DOMENICA 8 MAGGIO 1994 Il pentito depone a Roma davanti ai giudici palermitani. Racconta che il boss corleonese disse che c’era la possibilità di sequestrare il capitano dei carabinieri 《Ultimo》. «E aggiunse che voleva torturarlo e ucciderlo» Cancemi: Provenzano progettò di rapire l’uomo che catturò Riina.
ROMA I pentiti Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera sono stati ascoltati ieri nell aula bunker del Foro Italico a Roma, dai giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo davanti ai quali si celebra uno stralcio del primo maxiprocesso a Cosa nostra.
Il primo a deporre è stato Cancemi che si è soffermato su una serie di «delitti eccellenti», come gli omicidi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del dirigente della squadra mobile Boris Giuliano e dei boss mafiosi Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo.
Cancemi ha affermato di riferire notizie apprese nel tempo da Pippo Calò, Raffaele Ganci, ma soprattutto «da Totò Riina che in commissione aveva la mania di vantarsi di essere riuscito a sterminare i suoi nemici e raccontava gli episodi in cui erano stati eliminati».
Cancemi, boss di Porta Nuova, si era consegnato ai carabinieri di Palermo nel luglio del 1993 perché, ha affermato, si sentiva <> e quindi temeva ormai per la sua vita.
Nell’ambito della commissione egli ha ereditato da Pippo Calò il comando della cosca di Porta Nuova e con tale ruolo ha partecipato, dall’85, alle riunioni della commissione di Palermo.
Di questa ha quindi descritto la composizione a quell’epoca, ha precisato alcuni luoghi dove si svolgevano le riunioni come San Giuseppe Jato e la Favarella.
Cancemi ha confermato il ruolo decisionale della commissione circa gli omicidi più importanti da eseguire a Palermo, come quelli di Giuliano e dei capi mafia Bontade e Inzerillo.
Questi ultimi, ha aggiunto, furono decisi dopo che i due avevano dato un appuntamento a Riina e Pippo Calò nella zona di Boccadifalco.
Ma «un traditore, Salvatore Montalto, li avvertì che si trattava di una trappola per farli strangolare – ha detto Cancemi e loro non ci andarono. Per questo furono eliminati Bontade e Inzerillo.
C’erano contrasti di potere tra loro ed i corleonesi e questi riuscirono a colpire per primi».
Il pentito ha poi affermato di non conoscere particolari specifici sull’uccisione del generale Dalla Chiesa.
Rispondendo ad una domanda della corte ha quindi sottolineato l’importanza del boss Bernardo Provenzano: «Tiene in mano tutti gli appalti, in questo è più forte di Riina.
È lui che ha gli agganci politici qui a Roma, non si è arreso», ed ha parlato di una riunione del maggio ’93 in cui Provenzano comunicò che c’era la possibilità di rapire il capitano dei carabinieri «Ultimo» (l’autore dell’arresto di Riina) per torturarlo e poi ucciderlo.
《Ci fu un momento di silenzio — ha ricordato Cancemi rotto da La Barbera che disse: Vogliamo metterci a fare la guerra allo Stato?》,
È stata quindi la volta dello stesso La Barbera che ha descritto la sua 《carriera》 all interno di Cosa nostra, dall’affiliazione avvenuta all inizio dell’81 fino all’arresto del marzo 1993.
Ha ricordato di essere stato 《reggente》 di Altofonte per tutto l’89 (al posto di Andrea Di Carlo, al tempo latitante) su ordine di Baldassarre Di
Maggio, il pentito che ha contribuito all’arresto di Riina. Negli anni in cui si svolsero i fatti oggetto del processo (tra il ’79 e l’82), ha detto La Barbera, «io ero stato appena affiliato quindi non posso conoscer ne i particolari, ero un se plice soldato».
In seguit ebbe però modo di conosce re sia Riina (<<nel ’92, in un villa di Mazara>>) che Leolu ca Bagarella («fu lui che i invitò a tornare a Palerm da dove ero stato allontana to nel ’90 quando Giovani Brusca era uscito di prigic ne»). «E Provenzano?», g ha chiesto il presidente R sario Gino.
《Non l’ho mi incontrato – ha risposto L Barbera però accomp gnai Bagarella ad un incor tro con lui, subito dopo l’a resto di zu’ Totò. Prima B garella era nervoso, ma ritorno mi disse: “Finchè c’ un solo corleonese libero, continua come prima, null è cambiato”》
Di professione macellaio, Cancemi venne affiliato nella cosca mafiosa di Porta Nuova da Vittorio Mangano, alla presenza del boss Giuseppe Calò. Dopo l’arresto di Calò, Cancemi venne nominato reggente del mandamento di Porta Nuova da Salvatore Riina. Nel maggio 1992, nei pressi dello svincolo di Capaci sull’Autostrada A29, Cancemi supervisionò il commando mafioso che piazzò il tritolo che uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti di scorta.
Il 22 luglio 1993 Cancemi si consegnò spontanemente ai Carabinieri e decise di collaborare con la giustizia, dichiarando che la mattina successiva avrebbe dovuto incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri, capomandamento di Santa Maria di Gesù, per poi raggiungere Bernardo Provenzano in una località segreta, offrendosi di aiutarli ad organizzare una trappola; l’informazione però venne considerata non veritiera dai Carabinieri, i quali erano convinti che Provenzano fosse morto poiché dopo un decennio la moglie e i figli erano tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidendo quindi di non sfruttare l’occasione. In seguito, Cancemi rese dichiarazioni sull’organizzazione delle stragi del ’92 e ’93, sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra e sui rapporti dell’organizzazione con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.
Cancemi, che viveva sotto protezione in una località segreta vicino a Trapani, è morto il 14 gennaio 2011 per un ictus. La notizia è stata diffusa solo due settimane dopo, il 27 gennaio.
L’incontro con Salvatore Cancemi Sono trascorsi dieci anni, ma il ricordo di quella giornata resta scolpito dentro di me. Indelebile. Alcuni uomini del Servizio Centrale di Protezione si presentano nel luogo prefissato. Mi indicano di seguirli. La loro auto precede la nostra per condurci all’appuntamento. Arrivo in anticipo insieme ai miei più stretti collaboratori. Scendiamo dalla macchina ed espletiamo le procedure formali. Sono concentrato sull’importanza dell’incontro con Salvatore Cancemi, ex boss di Cosa Nostra. Ripenso alle centinaia di ore di registrazioni audio delle sue deposizioni ai processi di mafia più importanti che ho ascoltato negli ultimi anni. Mentalmente ripasso a memoria le sue dichiarazioni. E’ quasi mezzogiorno di una giornata assolata di fine novembre. Passano alcuni minuti ed arriva la seconda squadra con gli uomini del Servizio Centrale di Protezione. Insieme a loro c’è l’ex uomo d’onore del mandamento di Porta Nuova. La mia richiesta di poterlo intervistare con il fine di realizzare un libro è stata accettata dopo alcuni mesi di cavilli burocratici. Le procure competenti, il ministero dell’Interno e soprattutto il collaboratore di giustizia, hanno dato il benestare. Mi incammino verso di lui. Salvatore Cancemi osserva ogni mio movimento. Ci presentiamo con una stretta di mano. Sono istanti lunghissimi nei quali entrambi cerchiamo di “sondare” le rispettive intenzioni. Siciliani, lui ed io, ci studiamo senza troppe parole per cercare di capire se possiamo fidarci l’uno dell’altro. E’ cambiato, Salvatore Cancemi, dalle foto segnaletiche della polizia di Stato. Ha il volto più segnato. Gli occhi sono vigili, attenti ad ogni minimo segnale. Entriamo in un anonimo appartamento messo a disposizione dal Servizio Centrale di Protezione. Osservo l’uomo d’onore che sedeva nella ristrettissima Commissione accanto a Totò Riina. Mi siedo di fronte all’ex mafioso che ha partecipato alle riunioni dove sono state decise le stragi di Capaci e via d’Amelio, che ha ordinato centinaia di omicidi, partecipando attivamente ad alcuni di questi. «Cosa prova a stare seduto di fronte ad un ex assassino?», alla sua domanda a bruciapelo replico senza remore: «Se non fossi un cristiano, un uomo di fede e soprattutto se non credessi che lei ha dato allo Stato italiano un insostituibile contributo per la sua collaborazione, penserei alla pena di morte». Mi guarda fisso negli occhi e apprezza la mia sincerità. Inizia così un lungo viaggio dentro la storia dell’unico membro della Commissione di Palermo, l’organo di vertice supremo di Cosa Nostra, ad essersi costituito liberamente, senza condanne da scontare, il 22 luglio 1993, all’età di 51 anni. Per sette mesi ci incontreremo in diverse località protette. Ogni volta sarà per me come immergersi in un mondo parallelo nel quale l’eterna lotta tra il bene e il male assume contorni indefiniti e ambigui, dove il bianco e il nero si fondono in un’unica striscia grigia, che lascia dietro di sé vittime e carnefici. Un mondo dove il sangue dei martiri caduti per questo Stato reclama ancora giustizia. Salvatore Cancemi è consapevole di essere stato condannato a morte dalla mafia per il suo pentimento, ma è altrettanto determinato a non tornare indietro sui suoi passi. «Io mi sono condannato a morte da solo – mi dice con assoluta convinzione – quando ho deciso di rivelare tutto quello che sapevo su Cosa Nostra. Ormai, per me, più buio di mezzanotte non può fare…». Resto ad ascoltarlo mentre mi parla del suo rito di iniziazione dentro l’organizzazione criminale più potente al mondo, del suo primo omicidio, di quel “codice d’onore” nel quale aveva creduto e del suo forte legame con Vittorio Mangano. Mi parla della sua consegna ai carabinieri di Palermo. Quel giorno Cancemi si doveva incontrare con Bernardo Provenzano, è quindi un’occasione straordinaria per poterlo catturare, ma invece tutto si blocca e nessuno procede a verificare la preziosa informazione di un latitante spontaneamente consegnatosi alle forze dell’ordine. Cancemi racconta ancora di aver messo subito in guardia i carabinieri delle minacce di morte nei confronti del capitano Ultimo, di avere riferito che Provenzano aveva fatto intendere di potere catturare e torturare l’ufficiale dei carabinieri che aveva arrestato Riina grazie ad «agganci interni». «Io ho fatto parte di Cosa Nostra per venti anni, circa – esordisce l’ex boss – e non ho parole a sufficienza per farvi capire il male che questa organizzazione rappresenta. E questa è una cosa. Per me, invece, i mafiosi sono quelli in giacca e cravatta che trattano con Cosa Nostra…». Ed è proprio quando si addentra a raccontarmi delle collusioni di Cosa Nostra con la politica, la massoneria e i servizi segreti che il livello della conversazione approda su campi minati. E’ una strada senza ritorno. Per chi la percorre e per chi ne viene a conoscenza. «Se Cosa Nostra non avesse avuto e se non avesse tuttora gli agganci che ha – sottolinea Cancemi – sarebbe solo una banda di sciacalli, niente di più. Cosa Nostra è diventata quello che è grazie alle collusioni, ai favori, alle amicizie con pezzi dello Stato, dei politici ecc… Questo vale tanto per le leggi accomodanti quanto per gli appalti». Alla mia domanda sui collegamenti tra Cosa Nostra e il Vaticano impallidisce. «Se io parlo mi fanno a pezzettini – esclama Cancemi alzando il tono della voce – e pure a lei!…», il suo sguardo tradisce un’ombra di paura. Il collaboratore di giustizia mi accenna solamente l’impossibilità di poter riferire di questi meandri oscuri, dopodiché si trincera dietro un impenetrabile «no comment». Ma entrambi sappiamo riconoscere il significato di quel silenzio. Affrontiamo così la questione della “trattativa” tra Stato e Cosa Nostra, Salvatore Cancemi mi conferma che «la strategia del silenzio», quella che ha imposto lo stop alla «strategia stragista» è stata concordata ad alti livelli con «un accordo basato su un interesse comune». Alla mia domanda se possano avvenire ancora stragi nel caso che questo «equilibrio» si rompa, Cancemi non ha dubbi: «Succede un macello… si… anche stragi…». Resto un attimo in silenzio e gli chiedo cosa succederebbe se Totò Riina si dovesse pentire. «Crederei più ad un asino che vola – risponde al di fuori di qualsiasi ironia – e comunque se dovesse succedere sarebbe come fare esplodere una bomba atomica: con tutti i segreti che sa, cadrebbe mezza Italia…». «Ma non vede come hanno paura delle collaborazioni? – mi chiede poi con grande amarezza – Solo gli onesti vogliono la collaborazione dei “pentiti” e cercano i veri riscontri; quelli che hanno gli scheletri negli armadi hanno fatto di tutto per sbugiardarci e delegittimarci…». Di seguito Salvatore Cancemi approfondisce il suo rapporto con Totò Riina. «Entro a far parte della Commissione nel 1987, come reggente del mandamento di Porta Nuova – racconta – io seguivo la politica di Riina che è sempre stata quella di convivenza con lo Stato». L’ex boss mi spiega di essere stato a conoscenza che «molti uomini di Cosa Nostra, soprattutto i grandi capi storici, Saro Riccobono, Stefano Bontade, Salvatore Inzerillo, e persino Riina e Provenzano hanno avuto rapporti confidenziali con i carabinieri e la polizia o più in generale con referenti istituzionali esterni a Cosa Nostra». A quel punto gli domando brutalmente se ritiene che Riina sia stato tradito. Di scatto mi risponde affermativamente, poi però si fa pensieroso e plasma leggermente la sua affermazione. «Non lo so con certezza – mi risponde dopo qualche secondo di silenzio – ma penso che qualcosa c’è stata… non lo escludo e nemmeno lo confermo…». Cercando di approfondire un punto tanto delicato come questo gli chiedo di farmi capire il ruolo di Provenzano nel possibile tradimento di Riina. Per rispondermi Salvatore Cancemi cita l’episodio della conversazione avuta anni prima con il suo ex legale il quale gli aveva confidato che «un grosso latitante corleonese è in contatto con i servizi segreti». «Se vado per esclusione – mi dice guardandomi fisso – Riina non ci credo, visti poi i risultati; Bagarella non era il tipo, era più un killer senza scrupoli, chi rimane?…». Restiamo una frazione di secondo in silenzio con lo stesso pensiero, dopodichè mi risponde di getto. «Provenzano è più intelligente di Riina, più astuto…» per poi aggiungere provocatoriamente: «A meno che non ci sia un corleonese occulto!». Rifletto insieme a lui sul fatto che Cosa Nostra ha sempre scelto dei momenti particolari della storia politica e istituzionale del nostro Paese per provocare i grandi delitti eccellenti. «Al momento giusto – commenta il collaboratore di giustizia – per ottenere il massimo risultato attraverso la destabilizzazione…». Evidenzio che dietro alla strage del rapido 904 c’era Cosa Nostra, così come dietro Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze, Milano. Gli ricordo che addirittura è stata chiesta l’intercessione a Cosa Nostra per salvare Aldo Moro. Analizzo quindi l’assurdità di voler pensare che Cosa Nostra sia stata “sola” a commettere queste azioni criminose. «E’ ovvio che non lo è – replica tutto d’un fiato Cancemi – agisce a volte su richieste esterne quando questo, in qualche modo, le convenga». Ascolto le sue parole attentamente, torno subito dopo al capitolo della strage di via d’Amelio, per arrivare a quelle «entità esterne» dietro Cosa Nostra di cui si parla nelle sentenze della strage del 19 luglio ’92. «Vale lo stesso discorso per tutte le stragi – risponde amaramente il collaboratore – Riina è stato “preso per la manina” in questa strategia perchè, va bene che era pazzo, ma non così tanto. Se voleva mandare un messaggio bastava che mettesse una bomba al mercato della Vucciria o al Capo a Palermo e faceva centinaia di morti. Invece con quegli obbiettivi così precisi gli interessava colpire determinate persone». «Per me è stato guidato dall’esterno – conferma Cancemi – a lui interessava condurre i suoi affari tranquillamente e per farlo aveva bisogno di convivere pacificamente con lo Stato; avrà dato qualcosa in cambio…». Il nervo scoperto della collaborazione di Salvatore Cancemi è legato a due nomi ben precisi: Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri (il primo e il secondo finiti nelle indagini sulle stragi del ’92 e del ’93 successivamente archiviate pur confermando la vicinanza degli ambienti Fininvest «con gli stragisti»; il secondo è stato anche condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a 9 anni in primo grado e a 7 anni in appello). Dal momento in cui Cancemi li ha indicati quali possibili complici di Cosa Nostra nel biennio stragista ’92/’93, su di lui si è scatenato l’inferno. In men che non si dica si sono materializzati indegni attacchi politici mirati a distruggere la sua collaborazione, così come ignobili attacchi nei confronti dei magistrati che investigavano sulle stragi. Dopo essere stato ripudiato dalla sua famiglia per la scelta di collaborare, l’ex boss di Cosa Nostra si è trovato quindi ad affrontare l’attacco virulento di uno Stato totalmente deciso a non processare se stesso. Senza troppi preamboli gli chiedo il motivo per il quale ha indicato quei nomi. «Prima di tutto perché li ha fatti Riina in persona – mi risponde in maniera molto diretta – e poi perchè, un giorno, siamo circa nel ’90-’91, Riina mi chiama appositamente, assieme a Ganci Raffaele, nella casa di Girolamo Guddo e mi dice di rintracciare Vittorio Mangano che aveva lavorato ad Arcore nella villa di Berlusconi. “Totù – mi ordina Riina – dicci a Vittorio Mangano che si deve mettere da parte perchè Berlusconi e dell’Utri ce li ho nelle mani io. Se no dicci che mi ricordo della Magnum 357 che regalò a Bontade…”, che era il suo nemico. Poi ha aggiunto: “E questo è un bene per tutta Cosa Nostra”». «Allora io chiamo Mangano – continua il racconto Cancemi – e gli dico: “Vittò, tu mi devi fare un favore!” e glielo spiego. Lui ci è rimasto male: “Totù, ma che stai dicendo (dice Mangano a Cancemi, nda), io ce li ho nelle mani da una vita! Ma perché qual è il problema, non sono un uomo d’onore io?…”. “Vittò, fammi sta cortesia (risponde Cancemi a Mangano, nda), lo sai che ti voglio bene, ma quando Riina mi dice che è un bene per tutta Cosa Nostra, mi vuoi dire cosa ci devo andare a dire io”. Lui abbassò gli occhi e mi disse: “Se mi dici che dobbiamo fare così, allora facciamo così”». «Questa è la verità – afferma con vigore Cancemi – non m’interessa se mi portano all’inferno, ma queste sono state le parole di Salvatore Riina». Nell’ultimo incontro che ho con Salvatore Cancemi il nostro dialogare prende immediatamente una piega pessimista, anzi disfattista. «Non c’è più niente da fare – mi dice con un misto di rassegnazione e di rabbia – abbiamo perso…». Ma il suo stato d’animo lascia comunque intravedere un moto di orgoglio e di dignità per non aver ceduto alla tentazione di ritrattare. «Solo Gesù Cristo può distruggere Cosa Nostra – afferma con profonda convinzione – se lo Stato avesse voluto sconfiggerla non avrebbe mai dovuto distogliere l’attenzione, nemmeno un istante». Poi però aggiunge che rifarebbe mille volte la scelta di collaborare e che nulla gli toglie la convinzione che solo con la collaborazione con la giustizia si può abbattere «questo male». Gli domando allora cosa direbbe ai figli dei mafiosi che sono sulla strada per diventare uomini d’onore. «Allontanatevi immediatamente – replica Cancemi con un’autorità che gli apparteneva negli anni passati – voi in questo momento siete accecati, e pensate che non sia un male; invece lo è, il più terribile! E anche se sentite i vostri genitori, vostro padre, dire cose cattive, andate a riferirlo, immediatamente. So che questo è molto difficile, ma io vi suggerisco questo. Allontanatevi da questo male!». Sorprendentemente lo stesso Salvatore Cancemi decide di concludere quella lunghissima conversazione iniziata sette mesi prima con un richiamo al figlio maggiore del capo di Cosa Nostra. «Voglio lanciare un appello affettuoso – annuncia Cancemi – al figlio di Salvatore Riina, Giovanni, perchè si penta. Io non l’ho mai conosciuto, ma vorrei invitarlo a collaborare con la giustizia, così vediamo se ci riusciamo a distruggere questo male»21. Resto colpito dal messaggio finale dell’ex boss di Cosa Nostra. Mi domando il motivo per il quale Cancemi si sia rivolto al figlio Giovanni e non al padre Salvatore Riina. Salvatore Cancemi sa benissimo che se Giovanni Riina si pentisse, il padre perderebbe gran parte del suo prestigio che potrebbe indurlo persino ad una collaborazione parziale o totale. In tal modo esploderebbe quella «bomba atomica» di cui mi parlava Cancemi all’inizio. E solo spazzando via quegli «ibridi connubi» responsabili delle «stragi di Stato» del nostro Paese la parte «pulita» delle istituzioni potrebbe vincere definitivamente la guerra contro Cosa Nostra. L’intervista finisce. Probabilmente con Salvatore Cancemi non ci vedremo più. Lo sappiamo entrambi. Ci salutiamo con un abbraccio che racchiude rabbia, consapevolezza e speranza. Rabbia nel rendersi conto di essere all’interno di un «gioco grande» capace di sovvertire i ruoli e di sacrificare chiunque nel nome di una «ragione di Stato». Consapevolezza di percorrere una strada senza ritorno. E speranza, assoluta e vibrante, di poter contribuire alla sconfitta di Cosa Nostra. Scendo le scale e mi avvio alla macchina. Il pensiero che tutte le vittime di Cosa Nostra non siano morte invano sull’altare di uno Stato troppo spesso complice di un «sistema criminale» che sovrasta da sempre il nostro Paese mi accompagna fino al mio ritorno a casa. *tratto dal libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (Bongiovanni-Baldo, Aliberti ed.)
Calò: ‘Riina volle le stragi è un pazzo, andava ucciso’ Da una parte il «dissociato» Pippo Calò in videoconferenza dal carcere di Spoleto, dall’ altra, nell’ aula bunker di Firenze, il pentito Salvatore Cancemi, due ex boss di primo piano di Cosa nostra, adesso uno contro l’ altro. Si sono accusati e insultati, nel breve confronto interrotto dal presidente della Corte d’ assise d’ appello di Catania, Pietro Lucchesi, che ha voluto limitare il faccia a faccia soltanto a «specifici argomenti», per provare se i boss detenuti potevano comunicare con l’ esterno e decidere o meno le stragi di Capaci e di via D’ Amelio. Ma soprattutto Calò, che aveva già lanciato messaggi di dissociazione, si è spinto ad accusare duramente il supercapo di Cosa nostra, Salvatore Riina. «Solo lui ha voluto le stragi – ha detto – è un pazzo, andava ucciso». Nel breve confronto, Calò e Cancemi se ne sono dette di tutti i colori. E, contrariamente alle aspettative (Calò ha quasi sempre perso i confronti, primo tra tutti quello «storico» con Buscetta nel maxiprocesso), ieri l’ ex capo della famiglia di Porta Nuova ha messo in difficoltà il pentito Cancemi, accusandolo di non aver fermato Riina. «Se Totò Riina è responsabile delle stragi tu lo dovevi fermare – ha gridato a Cancemi – è stato un pazzo e doveva essere rinchiuso in manicomio oppure lo dovevi ammazzare perché non si possono compiere quegli atti». Calò non ha certo negato il suo pedigree di uomo d’ onore: «Io sono figlio di Cosa nostra, il mio bisnonno era mafioso, mio nonno era mafioso, mio padre era mafioso ed anch’ io lo sono stato, ma la Commissione mafiosa, quella non esiste più dal 1981». L’ ex capo della famiglia di Porta nuova ha spiegato come e perché i boss che erano in carcere non potevano appoggiare la strategia stragista di Totò Riina. «In carcere – ha detto Calò – abbiamo maledetto chi ha deciso la morte di Falcone e Borsellino perché quelle stragi sono state anche la nostra condanna a morte, hanno fatto le leggi speciali e hanno varato il 41 bis che è la morte. Ho 72 anni, sono ormai rassegnato a trascorrere il resto della mia vita in carcere, ma non voglio essere condannato per reati che non ho commesso, e Cancemi questo lo sa. Sono nelle condizioni di non poter chiedere perdono a nessuno dei familiari delle vittime delle stragi in cui sono stato condannato, per il treno 904, per Falcone e per Borsellino, perché sono innocente. Cancemi lo può fare – ha aggiunto l’ ex boss di Porta Nuova – perché lui ha responsabilità in queste stragi». Cancemi ha contrattaccato. «Come facevo a fermare Riina, tu l’ hai fermato quando avete deciso la strage Chinnici?». Calò ha negato di essere coinvolto anche in questa strage e allora Cancemi lo ha incalzato: «Perché non dici che tu e io abbiamo strangolato i due figli di Tommaso Buscetta». E infine, rivolto a Calò: «Perché non collabori anche tu?». L’ ex capomafia gli ha risposto a tono: «A te non conviene che io collabori, perché metterei nei guai te e altri». Poi una riflessione di Calò sullo strapotere dei “corleonesi” che ha concluso il confronto: «Signor presidente, mi limiterò soltanto a ricordare un vecchio detto siciliano: quando c’ è la forza, la ragione non conta». FRANCESCO VIVIANO 25 gennaio 2004 La Repubblica
CANCEMI Salvatore Era inserito dal 1976 nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Porta Nuova, prima come “uomo d’onore”, poi intorno al 1982 come capodecina. Successivamente era divenuto il vice di CALO’ Giuseppe, che sostituiva durante le frequenti assenze di quest’ultimo da Palermo intorno al 1983 e, infine, dal 1985, epoca dell’arresto di CALO’ Giuseppe e di numerosi altri esponenti di rilievo di quel mandamento a seguito delle propalazioni di BUSCETTA Tommaso e di altri collaboratori di giustizia, aveva svolto il ruolo di sostituto nella direzione del mandamento e di componente della commissione provinciale di Palermo.
Assai vicino a GANCI Raffaele, capomandamento della Noce, territorio limitrofo a quello da lui controllato, il CANCEMI ebbe a partecipare con questi all’esecuzione di numerosi dei più gravi delitti posti in essere da COSA NOSTRA, tra cui le stragi del 1992.
Il 22 luglio del 1993 si costituì presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Piazza Verde a Palermo ed iniziò a collaborare con l’A.G., spiegando che le ragioni della sua scelta erano legate principalmente alla volontà di non condividere ulteriormente le strategie delittuose progettate dal RIINA.
Ma per poter valutare l’attendibilità del CANCEMI appare necessario esaminare sotto un profilo cronologico l’evoluzione delle dichiarazioni rese innanzi tutto sui temi generali delle ragioni della sua scelta collaborativa e del ruolo e delle attività svolte all’interno di COSA NOSTRA. Particolarmente evidente appare, infatti, nel caso del CANCEMI la presenza di numerose riserve e reticenze che caratterizzano la sua collaborazione e che devono essere compiutamente analizzate per comprenderne le motivazioni e, quindi, l’effetto inquinante che esse hanno esercitato sulle sue dichiarazioni. A tal uopo assumono, pertanto, notevole rilievo le dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento mediante lo strumento delle contestazioni, nonché quelle acquisite ai sensi dell’art. 238 del codice di rito.
Dalle prime dichiarazioni rese dal CANCEMI in data 22 luglio 1993 risulta che egli aveva manifestato il timore di essere ucciso dal PROVENZANO, con il quale avrebbe dovuto incontrarsi il giorno in cui si costituì all’A.G., perché aveva dissentito dal suo progetto di uccidere il Capitano dei Carabinieri “Ultimo”, autore dell’arresto del RIINA. A fronte di tale contestazione, mossagli dall’Avv. LA BLASCA all’udienza del 24 giugno 1999, il CANCEMI ha risposto che tale dichiarazione era frutto di un equivoco derivante da una sua non chiara esposizione dei fatti o comunque da incomprensione da parte dei verbalizzanti, non avendo egli mai temuto che il PROVENZANO potesse avere intenzione di ucciderlo. Peraltro, quel verbale non risulta l’unico nel quale il CANCEMI ebbe a far riferimento a delle apprensioni in ordine alla propria incolumità dopo aver saputo dell’appuntamento fissatogli dal PROVENZANO. Ancora nel corso dell’udienza dibattimentale del 19 aprile 1996 del giudizio di primo grado per la strage di Capaci, il CANCEMI, infatti, pur evidenziando che altre erano le principali motivazioni della sua scelta collaborativa, aveva asserito che lo avevano aiutato a prendere quella decisione, dandogli un’ulteriore spinta, anche le parole di avvertimento che un giorno gli aveva detto GANCI Raffaele, sconsigliandogli di recarsi ad appuntamenti che potessero essergli fissati dal PROVENZANO: “se ti manda ad un appuntamento non andare in nessun posto” erano state, secondo il CANCEMI, le parole del GANCI, anche se egli ha aggiunto che queste parole non erano state “ un segnale forte che ci poteva essere un male per me”. In questa occasione, tuttavia, il CANCEMI non forniva alcuna indicazione in ordine ai motivi per cui avrebbe dovuto correre tali rischi ed alle domande specifiche che gli sono state rivolte in proposito ha negato di aver mai nutrito timori per la propria incolumità. Quando poi un difensore gli ha contestato all’udienza del 18 settembre 1996 del processo per la strage di Capaci le dichiarazioni dallo stesso rese al Procuratore della Repubblica di Caltanissetta in data 1 agosto 1996, allorché aveva riferito che egli era stato avvertito dal GANCI del fatto che gli appuntamenti che gli avrebbe fissato il PROVENZANO potevano nascondere una volontà omicidiaria nei suoi confronti e che la comunicazione fattagli di un incontro col PROVENZANO per il 22 luglio 1993 costituiva uno dei motivi della sua presentazione presso la Caserma dei Carabinieri, il CANCEMI ha risposto che anche in quell’occasione si era espresso male o che comunque il suo pensiero era stato mal interpretato.
Su tale argomento da parte di vari difensori sono state accreditate alcune ipotesi, secondo cui il CANCEMI avrebbe temuto che in COSA NOSTRA fosse stata decisa la sua eliminazione perché avrebbe violato alcune regole fondamentali dell’organizzazione, violazione che secondo un’ipotesi sarebbe consistita nell’appropriazione di forti somme di denaro, provenienti da attività illecite, che avrebbero dovuto, invece, essere destinate al gruppo mafioso , mentre secondo altra ipotesi avrebbe riguardato degli indebiti corteggiamenti fatti dal CANCEMI alla donna che lo ospitava in casa durante un periodo della sua latitanza. Entrambe le ipotesi non hanno però trovato in dibattimento alcuna significativa conferma, ed in particolare per quanto attiene alla seconda alcuni dei chiamanti in correità escussi sul punto, tra i quali il BRUSCA, hanno dichiarato di aver sentito circolare questa voce all’interno dell’organizzazione, ma non hanno saputo indicare alcun elemento concreto di loro diretta conoscenza sulla base del quale poterne verificare la fondatezza. In mancanza di tale necessaria verifica le ipotesi predette non possono, pertanto, essere poste a fondamento di un convincimento valido in questa fase decisionale.
Resta il fatto che non è verosimile l’indicazione del CANCEMI secondo cui sarebbero state frutto di un fraintendimento del suo pensiero le dichiarazioni risultanti dai verbali di interrogatorio del 22.7.1993 e dell’8.1993, tanto più che anche le dichiarazioni del collaborante all’udienza dibattimentale del processo per la strage di Capaci del 19.4.1996 summenzionata – benché il CANCEMI si sia espresso sul punto in modo contraddittorio ed ambiguo – non possono avere altra plausibile spiegazione se non quella per cui il collaborante aveva ritenuto che l’appuntamento fissatogli con il PROVENZANO potesse nascondere per lui un’insidia, altrimenti non avrebbe avuto alcun senso ricordare le parole dettegli in precedenza dal GANCI e parlare di tale episodio con riferimento alla sua decisione di collaborare. Pertanto, sul punto sono possibili solo due alternative: o il CANCEMI allorché ebbe a costituirsi ai Carabinieri ebbe a mentire su una delle ragioni di tale scelta, e cioè sul timore che nutriva per la sua sorte ed abbia poi cercato di attenuare tale mendacio senza però riuscire a superare del tutto la contraddizione con le dichiarazioni originarie, oppure tali timori sussistevano ed il collaborante non ha inteso rivelarne le ragioni. E, invero, l’indicazione fornita nel primo verbale del 22.7.1993, secondo cui egli temeva per la sua vita perché aveva osato dissentire dal progetto del PROVENZANO di uccidere il Capitano “Ultimo”, non solo non è più stata reiterata dal CANCEMI successivamente, ma appare anche inverosimile, non trovando riscontro nelle dichiarazioni rese da altri collaboranti né nella strategia che il PROVENZANO avrebbe inteso adottare dopo l’arresto del RIINA.
Se fosse vera la prima ipotesi, il mendacio sul punto del CANCEMI può essere spiegato con la necessità da parte sua di dare una spiegazione credibile della sua scelta collaborativa, non potendo egli a quell’epoca affermare che intendeva prendere le distanze dalla strategia stragista di COSA NOSTRA dal momento che ancora non aveva ammesso alcuna sua partecipazione a tale strategia, dato il basso profilo che intendeva far assumere al suo ruolo nell’organizzazione mafiosa. In ogni caso, tali contraddizioni del CANCEMI sono intimamente collegate alla palese reticenza che ha caratterizzato le sue dichiarazioni in ordine alla propria attività criminosa.
Nel corso del suo interrogatorio del 28 agosto 1993 il CANCEMI aveva affermato, infatti, di non sapere nulla sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio ed ancora in data 23 settembre 1993, ad un mese dall’inizio dalla sua collaborazione, egli aveva negato il suo coinvolgimento in omicidi ed in reati in materia di armi o di droga, nonché la sua qualità di componente della commissione provinciale di COSA NOSTRA ed in occasione di un suo confronto con MUTOLO Gaspare in data 18 ottobre 1993 aveva ribadito di non essere un membro di quell’organismo di vertice dell’associazione, decidendosi solo il giorno successivo ad ammettere questo suo ruolo e la sua partecipazione ad una riunione del 1987 alla quale aveva preso parte anche DI MAGGIO Baldassare, che già aveva iniziato la sua collaborazione. Ma questo passo avanti non portava ad una definitiva liberazione del CANCEMI dalle sue remore nel rendere una piena confessione sulle proprie responsabilità, perché solo l’1 novembre 1993 egli confessava la partecipazione alla strage di Capaci, dopo che gli erano state contestate quell’imputazione e le accuse a suo carico, rappresentate in primo luogo dalle rivelazioni di DI MATTEO Mario Santo, che già nell’ottobre del 1993 aveva cominciato a riferire quanto a sua conoscenza su quel crimine.
Appare, quindi, di tutta evidenza da tale scansione temporale che sino a quel momento la progressione del CANCEMI nella collaborazione e soprattutto nell’ammissione delle proprie responsabilità era legata non già ad una volontà di liberarsi dal fardello morale che le sue colpe gli procuravano, bensì dalla necessità di tener conto delle conoscenze vieppiù precise che gli inquirenti stavano acquisendo sulla base delle dichiarazioni di altri collaboratori. Né a questo punto erano finite le riserve del CANCEMI, come poteva far sperare la sua confessione il successivo 2 novembre 1993 di un omicidio in danno di tale LA FIURA. Il collaborante, infatti, pur non potendo negare nella qualità di componente della commissione provinciale la sua partecipazione alla fase deliberativa della strage di Capaci, sia pure nella forma del mancato dissenso, limitava il suo intervento nella fase esecutiva ad alcuni viaggi, nella semplice veste di accompagnatore di GANCI Raffaele, presso una villetta di Capaci utilizzata come base logistica dagli attentatori. Data la sua ammissione di responsabilità per tale strage, appariva a quel momento poco verosimile che egli potesse ancora nascondere qualcosa su altri momenti che lo avevano visto partecipare alla preparazione dell’attentato, tanto più che egli era nel frattempo comparso innanzi alla Corte di Assise che stava trattando quel delitto e si era sottoposto all’esame nel corso delle udienze del 19 e 20 aprile 1996. Ma con sorpresa gli inquirenti dovevano constatare che tale valutazione era errata, poiché dalla collaborazione intrapresa nel giugno del 1996 da GANCI Calogero emergeva il coinvolgimento del CANCEMI nella fase dell’osservazione e del pedinamento dell’auto blindata di Giovanni FALCONE allorché questa veniva prelevata dall’autista giudiziario COSTANZA dall’abitazione di Palermo del magistrato. Solo nelle udienze del settembre 1996 il CANCEMI riferiva di tale fase ed ammetteva le sue responsabilità, parlando anche per la prima volta di altra persona coinvolta nell’attentato, e cioè GALLIANO Antonino, già chiamato in causa dal GANCI e pronto a confessare la propria partecipazione a questa fase di pedinamento sin dal luglio del 1996, appena raggiunto dal provvedimento restrittivo. In proposito il CANCEMI ha negato, anche nel corso di questo processo, di essersi indotto a rendere tale confessione per l’intrapresa collaborazione da parte del GANCI e del GALLIANO, dei quali ha asserito di non aver conosciuto a quel tempo le dichiarazioni, ma se pure è vero che egli ignorava il contenuto delle loro dichiarazioni, non è verosimile che egli non sapesse della collaborazione di GANCI Calogero, che era di pubblico dominio già prima del settembre del 1996 e, quindi, egli poteva ben prospettarsi il tenore delle sue dichiarazioni. Il successivo arresto del GALLIANO non poteva poi che dargli ulteriore conferma del fatto che il GANCI aveva rivelato quanto a sua conoscenza in ordine a quella fase che egli aveva tenuto sino ad allora nascosta, non già certamente per coprire il GALLIANO, bensì per attenuare il suo coinvolgimento nella strage. Né d’altronde potrebbe spiegarsi altrimenti il silenzio serbato dal CANCEMI nelle udienze dell’aprile 1996 summenzionate, nel corso delle quali era stato ultimato l’esame del P.M. sulla fase esecutiva dell’attentato.
Questi dati obiettivi evidenziano che non solo nel confessare un reato ma anche nel rivelare la portata del suo coinvolgimento nel medesimo, il CANCEMI si è costantemente attenuto alla regola di ammettere solo ciò che era necessario per non compromettere la propria credibilità, trovandosi scavalcato e costretto a fornire acrobatiche giustificazioni ogni volta che i suoi calcoli venivano smentiti dal sopraggiungere di ulteriori collaborazioni.
E che la confessione da parte del CANCEMI di un suo coinvolgimento in un delitto non fornisca alcuna certezza in ordine alla completa rivelazione di ogni elemento a sua conoscenza su quel fatto, laddove ciò possa comportare un aggravamento del suo ruolo nel reato, trova piena conferma nelle reticenze manifestate dal collaborante nel corso del giudizio di Capaci sulle varie riunioni cui egli ebbe a prendere parte per elaborare la strategia stragista, nonché sul ruolo da lui avuto in tale fase, ruolo che non fu di mero assenso tacito bensì di proposizione di nuovi obiettivi da colpire nell’ambito di quella strategia, come si evidenzierà più specificamente nella parte dedicata alla trattazione della fase deliberativa della strage per cui è processo.
Ancor più lungo è stato poi per il CANCEMI il periodo in cui lo stesso ha negato ogni sua responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio. E, infatti, anche dopo le sue parziali ammissioni in ordine al coinvolgimento nella strage di Capaci, il collaborante ha continuato a protestarsi innocente per la strage che costituisce oggetto del presente giudizio, fornendo indicazioni su alcuni dei responsabili della medesima sulla base di confidenze asseritamente ricevute da GANCI Raffaele. E se le prime ammissioni per la strage di Capaci sono intervenute a distanza di oltre tre mesi dall’inizio della collaborazione, quelle per la strage di via D’Amelio sono successive addirittura di più tre anni rispetto a quel momento iniziale. Anche in questo caso, le parziali ammissioni di responsabilità sulla prima strage avevano dato una qualche credibilità alle reiterate proteste di innocenza del CANCEMI per la seconda, benché egli fosse chiamato in causa da SCARANTINO Vincenzo, e cioè da colui che aveva fornito a COSA NOSTRA l’auto rubata utilizzata per l’attentato. E, d’altra parte, se le puntuali indicazioni fornite dal DI MATTEO prima e da LA BARBERA Gioacchino poi rendevano insostenibile per il CANCEMI l’iniziale posizione difensiva in merito alla strage di Capaci, costringendolo ad arretrare su posizioni poi a lungo mantenute sino alle nuove collaborazioni di GANCI Calogero e del GALLIANO, e cioè per quasi tre anni, il CANCEMI aveva buon gioco, invece, a difendersi dalle contraddittoria ed inverosimile chiamata in correità operata nei suoi confronti dallo SCARANTINO, che il CANCEMI, profondo conoscitore dei meccanismi di funzionamento di COSA NOSTRA e strenuo difensore di se stesso, ben sapeva non poter essere in grado di rivelare alcunché che potesse realmente coinvolgerlo in quella strage. E proprio la ben differente qualità delle acquisizioni probatorie operate dagli inquirenti sulle fasi delle due stragi che vedevano un suo coinvolgimento spiega chiaramente la differente durata del silenzio mantenuto dal CANCEMI sulle proprie responsabilità. La diversa giustificazione al riguardo fornita dal collaborante – secondo cui egli avrebbe continuato a negare le proprie responsabilità nella strage di via D’Amelio anche dopo le ammissioni riguardanti la strage di Capaci sia per il profondo travaglio che gli provocava la nuova strada intrapresa ed i sensi di colpa e di vergogna che ormai provava per le attività criminali svolte sia perché aveva delle esitazioni a parlare di una strage in cui avvertiva che le motivazioni andavano oltre le finalità di COSA NOSTRA – appare palesemente falsa ed ispirata dall’intento di nascondere il programma costantemente perseguito dal CANCEMI di conseguire i maggiori benefici premiali con il minor danno per la propria posizione processuale. E, invero, per quanto attiene al primo profilo della sua giustificazione, non può essere casuale che il CANCEMI abbia sempre trovato la forza per superare le proprie esitazioni ed i sensi di colpa e di vergogna solo in occasione degli apporti conoscitivi che erano in grado di fornire nuovi collaboranti. Ciò si è verificato, come si è detto, in due momenti diversi in relazione alla strage di Capaci ed è accaduto anche per la strage di via D’Amelio, atteso che le prime dichiarazioni confessorie al riguardo sono risalenti ad un periodo del 1996 successivo alle collaborazioni di FERRANTE Giovanbattista e BRUSCA Giovanni, che con ben altra efficacia probatoria rispetto allo SCARANTINO potevano chiamarlo in correità, come in effetti fecero. E, d’altra parte, se realmente i sensi di colpa e vergogna per i crimini perpetrati affliggevano il CANCEMI e ne condizionavano la collaborazione, non si comprende come egli potesse liberarsene, anziché aggravarli, mediante la scelta di accusare i complici e tenere, invece, indenne da responsabilità il più possibile se stesso, se è vero che il sincero ravvedimento si accompagna sempre ad una leale ammissione delle proprie colpe e non solo di quelle di altri, ammissione tanto più piena ed incondizionata quanto maggiore è l’afflizione che si prova. Se, invece, si deve ammettere – come appare evidente – che il travaglio interiore che lo stesso CANCEMI ha detto aver contrassegnato la sua collaborazione nulla aveva a che vedere con il pentimento per i crimini commessi, allora esso non è altro che la conseguenza dell’intima contraddizione del collaborante tra il suo desiderio di superare nel modo più indolore possibile le conseguenze giudiziarie del suo operato criminale e la necessità di dover progressivamente accusare se stesso in modo sempre più pesante via via che aumentavano le persone in grado di svelare l’effettiva portata delle sue attività. Se quando il CANCEMI iniziò a collaborare nel luglio nel 1993 – staccandosi per sempre da un’associazione criminale che egli riteneva aver sbagliato i suoi calcoli ed essere avviata quindi a pagare pesantemente con i suoi personaggi di vertice delle conseguenze giudiziarie che egli non era disponibile ad accettare – poteva ancora sperare di mantenere circoscritto il ruolo e l’attività svolta all’interno dell’organizzazione, poiché gli unici collaboranti all’epoca in grado di rivelare la sua qualità di componente della commissione provinciale erano MARCHESE Giuseppe e MUTOLO Gaspare, portatori però di conoscenze non attuali sulle vicende associative ed ignari della strategia stragista e dei delitti che l’avevano concretizzata, le successive scelte collaborative costrinsero il CANCEMI a dei ripiegamenti, questi sì veramente sofferti, dal ruolo defilato che egli aveva inizialmente sperato di ritagliare per se stesso.
Per quanto poi attiene al secondo profilo, e cioè alle remore del CANCEMI a parlare di una strage che riteneva ispirata anche da motivazioni esterne a COSA NOSTRA, si rileva in primo luogo che tale circostanza non spiegherebbe le reticenze del CANCEMI in altri casi, come ad esempio nel rendere ampia confessione per la strage di Capaci, quanto meno per la fase esecutiva del pedinamento. Ma inoltre questa giustificazione appare chiaramente smentita dal fatto che il collaborante, prima ancora di confessare la sua partecipazione alla strage per cui è processo, aveva già indicato delle circostanze che avrebbe dovuto tacere se questa fosse stata l’effettiva motivazione del suo riserbo. Egli, infatti, già in relazione alla strage di Capaci aveva dichiarato di aver appreso da GANCI Raffaele, mentre si recava in auto con lui presso la villetta di Capaci, che il RIINA aveva incontrato “persone importanti” che egli comprese esse esterne a COSA NOSTRA, dal momento che in quell’organizzazione nessuno aveva un’importanza pari a quella del RIINA stesso, ritraendone così la convinzione che persone estranee fossero interessate alla strage. Non era, pertanto, la remora a parlare dei contatti di COSA NOSTRA con ambienti esterni che condizionava le dichiarazioni del CANCEMI, che appare invece unicamente interessato a ridimensionare il suo ruolo e preoccupato di coprire le altrui responsabilità solo nella misura in cui può altrimenti derivarne un aggravamento della sua posizione processuale.
Deve, tuttavia, evidenziarsi che anche le dichiarazioni inizialmente rese dal CANCEMI in ordine ai fatti per cui è processo ed a quelli comunque ascrivibili alla medesima strategia stragista non hanno trovato nelle propalazioni dei successivi collaboranti delle smentite per eccesso ma semmai per difetto e se alcune sue chiamate in correità, come quelle nei confronti di SCIARRABBA Giusto e di SBEGLIA Salvatore per la strage di Capaci e di GALLIANO Antonino per la strage per cui è processo non hanno trovato riscontro, deve pur tuttavia evidenziarsi che non hanno neanche trovato sicura smentita. E, invece, a fronte di tali posizioni marginali, il nucleo centrale delle indicazioni originariamente fornite dal CANCEMI su questi episodi ha trovato significative ed inequivocabili conferme, salvo a riscontrarne semmai delle lacune, che però non inficiano la portata probatoria delle dichiarazioni rese. Ed anche laddove le indicazioni del CANCEMI sono state rese dopo quelle di altri collaboranti, esse hanno sempre avuto un’indiscutibile autonomia, poiché la diretta e profonda conoscenza dei fatti riferiti, derivantegli dalla sua accertata posizione di vertice nel sodalizio mafioso, gli ha consentito di riferire dettagli e prospettare motivazioni che non possono attribuirsi ad una supina adesione alle altrui dichiarazioni né tanto meno ad intenti calunniatori o a sentimenti di rivalsa nei confronti di alcuno.
Pertanto, una volta individuato il solo fattore inquinante della collaborazione del CANCEMI nella predetta volontà di esasperata autoprotezione e così spiegata l’indubbia progressione accusatoria delle sue dichiarazioni, ben possono le medesime essere utilizzate – secondo i criteri giurisprudenziali summenzionati – per la ricostruzione della fase deliberativa ed esecutiva della strage per cui è processo, salvo la necessità di adeguati riscontri individualizzanti.
Il più analitico esame che verrà effettuato delle medesime dichiarazioni nelle sedi specifiche evidenzia l’ulteriore persistenza di elementi di reticenza addebitabili al suo atteggiamento riduttivo ad oltranza delle proprie responsabilità, con le inevitabili conseguenze che ciò ha comportato indirettamente per l’accertamento delle responsabilità anche di altre persone coinvolte nella fase esecutiva della strage – e ciò ha refluenza sul trattamento sanzionatorio del CANCEMI – ma conferma l’attendibilità delle sue chiamate in correità nei confronti degli imputati per cui è processo. Corte assise Caltanissetta 26 settembre 1997
SALVATORE CANCEMI SI CONSEGNA AI CARABINIERI E DIVENTA “TOTÒ CASERMA” Salvatore Cancemi, soprannominato “Totò Caserma” era latitante quando aveva bussato a una caserma dei carabinieri dichiarando di voler collaborare con lo Stato. Si era presentato dire di temere per la sua vita e che preferiva finire in carcere piuttosto che ucciso per ordine di Bernardo Provenzano. ‘U zu Binu lo voleva morto, perché si sarebbe sottratto all’ordine di uccidere il Capitano, l’ufficiale carabinieri «reponsabile» della cattura di Totò Riina
Le Alpi innevate all’alba sono uno spettacolo straordinario. Non c’è una nuvola e il mio posto d’osservazione è il migliore possibile: a 7000 metri, seduto tra i piloti di un Falcon 30 della Compagnia aerea italiana. Il comandante mi sta illustrando le modalità dell’atterraggio nello scalo di Lugano. Bisogna fare attenzione, nel cominciare la manovra di avvicinamento all’aeroporto, alle correnti d’aria presenti in una gola in cui ci si deve infilare provenendo da sud. E noi siamo partiti proprio da sud, da Roma, alle cinque del mattino del 14 gennaio 1994.
Dietro, nella cabina passeggeri, insieme a una mezza dozzina di carabinieri del Ros, c’è Salvatore Cancemi, già capomandamento di Porta Nuova, ora collaboratore di giustizia. No, non è seduto come i militari dell’Arma su una delle morbide poltrone di pelle che, con lucide lampade d’ottone e tavolini in radica di noce, arredano il lussuoso aeroplano.
È steso sul pavimento, con la faccia in giù, terrorizzato dall’idea di aver abbandonato il suolo terrestre e di trovarsi sospeso in aria. «Santa Rosalia, Santuzza bedda, aiutami tu!» ripete supplicando, tra i sorrisi, nemmeno tanto repressi, dei carabinieri che certamente pensano all’assurdità della cosa. Un uomo che ha avuto la determinazione e il coraggio di uccidere decine e decine di persone, che è stato uno degli ideatori e degli esecutori della strage di Capaci, adesso trema come una foglia per un viaggio aereo di poco più di un’ora. La nostra missione è una sorta di caccia al tesoro.
Dobbiamo recuperare quattro milioni di dollari in contanti, che, secondo Cancemi, erano stati sepolti, nel 1984, dieci anni prima, nelle campagne del Canton Ticino. Dollari provenienti dal traffico di stupefacenti. Eroina già raffinata importata da Cosa nostra dal Libano o dalla Turchia e spedita negli Stati Uniti via mare. La droga era stata sigillata all’interno di alcune casseforti appositamente acquistate da Salvatore Riina, imbarcate su una nave da carico e inviate, con tanto di bolle d’accompagnamento e documentazione doganale, a Boston. Le chiavi dei forzieri, però, erano giunte in America separatamente, con un volo di linea.
Totuccio Riina aveva già incassato la sua quota: due milioni di dollari. Degli altri quattro che stavamo cercando, due spettavano ad Antonino Rotolo, uomo d’onore della famiglia di Pagliarelli, e gli ultimi due erano la parte di Salvatore Cancemi.
E dire che nel suo primo interrogatorio, il 23 luglio 1993, lo stesso Cancemi aveva dichiarato di non aver mai avuto a che fare con la droga. Era proprio strano Salvatore Cancemi, o meglio Totò Caserma come lo chiamavano sprezzanti i capimafia da qualche mese, da quando, latitante, aveva bussato, appunto, a una caserma dei carabinieri dichiarando di voler collaborare con lo Stato.
Si era presentato dicendo di temere per la sua vita e che preferiva finire in carcere piuttosto che ucciso per ordine di Bernardo Provenzano. ‘U zu Binu avrebbe decretato la sua morte perché si sarebbe opposto a un presunto progetto dello stesso capomafia di Corleone di uccidere il Capitano Ultimo, l’ufficiale dei carabinieri «responsabile» della cattura di Totò Riina.
Nessuno dei miei colleghi che aveva seguito lo sviluppo delle prime dichiarazioni di Cancemi credeva a quel movente, ma ogni ipotesi alternativa sulle ragioni che avevano indotto il capo latitante di un mandamento importante come quello di Porta Nuova, l’erede di Pippo Calò, a costituirsi si traduceva in una mera supposizione e non trovava conferme.
GLI ATTENTATI STRAGISTI IN “CONTINENTE”. Anni dopo mi sono convinto che la consegna di Cancemi fosse da mettere in qualche modo in relazione con gli attentati stragisti di Milano e Roma della notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 e con la fallita strage dell’Olimpico dell’ottobre successivo. Attentati dai quali forse il boss di Porta Nuova voleva tirarsi fuori o che, addirittura, avrebbe provato a impedire. Ma anche questa è una mera ipotesi fondata solo su riflessioni logiche e su qualche coincidenza temporale. Fatto sta che raramente una collaborazione con la giustizia si era rivelata tanto spontanea quanto reticente. Cancemi si presentava sostanzialmente come un agnellino finito senza sua colpa nella tana dei lupi. Negava di avere eseguito omicidi, estorsioni, traffici di droga. Non una parola sulla strage di Capaci che pur aveva contribuito a deliberare e in cui aveva svolto un ruolo di esecutore materiale.
I suoi interrogatori erano praticamente tutti uguali. Le notizie che sapeva erano sempre frutto di
confidenze ricevute dal suo «collega» Raffaele Ganci, capomandamento della Noce. Quanto ai fatti del suo territorio si presentava come un mero portavoce della volontà di Pippo Calò. «Non so nulla di quell’omicidio, l’avrà deliberato Calò.» «Ma è stato commesso nel suo mandamento e Calò è detenuto dal 1985. Per le regole di Cosa nostra lei lo doveva sapere!» «Si saranno dimenticati di informarmi» era la replica di Cancemi che spostava altrove lo sguardo per non incrociare i nostri, perplessi e increduli.
I primi mesi della sua collaborazione erano stati caratterizzati da centinaia di contestazioni e da decine di confronti con altri affidabili collaboratori che, inutilmente, cercavano di fargli tornare alla mente episodi delittuosi cui Cancemi aveva partecipato in prima persona.
Niente da fare. Le uniche concessioni che ci aveva fatto riguardavano qualche sua rara partecipazione a traffici di droga, ma sempre con ruoli di secondo piano. La sua presenza nelle varie raffinerie che, in quegli anni, operavano nel Palermitano era ogni volta casuale. Nessun omicidio, nessuna richiesta di pizzo: no, non era lui il «Tot. Canc.» indicato nel libro mastro delle estorsioni dei Madonia di Resuttana. Quella abbreviazione non riguardava certo «Totò Cancemi»: forse Nino Madonia voleva scrivere «totale cancellato»! E noi dovevamo credergli…
Una prima svolta si era verificata il 1° novembre 1993. Messo alle strette dalle dichiarazioni di Santino Di Matteo che lo accusava di aver partecipato personalmente alla strage di Capaci, aveva cominciato, sia pur lentamente, a confermare le sue responsabilità nel gravissimo attentato del 23 maggio 1992.
Negli interrogatori successivi Cancemi aveva fatto dei piccoli passi avanti, ammettendo qualche altro delitto. Ma si trattava veramente di inezie rispetto ai crimini che, per quanto ci risultava, doveva aver commesso.
Il 9 novembre era entrato in palese contraddizione con le sue stesse dichiarazioni e i miei colleghi che lo interrogavano avevano perso la pazienza. Avevano messo correttamente a verbale l’ennesima contestazione e gli avevano detto, chiaro e tondo, che di un collaboratore così la procura di Palermo non sapeva che farsene.
Cancemi, allora, aveva tirato fuori quella che per lui doveva essere la carta vincente: «Per dimostrarvi che sono attendibile, posso farvi recuperare alcuni milioni di dollari in contanti che ho sepolto in Svizzera. Ma per farlo mi dovete portare sul posto».
Come si fa a credergli ancora? Perché, a distanza di quattro mesi dalla sua consegna, Totò Caserma parla di questa storia? Vuole forse «comprarsi» la collaborazione? O, più semplicemente, vuole essere condotto all’estero per qualche ragione oscura? Ha capito che, dopo il suo coinvolgimento nella strage di Capaci, non può più mantenere un basso profilo di collaboratore e vuole tentare una fuga? Di quali appoggi può disporre in Svizzera?
Queste erano le legittime domande e perplessità dei miei colleghi a Palermo.
A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.
Non dimenticherò mai le parole pronunciate da Salvatore Cancemi, un importante mafioso poi diventato collaboratore di giustizia. Cancemi (che all’epoca delle stragi di Capaci e via D’amelio faceva parte della cupola) ha riferito ai magistrati che lo interrogavano: << Se Cosa nostra non avesse avuto da sempre gli agganci con lo Stato, se non avesse intrattenuto e mantenuto rapporti con la politica e con le istituzioni, sarebbe stata soltanto una banda di sciacalli. Sarebbe stata debellata in pochissimo tempo come qualsiasi altra banda di criminali comuni>>
(Nino Di Matteo)
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco