GIOVANNI AIELLO – Faccia da mostro

 

 

Aiello RICHIESTA archiviazione

Decreto ARCHIVIAZIONE AIELLO

 


 

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Faccia da Mostro L’uomo indagato da quattro procure, e considerato personaggio chiave di tanti misteri siciliani, è l’ex poliziotto in pensione Giovanni Aiello, che ha lavorato anni con Bruno Contrada. “In questa storia non c’entro niente – dice – mi sono congedato nel 1977 a causa di una ferita da arma da fuoco che mi ha deturpato il volto. Da allora sono un semplice pensionato. Faccio il pescatore e non ho mai più messo piede in Sicilia”. Nell’aprile di quest’anno la Digos ha trovato proprio in casa di Aiello un piccolo arsenale di armi, le prove di un suo recente viaggio in Sicilia durato tre mesi e ricevute di titoli di Stato. Titoli risalenti ai primi anni ’90, del valore di 600 milioni di vecchie lire. Sul fronte investigativo è arrivata una nuova svolta. Giovanna Galatolo, figlia pentita di un ex boss, ha riconosciuto nell’ex agente della mobile di Palermo il misterioso protagonista della Trattativa e delle uccisioni di Falcone e Borsellino. 24.4.2014 SERVIZIO PUBBLICO

 

Giovanni Aiello  (Montauro3 febbraio 1946 – Montauro21 agosto 2017), poliziotto, detto faccia da mostro, per il viso sfigurato da un colpo di fucile  Il suo nome è associato a molte inchieste giudiziarie: l’attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone, la morte di Paolo Borsellino nella strage di via D’Amelio, il delitto del commissario Ninni Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, l’esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida. Si è indagato inoltre sui suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva tra cui Pierluigi Concutelli.  A sua detta, era coinvolto nel Piano SoloIl pentito Nino Lo Giudice ha affermato che Giovanni Aiello era coinvolto nella strage di via dei Georgofili a Firenze, nell’Attentato di via Fauro a Maurizio Costanzo e nel fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma L’attenzione della magistratura si è rivolta anche ai suoi contatti con l’agente segreto Bruno Contrada, che era già stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa  Aiello e Contrada venivano soprannominati “il bruciato e lo zoppo”, per via del volto sfigurato del primo e della gamba del secondo. Il pentito Giuseppe Di Giacomo ha affermato che Giovanni Aiello frequentava un campo di addestramento di Gladio in Sardegna. Secondo questa testimonianza, Aiello era un membro dell’organizzazione Gladio.  E morto all’età di 71 anni a causa di un infarto mentre cercava di portare a riva la propria barca“ wikipedia


Il mistero di “Faccia da Mostro”, la moglie racconta gli ultimi giorni in Calabria. «Mio marito nei Servizi? Troppo pigro»

A Palermo, nel corso dell’udienza del processo sulla morte di Nino Agostino, ha testimoniato la consorte di Giovanni Aiello. «Faceva il bullo». Il nuovo giallo: «Non è ancora stato cremato»

«Mio marito non poteva essere dei servizi segreti perché una moglie queste cose le sa!». Parola di Ivana Orlando, moglie dell’ex poliziotto, ritenuto vicino ai Servizi, morto il 21 agosto 2017 sulla spiaggia di Montauro, in Calabria. Giovanni Aiello, conosciuto come “Faccia da mostro” è entrato nelle indagini della Dda di Palermo più volte, ultima quella sull’omicidio mai risolto dell’agente Nino Agostino e della moglie Ida Castellucci. Quel soprannome è legato ad una grossa cicatrice presente sul volto dell’ex poliziotto, ricordo di un «conflitto in Sardegna con il bandito Graziano Mesina». Aiello verrà colpito e quella cicatrice segnerà per sempre il suo viso. Ma non solo. Ivana Orlando, nel corso di una udienza del processo in corso a Palermo per far luce sulla morte di Nino Agostino, è tornata a parlare del marito, della sua vita, di alcune sue angosce.

La cicatrice e l’addio alla Polizia

«Da marzo ad ottobre era impegnato con il rimessaggio delle barche, a dicembre andavamo dalla mia famiglia in Veneto, al Nord», racconta Orlando. «Dalla Polizia è andato via perché era stato ferito nel 1964, poi è rimasto in convalescenza ed è tornato in servizio ma spesso stava male e gli concedevano giorni di riposo». La ferita al volto provoca una doppia sofferenza ad Aiello, piegato «da forti mal di testa» e da «turbe psichiche». È la stessa moglie dell’ex poliziotto a confermarlo in una dichiarazione messa a verbale nel 2016. «Mio marito a Palermo ha prestato servizio nella sezione “antiscippo” e “catturandi” poi è andato in convalescenza per turbe psicologiche a causa della ferita, soffriva di forti mal di testa». La donna, in aula, sollecitata dalle domande del pm conferma quanto dichiarato in passato ma precisa di non aver «mai notato le turbe nevrotiche» del marito.

Il ritorno in Calabria

Giovanni Aiello quando lascia la polizia torna in Calabria, nella sua Montauro. «Sapevo che era stato a Venezia in servizio, me lo ha detto lui. Prima di andare a Palermo e prima di conoscerci era stato a Cosenza. Non mi interessavo del suo lavoro e mi fidavo di cosa faceva», precisa Orlando. Che aggiunge: «A Palermo il suo capo era Contrada, me lo ha detto quando abbiamo sentito in tv che Contrada era indagato o qualcosa del genere». Aiello tornato in Calabria, secondo quanto asserito dalla moglie, si ritira a vita riservata. «Possedeva una Range Rover scassata e l’abbiamo tenuta fino a quando è morto, nel cantiere aveva una Jeep tipo americana che serviva per portare le barche dall’officina al varo del mare. Aveva delle moto, percepiva la pensione per essere andato in quiescenza per causa di servizio». Nessuno sfarzo, nessun lusso. «Lui non aveva grandi mezzi, viveva di pensione. Io ho avuto delle eredità dalla mia famiglia ed ho comprato la casa in Calabria a Montauro». Il flashback di Ivana Orlando prosegue. «Fino al 1985 abitavo a Milano, lui dai genitori a Montauro ma eravamo sempre in contatto per via di nostra figlia. Nel 1986 ho comperato la casa a Montauro e stavamo in Calabria. Nel 2004 sono morti i suoi genitori, i fratelli di mio marito si sono messi d’accordo e Giovanni ha preso possesso dell’area prospicente una casetta che affacciava sul mare, ha comprato la barca e dopo aver lasciato il lavoro di rimessaggio si è messo a fare il pescatore professionista». Mare, sole e pesca: Giovanni Aiello trascorreva così le sue giornate, spesso lontano dagli affetti più cari. «La casa dei suoi genitori dava sulla spiaggia e li c’era una baracca per conservare le reti del mare. Mio marito viveva in quella abitazione per controllare la barca e io stavo un po’ nella nostra casa di Montauro e un po’ con lui». Sui beni posseduti da Aiello e sul valore degli stessi, la moglie precisa. «Nella sua casa aveva orologi dal valore di dieci euro, li comprava ai mercatini. Quelli costosi li avevo io, in casa a Montauro».

Il rapporto con i Servizi

Il pubblico ministero chiede più volte alla testimone se ricorda di frequenti viaggi di Aiello in Sicilia, a Palermo. La donna nega. «Ha sempre detto e sostenuto che dopo aver lasciato la Polizia a Palermo non è più andato. Stavamo in Calabria non ci interessava andare a mare lì». La coppia possedeva una abitazione a Sciacca, come ammesso dalla teste. «L’abbiamo abbandonata, siamo andati l’ultima volta nel 2011. Qualche anno prima, nel 2005 abbiamo svuotato la casa di Sciacca e portato alcuni mobili in Calabria. L’abitazione è stata messa in vendita». Quella che viene descritta in aula è la normale quotidianità vissuta da una coppia semplice e lontana dai riflettori, che viene però scossa dall’incredibile interesse mediatico nei confronti dell’ex poliziotto considerato vicino ai Servizi segreti. «Attorno al 2010 sono cominciati a comparire articoli sui giornali, ma eravamo tranquilli», sostiene Ivana Orlando. «Nel 2013, ha avuto notizia di un incontro tra suo marito e giornalisti di Repubblica a Montauro?» chiede il pm. La teste risponde: «Questi giornalisti sono andati alla baracca di mio marito con la telecamera nascosta ed hanno fatto una intervista. Dopo abbiamo visto che erano solo delle foto. Ricordo che ho chiesto ai giornalisti perché si fossero fiondati su Aiello e mi hanno risposto che era “giornalisticamente interessante”». La donna poi aggiunge particolari sui capelli e sui baffi del marito. «Da giovane aveva i capelli neri e caratteristici baffi neri che ha tenuto sempre fino ai 50 anni, fino al 2000. Nessun pentito l’ha riconosciuto, facevamo la descrizione basandosi solo sulle foto dei giornali che però ritraevano un uomo di 70 anni e non hanno mai parlato di baffi», continua la testimone.

Il pm chiede ad Orlando se ricorda di un altro episodio con protagonista un giornalista, riferendosi a Michele Santoro. «Venne a casa mia, ma mio marito era già morto». «Ha mai saputo se suo marito avesse avuto rapporti con i Servizi?», incalza il pm. «Lui ha sempre negato, non era tipo, era troppo pigro», risponde la testimone, accennando un sorriso. «Era un bullo e ricordo che quando è venuto Gheddafi in Italia, pare volesse dormire in una tenda nel cortile di una caserma e Giovanni per farsi vedere bello dai suoi amici diceva che i servizi segreti non l’avrebbero permesso». Il pm insiste nella sua richiesta e la donna chiude il discorso con una risposta lapidaria: «Non poteva essere dei Servizi segreti perché una moglie queste cose le sa!».

L’indagine a Palermo e un nuovo mistero. «Non è stato ancora cremato»

Il pubblico ministero ricorda alla moglie di Giovanni Aiello dell’impegno processuale del marito a Palermo «per essere sottoposto a riconoscimento». «Sì ne ero a conoscenza ma so che il procedimento è stato archiviato, mio marito era morto e l’avvocato mi ha comunicato che il caso era stato archiviato». «Discutevate del fatto?», chiede il pm. «Non ne parlavamo, ci guardavamo quando ci incontravamo nel corridoio di casa ma non ne parlavamo. Con gli occhi ci dicevamo che sarebbe finita», precisa la donna. La chiosa è dedicata alla morte di Giovanni Aiello avvenuta il 21 agosto del 2017 a Montauro. «E’ stata fatta l’autopsia», chiosa Orlando che poi aggiunge un particolare inedito. «Mio marito non è stato ancora cremato. La carta di identità l’ho data al suo avvocato, il passaporto è a casa e quello precedente immagino sia stato ritirato dalla Questura».  CORRIERE DI CALABRIA 7.12.2022



«“Sto andando in Svizzera per servizio”. Gli appunti segreti di Faccia da mostro»  
È morto tre anni fa, all’improvviso, un infarto l’ha stroncato mentre stava sistemando la sua barca, ma i magistrati che indagano sulle stragi di mafia e i delitti eccellenti di Palermo continuano ad occuparsi di lui.

Giovanni Aiello, l’ex poliziotto soprannominato “Faccia da mostro” per una cicatrice sulla guancia destra, è ancora al centro di tanti misteri. Gli investigatori della squadra mobile di Caltanissetta sono tornati a cercare nelle carte che gli erano state sequestrate, un lavoro importante, chiesto dal procuratore aggiunto Gabriele Paci e dal sostituto Pasquale Pacifico: così, sono emerse nuove tracce attorno all’uomo accusato dai pentiti di avere indossato i panni del killer di Stato al servizio delle cosche, dagli anni Settanta ai Novanta. Nel 2011, Aiello annotava in una sorta di diario personale di aver trascorso spesso le feste natalizie senza famiglia, «un po’ dappertutto, in giro per il mondo».

In una lettera datata “Modena 19 dicembre 1978”, una donna gli scriveva invece: «Ho saputo prima da Filippo e poi da Sarino un po’ le tue odissee che per me sono incomprensibili solo per il fatto che non so niente del tuo lavoro e del compito che hai, anche se posso immaginare vagamente un po’ tutto». Una lettera che ha colpito molto gli inquirenti, perché nel 1978 Aiello non era più in polizia da un anno, dopo l’incidente al volto con un fucile nel corso di un blitz. E ufficialmente faceva il pescatore nella sua Calabria. Dunque, quale “compito” delicato svolgeva?

Durante le perquisizioni, è saltata fuori una cartolina del 1975, conservata dalla moglie, Aiello le scriveva di un viaggio in Svizzera, “per servizio”. «Cosa che lascia perplessi — ha annotato la dirigente della Mobile nissena, Marzia Giustolisi, in un rapporto alla procura — alla luce delle dichiarazioni rese da alcuni colleghi a proposito della sua scarsa professionalità»L’ex poliziotto Francesco Belcamino, ascoltato dai pm, ha ricordato che Aiello si era congedato per “turbe nevrotiche”, ma ha aggiunto: «Io però non li ho mai notati questi disturbi». Un altro collega, Giulio Martino, ha raccontato invece di quando il capo della squadra mobile Bruno Contrada lo convocò per dirgli che Aiello doveva essere la sua ombra: «Spiegò che era persona di sua massima fiducia e che mi avrebbe aiutato nella mia attività. Ma mi sembrò strano, perché io ero un sottufficiale della Criminalpol, altro ufficio, la mia sensazione era che lui dovesse seguire le mie indagini per conoscere le mie fonti e riferirle a Contrada».

Martino non usa mezzi termini su Aiello: «Non mi convinceva affatto, mi diceva di andare nei locali per mangiare a sbafo, io mi rifiutavo. Una volta rubò dei golf mentre parlavo con una prostituta. Segnalai la cosa, ma non ebbe alcuna conseguenza». Aiello diceva di avere idee di estrema destra, «raccontava di frequentare campi paramilitari di addestramento, e di essere un tiratore scelto. Aveva pure una barca, e mi chiedevo come facesse con il suo stipendio», ha chiosato Martino.
I pentiti hanno raccontato che “Faccia da mostro”, il killer legato ai servizi deviati, andava in giro su un’Honda. Anche Aiello aveva una moto di quel tipo. Gli investigatori hanno trovato fra le sue carte la bozza di una richiesta di cancellazione dai pubblici registri di una Honda targata Pa081720 acquistata nel 1976.

I misteri di Aiello  Interrogato dai pm, ha ripetuto di non essere più tornato in Sicilia dopo il congedo dalla polizia, nel 1977: «Mi sono ritirato a Montauro, Catanzaro», ha detto. Ma fra le sue carte è saltato fuori un biglietto del traghetto per Messina, datato 7 novembre 2011.

C’era anche una strana rubrica a casa Aiello, con dei nomi in codice: «Bkebnbclarico, Blu, Cane, Douttgia, Gel, Marinaio, Napokjadio». Gli investigatori hanno passato al setaccio i tabulati dei suo cellulare ed è saltato fuori un contatto (il 2 novembre 2008, alle 9,57) con un’utenza intestata al Trentunesimo Stormo dell’Aeronautica, quello che cura i voli di Stato. Davvero curioso. Mancano poi sei assegni dal 2003 al 2006. Misterioso è rimasto pure un versamento da diecimila euro. Come quello stralcio di intercettazione: «Quando ero nei servizi segreti», diceva Aiello a un amico. In un altro foglio, datato 7 febbraio 2014, annotava: «È ricomparso furgone rosso targato Mi davanti al tabacchino. Cosa cavolo devono ascoltare?». Quattro giorni dopo, scattarono le perquisizioni. di Salvo Palazzolo da “Repubblica-Palermo” del 23 ottobre 2020


Mafia, l’ultimo mistero di “Faccia da mostro”. Telefonate da un cellulare dei “Voli di Stato” Il giallo dell’ex poliziotto accusato di essere un killer al servizio dei clan. Indagine sui contatti con un’utenza intestata al Trentunesimo Stormo  Chi era davvero l’ex poliziotto Giovanni Aiello, morto all’improvviso tre anni fa, dopo essere entrato nelle indagini più delicate sulle stragi del 1992? Quella cicatrice sulla guancia l’aveva portato dritto all’identikit di “Faccia da mostro”, il killer di Stato al servizio della mafia di cui avevano parlato alcuni pentiti. Ma, ufficialmente, lui era soltanto un pensionato con la passione della pesca. Però, un pensionato davvero particolare, scrive oggi la procura generale diretta da Roberto Scarpinato negli atti d’indagine sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino, ucciso a Palermo nel 1989 assieme alla moglie. Dalle indagini sollecitate dalla Direzione nazionale antimafia e sviluppate dalle procure di Caltanissetta e Reggio Calabria, è emerso infatti che “due utenze telefoniche riconducibili ad Aiello, sono state contattate da utenze istituzionali e in particolare: dall’utenza 3358266*** intestata all’Aeronautica militare, 31esimo Stormo C. Raiti,  Ente C. O. Aer. Ciampino e dall’utenza 3346933*** intestata al Decimo Reggimento Trasmissioni”. La procura generale cita una nota del Servizio Centrale Antiterrorismo del febbraio 2014. Con chi parlava Giovanni Aiello?

Per qualche tempo, fu anche intercettato. Il 17 settembre 2010 disse a un amico di aver fatto parte dei servizi segreti. Un altro piccolo tassello. Per i magistrati di Palermo, Aiello sarebbe stato legato a Bruno Contrada, l’ex capo della squadra mobile poi diventato numero tre dei servizi segreti, arrestato per mafia nel 1992.
 Faccia di mostro, le accuse a Contrada: “Si è informato delle indagini sull’ex agente”

Uno suo fidato ex agente, Guido Paolilli, coinvolto nella sparizione delle carte del poliziotto Agostino, aveva accettato di parlare con un giornalista di “Servizio Pubblico”, aveva detto che Aiello vendeva informazioni alla mafia. E quel dialogo, ripreso con una telecamera nascosta, venne trasmesso in Tv. Paolilli, allarmato, telefonò a Bruno Contrada, dicendo “di averla fatta grossa questa volta, un’intervista che non era una intervista, mi sono lasciato andare perché pensavo che quelle cose là morivano senza registrazione”. Era l’11 maggio 2014. Contrada chiese: “Cosa hai detto?”. Paolilli spiegò: “Ho parlato di quell’Aiello che prendeva dentro e portava fuori”. E Contrada chiese ancora: “Per quale motivo le hai dette?”.
 Alcuni anziani poliziotti della squadra mobile e della Criminalpol hanno confermato ai magistrati il “rapporto di fiducia” che c’era fra Contrada e Aiello. E c’è il giallo di un’altra intercettazione. Francesco Belcamino, l’ex compagno di pattuglia di Aiello, è stato intercettato mentre diceva: “Meno male che poi questo collega è morto… io non tradisco a nessuno, lui lo sa, Guido lo sa, allora lo devo per forza evitare sennò mi indagano per associazione e per strage”.
Tanti, troppi silenzi. La procura generale chiede un processo per l’omicidio del poliziotto Agostino e di sua moglie. Aiello è ormai morto. Sono indagati i boss Gaetano Scotto e Nino Madonia. Agostino cercava latitanti, qualcuno lo tradì. di
SALVO PALAZZOLO 29 Gennaio 2020 LA REPUBBLICA 19 FEBBRAIO 2020

 


‘Faccia da mostro” e quei misteriosi collegamenti istituzionali Il quotidiano La Repubblica racconta di telefonate da un cellulare dei “Voli di Stato”  di Aaron Pettinari Tre anni fa, mentre portava a riva la sua imbarcazione in spiaggia, in provincia di Catanzaro, Giovanni Aiello è morto, ufficialmente per un infarto. Nonostante il decesso, però, continua a far parlare di sé, perché la sua storia è ricca di misteri e segreti che devono essere ancora disvelati. Nel 2016 i magistrati di Palermo che chiesero l’archiviazione dall’accusa di concorso in associazione mafiosa nell’ambito delle indagini sul delitto che il 5 agosto 1989 portò alla morte il poliziotto Nino Agostino e la moglie, Ida Castelluccio (che era incinta), arrivarono alla conclusione che fosse lui “la persona con il volto deturpato che, reiteratamente nel corso degli anni, aveva personalmente partecipato a vere e proprie riunioni mafiose, tenutesi nel luogo – tanto noto quanto strategico – di Fondo Pipitone, nella disponibilità ‘storica’ e diretta della famiglia Galatolo”. Anzi, nero su bianco, si scriveva che gli elementi raccolti erano tali “da poter ritenere Aiello soggetto certamente in contatto qualificato con l’organizzazione mafiosa Cosa nostra (se non, addirittura, a questa intraneo)”.

Certo è che diversi collaboratori di giustizia hanno associato più volte il suo nome a stragi come quelle di via D’Amelio e di Capaci, ma anche agli omicidi del vicequestore Ninni Cassarà e, appunto, del poliziotto Nino Agostino.
Si è detto anche di un suo possibile coinvolgimento nell’assassinio del piccolo Claudio Domino ucciso nel 1986 mentre si celebrava il maxiprocesso.
Non solo. Lo hanno descritto come uomo appartenente ai Servizi di sicurezza, anche se Aisi e Aise hanno sempre smentito una sua appartenenza all’intelligence.
Ma chi fosse realmente Giovanni Aiello non si è mai riusciti a svelarlo completamente.
Restano i frammenti delle inchieste, da ultima quella della Procura generale di Palermo che nei giorni scorsi ha concluso le indagini sul caso Agostino nei confronti dei possibili esecutori: il boss Nino Madonia (capomandamento di Resuttana già detenuto dal 1987) e Gaetano Scotto (boss dell’Arenella arrestato ieri per associazione mafiosa).
Secondo quanto riportato oggi dal quotidiano La Repubblica le indagini furono sollecitate dalla Direzione nazionale antimafia e sviluppate dalle procure di Caltanissetta e Reggio Calabria. Queste fecero emergere che “due utenze telefoniche riconducibili ad Aiello, sono state contattate da utenze istituzionali e in particolare: dall’utenza 3358266*** intestata all’Aeronautica militare, 31esimo Stormo C. Raiti, Ente C. O. Aer. Ciampino e dall’utenza 3346933*** intestata al Decimo Reggimento Trasmissioni”. E nelle carte sul caso Agostino la Procura generale citerebbe anche una nota del Servizio Centrale Antiterrorismo del febbraio 2014. I misteri attorno alla figura di Aiello non si concludono qui. Ha sempre dichiarato di non aver mai avuto a che fare con certe vicende ma, in un’intercettazione con un amico, diceva di aver lavorato per i servizi, commentando la presenza di Gheddafi in Italia.
Un passaggio che è importante ricordare:
Aiello: Secondo te Gheddafi perché dorme sotto la tenda quando viene in Italia?
Amico: Così se ne può andare quando vuole!
Aiello: No! è tutta una questione di sicurezza! Se gli buttano una bomba chi ti dice che dentro c’è lui! Lui gioca con queste cose. Può darsi pure che dorma in albergo.
Amico: E chi lo sa che albergo è?
Aiello: Ah non lo sa nessuno. Pure io, quando ero nei servizi segreti, non è che sapevamo queste cose.
C’è poi il rapporto con Bruno Contrada. Negli anni passati la Procura generale perquisì l’abitazione dell’ex numero 3 del Sisde alla ricerca di documenti.  ex agente che in passato fu indagato per favoreggiamento in concorso aggravato (inchiesta poi archiviata dalla Procura di Palermo per avvenuta prescrizione, ndr).
L’ex agente, Guido Paolilli
In un’intervista a “Servizio Pubblico”, parlando di Aiello lo aveva descritto come “un fango” che “si vendeva le informazioni alla mafia”.
E’ emerso dalle indagini che quando quelle dichiarazioni furono trasmesse in televisione Paolilli chiamò subito a Contrada.
La Repubblica riporta le frasi di quel dialogo dell’11 maggio 2014.
Paolilli diceva “di averla fatta grossa questa volta, un’intervista che non era una intervista, mi sono lasciato andare perché pensavo che quelle cose là morivano senza registrazione”. La risposta di Contrada fu immediata: “Cosa hai detto?”. E Paolilli rispose: “Ho parlato di quell’Aiello che prendeva dentro e portava fuori”.
“Per quale motivo le hai dette?” chiese ancora una volta l’ex numero tre del Sisde. 
Che vi fosse un “rapporto di fiducia” tra Contrada ed Aiello sarebbe stato confermato ai magistrati anche dalle testimonianze di poliziotti della Squadra mobile e della Criminalpol.  La Repubblica poi ricorda un’altra intercettazione ricca di mistero. Quella dell’ex compagno di pattuglia di Aiello, Francesco Belcamino in cui diceva: “Meno male che poi questo collega è morto… io non tradisco a nessuno, lui lo sa, Guido lo sa, allora lo devo per forza evitare sennò mi indagano per associazione e per strage”Cosa vuol dire?  La Procura generale, chiusa l’indagine sul caso Agostino, si appresta a chiedere un processo. Ed è in quella sede che, forse, si potrà avere ancora più chiarezza su certe vicende. Intanto oggi Paolilli dovrà testimoniare davanti al giudice del tribunale civile di Palermo, Paolo Criscuoli, nel procedimento in cui è pendente la richiesta di risarcimento danni da 50mila euro presentata dai familiari dell’agente Antonino AgostinoAll’ex poliziotto verrà chiesto conto di quanto affermato nella famosa intercettazione con il figlio, nel 2008, in cui gli rivelava di aver pigliato e stracciato “una freca di cose” dall’armadio di casa Agostino. Un primo passo verso la verità che i familiari aspettano e cercano da troppo tempo. Amduemila 19 Febbraio 2020


La morte di “Faccia da mostro”: sequestrati casa, barca e telefono  Il provvedimento è stato disposto dalla Procura antimafia di Reggio Calabria” nell’ambito dell’inchiesta “‘Ndrangheta stragista”, che vedeva coinvolto Giovanni Aiello La Procura antimafia di Reggio Calabria ha disposto il sequestro probatorio della casa, della barca e del telefono cellulare di Giovanni Aiello, l’ex poliziotto della Squadra Mobile di Palermo conosciuto come “Faccia da mostro”, morto ieri mattina sulla spiaggia di Montauro. Il provvedimento è stato disposto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo titolare dell’inchiesta “‘Ndrangheta stragista”, che vedeva coinvolto lo stesso Aiello già sottoposto a perquisizione lo scorso 24 luglio.  Chiamato “Faccia da mostro” per il volto sfigurato da una fucilata in gioventù, ormai da tanti anni viveva in una casa sulla costa ionica catanzarese. Funzionario dei servizi segreti in attività a Palermo negli anni Ottanta fino alle grandi stragi del 1992, era stato riconosciuto nel febbraio del 2016 da Vincenzo Agostino, padre del poliziotto di Palermo, Antonino, ucciso con la moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989. L’ex agente segreto sarebbe colui che prima del delitto sarebbe stato visto vicino alla sua abitazione. Aiello era stato iscritto nel 2015 nel registro degli indagati con i boss Gaetano Scotto e Salvino Madonia. Per i capimafia la procura aveva chiesto l’archiviazione, ma il giudice respinse l’istanza ordinando nuove indagini tra le quali il confronto fra il padre della vittima e Aiello. Aiello era convolto nelle vicende relative alla cosidetta trattativa. Per i magistrati era un personaggio chiave. Nino Lo Giudice detto Il Nano, pentito e capo di uno dei clan più potenti di Reggio Calabria, ai magistrati che indagano sulle stragi disse: “E’ stato il poliziotto Giovanni Aiello a far saltare in aria Paolo Borsellino e i 5 agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D’Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona… Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi”. Rivelazioni verbalizzate dai pm di Reggio Calabria e condivise con i magistrati siciliani. PALERMO TODAY 22.4.2017

 

“FACCIA DA MOSTRO, LA SUA COMPLICE E QUELLE TRACCE CHE PORTANO A UNA DONNA NEL COMMANDO CHE UCCISE FALCONE” Il giornalista Lirio Abbate ha dedicato un libro-inchiesta al misterioso uomo con la faccia sfregiata che compare sullo sfondo dei delitti mafiosi degli anni ’80. E che secondo alcuni pentiti si muoveva accompagnato da una donna: una delle poche appartenenti a Gladio di sesso femminilI. Ha proiettato la sua ombra sui delitti più misteriosi compiuti nella Palermo delle stragi. Compariva e scompariva come un lampo, per poi svanire definitivamente e lasciare traccia di sé soltanto dentro ai verbali di collaboratori e testimoni. Era un fantasma, un uomo taciturno con la faccia butterata, orribile, mostruosa, sempre presente quando c’era un omicidio delicato da compiere: quello eccellente del commissario Ninni Cassarà, quello inspiegabile di Claudio Domino, ammazzato a 11 anni senza un movente. E poi il fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone: si allunga fino a lì l’ombra del killer col tesserino dei servizi in tasca, uno dei tanti uomini cerniera tra Cosa nostra e StatoDi lui i pentiti hanno raccontato cose di questo tenore: “Io credo che il personaggio con il volto sfregiato sia molto pericoloso. È un cane, sto parlando di un uomo fuori dalle regole“. E ancora: “C’è un uomo molto brutto che ha contatti con la ’ndrangheta e con Cosa nostra, ha il viso sfigurato, è un ex poliziotto passato ai servizi segreti”. Per anni lo hanno chiamato semplicemente così: Faccia da mostroPoi nel 2007 arrivano un nome e un cognomeGiovanni Aiello, fino al 1977 poliziotto della squadra mobile di Palermo. Quella cicatrice sulla guancia se l’è fatta con una fucilata, in Sardegna a fine anni Sessanta. La sua foto viene mostrata i pentiti: “È lui”, dicono. Vincenzo Agostino, il padre dell’agente di polizia assassinato nel 1989 insieme alla giovane moglie, lo riconosce in un confronto all’americana: è lo stesso uomo che era venuto a cercare suo figlio, poco prima dell’omicidio. Poi, nel 2017, Aiello muore: da solo, in una spiaggia della Calabria, d’infarto. A Faccia da MostroLirio Abbate, ha dedicato il suo ultimo libro uscito per Rizzoli. Il vicedirettore dell’Espresso, esperto giornalista investigativo su fatti di mafia, si è messo sulle tracce di Aiello. Il fantasma col volto deturpato, che secondo alcuni collaboratori di giustizia si muoveva spesso in compagnia di una donna: si faceva chiamare “Antonella“. Chi l’ha incontrata la ricorda come una coi modi da “guerrigliera”.

Abbate, seguendo Faccia da mostro ti sei imbattuto anche in questa sua sodale: chi era? La procura di Catania l’ha individuata in Virginia Gargano. Oggi è ufficialmente una casalinga disoccupata, ma il suo passato è quello che giornalisticamente mi ha interessato di più.

Perché? Perché era una delle poche donne che faceva parte di Gladio, una delle più giovani. Una napoletana che ha sposato un altro appartenente a Stay Behind, nipote dell’ex capo della Polizia Vincenzo Parisi.

Chi ci faceva questa donna con Faccia da mostro? È il mistero che mi piacerebbe svelare. Ne parlano alcuni pentiti: Nino Lo Giudice, detto “il nano”, Maurizio Cortese, Consolato Villani.

Cosa dicono? Che negli anni ’80 si muoveva spesso con Faccia da mostro. Poi negli anni duemila ricompare a Reggio Calabria, quando Aiello incontra i capi della ‘ndrangheta con i quali parla di un traffico d’armi.

Su di lei ha indagato la procura Catania? Sì, era la stessa inchiesta per concorso esterno alla mafia che ha visto indagato Aiello. L’hanno intercettata tra il 2013 e il 2014.

Poi però Aiello muore d’infarto su una spiaggia calabrese, da solo. Era il 2017: per qualche investigatore è una morte che arriva al momento giusto. Tu che idea ti sei fatto? L’infarto può cogliere sempre tutti di sorpresa, purtroppo. Aiello viene colpito da infarto dopo essere stato individuato da Vincenzo Agostino come l’uomo che era andato a casa sua a cercare suo figlio. Da lì a poco sarebbe stato interrogato: non possiamo sapere come si sarebbe comportato davanti ai pm. Di sicuro è in quel momento che muore, e muore sicuramente d’infarto, come ha confermato l’autopsia. Subito dopo la famiglia ha deciso di cremarne il corpo.

La donna che accompagnava Faccia da mostro non è l’unica che è spuntata ultimamente sullo sfondo dei grandi delitti di mafia. No, ci sono dei testimoni che notano una donna nei pressi dei luoghi delle stragi del 1993, quelle di Milano, Firenze e Roma. Hanno fatto anche gli identikit, ma fino a oggi non si è mai arrivati a un nome.

C’è l’ombra di una donna anche sullo sfondo della strage di Capaci. Qualcosa di più dell’ombra. Ci sono i reperti trovati nei pressi del cratere della strage. Reperti che potrebbero appartenere agli attentatori. Ebbene su quei reperti ci sono tracce di dna, un dna che è femminile.

Una donna nel commando che uccise Falcone sarebbe la più grossa rivelazione degli ultimi trent’anni. Sappiamo che Cosa nostra non ha mai affidato le fasi esecutive di una strage o di un omicidio a una donna. O comunque nessuno ne ha mai parlato, quindi questa cosa lascia pensare che possano esserci stati soggetti esterni alla mafia tra gli esecutori delle stragi. Tra tutte queste ipotesi, però, c’è un dato inconfutabile: quel dna trovato tra i reperti di Capaci appartiene a una donna.

Secondo te la donna di Capaci è la stessa degli identikit delle stragi del 1993? Rispondere a questi interrogativi è parte integrante del mistero che come cronisti stiamo raccontando da anni. Vorremmo che qualcuno li risolvesse, prima o poi.

Ventinove anni dopo la strage di Capaci è ancora possibile ricostruire come andarono davvero le cose? È possibile a un certo punto arrivare alla verità?
Come per tutti gli altri delitti, io penso che più passa il tempo, più sarà difficile accertare come andarono le cose. Gli anni continuano a coprire le tracce, i fiancheggiatori ed eventuali personaggi esterni a Cosa nostra. Quando parlo di personaggi esterni mi riferisco a quelli che non hanno materialmente eseguito alle stragi, ma hanno contribuito a spingere Totò Riina sulla strada dell’attacco allo Stato a suon di bombe.

Più passa il tempo e meno possibilità avremo di scoprire chi sono?  Ci sono stati i depistaggi, le piste fasulle, le indagini che hanno imboccato direzioni sbagliate. Basta solo ricordare che solo adesso siamo arrivati alla condanna di Nino Madonia per l’omicido di Nino Agostino. Un duplice omicidio commesso nel 1989 e oggi dobbiamo ancora capire bene quale fosse il ruolo di Faccia da mostro in quella vicenda. Come in tante altre: di quel periodo c’è ancora moltissimo da scoprire. E sono passati più di trent’anni ormai.  di Giuseppe Pipitone | 22 MAGGIO 2021 IL FATTO QUOTIDIANO


“Faccia da mostro” è morto. Il controverso ex poliziotto Giovanni Aiello stroncato da un malore  Si è accasciato tra i bagnanti dopo aver portato a riva la propria barca


Processo Borsellino quater, il pentito Lo Giudice: “Faccia da mostro provocò l’esplosione”  “A far scoppiare la bomba che uccise il giudice Paolo Borsellino, fu Giovanni Aiello (l’ex poliziotto noto come ‘Faccia da mostro’, ndr) che fu mandato dai servizi segreti”. E’ quanto ha riferito il collaboratore di giustizia della ‘Ndrangheta Antonino Lo Giudice, alla ripresa del quarto processo per la strage di via d’Amelio, che si celebra davanti la Corte d’Assise di Caltanissetta. Il pentito lo avrebbe appreso da Pietro Scotto, quando i due si trovavano reclusi nel carcere dell’Asinara. Gli imputati sono Salvo Madonia e Vittorio Tutino, accusati di strage, e i falsi pentiti Francesco Andriotta, Vincenzo Scarantino e Calogero Pulci, che rispondono di calunnia.

Giovanni Aiello assemblo’ la bomba scoppiata in via D’Amelio per uccidere il giudice Paolo Borsellino. Lo fece all’interno di un’auto, una 126. Osservava tutto, con un cannocchiale, dalla lussuosa stanza di un albergo-residence che si trovava in cima ad una montagna”, ha aggiunto Lo Giudice“Aiello mi disse – ha proseguito il collaboratore di giustizia – che era stato lui a preparare la bomba insieme ad altre persone, fra le quali Gaetano Scotto. I due facevano affari insieme. L’esplosivo e’ stato reperito dallo stesso Aiello a Reggio Calabria, su richiesta di Gaetano Scotto e dietro l’incarico ricevuto da quest’ultimo da Toto’ Riina”. Durante la sua deposizione, Lo Giudice ha affermato di essere confuso e di non aver parlato mai con i magistrati dell’esplosivo perche’ aveva paura dei servizi segreti che lo avrebbero perseguitato: “Sono stato perseguitato al punto da evadere dai domiciliari”.

Mafia: Borsellino quater; pentito,Faccia da mostro ci ha rovinati  “Giovanni Aiello ci ha rovinato la vita”. E’ quanto avrebbe detto Pietro Scotto ad Antonino Lo Giudice, quando i due erano detenuti all’Asinara. Ad affermarlo e’ stato lo stesso Lo Giudice, oggi collaboratore di giustizia, deponendo a Caltanissetta al “Borsellino quater”. Pietro Scotto diceva che sia lui, sia suo fratello Gaetano, erano estranei alla strage di via D’Amelio. Questa conversazione si verifico’ in carcere prima delle stragi del continente e dopo la strage di via D’Amelio. Scotto, quando parlava di Aiello, l’ex poliziotto noto come ‘Faccia da mostro’, lo definiva sfregiato, butterato. Durante la sua deposizione, il pentito, rispondendo alle domande del Pm Stefano Luciani, in piu’ occasioni e’ caduto in contraddizione rispetto a quanto gia’ verbalizzato e piu’ volte ha detto “non ricordo”.

Mafia: pentito, Aiello anche dietro fallito attentato a Falcone  “Furono Emanuele Piazza e Giovanni Aiello ad uccidere Antonino Agostino”, il poliziotto dei servizi segreti ammazzato a Villagrazia di Carini il 5 agosto del 1989 insieme alla moglie Ida Castelluccio. E’ un’altra circostanza, riferita dal pentito Antonino Lo Giudice, deponendo al “Borsellino quater”. “Agostino stava indagando sul fallito attentato all’Addaura e aveva scoperto che era coinvolto anche Piazza. Aiello”, l’ex poliziotto noto come ‘Faccia da mostro’, “per eliminare testimoni scomodi poi decise a sua volta, di uccidere anche Piazza”. Lo Giudice ha anche detto di aver appreso da Aiello, che a “preparare il fallito attentato all’Addaura nei confronti del giudice Giovanni Falcone, erano stati lo stesso Aiello, Gaetano Scotto e Piazza che era un poliziotto infiltrato al commissariato di San Lorenzo. I tre si trovavano su un gommone ma l’attentato falli’ per la presenza della scorta. Ad ordinare l’attentato era stato Riina”. Durante la sua deposizione, piu’ volte Lo Giudice ha sottolineato di essere confuso, di essere stato male in passato e di aver tentato anche il suicidio. In piu’ occasioni si e’ contraddetto.

Torna il mistero dell’ex poliziotto Giovanni Aiello, detto “Faccia di mostro”, quell’Aiello morto all’improvviso tre anni fa, dopo essere entrato nelle indagini più delicate sulle stragi del 1992. “Faccia da mostro”, che con quella sua cicatrice in volto è passato come il killer di Stato al servizio della mafia, come raccontato da alcuni pentiti. Ufficialmente, lui era soltanto un pensionato con la passione della pesca. Orai la procura generale diretta da Roberto Scarpinato negli atti d’indagine sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino, ucciso a Palermo nel 1989 assieme alla moglie chiama in causa quello strano “pensionato”.  Dalle indagini sollecitate dalla Direzione nazionale antimafia e sviluppate dalle procure di Caltanissetta e Reggio Calabria, è emerso infatti che “due utenze telefoniche riconducibili ad Aiello, sono state contattate da utenze istituzionali e in particolare: dall’utenza 3358266*** intestata all’Aeronautica militare, 31esimo Stormo C. Raiti, Ente C. O. Aer. Ciampino e dall’utenza 3346933*** intestata al Decimo Reggimento Trasmissioni”. La procura generale cita una nota del Servizio Centrale Antiterrorismo del febbraio 2014. Con chi parlava Giovanni Aiello? Dettagli che potrebbero determinare una svolta, non soltanto nell’omicidio Agostino. Delitto che, peraltro, nei giorni scorsi è stato richiamato dal boss Giuseppe Graviano, al processo sulla ‘ndrangheta stragista. Graviano ha sostanzialmente detto: indagate bene sul delitto Agostino e troverete la risposta sulla stagione delle stragi. Non poco.Agostino era impegnato nella cattura dei latitanti, probabilmente fu tradito e dato in pasto ai killer di Cosa nostra. Per qualche tempo, Aiello fu anche intercettato. Il 17 settembre 2010 disse a un amico di aver fatto parte dei Servizi segreti. Per i magistrati di Palermo, Aiello sarebbe stato legato a Bruno Contrada, l’ex capo della squadra mobile poi diventato numero tre dei Servizi segreti, arrestato per mafia nel 1992. Anche lui, personaggio chiave dei misteri di Palermo. 

“Uno suo fidato ex agente, Guido Paolilli, coinvolto nella sparizione delle carte del poliziotto Agostino – ricostruisce Salvo Palazzolo su Repubblica – aveva accettato di parlare con un giornalista di “Servizio Pubblico”, aveva detto che Aiello vendeva informazioni alla mafia. E quel dialogo, ripreso con una telecamera nascosta, venne trasmesso in Tv. Paolilli, allarmato, telefonò a Bruno Contrada, dicendo “di averla fatta grossa questa volta, un’intervista che non era una intervista, mi sono lasciato andare perché pensavo che quelle cose là morivano senza registrazione”. Era l’11 maggio 2014. Contrada chiese: “Cosa hai detto?”. Paolilli spiegò: “Ho parlato di quell’Aiello che prendeva dentro e portava fuori”. 

E Contrada chiese ancora: “Per quale motivo le hai dette?”. “Rapporto di fiducia”, quello fra Contrada e Aiello ampiamente confermato da vecchi investigatori.. E poi, Repubblica racconta di un’altra inquietante intercettazione. Francesco Belcamino, l’ex compagno di pattuglia di Aiello, è stato intercettato mentre diceva: “Meno male che poi questo collega è morto… io non tradisco a nessuno, lui lo sa, Guido lo sa, allora lo devo per forza evitare sennò mi indagano per associazione e per strage”.  Tanto, proprio tanto da chiarire, rileggere. La procura generale ora chiede un processo per l’omicidio del poliziotto Agostino e di sua moglie. Come si sa, Aiello è morto. Sono indagati i boss Gaetano Scotto e Nino Madonia GLOBALIST Da Paolo Borrometi – 19 Ottobre 2016


Chi è “faccia da mostro”, l’uomo dei misteri di Palermo. Chi è davvero Giovanni Aiello? L’ultimo mistero palermitato è legato al volto sfigurato di un ex agente della polizia di Stato che secondo quattro procure (Palermo, Caltanissetta, Catania e Reggio Calabria) avrebbe a che fare con le pagine più buie della stagione delle stragi. Dall’Addaura, il fallito attentato contro Giovanni Falcone del 1989, agli omicidi di due investigatori scomodi, Antonino Agostino e Emanuele Piazza, ma anche alla storia, orrenda, del piccolo Claudio Domino.

Giù in Sicilia, procure e pentiti, dicono che Giovanni Aiello è “faccia da mostro”, “lo sfregiato”, “il bruciato”. L’ultima a fare il suo nome, e a riconoscerlo durante un confronto all’americana, è stata la figlia, pentita, del boss palermitano dell’Acquansanta, Vincenzo Galatolo, Giovanna. «È lui, non ci sono dubbi. È l’uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati», ha detto nelle scorse settimane la collaboratrice , mentre Aiello era immobile dall’altra parte di un vetro dentro gli uffici della Dia di Palermo. «Si incontrava sempre in vicolo Pipitone con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia. Tutti i miei parenti lo chiamavano “lo sfregiato”, sapevo che viaggiava sempre tra Palermo e Milano». , oggi ha 68 anni, vive da eremita in un capanno in riva al mare a Montauro, in provincia di Catanzaro. Ha i capelli biondi, la parte destra del volto sfigurata da una fucilata rimediata in Sardegna, nel ’66, tre anni dopo essersi arruolato in polizia, durante un conflitto a fuoco con i sequestratori della banda di Graziano Mesina. Dopo quell’incidente il trasferimento a Cosenza, poi a Palermo, prima al Commissariato Duomo e poi nelle sezioni antirapine e catturandi della Mobile.

Nel capoluogo siciliano, Aiello, ha lavorato con Bruno Contrada, l’ex capo della Mobile e numero 3 del Sisde condannato per mafia , e prima ancora con il commissario Boris Giuliano, ucciso nel ’79. Forse in quello stesso periodo, ma anche dopo, Aiello potrebbe aver collaborato anche con i Servizi segreti. Lui giura che con la mafia non c’entra e che non si reca a Palermo dal ’76, l’anno in cui ha lasciato la polizia, ma la circostanza non combacia con la presenza di alcuni biglietti del traghetto per Messina, recenti, trovati dalla Dia nel suo capanno durante una perquisizione. «Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo – ha detto ai giornalisti di Repubblica l’ex poliziotto -, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello». Nella casa di Montauro gli inquirenti hanno trovato armi, appunti in codice, lettere, assegni e titoli per 600 milioni di vecchie lire, alcuni articoli su Provenzano e le inchieste dell’antimafia. Aiello, ad aprile di quest’anno, ha parlato anche a una troupe di Servizio pubblico

 Vito Lo Forte, un altro pentito di mafia, nel 2009, guardando alcune foto, aveva detto che Aiello poteva essere “faccia da mostro”, però lo aveva soprannominato in un altro modo. Le sue parole le riportano Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci nel libro Il patto (Chiarelettere): «Li chiamavamo il bruciato e lo zoppo. Uno aveva il viso deturpato, l’altro camminava con un bastone». Lo Forte sostiene di aver visto entrambi «incontrarsi due o tre volte con Gaetano Scotto, il mio capo famiglia». Incontri che sarebbero avvenuti – sempre secondo il pentito – in esercizi pubblici, forse anche nel ristorante di proprietà del boss. In questa torbida storia combaciano molte cose e intorno a “faccia da mostro” aleggiano vari sospetti e una lunga scia di sangue e di morte. Le parole di Giovanna Galofano confermano, ad esempio, che la presenza della misteriosa figura si intreccia con diversi omicidi attribuiti ai Galofano e ai Madonia. Ma la figlia del boss dell’Acquasanta e Lo Forte non sono gli unici ad aver parlato dello “sfreggiato”. Ne parla la “gola profonda” Luigi Ilardo, il mafioso, vice rappresentante provinciale di Caltanissetta, cugino e braccio destro del boss Giuseppe “Piddu” Madonia, che nel ‘95 aveva messo sulle tracce di Bernardo Provenzano i carabinieri, ma un anno dopo gli tapparono per sempre la bocca. Ilardo confidò al colonnello Michele Riccio del Ros che a Palermo c’era un agente segreto con la “faccia da mostro” che frequentava strani ambienti, uno chiacchierato: insomma un uomo dello Stato che stava dalla parte sbagliata, antipatico ai mafiosi solo per via di quella faccia. Il confidente, parlando di lui, disse agli inquirenti: «Di certo questo agente girava imperterrito per Palermo. Stava in posti strani e faceva cose strane». Il suo nome, anzi il suo soprannome, comincia a saltare fuori nell’89, quando a parlare di lui è una donna che poco prima del ritrovamento di un ordigno vicino la villa di Giovanni Falcone, all’Addaura, lo notò da quelle parti, dentro un’auto, insieme a un altro individuo. La donna se lo ricorda proprio perché il suo volto era inguardabile. Era il 21 giugno 1989, Falcone aveva affittato per il periodo estivo quella villa sulla costa palermitana. Intorno alle 7.30 tre agenti di polizia trovano sugli scogli, a pochi metri dall’abitazione, una muta subacquea, un paio di pinne, una maschera e una borsa sportiva blu contenente una cassetta metallica. Dentro c’è un congegno a elevata potenzialità distruttiva composto da 56 candelotti di dinamite. La bomba non esplode, l’attentato fallisce.

“Faccia da mostro” è legato anche all’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castellucci, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini. Agostino dava la caccia ai latitanti, pare anche per conto del Sisde, e sembra avesse informazioni sul fallito attentato all’Addaura. Le indagini non hanno mai chiarito, fino in fondo, come sono andate le cose, però sembra che l’agente, poco prima di morire, avesse ricevuto in casa una strana visita, quella di un collega con la faccia deforme. A dirlo è suo padre, Vincenzo, che riferì agli inquirenti che un giorno notò un uomo «con il viso deforme che prendeva o gli dava notizie», vicino l’abitazione del figlio. Per lui, quell’uomo, era l’inguardabile: «Quell’uomo è venuto a casa mia, voleva mio figlio. Quel tizio non è soltanto implicato nei fatti di Capaci e di via D’Amelio, ha fatto la strage in casa mia, quella in cui sono morti – disse ai magistrati il padre di Agostino – mio figlio Nino, mia nuora e mia nipote (Ida Castellucci era incinta di cinque mesi, ndr). Due persone vennero a cercare mio figlio al villino. Accanto al cancello, su una moto, c’era un uomo biondo con la faccia butterata. Per me era “faccia da mostro”».

Un altro pesante sospetto lega “faccia da mostro” a un altro delitto, quello dell’ex agente di polizia Emanuele Piazza. Il suo nome in codice era “topo”, collaborava anche lui con il Sisde, era amico di Nino Agostino, ma non era ancora un effettivo. Figlio di un noto avvocato palermitano, era un infiltrato e dava la caccia ai latitanti quando, il 15 marzo 1990, scompare nel nulla. Molti anni dopo si saprà che fu “prelevato” con un tranello dalla sua abitazione da un ex pugile, vecchio compagno di palestra, portato in uno scantinato di Capaci, ucciso e sciolto nell’acido. Cercava la verità sulla morte del suo amico Antonino Agostino, forse l’aveva anche trovata, e anche lui sapeva qualcosa sull’Addaura. Una traccia che lega “lo sfregiato” a un’altra vicenda di sangue arriva addirittura dal lontano ‘86 ed è ancora il pentito Luigi Ilardo a chiamarlo in causa. Siamo a Palermo, quartiere di San Lorenzo, è il 7 ottobre 1986, un bambino di 11 anni, Claudio Domino, viene ucciso mentre sta rientrando a casa. Lo freddano su un marciapiede, a colpi di pistola. Suo padre è il titolare di un’impresa di pulizie che lavora anche nell’aula bunker, ma non è un mafioso. Due pentiti raccontano che a uccidere il bambino sarebbe stato l’amante di sua madre (poi giustiziato da Cosa nostra), perché li avrebbe visti insieme. Secondo un altro boss, il piccolo Claudio Domino sarebbe stato ucciso (da un altro killer poi eliminato) perché, sbirciando in un magazzino, avrebbe visto confezionare alcune dosi di eroina. I giudici, tuttavia, crederanno ai primi due pentiti, accreditando la versione che il bambino vide l’amante di sua madre e per questo fu giustiziato. Ilardo, tuttavia, riferisce agli inquirenti che quel giorno, nel quartiere San Lorenzo, mentre veniva assassinato quel bambino, c’era anche “faccia da mostro”.  di Fabrizio Colarieti


Depositati al Borsellino quater i verbali con le dichiarazioni del pentito calabrese  E’ il 3 maggio del 2016. All’interno di un carcere il cui nome sul verbale viene omesso per ragioni di sicurezza si trovano i pm di Palermo Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia e il loro collega di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Devono interrogare il pentito Antonino Lo Giudice. Quel giorno il “nano” racconterà loro una serie di fatti di mafia a dir poco inquietanti a partire dal ruolo dei Servizi segreti nelle stragi e negli omicici eccellenti. Ma è su un nome che si concentrano particolarmente i ricordi del collaboratore di giustizia:l’ex poliziotto Giovanni Aiello, da più parti indicato come “faccia da mostro”. Secondo Lo Giudice sarebbe lui un importante trait d’union tra mafia e Stato utilizzato in “operazioni” delicatissime, strage di via D’Amelio compresa. Ma nel verbale che è stato depositato recentemente al processo Borsellino quater (di cui in parte si è già parlato in precedenza)c’è un passaggio che merita ulteriore attenzione. Il pentito racconta ai pm quello che gli avrebbe detto Giovanni Aiello in merito ad un urologo di Barcellona Pozzo di Gotto che lui stesso avrebbe ucciso a seguito dell’operazione di Provenzano in Francia. Il riferimento ad Attilio Manca è del tutto evidente. “Mi narrò (Aiello, ndr) di un omicidio avvenuto in Sicilia prima ancora che venisse arrestato Bernardo Provenzano… questo è un altro fatto… l’ucciso era un urologo che si era prestato di individuare una clinica… una clinica all’estero per fare operare il Provenzano”. A quel punto il pm chiede se è stato Aiello ad uccidere l’urologo. “Si, si – replica Lo Giudice –. E che quando costui fu operato, per non lasciare tracce dietro a quell’operazione, contattò un avvocato di nome Pataffio (presumibilmente Cattafi, ndr) che gli teneva i contatti e lo seguiva nelle sue cose delicate e doveva a sua volta… ah e dove a sua volta gli diede l’incarico ad Aiello per liquidare l’urologo. Il dottore venne strangolato nel suo stesso studio a Barcellona Pozzo di Gotto per conto dell’avvocato e di Provenzano”. Le dichiarazioni di Lo Giudice su Attilio Manca, per quanto inedite in alcuni passaggi che andranno riscontrati, vanno inevitabilmente a corroborare quelle del pentito barcellonese Carmelo D’Amico che a sua volta aveva dichiarato ai magistrati di essere certo che Attilio Manca era stato ucciso dai Servizi segreti. “Poco tempo dopo la morte di Attilio Manca, avvenuta intorno all’anno 2004 – aveva raccontato D’Amico ad ottobre del 2015 – incontrai Salvatore Rugolo, fratello di Venerina e cognato di Pippo Gullotti (condannato a 30 anni quale mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, ndr). Lo incontrai a Barcellona, presso un bar che fa angolo, situato sul Ponte di Barcellona, collocato vicino alla scuola guida Gangemi. Una volta usciti da quel bar Rugolo mi disse che ce l’aveva a morte con l’avvocato Saro Cattafi perché ‘aveva fatto ammazzare’ Attilio Manca, suo caro amico. In quell’occasione Rugolo mi disse che un soggetto non meglio precisato, un Generale dei Carabinieri, amico del Cattafi, vicino e collegato agli ambienti della ‘Corda Fratres’, aveva chiesto a Cattafi di mettere in contatto Provenzano, che aveva bisogno urgente di cure mediche alla prostata, con l’urologo Attilio Manca, cosa che Cattafi aveva fatto”. “Rugolo non mi specificò se l’urologo Manca era già stato individuato come medico che doveva curare il Provenzano – si legge ancora nei verbali di D’Amico – e il compito del Cattafi era soltanto quello di entrare in contatto con il Manca, o se invece fu lo stesso Cattafi che scelse e individuò il Manca come medico in grado di curare il Provenzano. Rugolo Salvatore ce l’aveva a morte con Cattafi perché, proprio alla luce di quel compito da lui svolto, lo riteneva responsabile della morte di Attilio Manca che riteneva sicuramente essere un omicidio e non certo un caso di overdose. Rugolo non mi disse espressamente che Cattafi aveva partecipato all’omicidio di Manca ma lo riteneva responsabile della sua morte per i motivi che ha sopra detto. Quando Rugolo mi disse queste cose, io ebbi l’impressione che mi stesse chiedendo di eliminare il Cattafi, cosa che era già successa in precedenza, così come ho già detto quando ho parlato di Saro Cattafi) perché ritenuto il responsabile della cattura di Nitto Santapaola”.  Al di là dei colloqui con Rugolo c’è un’ulteriore confidenza di cui riferisce D’Amico: “Successivamente ho parlato di queste vicende quando sono stato detenuto presso il carcere di Milano-Opera in regime di 41 bis insieme a Rotolo Antonino. Mi confidò che erano stati i Servizi segreti a individuare Attilio Manca come il medico che avrebbe dovuto curare il latitante Provenzano. Rotolo non mi disse chi fosse questo soggetto appartenente ai Servizi ma io capii che si trattava della stessa persona indicatami dal Rugolo, ossia quel Generale dei Carabinieri che ho prima indicato; sicuramente era un soggetto delle istituzioni. Rotolo Antonino, sempre durante la nostra comune detenzione presso il carcere di Milano-Opera, mi disse che Attilio Manca era stato eliminato proprio perché aveva curato Provenzano e che ad uccidere quel medico erano stati i Servizi segreti”.  Ed è proprio nella parte finale delle dichiarazioni di D’Amico che riaffiora la presenza di un esponente dei Servizi dalla faccia brutta. “In quella circostanza – prosegue D’Amico – Rotolo mi aggiunse che di quell’omicidio si era occupato, in particolare un soggetto che egli definì ‘u calabrisi’; costui, per come mi disse Rotolo, era un militare appartenente ai Servizi segreti, effettivamente di origine calabrese, che era bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi. Rotolo Antonino mi fece anche un altro nome coinvolto nell’omicidio di Attilio Manca, in particolare mi parlò del ‘Direttore del Sisde’, che egli chiamava ‘U Diretturi’. Rotolo non mi disse come era stato ammazzato Manca, né mi fece il nome e cognome del ‘calabrese’ e del ‘Direttore del Sisde’, né io glielo chiesi espressamente. In questo momento mi sono ricordato che Rotolo, se non ricordo male, indicava il calabrese come ‘U Bruttu’, ma non so dire il motivo, e che era ‘un curnutu’, nel senso che era molto bravo a commettere questo tipo di omicidi”. Il riferimento all’agente dei Servizi soprannominato “faccia da mostro” non è nemmeno troppo velato. Le dichiarazioni di Lo Giudice unite a quelle di D’Amico verranno trasmesse alla Procura di Roma che ha in mano il fascicolo sulla morte di Attilio Manca. Ed è proprio all’Ufficio capitolino che viene imposto un doveroso approfondimento per trovare i riscontri oggettivi a quanto affermato dai due collaboratori. Prima di una vergognosa archiviazione del caso.  ANTIMAFIA DUEMILA 

 

 

 a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco