FRANCO ROBERTI

 

 

Il magistrato. «Il terremoto, un’offesa viva. Camorra al centro della ricostruzione»

Il magistrato Franco Roberti ricorda cosa accadde dopo il sisma in Irpinia, dal salto di qualità dei clan campani agli omicidi preventivi, fino al ruolo di Cutolo

«Sembra incredibile, ma io napoletano, ho sentito parlare per la prima volta di camorra a Sant’Angelo dei Lombardi. Avevo 30 anni, venivo da una pretura toscana e avevo sentito parlare di camorra solo in termini molto generici. Capii come si muoveva a Sant’Angelo dove, subito dopo il terremoto, mi dissero che proprio il clan Nuvoletta, che già allora era il più forte, legato ai corleonesi, aveva fornito il cemento per costruire gli edifici. Quelli crollati. Tutti realizzati da prestanome di Nuvoletta». È il racconto di Franco Roberti, quaranta anni fa giudice a Sant’Angelo dei Lombardi. Poi magistrato di punta nella lotta alla camorra, Procuratore nazionale antimafia e oggi europarlamentare del Pd. Indagò sulla camorra responsabile dei crolli e poi sugli affari dei clan sulla ricostruzione. «Fu il salto di qualità della camorra, l’opportunità per aggredire la spesa pubblica grazie alla politica corrotta e all’imprenditoria compiacente». Ricorda quegli anni e, forte di quell’esperienza, lancia l’allarme. «C’è un rischio enorme che le mafie aggrediscano i finanziamenti europei post-Covid come quelli post-terremoto. Approfittando dell’attenuazione dei controlli. È più che un rischio, è una certezza. E le prime indagini già lo stanno dimostrando. Lo faranno in modo molto più sotterraneo, sfruttando molto più la corruzione dell’intimidazione e della violenza».

Quale è il ricordo di quei giorni di 40 anni fa?

Giunsi a Sant’Angelo dei Lombardi alle prime ore del 25 novembre. C’erano degli edifici moderni, finiti da poco, che erano crollati, sbriciolati. Ma come era stato possibile? Era zona sismica di secondo grado, dichiarata a rischio fin dal 1974. Possibile che si fosse costruito senza rispetto della normativa antisismica e senza alcuna vigilanza? Chi erano quei tecnici, quei dirigenti, quei professionisti, quegli uomini dello Stato che avevano permesso che si spezzassero centinaia di vite? La colpa non era della natura.

Trovò risposte?

Cominciammo a chiedere. Ci dissero subito che il cemento che era servito a realizzare quegli edifici, era stato fornito da produttori legati al clan Nuvoletta. Era scadente, messo in opera con modalità tali da abbattere i costi, riducendone però la resistenza. Una scelta criminale, mafiosa. Cominciammo a indagare, ad approfondire, a cercare prove.

E cosa avete scoperto?

Facemmo perizie accurate, procedemmo nei confronti dei costruttori e dei pubblici funzionari. Il 24 aprile del 1982 depositai la mia prima ordinanza di rinvio a giudizio contro sei persone: erano i committenti, i costruttori, i progettisti, il direttore dei lavori, il collaudatore dell’edificio Panorama di via Petrile che era crollato non appena la terra aveva cominciato a tremare. Scoprimmo che, a sostegno di quell’edificio, erano state realizzate appena 170 travi, rispetto alle 568 previste, e che nessuno degli accorgimenti antisismici che la norma prevedeva, era stato realizzato. E che i responsabili del Genio civile di Avellino, che avevano l’obbligo di controllare, avevano invece sorvolato in collusione con i costruttori.

Furono condannati?

Alla fine di processi durati un’eternità, tra assoluzioni nel merito, prescrizioni e improcedibilità per morte degli imputati, la giustizia si arrese. La sentenza assolutoria stabilì che il terremoto era stato troppo forte e che gli edifici sarebbero caduti anche se fossero stati costruiti a regola d’arte. E quindi finì tutto lì. In un vuoto di giustizia. Un’offesa alle vittime.

Ma già allora vi occupaste anche della gestione dell’emergenza.

Ci toccò pure occuparci delle malversazioni dei primi fondi pubblici che arrivavano per la ricostruzione e venivano depredati e spartiti da pubblici amministratori e da loro complici. Lavoravamo giorno e notte. Era la nostra maniera per continuare a scavare, non a mani nude, ma con gli strumenti che la legge aveva messo nelle nostre mani.

Perché parla di salto di qualità della camorra?

Il momento di snodo fu quando la camorra diventò protagonista della cosiddetta ricostruzione. Quei 90mila miliardi denunciati dalla commissione parlamentare presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, che in buona parte finirono nelle tasche della camorra. Anche perché gli appalti del post terremoto con la scusa della ricostruzione furono allargati a tutta una serie di interventi, anche inutili, solo per fare soldi.

Nessuno si oppose?

Il sindaco di Pagani, Marcello Torre, fu ucciso un mese dopo il terremoto, il classico omicidio mafioso preventivo, perché si sapeva che sarebbe stato un ostacolo agli affari che la camorra intendeva fare. Così come l’assessore regionale Pino Amato, ucciso dalle Br col supporto della camorra, come nel 1982 il commissario Antonio Ammaturo. Omicidi commissionati ai terroristi ma in realtà voluti dalla camorra.

Lei ha più volte parlato di una trattativa tra Stato e camorra.

Ci fu la trattativa per la liberazione dell’esponente democristiano, Ciro Cirillo, assessore regionale ai Lavori pubblici, rapito dalle Br il 27 aprile 1981. Una trattativa tra lo Stato e le Br, mediata da Raffaele Cutolo, il capo della camorra. La strada della fermezza applicata per Moro non andava più bene. Cutolo fece fino in fondo la sua parte di mediatore.

In cambio di cosa?

Gli furono promesse cose che alla fine non ebbe. Cioè appalti alle sue imprese, e qualcosa lo ottenne. Voleva perizie favorevoli per sé e per gli affiliati, per essere scarcerati. E non le ebbe. In realtà voleva una legittimazione da parte dello Stato. Non l’ottenne. Nel 1982 intervenne il presidente Sandro Pertini e lo fece trasferire dal carcere ‘albergo’ di Ascoli dove faceva quello che voleva, all’Asinara. Tanti anni dopo mi disse ‘io per fare un’opera di bene sono finito all’Asinara’.

Ma altri clan ebbero molto…

Lo scontro tra cutoliani e anticutoliani fu proprio sulla gestione degli appalti del post terremoto. Su chi doveva tenere i rapporti con le pubbliche amministrazioni. Vinse la Nuova famiglia di Alfieri alleata coi ‘casalesi’ di Bardellino che già allora avevano un’imprenditorialità, un rapporto con la politica che gli altri clan non avevano ancora.

Antonio Maria Mira21 novembre 2020 AVVENIRE