PAOLO FICALORA, albergatore ucciso per aver ospitato Contorno

 

 

Paolo Ficalora (1933Castellammare del Golfo, 28 settembre 1992)  imprenditore ucciso dalla mafiaFicalora, capitano di lungo corso e poi gestore di un residence, fu ucciso dalla mafia nel 1992. Per lungo tempo la morte del capitano Ficalora è rimasta senza colpevoli e movente, lasciando spazio a supposizioni e illazioni. 

A raccontare i veri motivi del suo assassinio è stato, nel corso del processo, l’ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia. Ficalora fu ucciso per avere ospitato nel residence che gestiva il superpentito di Cosa Nostra Totuccio Contorno, nel periodo in cui era tornato in Sicilia. Del suo ospite ignorava l’identità che scoprì solo successivamente. Ficalora venne assassinato, con diversi colpi di arma da fuoco, proprio davanti a quel residence in cui aveva dato ospitalità al pentito, dal mafioso Gioacchino CalabròNel 2002, la vedova Ficalora, che per anni si era battuta per ottenere giustizia per la morte del marito subisce anche un’intimidazione: su un tavolo della sua abitazione trova un mazzo di fiori e alcuni proiettili. La Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha confermato la sentenza di condanna all’ergastolo per Calabrò, emessa in primo grado e condannato a dodici anni di reclusione con il rito abbreviato Giovanni Brusca. La sentenza ha trovato conferma definitiva in Cassazione nel 2004Al capitano Paolo Ficalora sono state intitolate quattro borse di studio. Il comune di Castellammare del Golfo, nel 2004, gli ha intitolato una strada.


Un uomo libero ucciso dalla mafia”, Castellammare non dimentica Paolo Ficalora. Il figlio: “Mio padre esempio di onestà”


Paolo Ficalora, il “capitano” ribelle. Era il 28 settembre 1992 quando il buio della notte veniva illuminato dai colpi di arma da fuoco esplosi contro Paolo Ficalora, Capitano di lungo corso della Marina mercantile ucciso sotto gli occhi della moglie. Siamo nel pieno della stagione del terrore, gli anni della Cosa nostra stragista, dei corleonesi di Riina e della mattanza per le strade della Sicilia.

Paolo Ficalora ha pagato con la vita l’essersi messo contro gli interessi dei mafiosi. Chi lo ha conosciuto a Castellammare del Golfo ricorda un uomo buono, onesto e profondamente innamorato del mare. Non navigava più ma non riusciva a stare lontano dalla sua terra.  Amava la pesca e il profumo della salsedine. Paolo non era solo un capitano di lungo corso. Paolo era un visionario ed aveva capito che il turismo sarebbe stato il futuro. Tanto certo di questo da creare, sul suo terreno in contrada Ciauli a Scopello, un piccolo residence da affittare ai turisti, a pochi passi dalla meravigliosa baia di Guidaloca. Un’iniziativa unica per quegli anni in una realtà che scoprirà il turismo soltanto negli anni duemila.

Quel residence però attira gli interessi di alcuni boss locali e di qualche colletto bianco. Inizia così un lungo periodo in cui Paolo Ficalora subisce intimidazioni di ogni tipo. Resiste per anni alle pressioni mafiose che volevano sottrargli il piccolo villaggio turistico. Era un uomo dalla schiena dritta, non aveva paura e non avrebbe mai permesso alla mafia di sottargli ciò che aveva creato.

Tra tanti c’è un episodio in particolare che sancisce  la condanna a morte emessa dai corleonesi nei confronti di quel Capitano “ribelle”. Paolo Ficalora affitta una villetta del suo residence ad una famiglia composta da genitori e figli piccoli ed apprende dopo, dai giornali, che questa famiglia ha avuto come “ospite” il super pentito di Cosa nostra Totuccio Contorno, di cui Ficalora ignora, ovviamente, l’identità. Contorno infatti veniva spostato continuamente in incognito. Per i mafiosi sanguinari è l’occasione perfetta: un affronto così non poteva restare impunito. A sparare nel cuore della notte, mentre il Capitano Ficalora stava aprendo il cancello di casa, il boss locale Gioacchino Calabrò, condannato all’ergastolo per l’omicidio Ficalora e per la strage di via dei Georgofili a Firenze.

Da subito è chiaro che ad essere ucciso è un innocente, totalmente estraneo ad ambienti mafiosi,   ma per lungo tempo la sua morte rimane avvolta in un mistero circa il  movente.  Iniziano le illazioni, le supposizioni e con il tempo la storia di Paolo e della sua famiglia passa nel dimenticatoio. Una “vittima di serie b”, circostanza che porta alla famiglia ancora più sofferenza.

Così come per Peppino Impastato e tante altre vittime innocenti. Uccisi due volte: dal piombo mafioso e dal silenzio della società civile.  Si arriverà alla verità e ad una piena giustizia soltanto anni dopo, a seguito di lunghi iter giudiziari.  A raccontare il movente del delitto Ficalora, nel corso del processo, è stato il collaboratore di giustizia di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca, lo stesso che azionò il telecomando che fece saltare in aria il tratto di autostrada tra Capaci e Isola delle Femmine, in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonino Montinaro. A Paolo Ficalora sono state intitolate diverse borse di studio e la città di Castellammare del Golfo gli ha dedicato una via nel 2004.

Questa è la storia di una famiglia che non si è mai arresa. La vedova Vita D’Angelo e i due figli Angelo e Tiziana, per anni, hanno cercato la verità nelle aule giudiziarie, sfidando a testa alta la potente mafia castellammarese. Questa incessante ricerca di verità e giustizia ha scatenato anche gravi intimidazioni nei confronti della moglie, dirigente scolastico a Palermo, città in cui la famiglia risiede. Avvertimenti in puro stile mafioso. Ma il coraggio e la determinazione della vedova e dei figli, che non si sono mai arresi, hanno avuto la meglio sulla violenza di Cosa nostra e su tentativi meschini di insabbiare i fatti.

Per restituire l’onore a Paolo Ficalora ci sono voluti dieci anni. Con sentenza definitiva la Cassazione ha chiuso  questa  vicenda criminosa. I figli e la moglie in tutti questi anni hanno tenuto vivo il ricordo del “Capitano buono” incontrando la società civile allo scopo di non dimenticare chi, con coraggio ed onestà, è stato assassinato solo per non aver accettato le prepotenze mafiose.

Dopo 26 anni la città di Castellammare del Golfo  ha ricordato con affetto e commozione il suo cittadino vittima innocente di mafia. L’anno scorso il paese si è stretto intorno alla famiglia,  che vive a Palermo ma continua a frequentare Castellammare nel periodo estivo, con una cerimonia solenne alla presenza delle autorità religiose, militati e civili, oltre a numerosi studenti e associazioni locali. Una memoria finalmente ritrovata se pur dopo tanti, troppi, anni.   di Emanuel Butticè LA REPUBBLICA 23.4.2019


Castellammare del Golfo, così si “mascaria” un delitto, la storia di PAOLO FICALORA.  Quel 1992, l’anno delle stragi, delle morti eccellenti, a scorrerlo per bene si scopre quanto sia insanguinato, segnato dalla cruda violenza mafiosa che non si ferma davanti a nulla. Basta un sospetto per ammazzare. Basta poi poco per “mascariare”. Occorreranno molti anni invece perché lo Stato riesca a condannare. E’ così, è la storia di questo Paese che per quanto moderno e occidentale in certe sue parti somiglia ancora oggi ad un Paese sudamericano. Castellammare del Golfo, è sera, è la sera del 28 settembre 1992. Una coppia, un uomo e una donna, marito e moglie, si apprestano a tornare nella loro casa di Guidaloca, una zona di villeggiatura vicino Scopello, a pochi chilometri dalla riserva dello Zingaro, quel costone di roccia che la mafia voleva cementificare. A Guidaloca ci sono diversi residence, uno di questi con i risparmi di una vita passata in mare, lo ha costruito Paolo Ficalora, capitano di lungo corso, adesso è in pensione e si dedica a quelle case e alle sue proprietà. La moglie è invece direttrice scolastica, Vita D’Angelo, ha sempre assecondato il marito, anche nelle scelte “imprenditoriali”, le è stata sempre accanto, vicino, lui ha sempre condiviso con lei ogni cosa, difficile perciò che lei non sappia qualcosa del marito. Quell’uomo per lei ha ammirazione, amore, non ha segreti.

 E’ quasi mezzanotte quando marito e moglie arrivano all’ingresso  del loro residence, “il villaggio del capitano” viene chiamato e da tutti pubblicamente riconosciuto, lui, il capitano Ficalora, guida una Peugeot, tornano a casa dopo una serata trascorsa a cena, invitati dal loro commercialista: “Ecco, siamo di nuovo al ranch, sei contenta?”, chiede Paolo Ficalora alla moglie che gli risponde con un sorriso, è lei che scende dall’auto per aprire il cancello e fare passare la vettura guidata dal marito, mentre la donna rivolge le spalle all’auto sente un improvviso susseguirsi di colpi, sordi, ma violenti, colpi di arma da fuoco, si gira e vede duo uomini vicino all’auto, fermi dal lato guida puntano armi contro il marito, lei si avvicina, urla, ma a lei non fanno nulla, nel buio difficile che possa vedere quei volti, vede il marito con il volto stravolto , vede mentre gli danno il colpo di grazia. Muore così Paolo Ficalora, davanti alla moglie che stringerà quel volto a se, raccogliendo l’ultimo respiro del marito. Il “calvario” per lei è appena iniziato. Si perché accoreranno 10 anni per vedere riconosciuta quella morte come una morte per mano mafiosa. E’ infatti la vittima a finire sotto inchiesta, il morto ammazzato, cominciano a circolare storie strane, e infondate, sul suo lavoro, su come aveva costruito quel residence, sulle sue frequentazioni, quando finalmente comincia ad affacciarsi una possibile verità, ecco ancora fango. Tre anni dopo la morte violenta del marito, la signora D’Angelo vede una foto in tv e sui giornali, riconosce quella persona come un ospite di una delle case del residence, c’era stato molti anni prima, quando il marito era in vita, ma il nome che sente pronunziare non è quello con il quale questi si era presentato a loro, il vero nome è pesante, Salvatore “Totuccio” Contorno, il famoso collaboratore di giustizia, “Coriolano della foresta”, il pentito che quando stava nelle case del capitano a Guidaloca sarebbe andato in giro a compiere vendette contro i mafiosi che lo volevano morto. Il delitto di Paolo Ficalora per primo viene raccontato da uno dei due sicari che entrarono in azione, Giovanni Brusca, l’altro era il famoso lattoniere di Castellammare del Golfo Gioacchino Calabrò, il lattoniere esperto di stragi, condannato nell’ambito delle indagini sulla strage di Pizzolungo, coinvolto in quelle del 1993, protagonista del fallito attentato del 1993 all’Olimpico di Roma. Brusca racconta il delitto e svela che per la mafia il capitano Ficalora avrebbe avuto consapevolezza che il suo ospite era Contorno. Falso dice la vedova. Prima ancora di quella rivelazione di Brusca, la morte del capitano Ficalora era stata spacciata dalla “vox populi” per una morte avvenuta nell’ambito dei contrasti tra i clan rivali dell’alcamesi, addirittura c’è qualche investigatore, dei carabinieri, che si intestardisce che questa è la pista giusta da battere, la mafia prima ti ammazza e poi ti mascaria diffamandoti. Una pista seguita perché la pistola usata per uccidere Paolo Ficalora era comparsa in delitti della faida di Alcamo che si combatteva in quel 1992 tra Alcamo e Castellammare del Golfo. Vita D’Angelo per dieci ripeterà sempre la stessa cosa, rivendicherà quello che risulterà essere la giusta cosa, “voglio solo che mio marito sia riconosciuto vittima innocente della mafia. Non mi interessano i risarcimenti economici, ma pretendo che lo Stato certifichi la sua completa estraneità alla mafia”. Le ci sono voluti più di dieci anni, ma alla fine c’è riuscita.

 Nel 1988 una delle case del residence del capitano era stata presa in affitto da un imprenditore agricolo di Villabate, Agostino D’Agati, racconta al capitano Ficalora, che da un anno è in pensione, che ha bisogno di una abitazione per la sua famiglia, in attesa che il suocero completi la loro, D’Agati racconta che vuole seguire quei lavori e per questa ragione preferisce venire ad abitare nei pressi trasferendosi così da Villabate. Affitto perfettamente regolare con tabnto di contratto e segnalazione al commissariato, per legge le locazioni vanno denunciate. I Ficalora invece non abitano lì, ci vanno solo la domenica, il capitano non lavora più, ma la moglie è ancora dirigente scolastica a Palermo dove risiedono, e così quando la domenica arrivano a Guidaloca di tanto in tanto incontrano altre persone che sembrano essere lì quali ospiti dei D’Agati che li presentano loro come “parenti”, Gaetano e Salvatore, il primo è appassionato di caccia, come il capitano Ficalora, motivo per cui i due spesso si ritrovano assieme a parlare. Tutto questo succede fino al maggio del 1989 quando i D’Agati vanno via, dicono che la loro casa è stata completata.  

Paolo Ficalora ama quel residence, si dedica anima e corpo, in  quella Castellammare del Golfo “governata” da mafia e massoneria, c’è però chi vorrebbe per se quel terreno, ma Paolo Ficalora difende la sua proprietà, nonostante avere subito nel tempo incendi, danneggiamenti, gli fu ucciso anche il cane, un pastore tedesco. Il pensiero che circolava nei Ficalora è che quello accadeva per via del fatto che il capitano non ne voleva sapere di aderire alle richiesta di vendita. Pensa ancora che il delitto del marito maturò in quel contesto anche quando un capitano dei carabinieri la andò a trovare dicendo che lei doveva decidere cosa fare, “mi chiese che dovevo scegliere o le cose o la vita”. Quel capitano fu cacciato via malamente dalla signora D’Angelo che lo denunciò anche senza che però la cosa ebbe un seguito. Ma contro di lei comincia a muoversi la macchina della diffamazione, più lei va avanti ricostruendo quello che è accaduto, a loro insaputa (e in questo caso non è tanto per dire, non è un “insaputa” di ministeriale memoria), la storia di Contorno, dei D’Agati, crescono le voci che la danno per “visionaria”, “pazza”, altre donne sarebbero impazzite, lei invece no va avanti, fino ad incontrare un pm, il magistrato  Gabriele Paci,che decide di ascoltarla, trova i riscontri, scrive la vera storia del capitano Ficalora, il magistrato oggi è uno di quelli impegnato a Caltanissetta a riscrivere in modo corretto quello che accadde prima e dopo la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992. Paolo Ficalora fu ucciso dalla mafia per avere dato ospitalità nel 1988 al pentito Totuccio Contorno. Ma lui non sapeva che il suo inquilino era Contorno. Brusca è stato condannato a 12 anni per questo omicidio, Calabrò all’ergastolo. Dietro le quinte del delitto si muove anche un imprenditore-mafioso, Leoanrdo Cassarà, che morirà anche lui, fu lui ad avvertire Totò Riina che Contorno abitava in quel residence, una informazione che arrivò al capo dei capi quasi in diretta, in quel 1989, ma la conseguenza mortale maturerà contro Ficalora anni dopo, e il perché è legato al fatto che la mafia castellammarese non aveva dimenticato quella circostanza ma se ne era maggiormente ricordata quando Ficalora aveva chiuso le porte in faccia proprio a Cassarà che era andato a chiedere di vendere quel terreno e quel residence. Nella motivazione delle condanne il giudice scrive: “Al capitano Ficalora si è voluto infliggere un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subìto, tormento che, travalicando i limiti della esistenza umana, avrebbe coinvolto quanto di più nobile ed elevato un uomo può avere: la dignità e l’orgoglio della propria onestà morale”. “Mio marito – racconterà la vedova – era orgoglioso della sua indipendenza politica e sociale, ed è morto senza sapere perché”. 30.9.208 liberainformazione. di Rino Giacalone

 

 

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF