutti i doveri che questo comporta.” Qui le regole non sono state mai scritte e tuttavia ogni adepto sa bene che cosa ci si aspetta da lui prima di farlo “uomo d’ onore”: prima di tutto nessuno dei suoi parenti deve essere o essere stato uno sbirro o un infame al servizio della polizia. Infine, tutti devono fornire una prova di coraggio e di valore , commettendo un delitto o un reato grave. Ad un certo punto il padrino dice: “Vi avverto… avete ancora la possibilità di tornare indietro, dopo sarà troppo tardi …, bene allora è con perfetta cognizione di causa che stiamo per iniziare”. “ Noi siamo un’ antichissima organizzazione che risale alla notte dei tempi , le nostre regole sono severe, guai a chi le infrange! Voi non toccherete le donne di altri uomini d’ onore. Il vostro comportamento sarà sempre improntato a serietà e rispetto. Non parlerete mai di Cosa Nostra davanti a estranei, non direte la vostra qualifica neanche ad altri uomini d’ onore.” La regola impone che la presentazione sia opera di un terzo, egli pure combinato che dirà: “Voi siete la stessa cosa, siete tenuti a dire tutta la verità ai vostri simili, questo è il nostro codice di comportamento, lo accettate?” In seguito il padrino prende un pacchetto di immagini sacre, uno stecco d’ arancio amaro, un coltello e una scatola di fiammiferi. “Si faccia avanti il primo candidato”, il giovane va verso il padrino che gli mette in una mano un santino con un’ immagine dell’ Annunciazione, la cui festa si celebra il 25 marzo, festa anche di Cosa Nostra. Con un gesto deciso incide il polpastrello del dito che gli viene offerto e gli fa colare il sangue sull’ immagine sacra, prima di lasciarla nelle mani dell’ aspirante unite a coppa. Poi dice: “Non dovrete mai tradire i nostri segreti. Si entra in Cosa Nostra con il sangue e se ne esce solo attraverso il sangue.” Quindi il padrino dà fuoco all’ immagine sacra e l’iniziato, dominando il dolore causato dalla fiamma, ripete :”Giuro di non tradire mai i comandamenti di Cosa Nostra. Se mai dovessi tradirli , che le mie carni brucino come quest’ immagine santa. Noi siamo una sola e medesima cosa . La nostra cosa. Cosa Nostra!.”
Anche per entrare nella Camorra c’è un rito iniziale. Gli adepti, alla luce di una candela, siedono attorno a un tavolo sul quale sono disposti un pugnale, una pistola carica e un bicchiere di vino avvelenato . Al candidato camorrista viene praticata un’ incisione al braccio con il pugnale. Poi egli giura obbedienza, fedeltà e discrezione tenendo il braccio insanguinato. Quindi impugna la pistola e se la punta sulla tempia, mentre con l’ altra mano si porta alle labbra il bicchiere avvelenato. In tal modo dimostra che la sua devozione. Dopo averlo fatto inginocchiare il Boss gli posa una mano sulla testa e gli consegna il pugnale; poi rivolgendosi ai presenti, proclama: “ Riconoscete l’ uomo!”. Così nascono i camorristi 21.02.13 LA REPUBBLICA


Intervista. Nitti: quei richiami alla religione per saldare il vincolo criminale  Il procuratore della Repubblica di Trani: Il richiamo a «termini religiosi e a cerimonie religiose, ha la capacità di creare un vincolo più saldo tra l’individuo e la cosca mafiosa»  Il richiamo a «termini religiosi e a cerimonie religiose, ha la capacità di creare un vincolo più saldo tra l’individuo e la cosca mafiosa». Una affermazione, quella del Procuratore della Repubblica di Trani e per molti anni sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Bari, Renato Nitti, che nasce da uno studio del rito dell’affiliazione fatto dalla magistratura pugliese.

Perché tanta attenzione?  In realtà si partiva da una necessità giuridica: il solo essere affiliato a una cosca è o no un reato? Alcune sentenze, male interpretate, sembravano lasciare aperto l’interrogativo. Allora diventava importante comprendere e approfondire i meccanismi di questo passaggio, di questo rito anche dal punto di vista giuridico, esaminandolo come se fosse un contratto, meglio, un negozio giuridico di cui è importante capire la forma richiesta, le vicende, ma soprattutto gli effetti: effetti per l’affiliato, per l’affiliante, per chi celebra la cerimonia di affiliazione e per il clan . È emerso con maggiore chiarezza che anche la sola affiliazione formale è una partecipazione reale alla organizzazione criminale. E il vincolo è reso stretto anche dall’uso di termini, e riti che si rifanno alla religione. Ecco allora l’utilizzo delle immagini sacre, di santi e delle varie Madonne, inserite all’interno del rito di affiliazione. Lo stesso favellante (colui che celebra il rito di affiliazione) in alcune intercettazioni viene paragonato al “prete che sa dire la Messa”, e così lodato per questa capacità, peraltro non comune.

La religione, quindi, come strumento per coinvolgere emotivamente gli affiliati?  Precisato che ci troviamo davanti a uno stravolgimento del senso religioso, il coinvolgimento emotivo cresce con il ricorso a questi riti e terminologie. È così forte che troviamo termini religiosi addirittura nei vari gradi della “carriera mafiosa”. Si parte dal picciotto, affiliato di primo grado senza particolari ruoli; poi si sale al grado di “camorra” e successivamente a quello dello “sgarro”. Gli altri due (non ultimi) gradini, corrispondenti al quarto e quinto grado di camorra , si chiamano “la santa”, da cui il termine “santista”, e addirittura il “Vangelo”. Sono i gradi in cui si può persino iniziare a generare nuove affiliazioni sotto di sè.

Basta solo questo per creare un legame così forte?  È la percezione che ci trasmettono i collaboratori di giustizia, che, pur confessando delitti, magari, nelle loro dichiarazioni, evocano “valori” di riferimento nel loro agire, che potrebbero richiamare quelli religiosi. Una sorta di diritto naturale, a cui tutti, anche se di clan diversi o di regioni diverse, si attengono.

Un esempio?  In più occasioni, collaboratori di giustizia hanno dichiarato di non aver portato a termine un agguato perché erano presenti dei bambini. “Non si uccide davanti ai bambini”, mi hanno spiegato. Oppure il rifiuto di affiliare un appartenente all’Esercito, perché indossava l’uniforme. “Se porta una divisa, serve lo Stato. Non può servire la mafia”. E così di seguito.

Che effetto le fa veder usare questi termini religiosi?  Infastidisce, ma devo onestamente dire che mi ha lasciato maggiormente perplesso l’atteggiamento tenuto da alcuni politici, magari vicini alla Chiesa, finiti nelle inchieste che ho seguito. Abbiamo, in alcuni casi, colto dei tentativi di strumentalizzarne i valori per finalità del tutto diverse.

Dunque un uso delle religione all’interno della cosca. Ma anche in Puglia si assiste all’uso strumentale della religione per raccogliere consenso sociale?  Nel mio circondario è meno ricorrente, rispetto alla realtà calabrese, la corsa a portare in spalla la statua della Madonna o del santo patrono, ma ovviamente la ricerca di consenso passa anche attraverso le feste patronali e, in generale, questi eventi, usati anche per accreditare in modo diverso il proprio potere presso la gente. La caratteristica principale (giuridicamente si dovrebbe dire: indefettibile) dell’associazione di stampo mafioso è il “metodo mafioso” e non le finalità criminali. È proprio qui che sta il cuore del reato di associazione di stampo mafioso, prevista dall’art. 416 bis del codice penale, che rispetto all’associazione a delinquere (il 416), non è finalizzato necessariamente soltanto a compiere reati, ma può avere anche altre finalità: il controllo delle attività economiche, la realizzazione di guadagni ingiusti, l’impedire il voto o anche semplicemente procurare il voto per sè o altri. Tutto però deve avvenire con la forza di intimidazione e con l’assoggettamento e l’omertà che ne conseguono: cioè con metodi mafiosi.

Vi siete mai domandati perché la mafia predilige la Madonna? Penso che la domanda richieda una risposta complessa. Non vi è dubbio che abbia decisiva rilevanza la profondità e l’estensione del sentimento popolare di devozione mariana. E probabilmente per la stessa ragione nel nostro territorio comincia ad essere richiamato, tra i “santini” utilizzati per celebrare il rito mafioso, anche quello di Padre Pio. Ma qui mi avventurerei in un ambito che non è mio e in cui ho necessità di confrontarmi con altre esperienze: credo che il lavoro a cui è chiamato il Dipartimento presso la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) rappresenti un passo importante per confrontarsi e analizzare tutti gli aspetti del fenomeno, inclusa la scelta della Madonna. Ognuno degli esperti esterni all’Accademia porterà la propria esperienza. In questa prospettiva, la condivisione potrà tornare utile a tutti, anche alla lotta alla mafia, perché potrà fornire ulteriori elementi per decriptare ulteriormente il senso profondo delle formule utilizzate per le affiliazioni e i successivi “movimenti”. Enrico Lenzi giovedì 20 agosto 2020 AVVENIRE

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco