SOTTO COPERTURA – VIDEO POLIZIA DI STATO
- LE INDAGINI SOTTO COPERTURA
- L’AGENTE SOTTO COPERTURA PER I REATI DI CORRUZIONE NEL QUADRO DELLE TECNICHE SPECIALI DI INVESTIGAZIONI ATTIVE E PASSIVE
Le operazioni sotto copertura (o di infiltrazione) sono attività di intelligence dei servizi segreti italiani o di ufficiali di strutture specializzate delle forze di polizia. Sono state disciplinate per i servizi segreti da alcuni articoli della legge 3 agosto 2007, n. 124, che ha rinnovato le “agenzie” italiane di informazione per la sicurezza. In particolare:
- l’ 24 stabilisce le modalità con cui gli agenti possono essere dotati di identità di copertura;
- l’art. 25 prevede la possibilità di esercitare attività simulate (finta conduzione di imprese commerciali);
- l’art. 26 regola il trattamento delle notizie personali, prefigurando un apposito servizio ispettivo a cura del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS).
Per l’attività di prevenzione condotta dalle forze di polizia, invece, in occasione della ratifica della Convenzione di Palermo contro il crimine organizzato transnazionale l’art. 9 della Legge 146/2006 ha dettato una disciplina generale delle operazioni sotto copertura[1]: essa reca una causa di giustificazione, in virtù della quale[2] non sono punibili gli operatori di polizia (ufficiali di Polizia Giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione Investigativa Antimafia, nei limiti delle proprie competenze) che «anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego o compiono attività prodromiche e strumentali». Esse possono comunque suddividersi in due categorie: “alla prima appartengono le tecniche di investigazione sotto copertura, definibili come “attive” perché, attraverso un agente “infiltrato”, sono finalizzate all’acquisizione di elementi di prova raccolti nell’immediatezza del fatto o nel momento in cui l’attività criminosa è in corso di esecuzione; alla seconda si riconducono i ritardi e le omissioni di atti d’ufficio da parte dei soggetti incaricati dell’indagine”. Con le consegne controllate e con il differimento dei provvedimenti di sequestro o cattura, queste tecniche di investigazione “passive” sono fondate sulla continua supervisione dell’attività criminosa in corso di esecuzione. Si è lamentato, però, che è stata persa in Italia “l’occasione per fornire più chiare indicazioni sulle finalità dello specifico strumento investigativo, oggetto attualmente di diversi approcci interpretativi, sviluppatisi sin dall’epoca della legislazione di contrasto al terrorismo internazionale, approvata in seguito all’attentato alle “torri gemelle” (2001). Una prima tesi ritiene, infatti, che dette operazioni possano svolgersi solo nell’ambito di un procedimento penale già instaurato; mentre una seconda amplia il campo di applicazione delle operazioni in questione, consentendole pure nella fase anteriore all’intervento e al controllo del pubblico ministero, ossia nelle cosiddette indagini preventive“
COME SI DIVENTA INFILTRATO Equilibrio psichico, pazienza, coraggio e risolutezza: sono solo alcune delle caratteristiche necessarie a superare le rigide selezioni per diventare un “undercover”. In un libro Bur, Giorgio Sturlese Tosi ne ha raccontato per la prima volta la storia Ogni anno dieci finanzieri, dieci poliziotti e altrettanti carabinieri, selezionati dai rispettivi comandi generali, vengono iscritti nella lista dei possibili candidati. Non prima, però, di aver superato una iniziale cernita interna, sostenuto test attitudinali e specifici training psicofisici. Se dimostreranno di poter affrontare situazioni al limite dello stress senza il rischio di far fallire, con il proprio comportamento, tutta l’indagine, saranno finalmente ammessi a seguire l’addestramento. Per partecipare ai corsi però, oltre alla formazione specifica di un operatore di polizia, occorre che i candidati dimostrino anche di avere equilibrio psichico, pazienza, coraggio, tenacia e risolutezza. Insomma non servono dei Rambo per infiltrare una banda di trafficanti, ma semmai qualcuno con più sale in zucca che muscoli. Una volta a Roma, nella sede della Dcsa, in via Tuscolana, in un edificio moderno che affaccia sulla periferia di Cinecittà, gli allievi si immergono in lezioni teoriche e pratiche che affrontano vari argomenti. La prima parte del corso consiste nel far conoscere, sia pure nel poco tempo a disposizione, il variegato mondo delle sostanze stupefacenti. Gli agenti infiltrati devono imparare a distinguere ogni tipo di droga, sapere che colore ha, quali sono i suoi effetti, come viene assunta, dove viene prodotta e quali sono i percorsi che segue fino alla piazza dello spaccio finale. Le lezioni sono molto approfondite, tenute anche da chimici ed esperti della polizia scientifica. Perché la droga, quando viaggia, assume le forme più disparate. Vengono mostrati campioni di ogni tipo di sostanza, proibita o meno, comprese quelle che ancora non hanno invaso i mercati ma che si presuppone avranno una certa diffusione in futuro. L’aria dell’aula durante le lezioni si riempie degli odori emanati dalle diverse materie prime. Si sente il dolciastro dell’eroina, sembra quasi di palpare, in bocca, l’inconsistente amarezza della cocaina, di percepire l’odore intenso e caramellato dell’hashish e il profumo violento della marijuana. Per non parlare del fastidioso e allucinogeno puzzo acido dell’ecstasy, che impregna gli abiti, la pelle e i capelli. Le tavolette di cocaina pressata, in genere avvolte nel cellophane o nel nastro da pacchi marrone, pesano cinquecento grammi e sembrano tutte uguali, ma invece cambia la consistenza e persino il colore, dal bianco acceso di quella più comune a quello vagamente rosato di quella più pregiata. Viene mostrato come ogni tavoletta porti impresso il marchio della raffineria dove è stata confezionata. Un marchio che vale come un Docg e che garantirà sulla qualità del prodotto. L’hashish invece viene di solito trasportato in valige di juta, dal forte odore di corda, riempite di polvere di caffè o intrise di olio per motori per camuffarne l’aroma. Spesso, però, gli allievi hanno già queste nozioni, avendo lavorato in precedenza nei reparti antidroga. Diverso è saper riconoscere in un litro di sciroppo alla fragola o in un vaso di ceramica bianca un chilo di cocaina purissima, modificata e portata allo stato liquido o solido per passare i controlli doganali ed essere poi, attraverso complessi procedimenti chimici, riportata alla forma originaria. Gli agenti devono anche imparare quanto può essere pressata la cocaina per essere infilata in due sacchetti, ricavati dalle dita dei guanti di lattice prima di essere ingoiate dai corrieri che – è questo un test banale ma sempre valido e messo in pratica negli uffici doganali – eviteranno di bere la Coca-Cola che viene loro offerta, perché in grado di sciogliere gli involucri e provocare un’istantanea morte per overdose. Dopodiché si passa alla dimostrazione pratica delle modalità di esame di una partita di droga. Se nei film basta infilare la punta di un coltello e portarselo alla lingua per valutare il principio attivo della polvere bianca, nella realtà le organizzazioni strutturate si servono di veri e propri chimici che testano un campione con un kit portatile che contiene provette, acidi e solventi: un armamentario che i futuri infiltrati dovranno dimostrare di saper usare al termine del corso. Dopo l’esperienza in laboratorio viene ripercorsa la filiera di ogni stupefacente. Gli allievi devono sapere chi ha il monopolio di una sostanza e in quale parte del mondo opera. Così come devono essere a conoscenza degli accordi tra organizzazioni che nascono dietro gli affari illeciti. Non possono ignorare, per esempio, che in Italia la cocaina la trattano soprattutto i calabresi, e che anche i siciliani devono ricorrere a loro per approviggionarsi della polvere bianca, mentre l’eroina viene spedita nel nostro Paese dai turchi, ma che il traffico viene gestito dagli albanesi che, a loro volta, si affidano ai nordafricani per la vendita al dettaglio. Perché ogni mafia, locale o transnazionale, in nome degli affari, è ben disposta ad allearsi e a spartirsi fette di un mercato di miliardi di euro. E, siccome di affari in fondo si tratta, gli agenti infiltrati devono essere al corrente del prezzo dello stupefacente all’origine e al dettaglio, con quali sostanze e in che modalità si può tagliare per aumentarne la quantità senza stravolgerne le qualità. Tutte queste informazioni non servono soltanto a far sì che l’agente infiltrato sappia distinguere una bustina di eroina da una di zucchero di canna, ma soprattutto che sia in grado di affrontare una trattativa con chi, di mestiere, smercia droga. L’undercover infatti compare all’improvviso, nessuno dei trafficanti lo ha mai conosciuto prima – semplicemente perché, prima, lui non esisteva – ed è naturale che venga sottoposto, palesemente o in maniera subdola, a una verifica sulla sua attendibilità. È fondamentale, per raggiungere l’obiettivo di apparire un interlocutore credibile nello scambio di una partita di droga – che potrebbe essere di quintali e valere milioni di euro –, che l’agente sotto copertura sappia anche mercanteggiare, mostrandosi attento al prezzo che pagherà (se si finge acquirente) o che intende guadagnare (se invece recita la parte del venditore). Inutile infatti promettere cifre fuori mercato, perché anche nel commercio degli stupefacenti la concorrenza è agguerrita e il valore di un carico viene regolato dalla «Borsa» criminale dove i trafficanti internazionali si accordano con i rappresentanti di tutte le mafie, calcolando, di giorno in giorno, come nei mercati finanziari, la domanda e l’offerta, le piazze dove è opportuno investire e quelle più a rischio, le capacità del mercato di assorbire il prodotto e quelle dell’organizzazione di piazzarlo. La seconda parte del corso riguarda gli aspetti giuridici e legislativi della figura dell’agente infiltrato, così come lo prevede l’ordinamento italiano. Viene spiegato, con l’ausilio di magistrati, quello che si può fare ma soprattutto quello che non si può fare. L’agente infiltrato non va infatti confuso con l’agente provocatore, figura impiegata in altri Paesi, come gli Stati Uniti. Con la denominazione di «agente provocatore» si identifica colui che istigando, determinando oppure offrendo l’occasione provoca la realizzazione di un reato, al solo fine di poterne catturare i colpevoli e acquisirne le prove. Poiché quasi sempre l’agente provocatore partecipa alla formazione della volontà a delinquere, la sua attività è difficilmente giustificabile e il nostro ordinamento la vieta. In pratica, riassumendo le prerogative ma soprattutto i limiti di azione, le forze dell’ordine che hanno infiltrato un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, possono fare quasi tutto, tranne vendere la droga. Ovvero sono autorizzati ad acquistarla (i fondi saranno stanziati dalla Dcsa, su autorizzazione dell’autorità giudiziaria), possono intavolare trattative, partecipare agli scambi delle partite, trattenere parte della sostanza o effettuare quella che in gergo viene chiamata una «consegna controllata», in cui è l’agente infiltrato a trasportare un carico di droga. In questi casi, per esempio, il magistrato titolare delle indagini, grazie alla collaborazione con le autorità giudiziarie di altri Paesi e agli accordi bilaterali, può persino chiedere alle autorità doganali interessate dal passaggio del carico di non ostacolare i corrieri. Ma mai, per nessuna ragione, un rappresentante delle nostre forze dell’ordine può vendere stupefacenti. Per il semplice motivo che il nostro ordinamento vieta tassativamente – al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei e negli Stati Uniti – che l’agente concorra in modo determinante alla commissione di un reato. L’articolo 55 del nostro Codice di procedura penale infatti, impone alla polizia giudiziaria di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori, vincolando l’agente infiltrato a funzioni di controllo, osservazione e contenimento delle attività illecite di cui è testimone, negandogli ogni partecipazione attiva nel reato. I nostri agenti infiltrati infatti agiscono in un contesto criminoso che già esiste (la cui disarticolazione è lo scopo della missione) e non possono istigare, suggerire o promuovere delitti che non siano già in compimento. Questi limiti, che in altri Paesi sono stati rimossi, si giustificano con il bilanciamento degli interessi in gioco. Il legislatore ha ritenuto inopportuno giustificare un’attività sotto copertura che vada a ledere alcuni diritti fondamentali, come quello alla vita, alla sicurezza e all’incolumità fisica. La terza parte del corso è la più delicata. Si tratta infatti di insegnare ai futuri infiltrati a mentire, a dissimulare, a fingersi qualcun altro e, cosa più difficile, a sostenere un interrogatorio: una tecnica complicata da trasmettere, un’arte che necessita di molta esperienza. E in questo i maestri non sono i poliziotti, ma gli agenti segreti. Trucchi, travestimenti, comportamenti vengono infatti insegnati dagli esperti dell’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna, l’ex Sisde. Lezioni che vertono su un argomento di per sé rarefatto come il complicato intreccio psicologico che lega chi mente al suo interlocutore. Al corso si insegna come sostenere lo stress, superare i momenti di difficoltà, come inventarsi un’uscita di emergenza nel caso la situazione precipiti. Si impara a camminare sugli specchi sapendo che la persona che si sta ingannando e che potrebbe scoprire il raggiro è probabilmente armata e disposta a tutto per difendere i propri affari e la propria libertà. Gli esperti dei nostri Servizi, dopo aver svelato i segreti del mestiere ai futuri infiltrati, li sottopongono a veri e propri interrogatori, condotti con metodi anche violenti. Vengono simulate situazioni terribilmente realistiche, condotte in base alla casistica dell’esperienza acquisita anche dai Servizi segreti e dalle forze di polizia stranieri, che vengono riprese da una telecamera e poi visionate insieme a tutti gli allievi per condividere errori e stratagemmi. Sono vere e proprie lezioni di comportamento dove si spiega che anche un movimento provocato da un riflesso condizionato può assumere molta importanza. Fare lo sbirro per anni lascia molti segni, nel corpo e nell’anima, e a un occhio attento certi atteggiamenti, sguardi, reazioni a determinati stimoli non sfuggono. La sfida più difficile è quella di riuscire a crearsi un’altra personalità, nella quale tutti i condizionamenti assimilati nel tempo, i convincimenti maturati nel far applicare la legge, le affinità verso certi individui piuttosto che le idiosincrasie verso altri, devono essere tenute nascoste. I pensieri affiorano senza possibilità di controllo ma l’agente sotto copertura non può permettersi questo rischio: deve imporsi di non pensare all’indagine in corso, di non preoccuparsi che i suoi colleghi siano appostati e pronti a intervenire, come pure non dovrà mai chiedersi se il suo interlocutore gli stia o meno credendo, perché dal cervello il dubbio passa allo sguardo e finisce per tradirlo. Queste cose, ovviamente, non si possono insegnare in quattro settimane. Per questo, dal 2010, è stato istituito una sorta di follow up, un corso di ripetizione e aggiornamento, in cui vengono affinati e approfonditi i concetti esposti nel corso istituzionale. Terminate le lezioni teoriche si passa all’azione, al test sul campo, con simulazioni di operazioni sotto copertura svolte nel centro di Roma e nei grandi centri commerciali, dove l’agente si deve confondere tra i passanti senza dare nell’occhio, ma registrando mentalmente ogni avvenimento utile all’indagine simulata. Alla Dcsa possono attingere da una ricca collezione di sceneggiature, riscritte sulle esperienze investigative acquisite e sulle indagini portate a compimento. La Dcsa ha un piccolo arsenale a disposizione, con armi di ogni genere, anche non convenzionali. Perché di certo l’infiltrato non potrà andarsene a spasso con la Beretta Sf calibro 9 parabellum in dotazione alle nostre polizie, perché svelerebbe la sua appartenenza alle forze dell’ordine. E poi lavora con laboratori in cui vengono perfezionate sofisticate apparecchiature elettroniche. Microfoni a distanza, microspie, cimici, telecamere a fibre ottiche che possono essere impiegate nelle attività di ricognizione e che supportano l’attività dell’agente sotto copertura, il quale deve sempre raccogliere prove valide da portare in giudizio per dimostrare la colpevolezza degli affiliati a un’organizzazione criminale. Può sembrare semplice andare in giro con questa attrezzatura elettronica addosso, ma non lo è e anche a questo gli aspiranti undercover devono essere preparati. Il microfono che si indossa, per quanto piccolo, ha comunque bisogno di una batteria e di una memoria digitale su cui verranno archiviate le registrazioni. Ma un movimento brusco, un giubbotto tolto frettolosamente, potrebbero provocarne il malfunzionamento o addirittura lo spegnimento. Importante però è resistere alla tentazione di verificare se il microfono sia acceso, perché nel controllarlo l’agente potrebbe farsi scoprire. di Giorgio Sturlese Tosi UNA VITA DA INFLTRATO
Intervento del Dr Giovanni Falcone – Catania 12 maggio 1990, Facoltà di Economia e Commercio. “E’ prevedibile che a breve entrerà in vigore la nuova legge antidroga che, nella parte concernente la repressione del traffico di stupefacenti, introduce alcuni strumenti investigativi, già utilizzati con successo in altri Paesi. Mi riferisco soprattutto alla “consegna controllata” della droga e “all’agente sotto copertura”. La prima previsione consente, in sintesi, agli ufficiali di polizia giudiziaria, previa autorizzazione dell’ Autorità Giudiziaria, di non procedere all’immediato sequestro di una partita di stupefacenti in transito nel territorio italiano e all’arresto dei corrieri, ma di tenere sotto controllo i l percorso della droga allo scopo di potere individuare i destinatari e di risalire, attraverso gli ultimi anelli della catena di distribuzione, ai gangli direzionali del traffico di stupefacenti. In questa stessa ottica si inquadra l’istituto dell’ AGENTE SOTTO COPERTURA che dà facoltà agli ufficiali di P.G., sempre previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, di spacciarsi per criminali e di entrare in contatto coi trafficanti di stupefacenti in modo da potere carpire informazioni utili per le indagini, altrimenti difficilmente acquisibili.” Il D.P.R 309/90 del 9 ottobre 1990 entrò in vigore il 15-11-1990 e conteneva la prima forma di previsione del cosiddetto “Undercover”
L’infiltrato, dieci anni tra i narcos – La storia vera di un carabiniere. Una storia vera, sin nei minimi dettagli. La storia di un agente sotto copertura, il racconto di dieci anni di vita, anni che mettono i brividi, passati da un carabiniere dei reparti speciali dell’Arma tra i narcotrafficanti più spietati, in Italia, Svizzera, Stati Uniti, Colombia, Bolivia e Turchia, per arrivare anche alla Brianza, scenario delle ultime operazioni anti-droga. Sono dieci anni senza una vita, o meglio, con una vita falsa che rischia di diventare così vera da spazzare via la propria, di vita. Oggi quel carabiniere è tornato ad essere se stesso, proprio alla guida di una delle tante caserme brianzole. Per noi, per tutti, resta senza volto, per ovvie ragioni di sicurezza. Lui oggi non ha dubbi: “Non lo rifarei, è stata un’esperienza devastante”. Falco per i colleghi, Mario Bottari per i boss, Giulio per la moglie e Carlos nella sua ultima missione: sono tante le identità del maresciallo infiltrato nel business del narcotraffico per tutti gli anni Novanta, quando i tir carichi di droga invadono il mercato europeo. E’ lui il protagonista del libro di Carlo Brambilla, “L’infiltrato”, Editore Melampo (227 pagine, 15 euro), uscito a dicembre 2008 e già in ristampa. Un libro che tiene con il fiato sospeso, perché si sa che ogni passaggio, ogni minimo dettaglio è stato realmente vissuto sulla pelle di Falco. Un uomo con un senso del dovere altissimo, al quale è vietato essere se stesso, a tal punto che assume le sembianze fisiche di un boss, di un narcotrafficante. Vive dieci anni come loro, in un pericoloso intreccio di rapporti dove il rischio di uno sdoppiamento di personalità è sempre in agguato. Falco è uno dei primi carabinieri a dare il via al filone operativo undercover e anche per questo rischia grosso. Poche le tutele in un reparto che è nato praticamente con lui, grandi invece i rischi, non solo per la sua incolumità. I rischi più pesanti sono quelli di un fallimento personale, di una disgregazione psicologica sempre in agguato, di una famiglia che sembra sfasciarsi sotto il peso di quel “dovere”. Più Falco diventa bravo, più l’Arma lo butta nella mischia, trasformandolo in venditore, compratore, intermediario, mafioso, agente d’affari, doganiere corrotto. Ma dieci anni vissuti così sono davvero troppi. E in questo libro la realtà supera di gran lunga la fantasia. Solo una persona straordinaria è in grado di reggere tante pressioni. Falco molla quando capisce che sta per perdere tutto: la moglie non ha più forza per sopportare una situazione insopportabile e il suo vivere a stretto contatto con killer e confidenti genera un intreccio di rapporti dove i confini del dovere professionale vacillano sino a generare l’accusa di aver tradito l’Arma. Lui, che per l’Arma e per il dovere, ha “tradito” se stesso, la sua vita e la sua famiglia. La crisi di coscienza lo porta al limite, lo sdoppiamento di personalità è conclamato, ma lui non si arrende. E con lui nemmeno la sua famiglia. E’ così che dopo una missione in Bosnia e diverse operazioni anti-droga in Brianza, Falco torna al suo vero volto, al suo vero nome, e si ritrova nell’essere un semplice carabiniere, in una caserma brianzola. Arianna Monticelli Giovedì 30 Aprile 2009
MAFIA E CORRUZIONE, OPERATIVI 30 AGENTI INFILTRATI Per combattere la corruzione partono i primi 30 agenti infiltrati, poliziotti sotto copertura a milano, Napoli, Roma e Palermo. Visto l’aumento di sequestri e confische preventive, nascono le Sisco, sezioni specializzate presso le Dda puntando anche a formare poliziotti esperti di bilancio e diritto societario. Una nuova strategia “più mirata al contrasto della criminalità organizzata nella sua natura attuale: multiforme, ancora militarizzata, ma sotto mentite spoglie e soprattutto specializzata negli affari illeciti, nazionali e internazionali”. C’è una rivoluzione silenziosa in corso nel sistema investigativo della Polizia di Stato. Revisione strategica degli assetti delle squadre mobili. Del ruolo delle questure con le procure della repubblica. Dello Sco, servizio centrale operativo, e dello Sca, servizio centrale anticrimine, incardinati alla Dac, la direzione centrale anticrimine del dipartimento di Pubblica sicurezza guidato dal prefetto Franco Gabrielli, fautore di questo nuovo disegno operativo.
«Una proiezione più mirata al contrasto della criminalità organizzata nella sua natura attuale: multiforme, ancora militarizzata ma sotto mentite spoglie e soprattutto specializzata negli affari illeciti, nazionali e internazionali» osserva Francesco Messina, numero uno della Dac dal marzo scorso. Dopo i corsi ufficiali sono già operativi i primi trenta poliziotti sotto copertura: a Roma, Milano, Napoli e Palermo. «I reati spia di attività mafiose sono spesso la corruzione, per esempio, magari in uffici pubblici», ricorda il dirigente. Altre decine di agenti infiltrati si aggiungeranno ai primi trenta dopo i prossimi corsi alla scuola di Caserta della Polizia di Stato.
Ma c’è un’altra novità finora inedita: i poliziotti «patrimonialisti». Si tratta di agenti in grado «di leggere i bilanci, conoscere il diritto societario, saper verificare conferimenti infruttiferi o controllare polizze fideiussorie sospette». Le tecniche di pedinamento non si dimenticano, ma non bastano più. I nuovi poliziotti «patrimonialisti» sono già 180 e ogni anno ne arriveranno altri. Un «investimento ormai imprescindibile per la caratura professionale dei nostri agenti», sottolinea il direttore della Dac. La scommessa investigativa più grande, però, si fonda su una manovra a tenaglia contro i patrimoni mafiosi: ha le basi per essere micidiale. Punta, infatti, sulla convergenza tra l’esercizio dei poteri di proposta di misure di prevenzione in capo ai questori e l’attività di indagine giudiziaria. La prima procedura viene seguita dallo Sca diretto da Giuseppe Linares; la seconda dallo Sco guidato da Fausto Lamparelli. Una volta i procedimenti dei due tipi erano quasi sempre indipendenti e sfasati. Ora gli scambi informativi tra Sco e Sca sono continui, a volte frenetici.Tra poco arriveranno risultati ufficiali «notevoli, frutto di un lavoro di squadra», sottolinea Messina. II potere di proposta di misure di prevenzione spetta solo ai questori, al direttore della Dia, ai procuratori distrettuali e al procuratore nazionale antimafia Ci sono poi le misure patrimoniali in esecuzione di azione penale, disposte dall’autorità giudiziaria e fatte dalla Guardia di Finanza, l’Arma dei Carabinieri e la Polizia di Stato. Negli ultimi tempi sulle misure di prevenzione si sta consolidando una nuova procedura: la «proposta congiunta» del questore e del procuratore distrettuale antimafia. Rinnova e rafforza l’intesa tra autorità di pubblica sicurezza e quella giudiziaria non sempre, in passato, così solida e affiatata. Francesco Messina e la sua Dac potranno disporre a breve anche di un altro strumento di alta investigazione: le Sisco. «Sono le nuove 26 sezioni specializzate della Polizia di Stato in materia di contrasto alla criminalità mafiosa costituite presso le Dda», sottolinea il dirigente. Presso le questure restano le sezioni di criminalità organizzata mentre le Sisco, organismi nati con il recente riordino del dipartimento Ps approvato in Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese «costituiscono uno strumento di alta specializzazione investigativa e hanno il coordinamento operativo dello Sco». L’attività per le misure di prevenzione, intanto, è in crescita continua. Dal 2018 al 2019 i sequestri su proposta del questore sono passati da 35 a 54 e le confische da 18 a 24. Negli ultimi 18 mesi 5o questure su 105, una su due, sono state operative su questo fronte. Nel biennio 2016-2017 erano soltanto 14. Monica Forte – Presidente Commissione Antimafia Lombardia 9.1.2020
IL PRIMO INFILTRATO NELLA ‘NDRANGHETA: “VITA DURA, COLPA DI LEGGI E PM” Si chiama Angelo Jannone. Oggi è consulente aziendale, docente di criminologia e scrittore. Ma in passato è stato comandante della compagnia dei carabinieri di Corleone dal 1989 al 1991. Ha lavorato fianco a fianco con Giovanni Falcone. In Calabria ha inferto duri colpi alle cosche, prima di passare al Ros di Roma. Jannone è stato anche uno dei primi infiltrati all’interno delle famiglie mafiose e dei narcos. Agendo sotto copertura all’interno di organizzazioni di narcotrafficanti colombiani legati a camorristi e ‘ndrine ha permesso un maxi sequestro di cocaina e l’arresto di oltre 40 persone tra Napoli, Milano, Roma, Amsterdam e il Venezuela. Dopo la vicenda di Jimmy, l’agente sotto copertura dell’operazione “New Bridge”che negli scorsi giorni ha portato a decine di arresti tra Italia e Stati Uniti, AffariItaliani.it gli ha chiesto di raccontare la sua esperienza da under cover. 13 febbraio 2014 di Lorenzo Lamperti
Angelo Jannone, lei è stato tenente colonnello dei Carabinieri e si è trovato a fare l’infiltrato. Com’è arrivato a svolgere attività sotto copertura? Intanto un plauso allo SCO ed all’agente Jimmy per la splendida operazione. Normalmente un ufficiale non si infiltra perché deve dirigere le indagini. Personalmente ho diretto varie indagini che prevedevano anche l’impiego di infiltrati. In quel caso, però, non avevo a disposizione la figura giusta. Serviva un pugliese. Iniziai con l’idea di sganciarmi non appena fossimo riusciti a creare la struttura necessaria. Ma oramai si era creato un certo legame. I criminali volevano parlavano solo con me. Così sono dovuto arrivare fino alla fine.
Quali caratteristiche bisogna avere per essere in grado di infiltrarsi nella criminalità organizzata? Bisogna essere attenti, metodici, ma al tempo stesso creativi e profondi conoscitori di quel mondo. Si deve saper ragionare come ragionano i mafiosi. Si deve essere in grado di sopportare un’incredibile dose di stress. Non esiste una scuola specifica per “infiltrati”, ma non è un caso che per esempio che nei Reparti Speciali, come Ros, Scico o SCO, si selezionano solamente persone con certe caratteristiche attitudinali.
Agendo da infiltrati si rischia di sconfinare in rapporti troppo stretti con i criminali? Il rischio c’è, ma proprio per questo è importante che l’infiltrato sia una persona preparata e in grado di svolgere il proprio compito senza mai dimenticare che sta solo recitando una parte. Da un certo punto di vista i rapporti umani aiutano nel lavoro dell’infiltrato, basta riconoscerne i confini. Certo, all’inizio vi sono stati soprattutto errori interpretativi, anche perché i primi corsi in Italia venivano tenuti da agenti della Dea (Drug Enforcement Administration, ndr) che insegnavano metodiche adatte al quadro normativo statunitense, ma non a quello italiano. Molti dei primissimi infiltrati italiani si sono cacciati nei guai perché ricevevano indicazioni non compatibili con la nostra normativa
Quanto si rischia a fare l’infiltrato? Il rischio c’è, soprattutto durante l’attività sotto copertura. Lì non puoi permetterti cali di attenzione perché se vieni scoperto è finita. Ma, conclusa l’indagine, i rischi si riducono notevolmente. Questo perché, soprattutto nel riciclaggio e nel narcotraffico le organizzazioni criminali hanno una vision da azienda. Per loro perdere un carico o subire arresti a causa di un infiltrato costituisce un “rischio d’impresa”. Sanno che può accadere e quando accade non pensano a vendicarsi ma a gestire i processi. Semmai chi rischia di più è che ti ha presentato, chi si è fidato di te e ha garantito per te non accorgendosi che eri un agente sotto copertura. Pensi al film Donnie Brasco: non è un caso se alla fine Cosa Nostra “giustizia” Al Pacino, il fiduciario, e non Johnny Depp, l’infiltrato.
Quanto si resta segnati da un’attività come questa? Lo stress è altissimo. Devi essere concentrato 24 ore su 24. Magari sei a casa con tua moglie e i tuoi figli e ricevi una telefonata da loro, sul telefono da “infiltrato”. Devi ricordarti che in quel momento devi smettere di essere chi sei ed essere qualcun altro. devi cambiare tono voce e modo di parlare. E tutto questo alla fine può segnarti. Per questo avevo suggerito tempo fa di sottoporre a visite psicologiche tutti gli agenti sotto copertura, al termine di ogni indagine.
L’operazione degli scorsi giorni ha dimostrato che ormai le redini del narcotraffico internazionale sono in mano alla ‘ndrangheta? Sorrido perché questa storia viene ripetuta ciclicamente. In realtà la ‘Ndrangheta ha preso le redini del narcotraffico già dai primi degli anni ’90, controllando le principali “piazze europee”. Già in quell’epoca la famiglia Mazzaferro, ad esempio, riceveva svariate tonnellate di cocaina in conto vendita dai colombiani, come accaduto qualche anno dopo per la famiglia Scali, sempre di Giojosa. E Cosa Nostra, in quel settore, era “finita” già da ben prima delle stragi. Ha vissuto i suoi momenti d’oro con la Pizza connection, con le raffinerie di eroina in Sicilia e con i rapporti eccellenti con i cartelli colombiani tenuti dalle famiglie Caruana-Cuntrera. Ma da tempo i cartelli colombiani non esistono più. I boss colombiani si sono trasformati in grandi broker internazionali ed a tirare le fila sono le grandi organizzazioni in grado di gestire le rotte del narcotraffico verso le due maggiori destinazioni, Europa e Stati Uniti. Un potere enorme è in mano ai cartelli messicani, come i Las Zetas, con cui l’‘ndrangheta ha stretto rapporti da tempo. Colombiani e messicani hanno eccellenti rapporti soprattutto con le famiglie della costa Jonica Reggina. Si tratta di famiglie con una storia da contrabbandieri internazionali di tabacchi che nei decenni hanno sviluppato un know how nelle relazioni internazionali e sono considerati altamente affidabili. La ‘ndrangheta è potente perché è, tra virgolette, seria, credibile e affidabile.
Lo strumento dell’attività sotto copertura viene sfruttato a dovere in Italia? Assolutamente no. E questo per una serie di fattori, culturali, di risorse, normativi e processuali. Le attività sotto copertura sono molto condizionata dal quadro normativo di riferimento. Nel sistema anglosassone l’esercizio dell’azione penale è facoltativo e l’infiltrazione full time è ampiamente possibile. Ma in Italia l’esercizio dell’azione penale è obbligatoria. Ed Il nostro sistema normativo a partire dal 1990 è tutto impostato sul principio del “differimento atti”. Cerco di spiegarlo con semplicità: formalmente tu quella cocaina che ricevi, o compri, durante l’attività di infiltrazione è come se la stessi sequestrando. Solo che formalizzerai il sequestro in un momento successivo, quando verrà meno l’esigenza investigativa e di copertura. Prima del 1990 un carabiniere o un poliziotto poteva infiltrarsi, ossia entrare in confidenza e carpire la fiducia di un organizzazione criminale. Ma di fronte ad una partita di droga era obbligato ad intervenire arrestando e sequestrando. Altrimenti commetteva un reato. Nel 1990, quindi, fu introdotta la prima normativa di settore che permetteva, a condizioni molto restrittive e tra mille dubbi interpretativi, di spostare in avanti il momento dell’arresto o del sequestro e non far saltare la copertura. Ma i limiti erano ancora troppi. Si diceva, ad esempio che l’infiltrato non fosse autorizzato ad utilizzare documenti falsi perché la legge non lo prevedeva ed era reato. O non poteva partecipare ad una cessione di droga perché reato. Ma allora se, ad esempio, un trafficante chiedeva di accompagnarlo ad una consegna di droga l’infiltrato cosa doveva fare? Di qui nascevano mille problemi, spesso anche giudiziari. Con un “no” finiva tutto. Con un “sì” si guadagnava la fiducia dei criminali e si portavano avanti le indagini. Ma l’ufficiale di polizia giudiziaria, anche se infiltrato, in Italia, non può chiudere gli occhi: deve qualificarsi e procedere all’arresto. Questa normativa, soprattutto nelle sue prime versioni, ha creato una marea di problemi, anche perché le nostre Procure e anche i singoli Pubblici Ministeri sono tante repubbliche a parte. Ci siamo trovati con tanti agenti sotto copertura indagati e processati per delle cavolate. Si era giunti a dire all’infiltrato: “Tranquillo, devi prima essere indagato poi in giudizio faremo valere la scriminante speciale”. Lei se lo immagina un carabiniere o un poliziotto che dopo aver rischiato la pelle deve prendere un avvocato, essere iscritto nel registro degli indagati e magari rischiare una condanna? Purtroppo è quanto accaduto. E magari con indagini sulle indagini, svolte da un’altra Procura che vanificano una certa elasticità interpretativa de magistrato che aveva diretto la prima indagine. È quanto accaduto soprattutto nella fase iniziale di applicazione della normativa speciale, con non poche aberrazioni. Un esempio su tutti il processo non ancora concluso, a carico del generale Ganzer e di altri uomini del ROS.
Insomma, non si viene proprio incentivati a utilizzare questo strumento? Certamente no. Quanto accaduto agli esordi, ha fatto disaffezionare le forze di polizia a questo genere di attività, nonostante la profonda riforma della normativa che vi è stata solo nel 2010. Ora ci sono tantissime possibilità in più, prima inibite. Il problema è che tantissime forze di polizia giudiziaria forse non ne conoscono a fondo i contenuti e le enormi potenzialità operative.
Che cosa prevede la nuova normativa? Ad esempio si può estendere il differimento del sequestro a qualunque corpo del reato, anche a documenti. C’è la possibilità di impiegare anche “esterni” alla polizia giudiziaria per i quali operano le stesse garanzie. Si può vendere o cedere, oltre che acquistare. Si pensi all’intermediazione o alla cessione di documenti falsi ad organizzazioni di trafficanti di esseri umani o a terroristi. Ma nel frattempo però la cultura dell’attività sotto copertura non si è sedimentata. Questo perché ad un certo punto un carabiniere, un poliziotto o un finanziere dice: “Ma chi me lo fa fare? Devo rischiare la vita e pure l’onore con un procedimento penale? Allora al diavolo voi, i trafficanti di droga e il sistema giudiziario italiano”.
I fondi per le forze dell’ordine non sono sempre adeguati. Esiste anche un problema di costi? Sicuramente. Queste operazioni costano e il budget a disposizione è sempre più risicato. Si va avanti, in maniera tipicamente italiana, con una grande dose di creatività ed improvvisazione. Senza considerare che l’operatività si scontra spesso con la burocrazia. Alla fine della mia operazione da infiltrato mi sono sentito rifiutare una richiesta di rimborso di 300 euro per la fattura del fax della società di copertura che avevamo creato, perché la richiesta iniziale non chiariva che lo avremmo anche utilizzato. Mi sono cascate le braccia. Insomma, c’è tutto un coacervo di elementi che fa capire perché in Italia si ricorre poco a questo importante strumento di indagine. A tutto ciò si aggiunga che nella cooperazione internazionale, spesso ci si scontra con sistemi legali non facilmente conciliabili tra loro. Io stesso, per un’inezia, ho rischiato un’incriminazione in Olanda perché mi ero recato ad un secondo appuntamento richiestomi dai narcos, non “coperto” da rogatoria internazionale. Solo la flessibilità del Procuratore della Repubblica di Amsterdam mi ha salvato.
Qual è il livello delle indagini antimafia in Italia? Il livello di professionalità della polizia giudiziaria italiana è molto apprezzato in tutto il mondo. E tutto sommato anche gli strumenti normativi di investigazione e contrasto a disposizione sono adeguati. Il problema è che fa acqua il processo penale. Abbiamo voluto scimmiottare il processo americano, ma alla fine è venuto fuori un mostro che non è né carne né pesce. Il risultato? Le verità processuali spesso sono lontanissime da quelle reali. Tanto valeva tenersi il vecchio processo inquisitorio. Vanno ridefiniti ruoli e confini. L’esperienza mi ha insegnato che le indagini ed i processi funzionano bene solo quando affidate a strutture di eccellenza in grado di sfruttare al meglio tutti gli strumenti investigativi. Le indagini funzionano male quando si fa tanto rumore. Nicola Gratteri, per esempio, è un’eccellente magistrato perché a differenza di altri sa valorizzare il ruolo della polizia giudiziaria. Il pm non si deve sostituire alla polizia giudiziaria, ma essere il garante della legalità nella fase investigativa guardando alla fase dibattimentale ed al risultato finale: far condannare i colpevoli e assolvere gli innocenti.
Secondo lei il ruolo dell’infiltrato è considerato nella maniera giusta in Italia? Spesso si crea un cortocircuito mediatico giudiziario sbagliato. I pm guardano le strutture investigative d’eccellenza con ammirazione da una parte ma con sospetto dall’altra. Purtroppo quando superi delle norme facendo attività sotto copertura non esiste un “eccesso colposo”. Non hai la legittima difesa. E il punto è che non è sempre chiaro quando queste norme si sforano. Si è in balia di una giurisprudenza oscillante e dell’interpretazione, a volte maliziosa del singolo magistrato che può essere del tutto diversa dall’interpretazione di un altro suo collega. E in un secondo puoi ritrovarti da eroe ad indagato per narcotraffico. E lì si scatena l’opinione pubblica, il mondo dei social network, del web 2.0, specie di quelli che pensano che tutto ciò che dicono i magistrati sia il vangelo. E agenti valorosi si possono veder scambiati per corrotto e collusi, senza neanche il beneficio del dubbio.
Lei ha definito gli agenti sotto copertura ed i carabinieri e poliziotti di cui parla nel suo ultimo libro degli “eroi silenziosi”. Quanto dà fastidio a un eroe silenzioso vedere magari un magistrato che, dopo aver condotto immagini di grande impatto mediatico, si candida in politica? Dà tanto fastidio perché è una delle anomalie tutta italiana. L’indipendenza non deve essere solo un fatto sostanziale ma anche di percezione. Personalmente non mi sono mai trovato a fare servizio dove sono nato e cresciuto. È già anomalo che i magistrati, i controllori supremi della legalità, spesso prestino servizio nella città dove sono nati, vissuti e cresciuti, dove hanno amici, compari e familiari. E ciò non può che compromettere l’indipendenza tuo operato. Se poi il passaggio successivo è la politica allora è tutto il sistema che perde di credibilità. Non a caso pur essendo i magistrati per due terzi giudicanti e per un terzo inquirenti, la proporzione si inverte nell’Anm e, di riflesso, nella loro rappresentanza in seno all’organo di autogoverno, il CSM. Ciò denota che la medianicità del loro operato ha un risvolto elettorale ed un peso ai fini del potere anche in seno alla stessa magistratura. Per questo io sono solito dire quando sento parlare di magistratura politicizzata che in realtà la magistratura a volte è politica.
ANGELO JANNONE è nato ad Andria il 26 gennaio del 1962. è stato comandante della compagnia carabinieri di Corleone dal 1989 al 1991 ed autore con Giovanni Falcone delle indagini sul patrimonio di Totò Riina e sul commercialista Pino Mandalari. Da Corleone fu trasferito per ragioni di sicurezza, poiché entrato nelle mire del Clan dei Corleonesi. A Catania ha comandato il Nucleo Operativo Provinciale ed è stato al centro di una cruenta sparatoria, nel corso della quale, il 18 giugno 1992, fu catturato un intero gruppo di fuoco del clan dei Cursoti. Dopo Catania, in Calabria ha comandato la compagnia di Roccella Ionica, ed è stato protagonista di diverse importanti operazioni contro le famiglie della Locride ed i Piromalli. Sempre in Calabria ha firmato l’informativa dell’operazione Galassia, che portò all’arresto di 187 esponenti di Cosa Nostra e delle famiglia della Sibaritide. Dalla Calabria viene trasferito dopo che un pentito aveva rivelato un progetto di attentato nei suoi confronti voluto dalle Ndrine della Locride. Dopo un’esperienza di tre anni presso il Nucleo operativo di Mestre è stato trasferito al Raggruppamento Operativo Speciale di Roma nel 2000. Durante il periodo al ROS si è infiltrato in Italia ed all’estero in organizzazioni di narcotrafficanti colombiani legati a camorristi permettendo il sequestro di 280 chilogrammi di cocaina e l’arresto di oltre 43 persone, tra Napoli, Milano, Roma, Amsterdam ed il Venezuela. Ha lasciato l’Arma nel dicembre 2003, con il grado di tenente colonnello. Dal 2004 è entrato in Telecom Italia e ha assunto diversi incarichi dirigenziali, tra cui quello di responsabile della sicurezza di Telecom per l’America Latina. Si dimette da Telecom nel marzo 2007. Attualmente è Amministratore Delegato di una società di consulenza nel settore Audit & Compliance aziendale, insegna all’Università La Sapienza di Roma e collabora con l’Osservatorio Criminalità di Eurispes. Collabora con il quotidiano online Sostenitori.info
AGOSTINO INFILTRATO NEL CLAN GALATOLO, BOSS A PROCESSO PER IL SUO OMICIDIO Il poliziotto faceva parte di una squadra a caccia di latitanti. I pentiti: ” La moglie morì perché conosceva i suoi segreti”. Chiesto il processo per Nino Madonia e Gaetano Scotto. Sotto accusa un amico dell’agente che avrebbe aiutato i sicari
La figlia ribelle del capomafia dell’Acquasanta, Giovanna Galatolo, racconta di aver sentito in famiglia che lo “sbirro ucciso a Carini”, Nino Agostino, venne pagato dal clan in un’occasione. Il pentito Giuseppe Marchese ha aggiunto: «Giuseppe Madonia diceva che quel ragazzo era un cornutone. Perché aveva fatto un voltafaccia» . Ovvero, il doppiogioco. Nino Agostino era un poliziotto onesto, che faceva l’infiltrato, per tentare di arrivare all’arresto dei grandi latitanti di mafia. Tasselli su tasselli, dopo 31 anni di misteri, che hanno portato sempre ad archiviazioni l’indagine sull’omicidio del poliziotto Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, avvenuto il 5 agosto 1989. Adesso, la procura generale di Palermo e la Dia ritengono di avere definito il quadro preciso in cui maturò il delitto. E hanno chiesto il rinvio a giudizio per i boss Antonino Madonia e Gaetano Scotto, il capo mandamento di Resuttana e il boss dell’Arenella, accusati di essere mandanti ed esecutori del delitto. «Ora mia moglie potrà dormire serena in cielo» , dice Vincenzo Agostino, il padre di Nino. Ieri mattina, mentre veniva notificata la richiesta di rinvio a giudizio, il direttore della Dia Giuseppe Governale gli ha telefonato: «Ho voluto manifestare ancora una volta la mia vicinanza personale e istituzionale», spiega.
È una storia molto articolata quella riscritta dal procuratore Roberto Scarpinato e dai sostituti Nico Gozzo e Umberto De Giglio. Agostino era ufficialmente solo un poliziotto addetto alle Volanti del commissariato San Lorenzo, in realtà avrebbe fatto parte di una squadra che cercava latitanti, per conto dei servizi segreti (non è però chiaro quale di preciso, l’Aisi e l’Aise hanno sempre smentito che Agostino sia stato un loro collaboratore). Una squadra di cui avrebbero fatto parte Emanuele Piazza, pure lui ucciso dai boss, e l’ex poliziotto Giovanni Aiello, ” faccia da mostro”, morto per un infarto tre anni fa.
Questa attività riservata avrebbe portato Agostino ad avere rapporti pericolosi con i Galatolo e i Madonia. «Portava informazioni», ha detto Giovanna Galatolo, che arriva ad ipotizzare anche «informazioni su quando Falcone sarebbe andato all’Addaura». Ma su questo punto riscontri non ce ne sono, i magistrati hanno più di un dubbio. Continuano a credere che Agostino si occupasse solo di latitanti. E dentro quella palude di Palermo che ruotava attorno a vicolo Pipitone, la roccaforte dei Galatolo, avrebbe scoperto che altri poliziotti erano invece davvero corrotti. Lo aveva raccontato vent’anni fa il pentito Oreste Pagano, ma era rimasto il giallo: «Voleva rivelare i legami della mafia con alcuni componenti della questura di Palermo» . Pagano l’aveva saputo in Canada, al matrimonio di un esponente della famiglia Caruana: «Lì mi presentarono Scotto, dissero pure che la moglie del poliziotto era a conoscenza delle rivelazioni che il marito poteva fare».
Chi tradì Agostino? Chi scoprì che voleva far saltare il suo doppiogioco per denunciare i veri collusi? Probabilmente, Agostino voleva parlarne con il giudice Falcone, c’è traccia di un incontro nelle indagini. Di sicuro, dopo l’omicidio, «da una parte il questore avalla con la sua autorevolezza la versione, rispondente al vero, che quello di Agostino è un omicidio di alta mafia – scrivono i magistrati – dall’altro, il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera depista le indagini sulla inconsistente pista dell’omicidio per questione di donne».
Giovanna Galatolo sentì anche dell’altro nei discorsi di suo padre: «Pure i servizi volevano morto Agostino» . E Nino venne tradito. Con la complicità, racconta l’inchiesta, del suo amico del cuore, un’altra sorpresa di questa indagine: la procura generale chiede il processo pure per Francesco Paolo Rizzuto, aveva 16 anni all’epoca del delitto. È accusato di favoreggiamento, per aver aiutato i sicari, con il suo silenzio e tante bugie. La Repubblica Palermo, 3 luglio 2020
“NOI, POLIZIOTTI INFILTRATI TRA I CRIMINALI” Il capo degli agenti sotto copertura: “Joe Pistone è stato il primo agente Fbi a farlo. Siamo in contatto e presto collaboreremo con lui” Dottor Luigi Bovio, quanti agenti sotto copertura ci sono in Italia? “Nella polizia alcune decine, che hanno dai 25 ai 50 anni circa – risponde il vice questore dello Sco, che coordina gli agenti di polizia sotto copertura –. La maggioranza sono uomini”.
In Italia si sfruttano poco gli infiltrati. Questo perché serve un addestramento complicato o gli agenti hanno paura delle conseguenze giudiziarie? “Negli anni scorsi il ricorso a questo tipo di indagine non è stato eccessivo, ma noi ci puntiamo parecchio. Vogliamo rilanciare le attività sotto copertura, in ogni campo”.
Quali altri reati potranno essere perseguiti con l’uso di agenti sotto copertura “Quelli nella pubblica amministrazione”.
In questo momento quante operazioni sono in corso? “Sette, otto. Spingiamo molto su queste attività, principalmente contro droga e immigrazione clandestina”.
Qual è l’identikit del perfetto agente sotto copertura? “Una persona sveglia ed empatica, mai ansiosa. Deve saper affrontare le avversità improvvise con calma ed entrare in sintonia con le persone creando un legame. Curiamo molto l’aspetto psicologico: sia al momento della selezione, sia nel corso delle operazioni, ma soprattutto dopo. Alcune azioni sono impegnative e serve un lungo supporto. Ci affidiamo anche ad agenti stranieri della polizia italiana”.
Chi, invece, viene respinto nei test selettivi “La maggior parte: persone che non dimostrano duttilità. Dobbiamo fronteggiare criminali, nati per strada, che uno ‘sbirro’ lo riconoscono da un chilometro di distanza e non possiamo mandare chiunque allo sbaraglio”.
Il garante, che fa entrare l’infiltrato nel giro criminale, può essere difeso o è ‘condannato a morte’ alla fine dell’operazione? “Noi cerchiamo di strutturare l’operazione in modo che non emerga il ruolo dell’agente sotto copertura, anche a livello giuridico. Quando effettuiamo gli arresti, catturiamo pure l’infiltrato. In alcuni contesti, però, non si riesce a fingere e il clan capisce qual è l’anello debole della catena che è stato tratto in inganno: così lo tuteliamo perché si trova in pericolo”.
Un infiltrato anti pusher deve seguire lezioni teoriche sulla droga, sulla composizione chimica e sul mercato degli stupefacenti? “Certo e costruiamo una sua biografia dimostrabile. L’agente deve trasformarsi in un pusher anche se non ha mai usato stupefacenti”.
Come si insegna a mentire? “È una dote naturale, difficile da insegnare. Bisogna avere la capacità di muoversi in un ambiente criminale: uno è facilitato se ha già avuto contatti, come è capitato a me, per esempio coi piccoli delinquenti delle scuole. Se riesci a farti affidare dal trafficante una partita di droga da centinaia di migliaia di euro, è perché sei entrato nella testa del narcoboss”.
Lei ha mai partecipato a un’operazione sotto copertura? “Sì, ma in maniera indiretta. Le sensazioni? L’adrenalina va a mille. In quell’occasione abbiamo alzato il livello dei blitz anti droga, sequestrando una grande quantità di sostanze stupefacenti e arrestando individui apicali del clan”.
Quante operazioni un agente può affrontare in carriera? “Per lo stress fare l’agente sotto copertura a vita non è consigliabile”.
Qual è il budget per ogni operazione? “Si va da un minimo di qualche centinaia di euro, poi si cerca di limitare al massimo i soldi persi, per esempio, nell’acquisto di droga”.
Accade spesso che le azioni falliscano? “Ultimamente vanno tutte a buon fine: alcune volte si riesce a colpire esattamente il bersaglio, altre volte quasi. Quando si fallisce le cause sono due: il criminale guardingo nota qualcosa e non si confida più con l’infiltrato, oppure all’agente viene chiesto di superare un certo limite legale e umano”.
Come uccidere una vittima, per provare la propria affiliazione a un clan mafioso? “In quel caso l’operazione si blocca”.
Il film cult ‘Donnie Brasco’ ha fatto bene al vostro sistema? “I delinquenti sapevano anche prima che esistevano gli ‘under cover’, quel film ci ha fatto semplice pubblicità. Joe Pistone (interpretato da Johnny Depp, ndr) è stato il primo agente Fbi sotto copertura, è un mito. Siamo in contatto e presto collaboreremo con lui, organizzando seminari per i nostri agenti. A quel livello di indagine ci sono situazioni complicate da gestire”.
State operando adesso a quel livello? “Non posso rispondere“. di ALESSANDRO BELARDETTI 28.3.2019
‘Ndrangheta: i racconti dell’agente sotto copertura.La Fedpol ha infiltrato un uomo tra i presunti ‘ndranghetisti residenti in Svizzera, ecco cosa ha scritto nei suoi rapporti. Nel corso dell’inchiesta culminata ieri nella maxi operazione contro la ‘ndrangheta svoltasi tra Svizzera e Italia, la Fedpol ha impiegato anche un agente sotto copertura che è riuscito a inserirsi nella cerchia degli indagati svizzeri. Tutti gravitavano attorno a un ristorante di Muri, nel Canton Argovia, e si sospetta facciano parte della cosca Anello-Fruci, attiva tra Lamezia Terme e Vibo Valentia. Dalle carte dell’inchiesta italiana si scopre che durante questi anni un uomo, agente della polizia federale, ha operato con una falsa identità, riuscendo a entrare in contatto con gli indagati residenti in Svizzera. In particolare l’agente, che si faceva chiamare Miquel, ha fatto affari con i sospetti ndranghetisti per cambio di valuta e ricettazione di moneta falsa. All’agente sotto copertura, uno degli indagati ha anche chiesto di procurargli munizioni, per una “38 special e una 7.65mm”, si legge. In un’occasione l’infiltrato ha acquistato dai calabresi un Fass 90 dell’Esercito.
Droga, auto e club Il contatto più stretto dell’agente è lo stesso gerente del ristorante di Muri finito nell’occhio del ciclone. Amante delle auto di lusso (come altri indagati svizzeri), acquista solo Ferrari, perché con una Lamborghini “ha avuto una perdita enorme”, scrive il poliziotto nel suo rapporto. Nelle serate passate in compagnia ai tavoli del locale appaiono anche pittoreschi personaggi, come un italiano (mezzo sardo e mezzo piemontese”) che ricorda con entusiasmo la gioventù passata in Sudamerica trafficando cocaina, senza mai essere arrestato. L’uomo, infatti, sarebbe stato “in ferie” (così definiscono la carcerazione) solo in Svizzera e in Italia. Il gruppo di sospetti ndranghetisti avrebbe, stando ai rapporti dell’uomo della Fedpol, anche stretti contatti con molti locali notturni della Svizzera tedesca. Da Sciaffusa a Lucerna, da Bruug a Winterthur. Un settore in cui una volta si facevano molti soldi, ma oggi diventato meno redditizio.
Riciclaggio nel Liechtenstein Al tavolo del locale di Muri si è parlato anche di riciclaggio. In particolare di come ripulire soldi sporchi nel Liechtenstein. Secondo i racconti dei protagonisti, l’operazione sarebbe molto semplice. Attraverso una serie di depositi e prelievi, fatti secondo le giuste tempistiche per evitare controlli approfonditi, si possono riciclare grandi quantità di denaro. Il costo dell’operazione è del 15%, basta trovare qualcuno “non ricercato dall’Interpol” che apra un conto in una banca del Principato. A spiegare questo sistema un uomo che potrebbe essere legato al Ticino: il suo contatto viene infatti salvato sui telefoni degli indagati con il nome di battesimo seguito da “Locarno”.
L’operaio comunale Nei rapporti dell’agente appare, in una circostanza, anche l’operaio comunale del Luganese che ieri è stato interrogato dagli inquirenti e che è finito nella lista di 158 indagati dell’inchiesta che in Italia è stata battezzata “Imponimento”. Il nome dell’uomo viene citato come “buon conoscente”. “Lavora per il comune al 50% ed è un vecchio amico della Calabria”, ha detto il ristoratore all’uomo della Fedpol. L’uomo residente in Ticino, è sospettato di aver fatto da prestanome per il capo della cosca nell’acquisto di un terreno e di essere, con il cugino, uno dei referenti del clan in Svizzera. L’uomo, da parte sua, nega tutto. TICINO NEWS di fsu 22 lug 2020
Finanziere infiltrato nel cartello della droga: sequestrata cocaina per 5 milioni. Il blitz della Guardia di Finanza nell’asse Catania Verona: arrestati due narcotrafficanti guatemaltechi Catania – Un militare della Guardia di finanza e un agente della polizia colombiana sotto copertura hanno permesso alle Fiamme gialle etnee, nel corso di una indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Catania, di mettere le mani su un carico di circa 385 chilogrammi di sostanza stupefacente. Cocaina colombiana, per l’esattezza, che per la sua buona qualità sembrerebbe avere un valore di mercato pari a cinque milioni di euro. La notizia è trapelata nel fine settimana in Veneto e ciò proprio perché i due narcotrafficanti che hanno portato il carico nel nostro Paese – due soggetti originari del Guatemala, di 34 e 47 anni, pare vicini ai cartelli della droga colombiani – avevano portato una minima parte della droga proprio ad Affi, in provincia di Verona, con lo scopo di venderla ad acquirenti rimasti in questo momento senza nome. Qui i due sono stati sorpresi dalle Fiamme gialle, che nel frattempo avevano individuato l’intero carico a Catania e che hanno proceduto al sequestro dello stupefacente differito.
L’indagine, seguita dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dal sostituto Andrea Bonomo, affonda le proprie radici nei mesi scorsi ma ha avuto un’accelerazione nella prima decade di gennaio, allorquando è stata predisposta la spedizione dei quasi quattro quintali di cocaina. Il carico è partito da Bogotà, è transitato per Madrid e per Roma, quindi è arrivato a Catania i primi di gennaio. Per giorni gli investigatori hanno monitorato la situazione, poi quando hanno forse compreso che si potevano correre dei rischi, venerdì 24 gennaio sono entrati in azione. E ciò è accaduto ad Affi, vicino all’ingresso dell’autostrada del Brennero, dove i due guatemaltechi sono stati sorpresi nella camera del B&B che avevano preso in affitto e in cui sono stati trovati in possesso di tre chilogrammi di cocaina e di ben 35mila euro in contanti.
Nel frattempo, come detto, gli altri 382 chilogrammi di cocaina, pare suddivisa in 252 panetti, sono stati subito sequestrati. E’ evidente che le indagini continuino e che si sta cercando di chiarire possibili collegamenti con la criminalità organizzata siciliana. Intanto i due narcotrafficanti originari del Guatemala sono stati condotti e rinchiusi nel carcere di Montorio. Stando a quanto è stato possibile apprendere sull’asse Catania-Verona sembra che i due, durante l’interrogatorio di garanzia condotto con l’ausilio di un interprete, si sarebbero avvalsi della facoltà di non rispondere. 27/01/2020 – di Concetto Mannisi La Sicilia
LUIGI ILARDO “ORIENTE”. DA BOSS A COLLABORANTE INFILTRATO
TRATTATIVA, PARLA PAOLO BELLINI: “IO INFILTRATO IN COSA NOSTRA PER CONTO DELLO STATO” L’ex estremista nero, protagonista di una trattativa parallela, parla per la prima volta di un misterioso carabiniere del Ros di Aaron Pettinari, Miriam Cuccu e Francesca Mondin – 11 marzo 2014. “Ero schifato dopo le stragi capivo che si doveva fare qualcosa anche perché io non sono mai stato un terrorista. Quando mi incontrai a San Benedetto del Tronto con il maresciallo Tempesta, del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri, dissi che mi sarei potuto infiltrare dentro Cosa nostra. Lui disse che ne avrebbe parlato con il colonnello Mori. Tempo dopo ci vedemmo a Roma, in un distributore di benzina lungo il raccordo anulare. Arrivò l’ok del colonnello e io andai in Sicilia a contattare un mio vecchio compagno di cella, Antonino Gioè (boss stragista morto in carcere in circostanze poco limpide ndr). Altrimenti col cavolo che sarei andato nella tana del lupo a suicidarmi”. E’ così che Paolo Bellini, ex estremista nero, dopo le stragi viene investito del ruolo di “protagonista” di una “trattativa parallela” con Cosa nostra. L’ex militante di Avanguardia Nazionale, ha deposto questa mattina innanzi ai giudici della II Corte d’Assise di Palermo, nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, nel corso dell’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia. Un dibattimento in cui il teste, rispondendo alle domande dei pm Tartaglia e Teresi, ha ripercorso la ‘sua’ verità in quegli anni di stragi. Il pretesto per il contatto con Cosa nostra sarebbe stato il recupero di alcune opere d’arte rubate dalla Pinacoteca di Modena. “Quando incontrai Gioé – prosegue Bellini – lui mi chiese per conto di chi arrivava questa richiesta. Addirittura mi chiese se per caso mi mandava la massoneria e che in quel caso non c’erano problemi perché aveva direttamente la possibilità di avere rapporti con la massoneria trapanese. Io risposi che interessava ai politici locali e interessava anche al Ministero dei beni culturali. Del resto avevo le foto delle opere e la cartellina con i timbri ministeriali. Tempo dopo tornò con altre foto di opere d’arte ed una busta con quattro o cinque nominativi per i quali voleva arresti ospedalieri o domiciliari. Ricordo i nomi di Pippo Calò, Brusca, Pullarà. Quell’elenco lo consegnai al maresciallo Tempesta che lo consegnò a sua volta a Mori. Quando tornò con la risposta, tempo dopo, mi disse che non si poteva fare perché ‘C’era il gotha di Cosa nostra’ ma che avrei dovuto mantenere il canale aperto con la possibilità di fare qualcosa per un paio di nominativi’. Non solo i contatti con Vito Ciancimino quindi. Il Ros avrebbe portato avanti più canali per arrivare ad un colloquio con Cosa nostra ed ovviamente i mafiosi alzarono subito il tiro.
Trattativa con alti piani Non fu quello l’unico momento in cui Gioé parlò di trattativa con Bellini. “Gioè mi parlò di una trattativa in corso coi piani alti del Governo italiano ma non ne ho mai parlato perché dovevo tenermi qualche cartuccia da sparare durante i processi”. Del resto Cosa nostra negli anni delle stragi era messa a dura prova in particolare dal regime carcerario del 41 bis: “In quel periodo erano spiazzati, si lamentavano i familiari dei sottoposti al 41 bis a Pianosa. A dire di Gioè loro erano consumati, vedevano solo due strade o la morte o la galera a vita”. Bellini ha poi ripercorso come ha incontrato e conosciuto il capomafia: “Quando fui trasferito da Firenze a Sciacca, lì conobbi Gioè. Ci vedevamo tutti i giorni, lui era una persona di grande rispetto io capii che era una persona posizionata, ci fu una simpatia iniziale… Ha saputo la vera identità quando fummo trasferiti nel carcere di Palermo”. E in merito al ruolo attribuitogli di “suggeritore” delle stragi in continente Bellini ha dichiarato: “Su di me sono state dette tante cose ma io sono qui per raccontare la verità.
Fu Gioé a chiedermi ‘Che cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?’”. Un frase sinistra che appare profetica se si pensa che nel 1993 il patrimonio artistico italiano fu colpito a Firenze, Roma e Milano. Frase che sarebbe stata riferita da Bellini al maresciallo Roberto Tempesta, il sottufficiale in servizio al Nucleo tutela patrimonio artistico. “Ma quando dissi al maresciallo Tempesta quella frase cosa fecero? Nulla di nulla” ha aggiunto Bellini.
“Aquila selvaggia? Sono del Ros” L’ex militante di Avanguardia Nazionale, nome in codice “Aquila selvaggia” (nel gergo usato per le comunicazioni con il maresciallo Tempesta ndr) ha anche rivelato che nel dicembre del 1992, quando i rapporti con il militare del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri avevano avuto uno stop, era stato avvicinato da un altro ufficiale. “Una persona suonò al citofono di casa mia – ha detto – e mi chiamò col nome in codice che sapevano solo Tempesta e il colonnello del Ros Mario Mori. Si presentò come un uomo del Ros e mi disse di non cercare più Tempesta, che il contatto sarebbe stato lui e di non venire in Sicilia perché era pericoloso in quanto ci sarebbe stata un’imminente operazione. Non ho mai parlato con nessuno di questo, e loro non hanno più richiamato” conclude il collaboratore”. Bellini, che aveva comunque il contatto con Gioé anche per altri motivi, non seguì quell’indicazione. “Dovetti tornare in Sicilia per incontrare Nino a cui dovevo dei soldi. Quando mi recai nel luogo dell’incontro, nei pressi del motel Agip di Palermo, riconobbi quell’ufficiale che tempo prima mi aveva sconsigliato il viaggio in Sicilia”. E’ a quel punto che, spaventato, Bellini sarebbe andato via da Palermo mancando l’appuntamento con il capomafia.
La lettera di Gioé “Dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato al creditore una tessera dello stesso creditore il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato; mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il sig. Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo. L’ultima volta che ho incontrato quest’uomo è stato presso la cava Buttitta solo per pura fatalità me lo sono fatto portare in quel posto dove ero andato per cercare di convincere il sig. Gaetano Buttitta a comprare del lubrificante da me…”. Questo il contenuto esatto della lettera rinvenuta nella cella di Gioè il 29-7-93, scritta prima del presunto suicidio. Forse è proprio per quel mancato appuntamento che il capomafia aveva capito che Bellini era davvero un infiltrato anche se il sospetto che il ruolo di Bellini, come uomo vicino ad una parte dello Stato, fosse ben chiaro ai capimafia già nel 1991 (ovvero prima delle stragi), resta.
La riunione di Enna Nel dicembre 1991 è notorio che in un casolare di Enna si tenne una riunione della Commissione regionale con tutti i capimafia per decidere in merito alla strategia stragista che avrebbe dovuto portare all’eliminazione dei politici traditori (da Lima all’ex presidente del Consiglio Andreotti) ai nemici di sempre (Falcone e Borsellino). Tra le nuove prove che i pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia c’è anche una ricevuta rilasciata da un hotel di Enna, datata 6 dicembre 1991 ed intestata proprio a Paolo Bellini. Così come aveva fatto durante gli interrogatori con i pm, anche in aula ha ribadito che all’epoca si trovava in Sicilia per affari. “Dovevo recuperare alcuni crediti a Catania e Palermo e l’unico contatto avuto con Antonino Gioé era proprio per chiedergli aiuto su questa attività. Quel pernottamento non era programmato per un motivo specifico ma del tutto casuale”. Una spiegazione che non ha convinto del tutto i pm, anche perché è quantomeno singolare che, per un recupero di crediti a Catania, lo stesso abbia scelto un hotel di una città distante quasi 90 chilometri. Così l’esame è proseguito con il pm Tartaglia che lo ha incalzato chiedendogli dei commenti di Gioé su Lima.
Rispondendo alla domanda del magistrato, che in riferimento alla morte dell’onorevole Salvo Lima ha chiesto a Bellini se Gioè gli disse mai se l’omicidio fosse servito anche per mandare un messaggio al presidente Andreotti, il collaboratore ha dichiarato: “era stato quello il senso, si…. Gioé mi parlò dell’omicidio di Lima e disse che era stato fatto per dare uno schiaffo alla Dc di Andreotti perché non aveva rispettato quello che avrebbe dovuto fare a Roma per il maxi processo”. Di seguito, l’ex trafficante di opere d’arte ha parlato di un episodio avvenuto ad Enna: “Mi ricordo… si parlò, disse così…a Enna c’era… a Enna mi ricordo di una passeggiata che ho fatto per andare alla cena, c’era la saracinesca di un negozio abbassata.. fu il momento di una risata”. L’occasione di ilarità sarebbe scaturita dall’aver visto una scritta, sulla vetrina, riferita proprio al presidente del consiglio Giulio Andreotti. Tartaglia ha rilanciato: “Scusi ha detto ‘fu motivo di una risata’, ma perché c’era anche Gioè ad Enna?”. E Bellini: “No, chi ha detto Enna?”. Si è subito giustificato il collaboratore. “La risata tra noi due mentre facevamo questo discorso… lui mi fece venire in mente un flash non che io ero a Enna con Antonino Gioè”. Bellini ha anche ricostruito la propria storia passando dagli omicidi commessi tra cui quello del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, alla sua affiliazione alla ‘Ndrangheta e la latitanza sotto falsa identità trascorsa in Brasile.
Pian piano, pur con le difficoltà dovute alla malattia da cui è affetto, che ha conseguenze sulla memoria, ha ricostruito diverse vicende, tra cui il periodo vissuto in cella quando era conosciuto con il nome di Roberto Da Silva. Nel suo racconto Bellini ha anche espresso uno sfogo nei confronti dello Stato come istituzione colpevole di averlo, a suo dire, abbandonato: “Sono un morto che cammina ma faccio il mio dovere fino in fondo. Lo Stato con me ha firmato un contratto che non ha rispettato”. Peccato che, come ha ricordato al teste lo stesso presidente Montalto, in quel contratto era previsto il dover dire tutta la verità mentre solo oggi ha raccontato la visita dell’uomo del Ros nella sua abitazione, così come soltanto nel 2013 ha raccontato della “seconda trattativa”, dopo averla accennata ad un giornalista del Resto del Carlino, Marco Pratellesi, il quale aveva scritto in merito un articolo nel 1998. Il processo proseguirà domani mattina con il controesame del teste mentre, successivamente, verrà sentito dalla corte il pentito Fabio Tranchina. 11 Marzo 2014
L’INFILTRATO ABBANDONATO DALLO STATO Intervista a Gianfranco Franciosi, cittadino comune “infiltrato” dalla polizia tra i narcos, che ha portato a smantellare una rete internazionale di criminali e a sequestrare un carico di 10 tonnellate di cocaina. E poi è stato abbandonato. La sua storia, oltre a un libro, “Gli orologi del diavolo”, diventerà pure un film. Nel garage, accanto all’auto blindata, c’è un’enorme croce di marmo appoggiata al muro. Gliel’hanno regalata i suoi amici, dopo averlo sentito ripetere tante volte che lui ormai è solo “un morto che cammina”. Non lo hanno fatto perché il pericolo che qualcuno possa ammazzarlo non sia reale. Ma solo per esorcizzarlo, almeno un po’. Gianfranco Franciosi non è un “pentito” che ha scelto di dissociarsi da un clan mafioso. E non è nemmeno un imprenditore che ha denunciato i suoi estorsori. Giannino, come lo chiamano tutti, è stato condannato a morte dei narcos spagnoli solo perché quando lo Stato ha chiesto il suo aiuto, lui ha risposto sì. “Solo che poi, quando ha ottenuto ciò che voleva, mi ha abbandonato”. Pronuncia queste parole nel cantiere di Bocca di Magra, vicino a La Spezia, dove è tornato dopo aver vissuto quattro anni da infiltrato (è l’unico caso di un civile usato in questo ruolo in Europa) e quasi due sottoposto al programma di protezione, da cui ha scelto di uscire “perché io e la mia famiglia eravamo stufi di essere trattati senza un briciolo di umanità”.
La sua storia è diventata un libro, “Gli orologi del diavolo”, scritto con il giornalista di Presadiretta Federico Ruffo, e presto diventerà anche un film. Un film di cui saranno protagoniste le barche. Giannino ce ne mostra una, bellissima: “E’ l’Albatross, quella che ho usato per trasportare decine e decine di chili di cocaina”. Proprio la sua abilità nel costruire e modificare barche stravolge la sua vita un giorno come tanti altri in cui al cantiere si presentano due sconosciuti: uno ha un marcato accento napoletano, l’altro parla spagnolo. Gli commissionano un gommone. Deve essere velocissimo e consegnato entro un mese. Sbattono sul tavolo un mucchio enorme di banconote da 500 euro, dicendogli che se rispetterà i patti sarà solo l’inizio. Poi se ne vanno. Giannino capisce che non è una commessa come le altre e va dalla polizia. Racconta tutto e scopre che il napoletano è un camorrista del clan Di Lauro, mentre lo spagnolo è nientemeno che Elias Pinero, uno dei più potenti boss del narcotraffico. Il gommone servirà evidentemente a trasportare droga. L’occasione è troppo ghiotta. I poliziotti gli dicono che piazzeranno delle cimici sul gommone, lui dovrà solo fare il viaggio e al resto penseranno loro. “Avevo un po’ paura, ma sembrava giusto aiutare la giustizia e poi sapevo che sarei stato sempre controllato”. E invece, mentre è in alto mare con il gommone, si accorge che il rilevatore Gps che segnala la sua posizione non funziona più e così viene arrestato con un trafficante “vero” dalla polizia francese. Prova a spiegare la sua posizione, ma ci vogliono ben quattro mesi passati in cella prima che tutto si chiarisca. “Stavo con due ‘ndranghetisti. Ma mi trattavano bene: per loro ero un narcotrafficante…”, ricorda amaro Franciosi.
A questo punto, la polizia gli propone di diventare un infiltrato a tutti gli effetti: “In cella ero stato zitto e così mi ero conquistato il rispetto del boss”. Che infatti, trascorsi altri tre mesi in prigione per rendere più credibile la copertura, quando Franciosi esce gli propone di diventare un suo corriere in pianta stabile. Ma prima deve superare una prova: uccidere un uomo. Per evitarlo, e al tempo stesso non bruciare il suo lavoro, la polizia organizza una messa in scena. Gli dà una pistola con la matricola abrasa e poi lo fa fermare da una pattuglia. Per Elias è un’ulteriore prova della sua affidabilità. Ma per chi lo conosce, da quel momento Giannino è un delinquente. Il padre non gli rivolge più la parola. Solo la moglie e i due figli conoscono la verità, ma la pressione è troppo forte e il matrimonio va in frantumi. Ma lui va avanti: quattro anni di viaggi in Sudamerica, di feste lussuose con i narcos e di riunioni con la polizia. “Ho provato a tirarmi indietro, a trasferirmi da un’altra parte ma Elias è riuscito sempre a trovarmi. Una volta mi ha mandato una mail: “Se provi a fregarmi, ti taglio la testa””. Ma non è solo la paura a spingerlo a continuare. “Senza accorgermene, sono entrato nel personaggio che recitavo: avevo paura, ma allo stesso tempo quella vita mi piaceva. Per questo non ce la faccio a leggere il libro: non mi riconosco, mi sembra di leggere la storia di un pazzo”. Intanto Giannino conosce un’altra donna. Le racconta tutto e la accoglie in casa con i suoi quattro bambini: “I trafficanti venivano a casa nostra e non sapevano che nei giocattoli la polizia aveva piazzato delle microspie”. Finalmente arriva il giorno della resa dei conti: grazie anche alle sue informazioni, scatta l’operazione Albatross, come la barca di Giannino. In mezzo all’Atlantico tra motoscafi e pescherecci vengono trovati 10 tonnellate di droga: è il più imponente sequestro della storia del narcotraffico. Il boss Elias, però riesce a scampare alla cattura. Ma è solo questione di tempo. Sempre grazie alla sua collaborazione, in una successiva operazione viene arrestato e condannato a 19 anni di carcere. A questo punto, inizia la seconda parte della storia, la più dolorosa. Giannino con la sua famiglia entra nel programma di protezione. Ha una nuova identità e si trasferisce in una località protetta. Ma non può trovarsi un lavoro stabile perché basta un controllo per verificare che il suo codice fiscale non esiste. Dipende quindi dai soldi che ogni mese deve per legge dargli lo Stato. “Quasi sempre arrivavano in ritardo”, ricorda Giannino.
Ma è stata soprattutto la mancanza di sensibilità dei funzionari a esasperarlo. “Era inverno, pioveva sempre e non potevo usare la mia auto per accompagnare i bambini a scuola, perché i narcos la conoscevano benissimo. Ho chiesto quindi se potevano darmene una, ma la risposta è stata: “Si compri un ombrello più grande”. Dopo altri episodi simili, Franciosi decide di uscire dal programma di protezione come hanno fatto prima di lui molti altri testimoni di giustizia che si sono sentiti traditi dallo Stato. “Ho chiesto 437 mila euro per riprendere la mia attività, una somma ridicola se raffrontata a quelle elargite a molti pentiti. Me ne sono stati dati solo 63 mila, perché ho scelto volontariamente di uscire dal programma”. Ma la sorpresa più amara è stata il ritorno al cantiere di Bocca di Magra: “Lo Stato avrebbe dovuto garantire il mio lavoro, invece ho trovato tutto sommerso dal fango. Barche, officina: non avevo più niente. Per questo ho deciso di fare causa allo Stato”. Oltre ai poliziotti che lo hanno seguito fin dall’inizio (“Ogni tanto mi chiamano e scherzano: come va, collega?), solo due persone delle istituzioni sono state vicino a Franciosi: “Il vicequestore di Genova Francesco Navarro e il presidente del Senato Pietro Grasso, che ha seguito da magistrato tutta la mia vicenda. E poi c’è don Luigi Ciotti: la sua voce per me è sempre di grande conforto”. Giannino comunque si è rimboccato le maniche e ha ripreso la sua attività. La forza gliela danno i figli, naturali e acquisiti, che sono orgogliosi di lui. “La più grande va al liceo. Una volta è venuto a parlare un pentito, lamentandosi per le difficoltà della sua nuova vita. Lei è scoppiata a piangere e gli ha urlato: “Sono la figlia di un uomo che non ha mai violato la legge e che rischia ogni giorno la vita per aver aiutato lo Stato. Però voi avete tutto e noi niente”.
La legge stabilisce che debba essere garantita la sua incolumità fino alla cessazione di ogni pericolo e per questo nel suo cantiere sono state messe delle telecamere. Ma un giorno Giannino ha trovato due proiettili sul cancello. Chi li ha messi? “Impossibile saperlo, perché è risultato che le telecamere non sono mai state attivate. Così ho fatto installare un impianto di videosorveglianza a mie spese. E mi sono comprato un’auto blindata. Ma so che non servirà: poche settimane fa ho trovato altri proiettili. I criminali li chiamano “ammazzasbirri” perché sono in grado di bucare anche le auto blindate. Un messaggio chiarissimo”. L’unica vera misura di protezione per Franciosi è rappresentata dagli amici che vivono e lavorano qui vicino. “Mi chiamano subito se notano qualcosa di sospetto. Pochi giorni fa un uomo con un accento napoletano ha chiesto a un amico dove si trovava il mio cantiere. Lui l’ha mandato da un’altra parte. Tanto, se è una brava persona, tornerà”. Prima di salutarci, notiamo che, come ogni vero uomo di mare, Giannino ha molti tatuaggi. Uno in particolare, ci incuriosisce: raffigura i numeri 610 e occupa tutta la parte destra del collo. Giannino spiega con calma: “Me l’hanno fatto loro. E’ un segno di riconoscimento per aver partecipato a un’operazione. La mia vita è legata a loro per sempre”. 12/07/2015 FAMIGLIA CRISTIANA
L’AGENTE SOTTO COPERTURA: EVOLUZIONE E RIFORMA IN MATERIA DI CONTRASTO ALLA CORRUZIONE In questi giorni, con l’entrata in vigore della “legge spazza corrotti” (legge 3 del 9 gennaio 2019, dal titolo “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche’ in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”) verrà ampliato il range operativo in materia di operazioni speciali sotto copertura delle forze di polizia, un insidioso strumento investigativo che vale la pena riassumere, brevemente, nelle sue tante sfaccettature. In un pregresso approfondimento avevamo trattato alcuni aspetti della sociologia della comunicazione come strumento d’indagine, da qui analizzando alcune tematiche a questa correlate nello scenario delle intercettazioni tattiche di comunicazioni, fino a trattare l’ utilizzabilità dei tanti frammenti audio video che, con l’avvento delle nuove tecnologie e dei devices elettronici a portata di taschino, sono state riconosciute dalla giurisprudenza quali memorizzazioni foniche di un fatto storico ex art. 234 c.p.p. Erano stati, anche, offerti alcuni spunti di riflessione riguardo la più recente giurisprudenza sulle immagini, fino all’introduzione del concetto di agente attrezzato per il suono e dell’agente sotto copertura.
1. Undercover e società moderna L’istituto dell’undercover rimanda ad prestito linguistico dallo slang americano ridondante nella copiosa filmografia poliziesca sin dagli ani ’70, e descrive, nella sua reale interpretazione semantica, un insidioso, quanto invasivo, strumento investigativo d’intelligence che le realtà occidentali hanno, negli anni, importato. Si è scelto di scrivere, “realtà”, piuttosto che “potenze”, “istituzioni” o “forze di sicurezza”, in quanto si tratta di un espediente, purtroppo, utilizzato in tantissimi contesti della società moderna, con protocolli di “infiltrazione”, fisici o virtuali, che si registrano nel mondo del lavoro (ad esempio per monitorare il rendimento e l’affidabilità del personale), nell’istruzione (per saggiare modelli di apprendimento e contesti sociali dei discenti), nella vita familiare (con il monitoraggio silente e disinvolto di amici e parenti compiacenti), nella sfera privata (con l’intrusione di detectives ed investigatori privati pronti ad insinuarsi con nonchalance nelle dinamiche sociali del quotidiano), nella criminalità (con l’inserimento di occhi e orecchie dei clans nelle contrapposte fazioni malavitose), nel mondo dell’informatica (con moderni “cavalli di troia”, pronti ad inocularsi nella nostra più intima quotidianità attraverso performanti captatori informatici), fino al monitoraggio del web . Un aspetto particolare aveva riguardato, anche, il terrorismo moderno, e l’attività di profiling ivi connessa, un rodato protocollo di analisi versatile in ogni ambito investigativo e criminalistico, ormai divenuto un modello operativo indispensabile nell’attività di analisi del terrorismo internazionale[1], e dove si tende ad individuare un distinguo psico-comportamentale rivolto a disegnare il profile del “terrorista fondamentalista tipo”, spesso camuffato, come ai tempi delle B.R., da “vicino della porta accanto”[2]. La carrellata sarebbe ancora lunga ma, ultimo e più importante esempio è, infine, quello che riguarda l’istituto dell’agente sotto copertura disciplinato dal legislatore italiano nelle tante attività di prevenzione e contrasto di reati. Si tratta di un contesto istituzionale di elevatissima professionalità, fatto di protocolli e linee guida tanto rigidi quanto complessi e variegati, per via dell’ inusuale modalità di approccio investigativo, che va dal galoppino della droga, al trafficante di armi semi analfabeta, al pedofilo giacca e cravatta fino al raffinato broker internazionale, ove la formazione non riguarda soltanto l’agente autorizzato a svolgere operazioni speciali, ma la certosina preparazione di un articolato e sofisticato pool istituzionale. Dal team di tutela dell’agente, a quello di supporto tecnico-operativo, alla squadra incaricata alla logistica ed alle identità di copertura, a quella di coordinamento internazionale, fino al gruppo incaricato alla documentazione giudiziaria ed ai rapporti con le competenti autorità che, spesso, andranno ad interfacciarsi con diversi organismi collaterali. Un brain storming di strutture internazionali che fa da collante al sistema ed ove, accanto al noto e datato servizio INTERPOL, troviamo l’interfaccia dell’ Agenzia Europea per la Difesa E.D.A., supportata dal Servizio Europeo per l’Azione Esterna S.E.A.E., a sua volta propulsa dal braccio operativo del Joint Situation Centre Sit. Cen., a cui si aggiungono, ancora un “coordinatore antiterrorismo del consiglio europeo” ed altri nomi ed acronimi altisonanti, fino ai più noti organismi di coordinamento giudiziario e di polizia sul fronte comunitario, EUROJUST ed EUROPOL.
2. Formazione degli agenti sottocopertura, “la menzogna” ed il distress La formazione dell’operatore sottocopertura è articolata quanto raffinata, con la frequentazione di specifici corsi di alta formazione organizzati dalle tante strutture istituzionali interessate, che vanno dalle scuole di formazione del D.I.S., fino a quelle interforze presso la Direzione Centrale Antidroga del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, a cui il personale accede dopo una rigida selezione, in primis di carattere psicologico e di attitudine al particolare e rischioso servizio. La ratio è ovvia, in quanto si tratta di una attività che nel c.d. processo di Intelligence, trova compendio nella Hum-Int[3] ove il primo requisito – accanto all’altissimo senso del dovere – è quello dell’adattamento sociolinguistico dell’agente infiltrato al contesto comunitario, sociale, professionale e parlante in cui andrà ad insinuarsi. Si tratta di personale che, in determinati contesti addestrativi, potrebbe essere in grado di bypassare[4] strumenti sofisticati di rilevazione della “menzogna”, come il poligrafo[5] più comunemente noto come “macchina della verità”, un apparato in grado di registrare ed evidenziare alcuni segni (pattern) di alterazione neurovegetativa e cambiamenti fisiologici prodotti in maniera principale dalle emozioni, che sono contestualmente tradotti graficamente nel corso dell’esame. Gli aspetti che riguardano le best practices per il rilevamento della menzogna erano stati, in passato, affrontati in un approfondimento sulle “tecniche di colloquio investigativo”[6], ove si era annotata l’esistenza di tre modelli cardine; uno di tipo classico, seguendo uno dei modelli criminologici fissati dall’F.B.I.; un approccio di interrogatorio di tipo psicologico[7]; ed infine un modello tecnologico ove è fatto ricorso all’utilizzo di apparecchiature più o meno sofisticate d’ausilio all’intervistatore: “[…] Preliminarmente è opportuno distinguere le menzogne a basso rischio (le c.d. bugie sociali) rispetto a quelle ad alto rischio, ove l’intervistato deve mantenere un maggiore impegno cognitivo nel formulare la risposta, ponendo attenzione nella costruzione dei concetti e sulla motivazione da produrre. Ciò determina un’alterazione del pattern abituale, con inusuali tratti cinesici e gestuali, incremento dello stato d’ansia per l’essere scoperto, così evidenziando ulteriori segni di manipolazione dovuti all’attivazione del sistema nervoso simpatico, attraverso cui saranno evidenziate modifiche neurofisiologiche ed elevazione brusca dell’ormone dello stress[8]. In precedenza è già stato fatto richiamo al rapporto tra individuo ed ambiente in grado di determinare frequenti interazioni di stress, che hanno come generica conseguenza uno stato d’ansia. Taluni elementi ambientali, con ciò intendendosi anche esperienze, rapporti interpersonali e situazionali, detti stressors, determinano una sollecitazione sull’organismo e subiscono sempre un’elaborazione di tipo cognitivo, da cui dipende generalmente la reazione della persona, e da qui un’alterazione dell’equilibrio tra individuo ed ambiente a cui consegue il disagio definito stress. La condizione di stress determina l’attivazione di un circuito composto da strutture cerebrali e da una ghiandola endocrina, il surrene[9], il quale aumenta la secrezione di cortisolo; questo ormone, anche conosciuto come ormone dello stress, è particolarmente indicativo per rilevare la menzogna nel corso di un’intervista, in quanto induce, tra l’altro, un aumento della gittata cardiaca e dei valori glicemici[10]. Lo stress indotto dalla menzogna ha, inoltre, per effetto dei microtremori della voce, dovuti al minore afflusso di sangue verso le corde vocali così da determinare la tensione dei muscoli striati della laringe inducendo, per contro, un’improvvisa affluenza di sangue in alcune parti del viso, ed in maniera peculiare vicino gli occhi. Questi, come altri indizi, saranno oggetto di monitoraggio investigativo nel corso del colloquio tecnico al fine di rilevare la presenza di menzogne[11] […]”[12].
3. L’agente sotto copertura nella legislazione italiana Va, adesso, descritta più in dettaglio la figura dell’undercover[13], cioè l’agente sotto copertura[14], connotato da un delicatissimo status[15] e garantito da alcune scriminanti[16], che si riflette nell’ufficiale di polizia giudiziaria “infiltrato” specializzato ad insinuarsi nel tessuto criminale, in alcuni casi[17], anche, “istigando” alla commissione di delitti, ed ove sono presenti ulteriori figure giuridiche di compendio: quella dell’ausiliario[18]e della persona interposta[19]. Due figure concorrenti nell’attività dell’infiltrato, alle quali “[…] è estesa l’esimente[20] prevista per l’acquisto, ricezione, sostituzione od occultamento di sostanze stupefacenti o psicotrope o il compimento di attività preliminari e strumentali. È opportuno, quindi, chiarire se e quali differenze sussistono tra la persona interposta e l’ausiliario. La nozione di “persona interposta” è abbinata allo svolgimento “diretto” delle attività di acquisto simulato delle sostanze stupefacenti ed alle altre attività prodromiche e strumentali tipiche[21] o atipiche[22]. “Persona interposta”, a scanso di equivoci, può essere chiaramente un agente o un ufficiale di polizia giudiziaria chiamato a coadiuvare l’ufficiale di polizia giudiziaria “infiltrato” e diverso da questi; ma, ovviamente, può essere anche un privato[23]. L’“ausiliario” si differenzia, invece, dalla “persona interposta” sostanzialmente per le attività di collaborazione che può essere chiamato a svolgere, tra cui quella ab externo con l’undercover, rivolta al buon esito dell’operazione, ma diversa dal coinvolgimento “diretto” nella stessa, realizzato con il compimento di una delle attività[24] descritte nel co. 1 dell’art. 97. Le figure giuridiche della persona interposta e dell’ausiliario trovano analogo compendio normativo nella legislazione speciale di contrasto al crimine transnazionale[25] […]. Con l’indicazione di “agente infiltrato” si intende individuare l’operatore di polizia che si limita ad adottare comportamenti di mera osservazione, sorveglianza e/o contenimento dell’altrui azione criminosa; l’attività dell’undercover è rivolta a raccogliere prove su reati od a carico di persone che li abbiano commessi, ovvero di far cogliere in flagranza i responsabili di uno o più delitti, non assumendo mai un ruolo attivo di istigatore od ideatore nella commissione degli stessi. Con l’accezione di “agente provocatore” si identifica, invece, il soggetto istituzionale che, oltre quanto detto, pone in essere condotte attive e/o omissive funzionali alla realizzazione dei fatti delittuosi investigati[…]”.[26] Vediamo adesso, nello scenario legislativo speciale, le tante disposizioni di legge che disciplinano l’istituto dell’agente sotto copertura e che, negli anni, sono in parte confluite nell’art. 9 della L. 16 marzo 2016 n. 146:
- in materia di stupefacenti,
- nel contrasto al traffico di armi,
- nei sequestri di persona a scopo di estorsione, L. 15 marzo 1991, n. 82, art. 7 “Disposizioni processuali”;
- nel contrasto all’usura ed al riciclaggio, L. 18 febbraio 1992, n. 172, art. 10 “Disposizioni processuali”;
- nei reati di pedo-pornografia, prostituzione minorile, riduzione in schiavitù e turismo sessuale, L. 3 agosto 1998, n. 269, art. 14 “Attività di contrasto”; L. 11 agosto 2003, n. 228, art. 10 “Attività sotto copertura”;
- nel contrasto al crimine internazionale e transnazionale, L. 15 dicembre 2001, n. 438, art. 4 “Attività sotto copertura”; L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 9 “Operazioni sotto copertura”.
- Un più raffinato e meno rigido protocollo di intelligence trova riscontro nella norma di riforma dei “Servizi”, la legge 3 agosto 2007 n. 124, che aveva portato alla nascita il D.I.S. Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, la sostituzione del “Servizio Militare” SISMI con di Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna, ed il vecchio SISDE rinominato Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna.
- “[…] In detto nuovo assetto la norma ha previsto la possibilità che gli agenti delle due Agenzie possano effettuare, per ragioni istituzionali “attività simulate” assumendo “identità di copertura”; un bel traguardo se si compara la performance degli omologhi organismi di altri stati, da anni autorizzati a svolgere attività tecnico-informative ad ampio respiro e senza soluzioni di continuità.
- In generale il provvedimento ha previsto che il direttore generale del DIS, può autorizzare, su proposta dei direttori dell’AISE e dell’AISI, l’uso, da parte degli addetti ai servizi […], di documenti di identificazione contenenti indicazioni di qualità personali diverse da quelle reali può essere disposta o autorizzata l’utilizzazione temporanea di documenti […] di copertura.
- Che venga agli stessi “agenti” escluso lo status di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza, così da manlevare gli stessi da tutti quegli oneri che la legge impone, in via generale, agli operatori delle forze di polizia.
- Con la riforma, ancora, il direttore generale del DIS può autorizzare, su proposta dei direttori dell’AISE e dell’AISI, l’esercizio di attività economiche simulate, sia nella forma di imprese individuali sia nella forma di società di qualunque natura[…]”[27].
- In uno scenario comparato – aveva annotato alcuni anni addietro il compianto Ten. Col. Omar Paci nelle sue tante slides per i discenti frequentatori dei corsi undercover- l’istituto giuridico dell’agente sotto copertura trova applicazione diversa nelle tante realtà internazionali, come ad esempio:
- Svizzera: il funzionario di polizia nell’ambito di indagini penali per la repressione del traffico di sostanze stupefacenti può essere autorizzato dal procuratore generale della confederazione ad assumere un’identità fittizia allo scopo di partecipare ad operazioni di acquisto simulato di droga. Le false generalità dell’infiltrato potranno essere mantenute anche durante la fase processuale. Presupposti: dovrà trattarsi di investigazioni inerenti la criminalità organizzata, ovvero indagini che riguardino fatti di particolare gravità (es. traffico internazionale di stupefacenti).
- Danimarca: qui è istituzionalizzata la figura dell’agente provocatore che potrà essere rivestita da un funzionario di polizia a tre condizioni: fondato sospetto che il reato stia per essere commesso; dimostrata insufficienza di altri strumenti investigativi; gravità dei delitti per cui si procede (pena superiore ai 6 anni e contrabbando). È sempre necessaria l’autorizzazione motivata del magistrato che deve, salvo casi eccezionali, darne avviso all’avvocato della difesa.
- Francia: la legge sul contrasto ai traffici di stupefacenti individua due distinte figure: l’agente sorvegliante che si limita a rilevare e documentare, passivamente, le transazioni illecite; l’agente controllante che viceversa assume un ruolo attivo nell’acquisto, trasporto, detenzione e vendita di sostanze stupefacenti. Oltre che gli appartenenti alla polizia, anche i doganieri possono rivestire i citati ruoli investigativi. Per l’agente sorvegliante è sufficiente la previa informazione al magistrato, mentre per l’agente controllante è necessaria un’autorizzazione scritta.
- Germania: la legislazione tedesca prevede la figura dell’investigatore coperto o segreto che può operare nei settori criminosi del traffico di droga e di armi, del falso nummario nonché dei reati contro la personalità dello stato. Condizioni: i citati delitti dovranno essere perpetrati da organizzazioni criminali; l’attività sotto copertura potrà realizzarsi solo quando gli altri strumenti d’indagine si dimostreranno inefficaci; sarà necessaria l’autorizzazione scritta del pubblico ministero. L’agente infiltrato è legittimato a compiere una serie diversificata di condotte e, soprattutto, allo stesso sarà attribuita una doppia identità che verrà mantenuta a che in fase processuale.
- Bulgaria: è prevista l’ autorizzazione del pm per l’ attività undercover; l’agente under cover (anche straniero) testimonia con garanzia di anonimato.
- Russia: l’agente under cover può utilizzare identità e struttura di copertura. La testimonianza avviene con identità di copertura (anche per l’agente straniero); la rivelazione dell’identità può avvenire solo previo consenso scritto dell’agente.
- Macedonia: l’agente under cover (anche straniero) testimonia con garanzia di anonimato; vige estrema versatilità di impiego nelle attività sotto copertura.
- Israele: gli agenti under cover testimoniano con l’identità fittizia, e solo per una singola operazione. Sono previsti accordi speciali con criminali o privati che possono fare filmati o registrazioni quali repertazioni di fatti storici e prove documentali. Gli under cover testimoniando obbligatoriamente con l’identità reale.
- Regno Unito: si tratta di uno strumento investigativo di polizia non soggetto ad autorizzazione giudiziaria. Le richieste di cooperazione sono rivolte direttamente alle agenzie di polizia.
- Romania: gli agenti under cover stranieri sono soggetti alla secretazione dell’identità reale, procedendo a riservata testimonianza.
- Turchia: l’attività under cover è soggetta ad autorizzazione del G.I.P. (P.M. per urgenze); con decreto autorizzativo e documentazione di copertura in cassaforte del pm che ne risponde in toto; il mantenimento dell’identità fittizia avviene anche dopo l’operazione per esigenze di sicurezza (il c.d. sganciamento).
- Lituania: il personale, per ragioni di riservatezza, non è presente in elenchi di polizia; l’ agente under cover può essere interrogato solo dal giudice e dal P.M.: Qualora l’escussione avvenga in aula, l’anonimato dell’under cover sarà garantito con pseudonimo e distorsione audio con protezione visiva; per gli agenti under cover stranieri è prevista documentazione e struttura di copertura.
5. Il contrasto alla corruzione nella Pubblica Amministrazione
- Negli ultimi anni il legislatore si è più volte interessato all’ammodernamento dei correttivi in materia di contrasto alla corruzione nel settore pubblico[28], con l’introduzione dell’ipotesi di induzione indebita a dare o promettere utilità [29], e quella del “traffico di influenze illecite”[30], individuando anche un intermediario tra soggetto pubblico e quello privato[31].
- Ridefinendo, parallelamente, il reato di concussione[32] – un’estorsione qualificata diversa rispetto alla pregressa dicotomia tra induzione e costrizione – oggi ristretto alla sola ipotesi in cui il pubblico ufficiale[33] costringa il privato all’ illecita dazione o promessa di denaro o altra utilità[34].
- L’evoluzione normativa di contrasto alla corruzione ha delineato la figura giuridica del soggetto privato concusso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato al pubblico servizio mediante induzione[35], rilevandone la compartecipazione nel reato quale concorrente necessario.[36]
- Una stretta di vite che vedrà attuata in questi giorni la c.d. “legge spazza corrotti” n. 3 del 9 gennaio 2019, dal titolo “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche’ in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”; un inasprimento alle ipotesi delittuose già delineate con i precedenti pacchetti anticorruzione, con l’introduzione di ulteriori correttivi e strumenti di intervento.
- Il tema della corruzione pubblica rientra in dinamiche tutt’altro che obsolete, seppure già oggetto di classificazione criminalistica nei lontani anni ’40, allorquando la “scuola di Chicago” introdusse il termine The white collar crime[37], sapientemente descritto da Edwin Sutherland quale forma di dilagante distorsione sociale: “[…] I crimini dei colletti bianchi – annotava il criminologo statunitense – sono di difficile individuazione, in quanto molti sono ‘delitti senza vittime’. In caso di corruzione entrambe le parti possono considerarsi dalla parte del guadagno derivato dall’accordo, entrambi sono passibili di condanna e, perciò, è probabile che nessuno denunci il danno[…] [38].
- Uno scellerato “mentire e rubare tra diritto e morale”[39]; fatto di rapporti tra “Clientela e parentela”[40]; un mix di “Stato, controllo sociale e devianza”[41], ove è presente un “crimine socialmente tollerato”[42], abilmente, quanto sfrontatamente, coltivato da colletti bianchi orbitanti un una “sfera delinquenziale d’elite in ambito economico ove l’autore, di solito un professionista accreditato che gode di massima rispettabilità e prestigio nella società in cui vive, attua l’attività criminosa nell’esercizio del proprio status lavorativo”[43].
- Si tratta di una forma di devianza criminale descrivibile, anche, attraverso interpretazioni scientifico matematiche desunte dalla disamina di una serie di variabili, come il comportamento, la funzione, la personalità e l’ ambiente.
- Questo è il concetto di studio su cui si basa la c.d. teoria del campo[44] di Kurt Lewin ove è presente un orientamento che focalizza l’attenzione anche sulla motivazione, traducendo la rappresentazione di quelle variabili attraverso l’equazione matematica: C= f (P, A)in cui C sta per comportamento, f per funzione, P per personalità ed A per ambiente.
Nella precedente legislatura, gli strumenti di contrasto al fenomeno sono andati oltre, interessandosi ai mezzi di ricerca della prova, ed alla possibilità di utilizzare le intercettazioni facendo ricorso alle nuove tecnologie dual use e, da qui, al captatore informatico “Trojan”. “[…] In merito alle intercettazioni concernenti reati contro la pubblica amministrazione compiuti dai pubblici ufficiali, la riforma in esame ha snellito le procedure per l’ascolto di conversazioni nel caso di gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Innanzitutto il testo prevede che questa disposizione si applichi soltanto per i reati la cui pena massima non è inferiori ad anni 5. Inoltre, ci devono essere gravi indizi di reato e le intercettazioni devono essere necessarie per procedere nelle indagini. Recita testualmente l’art. 6 del decreto, rubricato “Disposizioni per la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione” che: “Nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 del codice di procedura penale, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13/05/1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12/07/1991, n. 203.[45] L’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa[…][46]”.
6. La riforma dell’under cover con la L. 9 gennaio 2019, n. 3 L’evoluzione normativa ha riguardato, infine, con l’odierno legislatore, anche l’istituto dell’agente sottocopertura nel contrasto ai crimini nella Pubblica Amministrazione, definito in questi giorni con la legge 9 gennaio 2019, n. 3[47] che entrerà in vigore il prossimo 31 gennaio. La norma presenta alcuni limiti rispetto alla preesistente previsione del delicatissimo status, descritta dalla legge 146 del 2006 di cui abbiamo parlato nelle pagine che precedono, non consentendo l’estensione della veste di under cover a quella di agente provocatore, in altre ipotesi delittuose manlevato dall’istigazione a delinquere (come in relazione all’art. 97 del DPR309/90 ed all’art. 1 quater del D.L. 306/92, ed alle altre evoluzioni annotate all’art.9 della L. 146/2006).
Di seguito la nuova configurazione normativa:
All’articolo 9, comma 1, della legge 16 marzo 2006, n. 146, la lettera a) e’ sostituita dalla seguente: «a) gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze, i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti previsti dagli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, 353-bis, 452-quaterdecies, 453, 454, 455, 460, 461, 473, 474, 629, 630, 644, 648-bis e 648-ter, nonche’ nel libro secondo, titolo XII, capo III, sezione I, del codice penale, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti previsti dall’articolo 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonchè ai delitti previsti dal testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e dall’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro o altra utilità, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto, prezzo o mezzo per commettere il reato o ne accettano l’offerta o la promessa o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego ovvero corrispondono denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o per remunerarlo o compiono attività prodromiche e strumentali». Lo spettro di azione dell’agente impiegato in operazioni speciali sotto copertura viene, quindi, ampliato, cosicchè l’under cover infiltrato negli scenari delle amministrazioni pubbliche, non risponderà penalmente di dazioni di denaro improprie – purchè in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri – così come nel caso di promessa o consegna di denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, o dall’aver dato corso a una sollecitazione di pagamento illecita. L’accezione “ogni altra utilità” qui introdotta, è la fisiologica espansione analogica di altra novella legislativa, in relazione al voto di scambio politico mafioso, in precedenza oggetto di lungo de iure condendo, per via di quella rigida interpretazione sul “cambio dell’erogazione del denaro”.[48] Il nuovo alveo di operatività dell’agente sotto copertura riguarda, adesso, anche la concussione, la corruzione per l’esercizio della funzione, e quella per un atto contrario ai doveri d’ufficio, la corruzione propria aggravata dall’avere ad oggetto pubblici impieghi o stipendi o pensioni, arrivando al pagamento o al rimborso dei tributi, la corruzione in atti giudiziari, l’induzione indebita a dare o promettere utilità, traffico di influenze illecite, turbata libertà degli incanti e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Ed, ancora, gli illeciti di corruzione di incaricato di pubblico servizio, la corruzione attiva comunque sia commessa, l’istigazione alla corruzione attiva e passiva, i vari reati corruttivi verso i membri della Corte penale internazionale, gli organi della Comunità europea, funzionari della Ue e di Stati esteri. Rimangono invariati i presupposti di impiego a monte delle “operazioni speciali” condotte dall’infiltrato – da identificarsi tassativamente in un ufficiale di polizia giudiziaria appartenente alle “strutture specializzate” delle tre forze di polizia o alla Direzione Investigativa Antimafia, secondo i parametri già in precedenza ancorati dall’originaria norma che aveva introdotto l’istituto, previe intese ed autorizzazioni della competente autorità giudiziaria.
7. Infiltrato ed agente provocatore: la focale della Corte EdU Ultimo inciso riguarda il distinguo operato in generale tra under cover ed agente provocatore, al centro di un acceso dibattito istituzionale, e ad oggetto di pronuncia del giudice di legittimità, che ha più volte tracciato una distinzione netta tra la condotta, penalmente irrilevante dell’agente sotto copertura, rispetto a quella, invece, meritevole di sanzione penale, dell’agente provocatore.[49] Analogamente, la Corte europea per i diritti dell’uomo, seppure consapevole della necessità di adeguata lotta al fenomeno corruttivo[50], ha chiarito l’incompatibilità di alcuni insidiosi strumenti di indagine con la Convenzione: “[…] Da un punto di vista generale, la Corte ha, infatti, precisato che, se da un lato “the Court’s case-law does not preclude reliance, at the investigation stage of criminal proceedings and where the nature of the offence so warrants, on evidence obtained as a result of an undercover police operation”[51] (CEDU Khudobin c/ Russia, para §128), dall’altro lato “although the admissibility of evidence is primarily a matter for regulation by national law, the requirements of a fair criminal trial under Article 6 entail that the public interest in the fight against crime cannot justify the use of evidence obtained as a result of police incitement”[52] (CEDU Teixeira de Castro c/ Portugal, para §§34-36, CEDU Edward & Lewis c/ UK, pag. 15). La Corte ha così inteso distinguere con precisione la figura dell’agente provocatore, come detto incompatibile con la Convenzione, da quella dell’agente sotto copertura, che è invece ammissibile: “Police incitement occurs where the officers involved – whether members of the security forces or persons acting on their instructions – do not confine themselves to investigating criminal activity in an essentially passive manner, but exert such an influence on the subject as to incite the commission of an offence that would otherwise not have been committed, in order to make it possible to establish the offence, that is, to provide evidence and institute a prosecution”[53] (CEDU Ramanauskas c/ Lithuania, para §55). Venendo alle regole nostrane, anche il Legislatore italiano distingue le due figure, disciplinando (e rendendo legittima) soltanto quella dell’agente sotto copertura. In particolare, quest’ultima trova spazio nell’ambito delle indagini cd. antimafia (L. n. 146/2006, art. 9) e antidroga (D.P.R. n. 309/1990, art. 97), attraverso una speciale causa di non punibilità per quegli agenti di Polizia giudiziaria che, “al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine a determinati delitti, diano rifugio o comunque prestino assistenza agli associati, acquistino, ricevano, sostituiscano od occultino denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolino l’individuazione della loro provenienza o ne consentano l’impiego o compiano attività prodromiche e strumentali” […]”[54].
L’agente sotto copertura Chi è l’agente sotto copertura, in quali ambiti può operare, quando e per quali reati è esclusa la punibilità, la differenza con la figura dell’agente provocatore. Guida aggiornata alle novità del ddl anticorruzione L’agente sotto copertura è quel soggetto che, per motivi di indagine partecipa all’attività criminosa altrui al fine di farla fallire e farne arrestare gli autori; controlla e osserva l’attività illecita altrui, senza poter dare esecuzione al reato.
Agente sotto copertura: punibilità esclusa All’agente sotto copertura è applicabile la scriminante prevista dall’art. 51 del codice penale, ai sensi del quale: “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”.
Agente sotto copertura: le leggi speciali Il legislatore nel corso degli anni ha emanato leggi speciali in materie particolari, che prevedono scriminanti specifiche per gli agenti sotto copertura
Agente sotto copertura: stupefacenti L’attività degli agenti che operano sotto copertura per indagare sulla commissione di reati in materia di stupefacenti è prevista dall’art. 97 del D.P.R. n. 309/90, che per la sua disciplina rinvia all’art. 9 della Legge n. 146/2006 e successive modificazioni, che si analizzerà in seguito.
Agente sotto copertura: prostituzione e pornografia La legge n. 269/1998 all’art. 14 dispone che, gli ufficiali di polizia giudiziaria delle strutture specializzate per la repressione dei delitti sessuali, per la tutela dei minori e per il contrasto dei delitti di criminalità organizzata, possano:
- previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria
- e al solo fine di acquisire elementi di prova per i reati suddetti,
- procedere all’acquisto simulato di materiale pornografico,
- prendere parte alle relative attività d’intermediazione,
- e partecipare alle iniziative turistiche di cui all’articolo 5 della presente legge.
Sempre al fine di contrastare i delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma (prostituzione minorile), 600-ter, commi primo, secondo e terzo (pornografia minorile) e 600-quinquies (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile) del codice penale, commessi con l’impiego di sistemi informatici, mezzi di comunicazione telematica o reti di telecomunicazione disponibili al pubblico, nell’ambito dei compiti di polizia delle telecomunicazioni il personale specializzato può ricorrere a indicazioni di copertura, anche per attivare siti, creare o gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, o partecipare ad esse.
Agente sotto copertura: terrorismo internazionale L’art. 4 del D.L n. 374/2001 coordinato con la legge di conversione n. 438/2001 disciplina l’attività sotto copertura, disponendo, fermo restando quanto previsto dall’art. 51 c.p., la non punibilità degli ufficiali di Polizia giudiziaria che:
- nel corso di specifiche operazioni di polizia disposte al solo fine di acquisire elementi di prova relativi a delitti commessi con finalità di terrorismo
- “anche per interposta persona acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato, o altrimenti ostacolano l’individuazione della provenienza o ne consentono l’impiego.”
Sempre a fini d’indagine, gli ufficiali e gli agenti di Polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione. Queste attività di copertura sono compiute dagli ufficiali di Polizia giudiziaria degli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei carabinieri specializzati nel contrastare il terrorismo e l’eversione e gli ufficiali della Guardia di finanza competenti nell’ostacolare il finanziamento del terrorismo, anche internazionale. Gli ufficiali di Polizia giudiziaria possono avvalersi della collaborazione di ausiliari, a cui si applica la stessa causa di non punibilità.
Agente sotto copertura: crimine organizzato transazionale L’art. 9 della Legge n. 146/2006 in materia di crimine organizzato transnazionale, in vigore dal 12/4/2006, in materia di operazioni sotto copertura, stabilisce che, fermo quanto stabilito dall’art. 51 c.p. non sono punibili gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, che fanno parte delle strutture specializzate o della Direzione investigativa antimafia, che nel corso di specifiche operazioni di polizia e al fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti:
- di alterazione, falsificazione di monete, spendita e introduzione nello Stato, previo concerto senza concerto di monete falsificate;
- di contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di valori di bollo;
- di fabbricazione o detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla falsificazione di monete, di valori di bollo o di carta filigranata;
- di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni;
- di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi;
- di estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione;
- d’usura;
- di riciclaggio;
- di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita;
- contro la libertà individuale;
- concernenti armi, munizioni, esplosivi;
- di cui all’art. 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico sull’immigrazione;
- di cui al decreto legislativo 25/07/1998, n. 286 relativi alla condizione dello straniero;
- previsti dal testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope di cui al D.P.R. n. 309/1990;
- di cui all’art. 260 Dlgs. n. 152/ 2006 e art. 3 Legge n. 75/1958;
anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego o compiono attività prodromiche e strumentali. Non sono punibili neppure gli ufficiali di polizia giudiziaria degli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei carabinieri specializzati nel contrastare il terrorismo e l’eversione e del Corpo della guardia di finanza competenti a ostacolare il finanziamento del terrorismo, che, nel corso di specifiche operazioni e solo per acquisire elementi di prova in ordine ai delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, anche per interposta persona, compiono le stesse attività messe in atto da coloro che, come analizzato sopra, fanno parte delle strutture specializzate o della Direzione investigativa antimafia. La causa di giustificazione si applica agli ufficiali, agli agenti di polizia giudiziaria, agli ausiliari sotto copertura quando le attività sono condotte per dare attuazione a operazioni autorizzate e documentate e anche alle interposte persone. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria impiegati in tutte le operazioni descritte possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura, rilasciati dagli organismi competenti anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione.
Agente sotto copertura: sicurezza e segreto L‘art. 17 della Legge n. 124/2007 in materia di sicurezza della Repubblica e del segreto che, fermo il disposto dell’art 51 c.p. prevede la non punibilità del “personale dei servizi di informazione per la sicurezza che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi”. Il comma 6 dell’art. 17 precisa però che, la speciale causa di giustificazione si applica quando le condotte:
- sono poste in essere nell’esercizio o a causa di compiti istituzionali dei servizi di informazione per la sicurezza, in attuazione di un’operazione autorizzata e documentata ai sensi dell’articolo 18 e secondo le norme organizzative del Sistema di informazione per la sicurezza;
- sono indispensabili e proporzionate al conseguimento degli obiettivi dell’operazione non altrimenti perseguibili;
- sono frutto di una obiettiva e compiuta comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti; d) sono effettuate in modo tale da comportare il minor danno possibile per gli interessi lesi”.
Il comma 7 estende la causa di giustificazione prevista per il personale dei servizi di informazione e sicurezza, ai non addetti ai medesimi servizi ” quando risulta che il ricorso alla loro opera da parte dei servizi d’informazione per la sicurezza era indispensabile ed era stato autorizzato (…)”.
Agente sotto copertura e agente provocatore: differenze L’agente sotto copertura e l’agente provocatore sono sostanzialmente la stessa figura, l’unica differenza è che la prima figura è prevista dalla legge per i reati di pedofilia, terrorismo, droga, sicurezza e criminalità organizzata, mentre la seconda è vietata.
Agente sotto copertura: corruzione e Convenzione di Merida Uno dei reati che più di ogni altro richiederebbe la possibilità di ricorrere all’agente provocatore è quello di corruzione, non meno importante per diffusione e gravità, ai reati in cui tale figura è prevista. La lacuna normativa del nostro ordinamento potrebbe tuttavia essere colmata rapidamente, dando attuazione alla Convenzione ONU contro la corruzione, sottoscritta a Merida nel 2003.
Il comma 1 dell’art. 50 della Convenzione, dedicato a tecniche investigative speciali, prevede infatti che, al fine di contrastare la corruzione, ogni Stato, nei limiti stabiliti dai principi fondamentali dell’ordinamento interno, e conformemente al proprio diritto interno, possa adottare speciali tecniche di investigazione, tra le quali, appunto, le operazioni sotto copertura.
Agente sotto copertura: le novità del ddl anticorruzione Il ddl anticorruzione, diventato legge il 18 dicembre 2018, disciplina la figura dell’agente sotto copertura ampliando il numero e il tipo di reati per i quali è consentito ricorrere a tale tecnica investigativa In particolare:
- l’impiego dell’agente sotto copertura sarà possibile per i reati contemplati dai seguenti articoli del codice penale: 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, 353-bis, 452-quaterdecies, 630, 644, 648-bis e 648-ter;
- diventa non punibile l’acquisto, la ricezione, la sostituzione e l’occultamento anche di altra utilità o cose che costituiscono il prezzo per commettere il reato o ne accettano l’offerta o la promessa;
- così come non saranno punibili d’ora in poi gli ufficiali di polizia che “corrispondono denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o per remunerarlo.” Annamaria Villafrate | 29 mar 2018
ULTIME SENTENZE IN MATERIA
Investigazioni della polizia giudiziaria Quando l’attività concretamente riferibile all’agente sotto copertura o all’interposta persona corrisponde ad una o più fra le operazioni espressamente contemplate dal minisistema normativo di riferimento costituito dall’art. 9 l. 16 marzo 2006, n. 146, deve escludersi sia la configurabilità di ipotesi di responsabilità penale a carico di tali soggetti, sia la sussistenza di situazioni di inutilizzabilità della prova acquisita nel corso della indicata attività. Cassazione penale sez. VI, 02/04/2015, n.19122
Agenti di polizia giudiziaria sotto copertura Ai fini della valutazione dei gravi indizi di reato in sede di autorizzazione delle intercettazioni, le informazioni fornite da agenti di polizia giudiziaria operanti sotto copertura, la cui identità non sia disvelata, sono pienamente utilizzabili, a condizione che sia stata rispettata la procedura autorizzativa prevista dalla legge, non essendo equiparabili alle informazioni di fonte confidenziale o anonima indicate nell’art. 203 c.p.p. Cassazione penale sez. IV, 03/05/2016, n.25247
Reato di importazione di sostanza stupefacente Il reato di importazione di sostanza stupefacente, commesso da un appartenente alla polizia giudiziaria, che agisca da agente sotto copertura ma travalicando i limiti di applicabilità dell’esimente di cui all’art. 97 d.P.R. n. 309 del 1990, richiede, quanto all’elemento soggettivo, la sussistenza del dolo generico, inteso come coscienza e volontà di introdurre nel territorio dello Stato sostanza stupefacente e di detenerla ad uso non personale, mentre non è necessario che l’importazione sia commessa con la finalità specifica di cessione a terzi della droga . (In motivazione la Corte ha chiarito che, nella specie, non valesse ad escludere l’elemento soggettivo del reato la finalità ultima, perseguita dagli imputati, di individuare i soggetti dediti al traffico illecito di stupefacenti attraverso le condotte di importazione). Cassazione penale sez. III, 15/01/2016, n.31415
Testimonianza circa le dichiarazioni dell’indagato In tema di criminalità organizzata, con riferimento alle speciali tecniche di investigazione preventiva previste dalla l. n. 146 del 2006 (di ratifica della convenzione Onu contro il crimine organizzato), e alla figura dell’agente infiltrato o sotto copertura, qualora questi commetta azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili (art. 9 legge citata), ed esorbiti dai limiti legislativi posti alla sua azione così determinando con il suo comportamento fatti penalmente rilevanti, egli assume la figura di coimputato in procedimento connesso o collegato, e di conseguenza, alle sue dichiarazioni si applica la disciplina di cui agli art. 192 e 210 c.p.p. (Ha specificato peraltro la Corte che, laddove l’agente sotto copertura operi entro i limiti di legge, alla sua testimonianza circa quanto da lui appreso dall’imputato durante le investigazioni non si applica l’art. 62 c.p.p. posto che il divieto ivi previsto non attiene alle dichiarazioni che costituiscano o accompagnino la condotta criminosa direttamente riferita dall’agente infiltrato). Cassazione penale sez. II, 28/05/2008, n.38488
Deposizione testimoniale su quanto appreso dall’imputato In tema di indagini per l’accertamento dei reati concernenti le sostanze stupefacenti, gli investigatori operanti “sotto copertura” possono rendere testimonianza su quanto hanno appreso dall’imputato nel corso dell’investigazione, dal momento che, nell’ambito dell’operazione svolta, sono stati soggetti partecipanti all’azione e non hanno agito come ufficiali di polizia giudiziaria con i poteri autoritativi e certificatori connessi alla qualifica. Cassazione penale sez. VI, 05/12/2006, n.41730
Dichiarazioni rappresentative di precedenti fatti In tema di dichiarazioni che l’agente sotto copertura abbia ricevuto dagli imputati nel corso delle indagini preliminari, di regola non trovano applicazione. gli art. 62 e 63 c.p.p. Infatti il divieto di testimonianza previsto dall’art. 62 c.p.p. concerne soltanto le dichiarazioni rappresentative di precedenti fatti, e non anche le condotte e le dichiarazioni che si accompagnano a tali condotte, o le dichiarazioni programmatiche di future condotte. Nemmeno si applica il secondo 2 dell’art. 63 c.p.p., non trattandosi di dichiarazioni rese nel corso di un esame o di assunzione di informazioni in senso proprio, nè le dichiarazioni rappresentano eventi già accaduti (fattispecie, in tema di agente provocatore ex art. 97 del d.P.R. n. 309 del 1990). Tribunale Macerata, 18/07/2001
Dichiarazioni percepite dall’agente sotto copertura Il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni comunque rese dall’imputato nel corso del procedimento non riguarda le affermazioni compiute in presenza di agenti “infiltrati” per il compimento delle attività previste dall’art. 97 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Per un verso, infatti, la preclusione riguarda solo le dichiarazioni rappresentative di fatti precedenti e non quelle che costituiscano o accompagnino la condotta direttamente riferita dal testimone. Per altro verso il divieto attiene alle sole dichiarazioni rese nel corso del procedimento, e dunque funzionalmente alla formazione di un atto processuale, mentre l’agente infiltrato non agisce al fine di redigere atti servendosi dei propri poteri autoritativi e certificativi, quanto piuttosto (nei limiti fissati dalla legge) quale partecipe del fatto successivamente testimoniato. Cassazione penale sez. IV, 04/10/2004, n.46556
Divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato In tema di accertamento dei reati concernenti sostanze stupefacenti, gli investigatori operanti ‘sotto copertura’ possono rendere testimonianza su quanto hanno appreso dall’imputato nel corso dell’investigazione, dal momento che, nell’ambito dell’operazione svolta, sono stati soggetti partecipanti all’azione e non hanno agito come ufficiali di polizia giudiziaria con i poteri autoritativi e certificatori connessi alla qualifica. Cassazione penale sez. III, 09/05/2013, n.37805
Dichiarazioni confessorie rese all’operatore di polizia giudiziaria Il documento fonografico contenente le dichiarazioni confessorie dell’autore di un fatto reato, rese ad un operatore di polizia giudiziaria non conosciuto come tale ed impegnato, quale agente “sotto copertura”, in tutt’altre investigazioni, è utilizzabile probatoriamente, perché il divieto di testimonianza su quanto dichiarato dal sottoposto ad indagine ed il divieto di utilizzazione delle dichiarazioni rese prima dell’assunzione della qualità di indagato operano soltanto nel corso e nell’ambito del procedimento nel quale il soggetto è sottoposto ad indagine o è imputato. Cassazione penale sez. II, 19/12/2006, n.5601
fonte: La legge per tutti
- Arrivano gli agenti «spioni» nella Pa contro mafia e corruzione – Le nuove strategie: 30 poliziotti sotto copertura a Milano, Napoli, Roma e Palermo. In arrivo anche 180 agenti agenti «patrimonialisti» per stanare irregolarità tra bilanci e fideiussioni
_______________
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco