GIOVANNI SPAMPINATO, una morte annunciata

 

 


Giovanni Spampinato (Ragusa, 6 novembre 1946 – Ragusa, 27 ottobre 1972) giornalista  ucciso perché indagava su inchieste scomode. Nel dopoguerra Ragusa fu una ricca miniera di giacimenti di petrolio, che attirò molti per la possibilità di arricchimento, e per questo venne definita “capitale italiana del petrolio”. Ragusa venne vista inoltre come una provincia tranquilla, fin troppo, e per questo fu soprannominata “provincia babba”. Proprio in quegli anni, a Ragusa, crebbe Giovanni Spampinato. Studente di filosofia all’Università di Palermo, e con una grande passione per il giornalismo. Figlio di un comunista, sviluppò presto idee e posizioni di sinistra. Fatto che gli causò qualche problema, poiché la stampa in città a quei tempi era schierata su posizioni anticomuniste. Giovanni Spampinato viene ricordato come schivo, riservato, impegnato, e dal cuore grande. La delusione del mondo e delle persone lo portò spesso a periodi di solitudine: “L’ironia, l’autoironia mi ha salvato da molti momenti di crisi. Ma anche il vivere così comporta dei rischi: se mi fossi preso più sul serio avrei realizzato qualcosa, non avrei sbandato”.[1]

Nel 1969 cominciò a scrivere per il quotidiano “L’Ora” di Palermo, fino a diventarne il corrispondente da Ragusa. Giornale molto prestigioso, diffuso a Palermo, “L’Ora” a Ragusa era letto da una piccola élite, poiché veniva stampato la mattina a Palermo e arrivava a Ragusa solo la sera, in prossimità della chiusura delle edicole. Veniva acquistato, dunque, solo da chi era particolarmente motivato e interessato a leggere il punto di vista di sinistra sulle vicende siciliane; da chi era interessato ad un giornalismo di denuncia e di inchiesta, fatto da giornalisti che non avevano paura di parlare di notizie scomode e di mafia. Fu un giornale impegnato in battaglie civili, che diede voce a tutti e che, anche se politicamente schierato, non rinunciò mai alla sua autonomia redazionale.
Giovanni visse con un po’ di frustrazione il fatto di scrivere da Ragusa per un giornale che lì leggevano in pochi, ma vedere i suoi articoli in prima linea lo ripagò sempre.
Scrisse anche per “L’Opposizione di Sinistra” e per l'”Unità” dal 1969 al 1972.
Tuttavia, il tesserino di pubblicista gli venne assegnato dall’Ordine dei Giornalisti solo dopo la sua morte.
In quegli anni ci fu la Guerra fredda e la possibilità del PCI al potere faceva paura. Per questo, in maniera indiretta, si sostennero fascisti e gruppi estremisti di destra, mafiosi, e settori deviati dell’apparato di sicurezza.
Questo portò molti giovani di sinistra alla ricerca della verità, poiché non credevano alle informazioni date ufficialmente.
Giovanni iniziò il suo percorso di giornalista in quegli anni. Egli intuì che alcuni fatti di cronaca verificatisi a Ragusa non erano casi isolati, bensì legati tra loro, collegati a fatti che attraversarono l’Italia in quegli anni (furono gli anni della Strage di piazza Fontana).
Giovanni cominciò ad interessarsi ai traffici illeciti che avvenivano nelle acque siciliane, dove si svolgeva non solo un contrabbando di sigarette (i sigarettari erano in genere uomini di estrema destra), ma dove sbarcavano anche navi cariche di armi.
Altro traffico illecito su cui Giovanni cominciò ad indagare riguardò il traffico di reperti archeologici.
Una delle intuizioni di Giovanni fu che in queste lucrose attività non erano coinvolti solo delinquenti, ma personalità importanti della società; e che tutti questi traffici avevano un collegamento con la parte politica della destra.
Ragusa non fu dunque una semplice cittadina tranquilla.
La facilità dei collegamenti tramite il porto consentì, in quegli anni, intensi traffici di contrabbando di sigarette, armi e droga.
In questa apparente tranquilla cittadina dilagò il neofascismo[2].
Giovanni fu un giornalista completo, tanti furono gli ambiti che lo interessarono: fu molto legato ai giovani, all’istruzione[3], e ai fermenti del ’68 che animarono gli animi: “I giovani così, i giovani colà. È facile astrarre, creare nuove categorie. Ma il più delle volte ci si dimentica di andare a vedere da vicino questi marziani, non si pensa nemmeno di cercare di capire chi sono e cosa vogliono. Ma vogliamo farglielo dire a loro, chi sono e cosa vogliono?”[4]
E ancora, si interessò ai lavoratori e stette sempre dalla loro parte: scrisse della crisi dell’agricoltura, e delle condizioni in cui gli uomini erano costretti a lavorare nelle serre.
Si interessò a problematiche cittadine, prima fra tutte la carenza di risorse idriche.
Si occupò di analisi economiche e sociali, politiche, di cronaca. Furono anni di grandi contrapposizioni ideologiche e politiche.
Scrisse di speculazione edilizia, dell’interesse di alcuni giovani neofascisti per reperti archeologici, del prosperare del malaffare in quella parte della Sicilia che riguardava Ragusa (rapporti con la mafia, traffico di armi e droga); un luogo dove si alimentava la destra estremista (con campi di addestramento di forze paramilitari e organizzazioni neofasciste).
Scrisse articoli clamorosi. Tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971 Giovanni raccolse una serie di informazioni che rivelarono un intreccio nascosto tra politica, affari, traffici illeciti e attività eversive, che riguardarono in particolare il triangolo Ragusa – Siracusa – Catania, e che si realizzarono nel silenzio delle attività investigative.

L’inchiesta Tumino Giovanni Spampinato pagò con la vita la sua ricerca della verità, ad appena ventisei anni. Stava indagando sull’omicidio di un commerciante di antiquariato, l’ingegnere Angelo Tumino, da sempre fascista ed ex consigliere al consiglio comunale del Movimento Sociale Italiano. Un caso che riguardò la collusione tra malaffare e istituzioni. Per fare luce sulla morte dell’ingegnere Tumino, che venne trovato morto il 26 febbraio 1972 in Contrada Ciarberi (nelle campagne a pochi chilometri da Ragusa), Giovanni capì che bisognava indagare negli ambienti frequentati dall’ingegnere: tra la borghesia cittadina e i neofascisti del Movimento Sociale Italiano. Tumino venne ucciso proprio nei giorni in cui Giovanni, durante le sue inchieste sul neofascismo, rivelò la presenza a Ragusa del latitante Stefano Delle Chiaie, detto il “bombardiere nero” (ricercato per le bombe del 12 dicembre 1969 all’Altare della Patria) e di altri neofascisti (come Vittorio Quintavalle) legati a Junio Valerio Borghese, il quale aveva tentato un colpo di Stato, nel dicembre 1970, con la complicità della mafia. Giovanni si appassionò fortemente a quel delitto. Tumino non era un delinquente qualunque; trafficava reperti archeologici. Tre giorni dopo il delitto Giovanni scrisse di una pista che portava fin dentro il Palazzo di Giustizia: scoprì che subito dopo il ritrovamento del corpo dell’ingegnere, il sostituto procuratore incaricato delle indagini aveva interrogato un amico della vittima (il figlio di un magistrato di Ragusa nonché il presidente del Tribunale di Ragusa): Roberto Campria, uno con una passione spasmodica per le armi, e che intratteneva rapporti con trafficanti di opere d’arte. Campria venne convocato dalle forze dell’ordine, confermò di essere amico dell’ingegnere Tumino ma di non sapere che fosse morto. Parlò delle persone che frequentavano entrambi, sempre nell’ambito di acquisto e commercio di materiale antico. Quello dell’ingegnere Tumino rimase a lungo un omicidio irrisolto. Secondo Giovanni questo accadeva perché si voleva tenere nascosta la responsabilità di qualcuno molto noto. Giovanni raccolse informazioni e si rese conto che l’omicidio Tumino era avvenuto nell’ambito dell’ambiente di destra ma soprattutto in quello del traffico di reperti archeologici; e che non si trattava di un omicidio commesso dagli ambienti delinquenziali, ma probabilmente ordinato o voluto da un “intoccabile”. Nessuno osò però scavare e andare affondo a quel delitto. Giovanni indagò a lungo su quell’omicidio e si pose domande fondamentali: come mai il corpo di Tumino venne rivestito e sistemato con cura? L’ingegnere Tumino venne ucciso in contrada Ciarberi o vi fu portato già morto? Come mai, poco dopo l’omicidio, la macchina (che dalle testimonianze risultò essere proprio quella di Tumino) percorse per due volte a tutta velocità e a fari spenti quella strada? Un uomo da solo poteva spostare un corpo di più di cento chili? Secondo Spampinato vi era la probabilità che l’assassino non avesse agito da solo. Attraverso varie testimonianze raccolte, Giovanni Spampinato scoprì diversi elementi: il testimone Gino Pollicita rivelò di aver visto, la mattina del delitto, Tumino insieme al magistrato Saverio Campria (padre di Roberto) e la moglie (notizia che la Procura di Ragusa non approfondì). In secondo luogo, la sera dell’omicidio, la Guardia di Finanza fermò una macchina (probabilmente quella dell’ingegnere Tumino) guidata però da Vittorio Quintavalle; pochi giorni dopo il giudice istruttore smentì di tutta fretta questo verbale. E ancora, i contadini descrissero la figura di Roberto Campria nella persona che era stata vista insieme a Tumino nelle campagne e nel giorno del delitto[5]Tante furono le stranezze che Giovanni scoprì su Campria: subito dopo la morte dell’ingegnere Tumino egli si trovava a casa dell’assassinato per rovistare tra le carte di Tumino; inoltre Campria si trovava con Tumino lungo il tragitto che portava al luogo del ritrovamento del cadavere. Campria non fu mai né formalmente accusato né formalmente indagato. Giovanni fu l’unico a segnalare le anomalie che riguardarono le modalità del palazzo di giustizia, ma in questa ricerca della verità venne lasciato solo[6]In seguito ad un articolo di Giovanni Spampinato[7], Campria lo querelò per diffamazione, salvo poi non presentarsi al processo e quindi far decadere la querela. L’idea che si fece Giovanni dell’omicidio Tumino fu questa[8]: l’ingegnere si era messo in traffici illeciti, gestiti dalla mafia, e poi quando decise di uscirne fu ucciso. Giovanni era sicuro che Campria centrasse in prima persona in quell’omicidio, nonostante quest’ultimo dichiarasse la sua estraneità ai fatti, e anzi si avvicinò spesso a Giovanni per chiedergli di scrivere articoli che sottolineassero l’innocenza della sua persona. Giovanni non gli credette mai e anzi cercò di convincerlo a confessare. In quel momento Campria avvertì un pericolo in Giovanni.

L’omicidio Il 27 ottobre 1972 Campria telefonò a Giovanni per chiedergli di incontrarsi (facendogli intuire la possibilità di una confessione); Giovanni, benché avesse un po’ timore di quell’uomo non cedette alla paura e andò. Fu assassinato da Campria, all’interno della sua auto con cinque proiettili, costituitosi subito dopo. I giornali il giorno dopo titolarono “Assassinato perché cercava la verità” L’attenzione per l’omicidio Tumino terminò con la morte di Spampinato. L’inchiesta venne svolta a carico di ignoti e ancora oggi non si sanno i colpevoli e il movente.

Per l’omicidio di Giovanni Spampinato, invece, si tenne il processo nel 1975 a Siracusa. Campria fu condannato a 21 anni di prigione.

Appello Il 7 maggio 1977 la Corte di Appello di Catania escluse l’attenuante della provocazione per Campria: “Giovanni Spampinato pubblicò notizie che rispecchiano la verità, nell’esercizio del suo diritto-dovere di cronaca. […] Non sussiste quindi la provocazione. […] La Corte di Assise di Appello, in riforma della sentenza della Corte di Assise di Siracusa del 7 luglio 1975 esclude l’attenuante della provocazione.”[9] La pena di 21 anni di reclusione, rivolta a Campria, venne ridotta a 14 anni dalla Corte d’Appello di Catania, grazie alla seminfermità mentale.[10].

Cassazione  Nella sentenza del 3 ottobre 1978 venne rigettata la richiesta di ottenere l’attenuante della provocazione per l’omicida Campria: “Una cosa è certa: le dicerie di un piccolo ambiente (com’è quello di Ragusa) non sono attribuibili all’attività giornalistica, peraltro legittima della vittima, sicché, non è invocabile l’attenuante in esame”[11] Campria scontò solamente 8 anni, nel manicomio di Barcellona Pozzo di Gotto.[12].

 

In memoria di Giovanni Spampinato

  • Nel 2007 venne assegnato alla memoria di Giovanni il Premio Saint-Vincent di Giornalismo.
  • Nel 2007 venne fondato in suo nome “Ossigeno per l’informazione”, l’osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia (promosso dalla FNSI e dall’Ordine dei Giornalisti).
  • Nel 2007 il premio giornalistico Mario Francese si svolse a Ragusa, in segno di omaggio a Giovanni.
  • Nel 2008 andò in scena lo spettacolo teatrale “Il Caso Spampinato”, di Danilo Schininà e Roberto S. Rossi. Nel 2012 lo spettacolo fu riportato in scena con diverse innovazioni[13].
  • Il 13 gennaio 2010 nacque l’Archivio Spampinato, voluto dall’Associazione Giovanni Spampinato, che raccoglie documenti, articoli, pubblicazioni, fotografie e altro.
  • Il 26 aprile 2010, nella Sala AVIS di Ragusa, ebbe luogo il convegno “Noi e Giovanni, una vittima dimenticata e il dovere della memoria. Ricordi, testimonianze, proposte” in memoria di Giovanni Spampinato, con la presenza di Don Luigi Ciotti.
  • Il 27 ottobre 2011, Radio Itaca (Marsala) dedicò la prima puntata del programma radiofonico “Itaca ricorda” alla storia di Giovanni Spampinato.
  • Nel 2011, la quinta edizione del “Master in giornalismo investigativo e analisi delle fonti documentarie” di Milano è stato intitolato a Giovanni Spampinato.
  • Nel 2012, all’interno del Palazzo della Provincia di Ragusa, venne riaperta la sala stampa dedicata a Giovanni Spampinato nel 1995.
  • Il 29 ottobre 2015, a distanza di 43 anni dalla morte di Giovanni Spampinato, venne organizzato a Ragusa il convegno “Spampinato 43”. Nel corso di quest’ultimo fu rivelata una notizia che fino a quel momento era stata tenuta in riserbo dalla famiglia e dalla magistratura: nel 2008 venne inviata una lettera anonima, scritta a macchina, in cui si rivelavano particolari sull’omicidio Tumino[14].

Dicono di Giovanni Spampinato

  • “Mettiamo anche lui, quest’altro morto nostro, sul conto della Sicilia dell’indifferenza, della collusione e dell’intrigo, dell’agguato e del ricatto: per la parte che in tutte queste cose le compete lo mettiamo sul conto di una parte di questa città, Ragusa, quella dei suoi galantuomini abituati al consenso, al silenzio. Giovanni Spampinato per tenace coscienza e serena tradizione di famiglia si era scelto l’altra parte: coraggio brava gente, adesso almeno lui non parlerà più. Questo è un omicidio in nome collettivo, e si è andato compiendo per le strade e le piazze, tutte le strade e le piazze di questa città, nelle cancellerie di tribunale, negli uffici della gente che conta, nei rapporti di polizia, nella trama dei silenzi e delle omissioni.”[15]
  • “25 aprile 2007. Oggi avrebbe 60 anni, qualcuno però ha deciso di fermare la sua vita a pistolettate quando di anni ne aveva appena 25, nel 1972. Giovanni Spampinato è morto sul lavoro. È stato ucciso affinché la smettesse di rovistare in quel verminaio che era la provincia di Ragusa, città “babba” solo per chi non voleva vedere cosa ci fosse oltre la siepe, oltre il perbenismo ovattato, cortina fumogena che nascondeva traffici di ogni tipo: sbarco di armi, via vai di terroristi neri negli anni delle stragi, impunità per ricercati e tipi strani.”’[16]
  • “Il nostro Giovanni non doveva morire. La sua lotta e la sua ricerca della verità erano fatte in nome collettivo, al nostro posto. Dobbiamo rifare, come società civile, il nostro esame di coscienza. Noi cattolici per la nostra parte di responsabilità collettiva; il potere giornalistico e politico per le sue corresponsabilità, complicità e connivenza. L’assassinio di Giovanni Spampinato è stato derubricato a fatto di cronaca nera, mentre è stato un delitto del Potere come sistema “totale” che controllava la stampa e manipolava la lettura quotidiana dei fatti sociali e politici di questo lembo del Paese.”[17]
  • “Giovanni Spampinato raccontava la verità e lo faceva senza diffamare nessuno, segnalando il puzzo di mafia che alcuni siciliani avvertono fin da giovani, e che lui conosceva perché aveva nel Dna la cultura della responsabilità, e perché lavorava con “quei matti” de L’Ora, che si divertivano a fare un giornale di denuncia duro come la roccia.”[18]
  • Giovanni Spampinato fu ucciso per il suo coraggio, punito per aver voluto spingersi oltre la superficie, per aver squarciato il velo di ipocrisia e di falso perbenismo che regnava in una tranquilla città di provincia e per averne messo in luce misfatti e lati oscuri, al punto che all’epoca del delitto si insinuò di una morte “cercata”, conseguenza naturale di quegli scritti imprudenti con cui aveva finito per provocare il suo assassino.”[19]
  • “Ricordare, ancora oggi, è scomodo. Quindi meglio dimenticare chi, come Giovanni, facendo il proprio dovere ha svelato trame inedite nella cosiddetta “Provincia babba”. Ma ricordare, appunto, spesso è scomodo. Meglio strisciare, ancora oggi, dietro i potenti, i poteri forti e la mafia.”[20]

Film

  • L’ora di Spampinato, lungometraggio di Vincenzo Cascone e Danilo Schininà.
  • Diario Civile – Il rumore delle parole. Storia di Giovanni Spampinato, il giornalista di Ragusa ucciso dalla mafia, documentario di Fabrizio Marini.[21] WIKIMAFIA

 

LA VERITA’, NEGATA, OCCULTATA, TRAVISATA? Il 27 ottobre di 48 anni fa veniva ucciso mio fratello Giovanni Spampinato. L’assassino si chiamava Roberto Campria ed era l’indiziato numero uno per l’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino avvenuto a Ragusa il 25 febbraio dello stesso anno. Mio fratello era un giornalista di inchiesta, si era occupato dell’omicidio Tumino, era stato l’unico a rivelare all’opinione pubblica delle cose che gli altri giornalisti, pur sapendole, avevano preferito tacere. Giovanni come tutti voleva trovare il movente e l’assassino, per questo in ogni articolo aggiungeva qualcosa di nuovo, che neanche gli inquirenti dicevano. Scrisse anche che “per fugare ogni dubbio” le indagini si dovevano trasferire ad un’altra procura, per evitare il conflitto di interesse, in quanto l’indiziato numero uno Roberto Campria, era figlio del presidente del tribunale di Ragusa. Invece le indagini rimasero a Ragusa con la supervisione del presidente del tribunale (padre dell’indiziato). Giovanni inoltre si lamentava apertamente che le indagini a Ragusa venivano fatte in uno strano modo perché si voleva coprire una persona “che non doveva essere colpita, perché stava in alto”. Quando l’inchiesta passò al giudice istruttore, Giovanni diede un suo contributo, riferendo al giudice delle cose che riguardavano le ultime ore di vita dell’ingegnere Tumino (come emerge dalla lettura degli atti), cose che non vennero appurate. Molto probabilmente, se le avessero appurate fino in fondo, si sarebbe potuto trovare il vero assassino di Tumino, e Giovanni non avrebbe pagato con la vita il suo impegno alla ricerca delle verità per metterla a conoscenza di tutti. Sto studiando da qualche anno gli atti inerenti le indagini dell’omicidio Tumino (con l’aiuto di esperti), e continuo a farlo assiduamente, e tassello dopo tassello, con l’apporto di informazioni utili, provenienti dall’esterno, sto ridisegnando tutto in modo nuovo e reale, e posso dire che ci sono troppe zone buie, per non dire altro. Mio fratello Giovanni è stato ucciso da Roberto Campria perché la giustizia che stava indagando sulla morte di Tumino è stata troppo lenta, e alla fine ha gettato la spugna, tenendo Roberto Campria in bilico, considerandolo un indiziato, ma senza indagare su di lui, trascinando per tre mesi la verifica del suo alibi. Mio fratello Giovanni, dopo essere stato ucciso è stato considerato un provocatore, perché nel primo processo si è dato credito a tutto quello che ha detto il suo assassino, senza alcuna certezza. Nei due processi successivi (Appello e Cassazione), è stata esclusa la provocazione da parte di Giovanni, ma questo non è stato riportato all’opinione pubblica come si deve, e siccome non è stato detto neanche negli anni successivi, tutti hanno continuato a crederlo un provocatore. Una cosa aberrante, che ha danneggiato ingiustamente la figura di Giovanni, e ancora oggi continua a danneggiarla, a Ragusa.  Negli ultimi anni ho reso pubbliche il più possibile, anche con questo facebook, le sentenze dei processi successivi all’uccisione di Giovanni, che dicono che lui non ha provocato il suo assassino, e dicono anche, che come giornalista ha fatto il suo lavoro onestamente riportando la verità dei fatti. Da tempo sono impegnato alla ricerca della verità sull’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino, perché è assurdo che in una città come Ragusa non si è trovato il suo assassino, e in sordina si è archiviato il caso, come omicidio a nome di ignoti. Tutti i ragusani dovrebbero continuare a chiedere giustizia su quel caso, e siccome ancora oggi ci sono persone che sanno molte cose e non hanno mai parlato per paura, sappiano che adesso possono parlare tranquillamente perché i tempi sono cambiati, anche scrivendo lettere anonime, perché c’è chi le prende sul serio, a cominciare da me. Indirizzatele alla Procura di Ragusa, oppure al mio indirizzo via Locchi 28.Sarebbe un modo per dare giustizia anche al giornalista Giovanni spampinato, morto perché cercava la verità. SALVATORE SPAMPINATO 


Negli anni ’70 la provincia di Ragusa era considerata “babba”, un’isola felice nell’isola delle contaminazioni mafiose. Ma così non era. Lo sapeva bene Giovanni Spampinato, un giovanissimo giornalista, corrispondente dei quotidiani L’Ora e L’Unità, che con le sue inchieste scavava nei rapporti tra gruppi eversivi di estrema destra e mafia interessata ai traffici locali. Pagò con la vita il suo impegno. Fu ucciso il 27 ottobre 1972. Oggi siamo tutti chiamati a incoraggiare e sostenere chi, come faceva Spampinato, racconta e denuncia quello che non si vuole vedere. PIETRO GRASSO 27.10.2020


Spampinato e le cronache di una morte annunciata I due omicidi che nel 1972 scuotono Ragusa.  Il 25 febbraio viene ucciso Angelo Tumino, il 27 ottobre Giovanni Spampinato Angelo Tumino, ingegnere e costruttore edile, un passato da playboy e da esponente politico del Movimento Sociale Italiano, negli ultimi anni si occupava solo di antiquariato ed era “noto per la spregiudicatezza con cui conduceva gli affari”. Il corpo fu trovato in campagna, a dieci chilometri dalla città, ma non la sua auto, né il proiettile che l’aveva colpito “al centro della fronte” e che era fuoriuscito dalla nuca. Giovanni Spampinato, freddato con sei colpi di pistola, era un giovane di ventisei anni, corrispondente dell’Ora, che dell’omicidio di Tumino si occupava scrupolosamente. L’Ora aveva già pagato un alto tributo per gli attentati mafiosi e le bombe fasciste alla propria sede, e per l’omicidio di Mauro De Mauro. Spampinato ne era uno dei corrispondenti più bravi. Non si limitava a raccontare i fatti, investigava e andava alla ricerca della verità. Tutte le mattine veniva svegliato dal responsabile della redazione di Palermo e insieme concordavano l’articolo di cronaca della giornata. Giovanni Spampinato aveva concentrato la sua attenzione sul neofascismo nella Sicilia orientale. Intrecci s’erano stabiliti nel traffico di armi e sigarette di contrabbando provenienti dalla Grecia dei Colonnelli tra la mafia e l’eversione nera legata a Junio Valerio Borghese. Nel caso Tumino ci mise lo stesso impegno. Quello di sempre. Spampinato capì che l’omicidio del noto antiquario aveva retroscena riconducibili agli ambienti della destra neofascista. E ogni sua corrispondenza si rivela un atto d’accusa, una tappa di avvicinamento alla verità. Il volto e il nome del probabile assassino appariva sempre più chiaro. E si trattava di un altro giovane, Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale di Ragusa. Studente di giurisprudenza, dipendente dell’amministrazione provinciale di Ragusa, Roberto Campria era amico di Tumino, forse in rapporti d’affari con lui, e ne frequentava la casa. Dove fu trovato, dopo l’omicidio, intento a “sistemare delle carte”, scrisse Spampinato. E nelle ore che precedettero quella in cui venne accertata la morte dell’ingegnere (stando sempre alle rivelazioni di Spampinato) furono visti insieme sulla macchina da una vicina di casa, dal benzinaio e da altre persone. Considerato il maggiore indiziato dell’omicidio, Campria fu più volte “torchiato” dagli inquirenti. Ma a un certo punto, per la lunghezza delle indagini, in città si sparse la voce che si tendeva ad archiviare l’inchiesta. Spampinato denunciava tutto questo. E alla fine di ogni articolo firmava la propria condanna a morte. Una notte d’autunno Roberto Campria, che si dichiarava estraneo all’omicidio di Tumino, lo mise a tacere per sempre sparandogli. “Lui mi ha ucciso moralmente – disse mentre si costituiva – io l’ho ucciso fisicamente”. Vittorio Nisticò scrisse (L’Ora del 28 ottobre 1972) che all’impegno di Spampinato non aveva fatto riscontro quello delle autorità ragusane. “A cominciare dallo stesso padre dell’assassino, che avrebbe dovuto perlomeno sentire il dovere di dimettersi dalla delicata carica di presidente del tribunale” appena il nome del figlio era affiorato nella “torbida vicenda”. La torbida vicenda del primo omicidio, ancora oggi oscuro e impunito. Articolo 21 Di Gaetano Cellura 4 Aprile 2016


GIOVANNI SPAMPINATO, QUANDO UCCIDONO UN GIORNALISTA. PARLA IL FRATELLO Il 27 ottobre di 48 anni fa veniva ucciso mio fratello Giovanni Spampinato. L’assassino si chiamava Roberto Campria ed era l’indiziato numero uno per l’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino avvenuto a Ragusa il 25 febbraio dello stesso anno. Mio fratello era un giornalista di inchiesta, si era occupato dell’omicidio Tumino, era stato l’unico a rivelare all’opinione pubblica delle cose che gli altri giornalisti, pur sapendole, avevano preferito tacere. Giovanni come tutti voleva trovare il movente e l’assassino, per questo in ogni articolo aggiungeva qualcosa di nuovo, che neanche gli inquirenti dicevano. Scrisse anche che “per fugare ogni dubbio” le indagini si dovevano trasferire ad un’altra procura, per evitare il conflitto di interesse, in quanto l’indiziato numero uno Roberto Campria, era figlio del presidente del tribunale di Ragusa. Invece le indagini rimasero a Ragusa con la supervisione del presidente del tribunale (padre dell’indiziato). Giovanni inoltre si lamentava apertamente che le indagini a Ragusa venivano fatte in uno strano modo perché si voleva coprire una persona “che non doveva essere colpita, perché stava in alto”. Quando l’inchiesta passò al giudice istruttore, Giovanni diede un suo contributo, riferendo al giudice delle cose che riguardavano le ultime ore di vita dell’ingegnere Tumino (come emerge dalla lettura degli atti), cose che non vennero appurate. Molto probabilmente, se le avessero appurate fino in fondo, si sarebbe potuto trovare il vero assassino di Tumino, e Giovanni non avrebbe pagato con la vita il suo impegno alla ricerca delle verità per metterla a conoscenza di tutti. Sto studiando da qualche anno gli atti inerenti le indagini dell’omicidio Tumino (con l’aiuto di esperti), e continuo a farlo assiduamente, e tassello dopo tassello, con l’apporto di informazioni utili, provenienti dall’esterno, sto ridisegnando tutto in modo nuovo e reale, e posso dire che ci sono troppe zone buie, per non dire altro. Mio fratello Giovanni è stato ucciso da Roberto Campria perché la giustizia che stava indagando sulla morte di Tumino è stata troppo lenta, e alla fine ha gettato la spugna, tenendo Roberto Campria in bilico, considerandolo un indiziato, ma senza indagare su di lui, trascinando per tre mesi la verifica del suo alibi. Mio fratello Giovanni, dopo essere stato ucciso è stato considerato un provocatore, perché nel primo processo si è dato credito a tutto quello che ha detto il suo assassino, senza alcuna certezza. Nei due processi successivi (Appello e Cassazione), è stata esclusa la provocazione da parte di Giovanni, ma questo non è stato riportato all’opinione pubblica come si deve, e siccome non è stato detto neanche negli anni successivi, tutti hanno continuato a crederlo un provocatore Una cosa aberrante, che ha danneggiato ingiustamente la figura di Giovanni, e ancora oggi continua a danneggiarla, a Ragusa. Negli ultimi anni ho reso pubbliche il più possibile, anche con questo facebook, le sentenze dei processi successivi all’uccisione di Giovanni, che dicono che lui non ha provocato il suo assassino, e dicono anche, che come giornalista ha fatto il suo lavoro onestamente riportando la verità dei fatti. Da tempo sono impegnato alla ricerca della verità sull’omicidio dell’ingegnere Angelo Tumino, perché è assurdo che in una città come Ragusa non si è trovato il suo assassino, e in sordina si è archiviato il caso , come omicidio a nome di ignoti. Tutti i ragusani dovrebbero continuare a chiedere giustizia su quel caso, e siccome ancora oggi ci sono persone che sanno molte cose e non hanno mai parlato per paura, sappiano che adesso possono parlare tranquillamente perché i tempi sono cambiati, anche scrivendo lettere anonime, perché c’è chi le prende sul serio, a cominciare da me. Indirizzatele alla Procura di Ragusa, oppure al mio indirizzo via Locchi 28. Sarebbe un modo per dare giustizia anche al giornalista Giovanni spampinato, morto perché cercava la verità. Salvatore Spampinato INFORMAZIONE 27 ottobre, 2020


Il compagno cronista Un mestiere così  Nella Sicilia degli anni Settanta, fra mafia e strategie della tensione Sei pallottole e Giovanni Spampinato muore. Ragusa, la notte del 27 ottobre 1972, perde un giovane giornalista, fatto fuori perché faceva bene il suo lavoro, che, secondo alcuni, coincide col ficcare il naso in faccende poco chiare. Troppo sco­modo in questo caso, so­prattutto dopo che aveva documentato l’alleanza fra gruppi neofascisti e crimina­lità organizzata. Era corrispondente de L’Ora e dell’Unità ai tempi della “strategia della tensione”. Sono trascorsi quarant’anni da quella not­te e i Ragusani non sembrano ricordare molto la figura di Giovanni Spampinato. Che il giornalismo d’inchiesta, quello che narra il marcio, quello che denuncia la corruzione e inchioda i criminali, sia peri­coloso è risaputo. Non si rischia solo di essere ammazzati. Ma anche di es­sere di­menticati, che poi è come morire. Li chia­mano i rischi del mestiere. «Questo atteggiamento di fi­ducia nel proprio mestiere, di giornali­sta che tiene gli occhi bene aperti, cre­do sia il primo insegnamento che posso­no trarre dalla sua breve esperienza di vita i giova­ni di oggi»: questa è l’eredità di Spampi­nato secondo Carlo Ruta, giornalista d’inchie­sta, autore di “Morte a Ra­gusa” (2004), che fa luce sulla storia del croni­sta. Lo stesso Ruta è stato al centro di una vicenda che l’ha visto coinvolto, suo mal­grado, con l’accusa di stampa clandestina. Per questo è stato condannato nel 2008, ma assolto dalla Corte suprema di Cassa­zione nel 2012, in quanto la presunta “clandestinità” di cui era stato accusato non può essere estesa ad un blog su inter­net. Da ricordare anche l’episodio in cui, una notte, gli viene rubata la mac­china con dentro le copie di “Morte a Ragusa”, che il giorno dopo sarebbero state distribuite. «Negli ultimi anni Novanta, quando ho cominciato a occuparmi del caso, si tratta­va di una storia dimenticata, rimossa, te­nuta in vita solo dal ricordo che custodi­vano dei fatti alcuni amici e com­pagni del giovane ucciso. Lungo quei sentieri mi sono trovato quindi a “in­contrarlo” e a confrontarmi con la sua esperienza, con il suo punto di vista». L’esempio di Carlo Ruta è utile per ana­lizzare altre sotie simili, ­dove un tipo di narrazione scomoda (tipicamente, l’inchie­sta, trova ostacoli che rendono tor­tuoso il cammino verso la cosiddetta real­tà dei fat­ti. «L’anno scorso abbiamo documenta­to il degrado in cui versava una parte dell’ospedale di Modica: quadri elettrici con l’acqua sotto, tubi rotti, rifiuti di ogni sorta. Abbiamo pubblicato un video e un articolo. La risposta non è stata “Prov­vediamo subito” ma “Vi quereliamo per procurato allarme e violazione di domicilio”. Ovviamente non c’era nessun cartello che vietava l’accesso. Comunque alla fine, anche dopo le proteste di molti, la querela non è stata presentata. Non ave­va senso. La cosa bella di questa storia è che quei settori che abbiamo visitato sono stati pu­liti subito dopo. Quindi avevamo ragione», dice Giorgio Ruta de Il Clande­stino, mensile cartaceo di Modica nato nel 2006. «E’ vero che oggi per minacciare un giornalista si usa di più l’arma della quere­la che quella dell’aggressione fisica. A volte esistono querele che hanno soltanto lo scopo di intimidire, niente di più», con­tinua Giorgio Ruta. Una querela è stata invece recentemente archiviata, quella della Busso Sebastiano S.r.l. nei confronti di Claudio Conti (Le­gambiente), Giulio Pitroso e il direttore della testata La Verità. A questo proposito Giulio Pitroso: «La reazione dei miei co­noscenti alla querela è stata più vicina a un coro di ‘telavevodetto’, rispetto a un minimo accenno di vicinanza, termometro del fatto che la mentalità comune – senza voler troppo generalizzare – di Ragusa vive ancora in un senso di forzato perbe­nismo, per cui non ci si deve mai esporre apertamente». Forse siamo difronte ad un cambio di tendenza, poiché in passato si era solito ferire fisicamente gli “impiccioni”, men­tre in questo presente sembra ferir di più la notifica del tribunale. Senza dimentica­re gli espliciti atti intimidatori come quel­lo subito dal giornalista modicano Saro Cannizzaro, collaboratore del Giornale di Sicilia, al quale fu bruciato il portone di casa nel settembre del 2011 oppure l’epi­sodio che ha visto coinvolta Pinella Dra­go, giornalista sciclitana anche lei collab­oratrice del Giornale di Sicilia, cui ignoti hanno incollato con della colla at­tack il lucchetto della cappella in cui ripo­sa il de­funto marito. In provincia c’è pure ScicliPress, carta­ceo mensi­le, nato nel 2008. Ne parlano Bartolo Lorefice e Paolo Cirica: «Gio­vanni Spampinato vive e cammina con le gambe dei giovani iblei im­pegnati nel mondo del giornalismo (tes­serati e non) e che, da free lance, danno dignità e lustro ad una categoria che, dalle nostre parti, ha proprio bisogno di nuova linfa. Penso al nostro ScicliPress, ma an­che agli amici de Il Clandestino, di Gene­razione Zero e ai singoli disseminati in giro per la provin­cia: Roberto Sammito a Scicli, Andrea Sessa e Andrea Gentile a Vittoria. Crediamo che Spampinato sareb­be orgoglioso del nostro impegno per una informazione con la schiena dritta». Il mosaico del giornalismo ibleo nel 2011 si è arricchito di un altro tassello, Generazione Zero, quotidiano online im­pegnato nella realizzazione d’inchieste le­gate all’ambiente e alle precarie condizio­ni dei siti archeologici, con un occhio di riguardo verso i giovani, gli immigrati, i precari. Al giornalismo ragusano di nuova gene­razione dobbiamo accostare la tradizione incarnata da Sicilia Libertaria, il mensile anarchico, giunto al suo trentaquattresimo anno di vita, diretto da Pippo Gurrieri. Un esempio di giornalismo militante che ha fatto e continua a far parlare di sé anche oltre lo stretto di Messina. L’eredità e il ricordo di Giovanni Spam­pinato vivono nel lavoro dei giovani gior­nalisti ragusani che scrivono fino a consu­marsi le dita, denunciando la corruzione e l’indecenza di certi ambienti dall’aria malsana. Eppure, tra la gente, lo si cono­sce poco Giovanni Spampinato. Qui ne ne parlano poco e, magari, male. Perché “l”hanno ammazzato per un fatto di antipa­tia”, perché “era un giornalista azzardato”, perché “le chiacchiere non costano un cen­tesimo”. Intanto nel 2007 il Presidente del­la Repubblica, Giorgio Napolitano, ha in­signito Spampinato del premio Saint Vin­cent per il giornalismo alla memoria. Alla memoria, appunto. D’altro canto, Ragusa era stata una ca­pitale del manganello nero, ai tempi dell’ascesa del duce, vuoi la mancanza di latifondo, vuoi lo scarso radicamento ma­fioso. Era come il nord. Di questo si è sempre vantata la gente di qui, di essere diversa dagli altri isolani. Isola nell’iso­la. Poiché non è auspicabile cominciare il percorso su rotaia dagli Iblei e volendo noi viaggiare a bassi costi, la nostra prima tappa fu la stazione ferroviaria di Catania. Negli anni della strategia della tensione, Ragusa arrivò ad esportare ed importare neofascisti, in un triangolo speciale con Siracusa e Catania. Quest’ultima oggi si raggiunge dal capoluogo ibleo in circa due ore, a fronte di un centinaio di chilo­metri: le migliorie al percorso sono state segnate da una lotta politica tra Vito Bon­signore, cugino di Firrarello (Pdl), e Raf­faele Lombardo. La stazione di Catania ci si palesò come una cartolina dall’Inferno: dei signori ar­roganti dicevano agli autisti dove mettere la macchina, una vecchia orinava disin­volta quasi in mezzo alla gente e ovunque regnava una disperata calma ap­parente, interrotta dagli annunci di una voce-robot. L’attesa fu immensa. Termi­nò, quando co­minciò il buon senso. «Ma sei sicuro che partiva alle sette?» chiesi io. Non abbiamo mai avuto talento per i dettagli, anche per quelli essenziali. Il nostro treno era già passato qualche ora prima, come diceva la scritta tatua­ta sui biglietti, che Piero teneva in borsa. La cosa ci costò qualche decina di euro e qualche ora. Partimmo di sera. Le di­scussioni inquiete, cui non si poteva tro­vare una fine, mentre il treno ci cullava con il suo verso cadenzato, il senso d’angoscia di una gioventù che si sa già senza futuro ci prepararono a un sonno profondo, che consumammo sulle brutte poltrone di uno scompartimento vuoto.Al mattino, ci svegliarono due poliziotti con un cane. Il nostro aspetto non ci aiuta­va. «Dove siete diretti?». Manifestazione nazionale antimafia. «No Mafia Day?». Non sapevamo che fosse e loro sapeva­no della nostra. Imbarazzante silenzio. Ave­vano un accento che profumava di sop­pressata. Eravamo da qualche parte in Ca­labria; l’aria del mattino era splendida. «Arrivederci». Molti Siciliani pensano che la Calabria sia una terra di disperazione e miseria. Sembra il colmo. La peggiore maledizio­ne dei Siciliani è, infatti, quella di credersi i migliori al mondo. Per questo ci interro­ghiamo spesso del perché qualcuno non valorizzi veramente la nostra terra. Quan­do qualcuno arriva dal mare, sia egli di Washington o di Roma, e impone il suo sfruttamento, noi pensiamo che sia il no­stro salvatore, mentre lui s’impone anche su chi vive una storia altrui, come la chia­mava Carlo Levi. E chi solleva dei dubbi? Si pensi al giornalista che sospettò dei le­gami tra un imprenditore greco, un certo Mephalo­poulos, venuto a spendere gra­na a Sira­cusa, e il regime dei Colonnel­li: finì am­mazzato e la sua città si di­strasse dalla sua scomoda memoria. Nella città imperiale di Roma, cam­biammo treno. Da lì fu tutto svelto. Le mie speranze di arrivare in tempo, si fece­ro, però, tenui. La piana, un po’ imbron­ciata, ci scorreva accanto, attraverso i fi­nestroni. Cielo grigio. Nonostante la fama dei treni nordici, non recuperam­mo. Fummo a Milano che tutto era già fi­nito. Non ci restò, allora, che dirigerci verso il coordinamento UdS. A Roghere­do, in stazione, aspettavamo un treno, quando ci accorgemmo che, in­torno a noi, altri ragazzi aspettavano il mezzo con la stessa aria da naufraghi. C’erano un diciassettenne genovese bion­do, una ragazzina vestita da scout, ac­compagnata da un fidanzato alto e barbu­to. Non fu difficile riconoscersi e parlarsi. Difficile fu, invece, mandar giù il boccone amaro delle cose che dicevano i compa­gni: come se un impero crollasse in mano ai barbari. A Padova un adolescente con il naso rotto dai nazisti, a Genova la scom­parsa progressiva del sindacato, a Ragusa la cronica difficoltà di ricambio con nuo­ve leve e, su tutto, l’aria di divi­sione e conflitto tra gruppi di tutta la peni­sola. Arrivati a destinazione, in un paesino della Pianura Padana, trovammo ragazzi da tutta Italia che stavano già di­scutendo, divisi in gruppi di lavoro. Molti erano i generali, i capi e vicecapi di que­sto eserci­to, che si rivelava, in realtà, fria­bile. C’era chi contestava la Cgil, chi te­meva gli au­tonomi; tutti volevano “incidere su deter­minate tematiche che stanno a mon­te”. Fumanti sigarette a mar­gine delle riu­nioni, mentre qualcuno ri­schiava di inna­morarsi. Esclusi i capi, nessuno superava i vent’anni. In serata fu allestita una mensa dagli scout locali, che, con cortesia e di­sciplina, ci servirono della buona pasta ri­mestata in un pentolone. «Vegetariano?» chiese la ra­gazzetta con il mestolo in mano. No, gra­zie. Qua e là, i meridionali imbastivano cori e altre go­liardate. Mentre affondavo la forchetta, entrò uno scout con un’icona dall’aspetto familiare, in bianco e nero. Era la foto di Giovanni Spampinato, un giornalista di Ragusa, ucciso tanti anni fa per aver fatto bene il suo lavoro. «Era di Ragusa» dissi al ragazzo, che, dopo aver­mi spiegato di come il suo gruppo lo ave­va “adottato” per la manifestazione, ac­colse con nordico e partecipe distacco il mio goffo orgoglio. Nel tempo lontano – ma non troppo -, in cui Ragusa viveva una quotidiana violen­za politica, connessa al crimine, Giovanni Spampinato era un ragazzo di 26 anni, uno studente, un giornalista, di Sinistra. Le avrebbe capito bene, le nostre angosce. All’amica Angela Fais scriveva così: “Come vedi va tutto bene. Con Giaco­mo si lavora alla perfezione, certo resta sempre il problema economi­co, il lavoro mi assorbe molto e rende poco. Ieri Nino G. mi ha accennato alla possibilità di una mia utilizzazione a Ca­tania, sempre come collaboratore. Do­vremmo parlarne con più precisione. Cer­to che, in un modo o nell’altro, debbo tro­vare una sistemazione che mi consenta un minimo di indipen­denza economica. E questo, stando a Ra­gusa, non credo sia possibile. Tra l’altro, ho la ragazza che studia a Roma, e il fatto di vederci solo nelle feste crea problemi. Comunque, non so proprio cosa farò”.  I SICILIANI GIOVANI


Quell’Italia nascosta che ammazzò Spampinato Neofascisti, mafiosi e notabili cittadini. E, sullo sfondo, un appa­rato golpista bene inse­rito nello Stato. Su tut­to ciò indagava Giovan­ni Spampinato, croni­sta senza paura Quando Giovanni Spampinato è stato ucciso a Ragusa, aveva venticinque anni. Il 27 ottobre 1972 Rosario Campria, principale indiziato del delitto Tumino e Giovanni Spampinato, cronista ragusano de L’Ora di Palermo, avevano appunta­mento. Campria voleva incontrare chi, unico tra i giornalisti locali, lo aveva ac­cusato di essere tra i responsabili dell’omi­cidio di Angelo Tumino, costrut­tore, trafficante di reperti archeologici ed ex consigliere comunale del Movimento Sociale. Campria, figlio del presidente del tribu­nale della città, era un appassionato d’armi, che abitualmente frequentava neo­fascisti e anche Angelo Tumino, il quale venne ucciso in una contrada il 25 febbra­io. Aveva un alibi fornito dal genero no­nostante, durante la notte dell’assassinio, fosse andato a casa di Tumino, portando via dei documenti. La magistratura iblea rispettò il cognome del sospettato ed ebbe riguardi più che particolari.

Golpisti e boss mafiosi  Giovanni Spampinato non ebbe invece alcun timore reverenziale – proprio di molti cronisti locali – nel raccontare la vi­cenda. Superando le versioni ufficiose ed omertose divulgate, si convinse che Cam­pria fosse coinvolto nell’omicidio, che la Procura di Ragusa non stesse indagando con il necessario rigore, per tutelare il fi­glio del suo autorevole rappresentante, e che l’indagine dovesse essere trasferita.

Con occhio lucido, ricostruì un articola­to mosaico che lasciava intravedere un oscuro disegno: dietro l’omicidio Tumino, probabilmente, stavano correnti della de­stra eversiva, che in quegli anni erano al centro di trame golpiste e che stringevano una fitta rete di relazioni con Cosa Nostra.

Raccoglieva informazioni sui contatti tra Campria e Stefano Delle Chiaie, fon­datore di Avanguardia Nazionale e colla­boratore del principe Borghese. Aveva raccontato della provincia ragusana come rifugio dorato per latitanti fascisti, di cam­pi d’addestramento paramilitare nelle campagne e di sbarchi clandestini di armi. Lo scrisse nei suoi articoli, che lasciaro­no indifferenti gli abulici concittadini.

Un intreccio eversivo Quella sera la Cinquecento di Spampi­nato, su cui viaggiava anche Campria, era alla ricerca di un bar ancora aperto. Quan­do questa rallentò nel traffico la sua corsa, di fronte all’ingresso del carcere di Ragu­sa, Campria esplose sei colpi a bruciapelo da una delle due pistole che aveva con se, scese dall’auto e andò a costituirsi imme­diatamente attraversando la strada. Il gior­nalista morì pochi minuti dopo, mentre al­cuni automobilisti cercarono di portarlo in ospedale.

L’assassinio di Giovanni Spampinato fu una cinica operazione per mettere a tacere chi voleva raccontare il complicato intrec­cio di relazioni tra le forze criminali di Cosa Nostra e le organizzazioni eversive fasciste che puntavano al colpo di stato. L’isola però quella notte perdeva un bril­lante e coraggioso narratore di verità oc­culte. I SICILIANI GIOVANI Andrea Gentile –dicembre 2014


Giovanni Spampinato: un giornalista che lottava per la verità in una terra indifferente Giovanni Spampinato nacque a Ragusa il 6 novembre 1946, a soli 25 anni diventò corrispondente del quotidiano L’Unità e successivamente de L’Ora di Palermo. Venne assassinato con sei colpi di pistola il 27 ottobre 1972. Nella provincia di Ragusa la presenza criminale, al tempo, non era palese come a Palermo. Nel dopoguerra in città c’era stata una grande crescita economica determinata dalla scoperta di numerosi giacimenti di petrolio da parte degli Americani nel 1953, che diede vita ad una fiorente attività industriale. Ragusa, detta la “provincia Babba” per la sua placidità e il carattere pacifico, era una città in cui il concetto di mafia arrivava soltanto di riflesso, ma sotto quella patina di apparente benessere si muovevano nell’ombra sinistri interessi legati alle mafie a alle organizzazioni neofasciste, caratterizzate dalla presenza di campi di addestramento paramilitari sparsi sul territorio della provincia.

Giovanni Spampinato comincia la sua attività giornalistica nel periodo della cosiddetta Strategia della Tensione che ebbe inizio con la Strage di Piazza Fontana il 12 dicembre 1969.
All’età di 25 anni pubblicò un’ampia e approfondita inchiesta sul neofascismo. Un lavoro condotto sui territori di Ragusa, Catania e Siracusa col quale riuscì a documentare le attività illecite e i collegamenti con l’estrema destra locale e la criminalità organizzata che controllava il traffico di opere d’arte, armi, sigarette e droga.
Una delle piste che Giovanni seguì fu quella del contrabbando di sigarette; arrivando a scoprire che dalle navi in arrivo dalla Grecia non si scaricavano solo tabacchi ma anche armi. I proventi di questo traffico furono ingenti.
Spampinato riuscì a scoprire che non erano coinvolti solo elementi della bassa criminalità mafiosa o membri dei gruppi neofascisti ma anche personalità che ricoprivano alte cariche all’interno della società.
Una di queste in particolare fu 
Angelo Tumino, personaggio molto conosciuto a Ragusa come consigliere comunale del M.S.I e che oltre al suo mestiere di ingegnere si occupava anche della vendita di reperti archeologici. Nella notte del 25 febbraio 1972 venne assassinato in contrada Ciarber.
Il corpo venne ritrovato con un foro da proiettile in mezzo agli occhi.
Nelle indagini che seguirono venne anche coinvolto il figlio del presidente del tribunale di Ragusa, il giovane ventottenne
 Roberto Campria. I quotidiani locali parlarono molto poco dell’accaduto, se non in qualche rosicato trafiletto. Giovanni Spampinato fu l’unico giornalista che continuo a scrivere e a rivelare il coinvolgimento di Campria nelle indagini. Secondo logica e procedura l’inchiesta avrebbe dovuto essere trasferita in un’altra sede in quanto uno degli indagati era il figlio del presidente del tribunale, ma invece non fu così e il giovane cronista venne criticato e isolato. Ad oggi, del delitto Tumino non si conoscono ancora esecutori, mandanti e movente.
Nei suoi articoli Spampinato continuò a scrivere del caso Tumino, riportando fatti e incongruenze che riguardavano la figura di Campria, come quando rivelò che, subito dopo l’omicidio, Campria si trovava in casa del morto a rovistare tra le sue carte e i suoi oggetti, quest’ultimo cercò diverse volte di persuadere Giovanni a smettere di scrivere su di lui ed a occuparsi di altro.
Ma il giovane giornalista non sviò dai suoi propositi. Nella notte del 27 ottobre 1972, il Campria decise di chiudere la questione per sempre. Telefonò a Giovanni facendogli intendere di voler parlare con lui. Giovanni arrivò all’appuntamento a bordo della sua cinquecento e parcheggiò davanti alle porte del carcere di Ragusa, dopo una concitata discussione con il Campria quest’ultimo gli scaricò addosso sei colpi di pistola per poi andare a costituirsi al direttore del carcere.
Giovanni Spampinato verrà portato in ospedale nel tentativo estremo di salvarlo ma vi giungerà senza vita.
Il processo si chiuse con una sentenza di condanna a 14 anni di reclusione per il Campria ridotti poi a 8 per certificata infermità mentale.
La storia di Giovanni Spampinato è la storia di un ragazzo che cercava la verità dove nessuno aveva interesse a trovarla. Era rimasto solo in questa ricerca e a fermarlo prima dei proiettili fu il muro del silenzio e dell’indifferenza.
Le persone come Giovanni Spampinato, che siano magistrati, giornalisti o attivisti non vanno lasciate sole e vanno sostenute con ogni mezzo possibile. 
Luca Grossi 27 Ottobre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA

 

Note

  1. Salta↑ Diario civile – Il rumore delle parole. Storia di Giovanni Spampinato, il giornalista di Ragusa ucciso dalla mafia
  2. Salta↑ Giovanni Spampinato, “Squadrismo in Sicilia: Ragusa, il partito della malavita”, L’Ora, 24 febbraio 1972
  3. Salta↑ Giovanni Spampinato, “Ragusa. Dopo la scuola la disoccupazione”, L’Ora, 4 febbraio 1971
  4. Salta↑ Giovanni Spampinato, “La contestazione del ’68. I giovani, i partiti e la democrazia”, L’Opposizione di Sinistra, 20 dicembre 1969
  5. Salta↑ Luciano Mirone, “Giovanni intuì il nesso fra stragi e destra eversiva, mi ricorda Pasolini”, ottobre 2008
  6. Salta↑ Giovanni Spampinato, “Ragusa. Il delitto Tumino: una pista è la mafia”, L’Ora, 28 febbraio 1972
  7. Salta↑ Giovanni Spampinato, “Ragusa. Il delitto Tumino. Sotto torchio il figlio di un magistrato”, L’Ora, 29 febbraio 1972
  8. Salta↑ Giovanni Spampinato, “Ragusa. Per il delitto Tumino indagini a zero”, L’Ora, 7 luglio 1972
  9. Salta↑ Sentenza Corte di Appello di Catania, 7 maggio 1977, p. 40-58
  10. Salta↑ La vita di Giovanni, Associazione Giovanni Spampinato
  11. Salta↑ Sentenza Corte Suprema di Cassazione di Roma, 3 ottobre 1978, p. 24
  12. Salta↑ La vita di Giovanni, Associazione Giovanni Spampinato
  13. Salta↑ Torna in scena il dramma teatrale sul cronista di Ragusa
  14. Salta↑ Caso Spampinato, spunta una lettera anonima. Inedita, Ragusanews, 31 ottobre 2015
  15. Salta↑ Mario Genco, “Fu un omicidio annunciato, fu compiuto in nome collettivo”, L’Ora, 28 ottobre 1972
  16. Salta↑ Tano Gullo, “Rovistava nel verminaio del perbenismo”, La Repubblica di Palermo, 25 aprile 2007
  17. Salta↑ Luciano Nicastro, “Basta ipocrisia sulla morte di Giovanni”, 8 gennaio 2010
  18. Salta↑ Lirio Abbate, “Sapeva riconoscere quel puzzo che rivela la presenza della mafia”, L’Espresso
  19. Salta↑ Daniela Ferrara, “Quel morso in più”, Operaincerta, 12 maggio 2010
  20. Salta↑ Paolo Borrometi, “Giovanni Spampinato 45 anni dopo ucciso (ancora) una volta”, Laspia, 28 ottobre 2017
  21. Salta↑ Diario Civile – Il rumore delle parole. Storia di Giovanni Spampinato, il giornalista di Ragusa ucciso dalla mafia

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco