MAFIA e LAVORO

 

 

Le storie di

LA STRAGE PIU’ LUNGA DELLA STORIA D’ITALIA  Allora cominciai a fare delle ricerche, sui giornali dell’epoca e negli archivi, e vennero fuori le prime biografie di Rizzotto e Verro e poi tutte le ricerche successive, che mi hanno portato a pensare che contro il movimento contadino e bracciantile è stata consumata una vera e propria strage, la strage “più lunga” della storia d’Italia, una strage al rallentatore, durata un secolo. ATTILIO BOLZONI


IL MASSACRO DEI SINDACALISTI  È una lunga strage quella dei sindacalisti uccisi dalla mafia. Una strage che inizia più di un secolo fa – nella seconda metà dell’Ottocento – e che continua subito dopo la seconda guerra mondiale. Da una parte i ricchi proprietari e i campieri che difendevano il feudo, dall’altra un popolo affamato che occupava le terre. Al fianco dei contadini e dei braccianti c’erano loro, i sindacalisti. Tutti bersaglio dei boss e dei possidenti. Una mattanza senza fine.

L’omicidio più famoso è stato quello di Placido Rizzotto, assassinato a Corleone da Luciano Liggio e dai suoi scagnozzi il 10 marzo del 1948. Ma chi è stato ucciso prima di lui? E chi, dopo di lui?

Chi erano Luciano Nicoletti e Andrea Raia? Quando avvennero i massacri di Caltavuturo e di Marineo? Perché vennero ammazzati Vincenzo Sansone e Filippo Intili?

Morirono davvero in tanti ma nessuno li ricorda o sa esattamente chi sono quei “tanti”, sono spesso solo nomi incisi su ceppi e lapidi.

Da oggi e per circa venti giorni sul Blog pubblicheremo alcune storie di queste vittime, tratte dal libro di Dino Paternostro scritto per Edizioni La Zisa. Titolo: “La strage più lunga. Un “calendario della memoria” dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento contadino caduti tra il 1893 e il 1966”.

Il libro di Paternostro scopre alcuni nomi di “vittime” che in realtà non erano tali. E’ un preziosissimo contributo. Contro l’approssimazione con la quale si compilano gli “elenchi” delle vittime delle mafie e sulla necessità di una rigorosa ricerca storica. Nel volume è inserita anche una corposa scheda su Pio La Torre, il leader del Partito Comunista italiano assassinato il 30 aprile del 1982 a Palermo. La sua battaglia contro la mafia era cominciata infatti nei latifondi della Sicilia più profonda, un Pio La Torre sindacalista che fu tra i primi a capire che la mafia non era solo coppola e lupara ma “un fenomeno di classe dirigenti”.   A. BOLZONI e F. TROTTA Blog Repubblica 


Quei sindacalisti nemici della mafia. di Silvia Giovanniello  Il Secondo Dopoguerra, in Italia, è stato il momento della difficile ricostruzione di un tessuto sociale, oltre che economico, lacerato da un conflitto armato e da venti anni di dittatura. Dopo aver combattuto contro il fascismo, la fame e la morte, i civili si sono ritrovati a contrastare un nemico altrettanto feroce e sicuramente più subdolo: la mafia.

Senza ancora il riconoscimento di una legge che prevedesse il reato di associazionismo mafioso – e neppure si voleva capire bene cosa fosse la “mafia” – i lavoratori hanno combattuto la criminalità organizzata solo con le proprie forze, pagando spesso con la vita il loro impegno per cambiare la società.

Solo in Sicilia si contano almeno 60 vittime di mafia tra i sindacalisti, bersaglio facile per la criminalità organizzata in un contesto assai arretrato fino agli anni Cinquanta. Prima ancora della conclusione del conflitto mondiale, però, si ipotizzava quella che sarebbe diventata qualche anno dopo la famosa “legge Gullo”, dal nome dell’allora Ministro dell’agricoltura del governo Badoglio, che avrebbe concesso sulla carta ai contadini riuniti in cooperative le terre incolte o mal coltivate degli agrari. Un provvedimento che, se per i contadini poveri e senza terre rappresentava quasi una rivoluzione, risultava certamente scomodo per i grandi proprietari terrieri, che vedevano così minati i propri possedimenti. Le cooperative contadine avviavano così le procedure per ottenere fondi incolti o mal coltivati, che restavano però prive di risposta dalle Commissioni preposte a esaminare le richieste.

Il padronato agrario, fascista e mafioso, non si limitava a negare i diritti dei contadini ostacolando il processo di acquisizione dei terreni; il 13 febbraio 1947 furono due i sindacalisti a cadere sotto i colpi della criminalità organizzata.

Vincenzo Sansone, da tutti conosciuti come Nunzio, insegnante di Lettere e militante comunista, era il fondatore e segretario della Camera del Lavoro di Villabate, in provincia di Palermo. Impegnato nella lotta per la riforma agraria, nel tentativo di riscattare i braccianti dalla miseria, con la sua attività riscuoteva consenso tra le masse: un affronto che la mafia non poteva certo tollerare. Il 13 febbraio 1947 Nunzio viene ucciso a colpi di fucile nella sua città, per aver “pestato i piedi” a qualche proprietario terriero. Lo stesso giorno, a Partinico, sempre nel palermitano, un’altra vittima si aggiunge al lungo elenco dei sindacalisti uccisi dalla mafia. Leonardo Salvia, come Nunzio, combatteva in prima fila per i diritti dei contadini e si batteva attivamente per la redistribuzione delle terre. Come Sansone, un personaggio scomodo, e perciò eliminato da una criminalità organizzata che voleva salvaguardare gli interessi del baronato agrario.

Sansone e Salvia, come molti altri prima e dopo di loro, erano lavoratori “che non si facevano i fatti propri”, che hanno pagato un prezzo troppo alto per la loro onestà e il loro coraggio. Eppure, proprio al sacrificio di questi uomini si devono conquiste importanti, come la scomparsa del latifondo, un contributo fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata che molti decenni dopo ha portato alla legge sul sequestro delle ricchezze mafiose.

Quelle di Nunzio Sansone, di Leonardo Salvia e di tutti gli altri sindacalisti uccisi dalla mafia nel tentativo di cambiare la società sono storie troppo spesso dimenticate, rimaste sepolte negli archivi giudiziari o perdute nel proseguo del tempo, senza il giusto riconoscimento. LA REPUBBLICA


Gli otto morti di Caltavuturo.Un gruppo di contadini di Caltavuturo non ebbe il tempo di dormire la notte del 19 gennaio 1893. Girò di casa in casa per convincere altri contadini a partecipare all’importante manifestazione del giorno dopo. «Ti raccomando, non mancare…», era la frase ripetuta a tutti a bassa voce. Poi le istruzioni: «Il segnale sarà il suono del corno: appena lo senti, mettiti in cammino. L’appuntamento è al Gorgo di S. Antonio, a ridosso di Terravecchia dal lato nord…». All’alba del 20 gennaio, si ritrovarono in centinaia ad occupare i 250 ettari di terra comunale, in contrada Sangiovannello. “Armati” di zappe, cominciarono a dissodare quella terra sognata da tempo, che l’amministrazione comunale aveva promesso, ma che mai aveva dato. Adesso era lì, davanti ai contadini, a portata delle loro zappe. «Vedremo se il sindaco Giuffrè continuerà a fare orecchie da mercante!», ripetevano come per incoraggiarsi a vicenda i contadini. In ogni angolo della Sicilia erano ormai nati i Fasci dei lavoratori. A Caltavuturo c’era una società operaia presieduta da Bernardo Comella, «che pare assumesse negli ultimi giorni del 1892 il nome di Fascio dei lavoratori». Non è certo che avesse già contatti col Fascio dei lavoratori di Palermo, anzi il prefetto di Palermo in una lettera del 29 gennaio 1893 respingeva con forza una tale ipotesi.

Quella mattina in contrada San Giovannello arrivò anche il tenente Guttalà, comandante del presidio militare di stanza in paese, con i suoi uomini, che cercò di convincerli a smettere e a tornare a casa. «State tranquilli – disse l’ufficiale – che l’amministrazione comunale ormai ha deciso di darvele queste terre. Tornate a casa tranquilli, che tutto si risolverà per il meglio». Parole inutili, perché i contadini nemmeno l’ascoltarono. Anzi, cominciarono a fischiare e a urlare contro la truppa. Per evitare che la situazione precipitasse, Guttalà e i suoi uomini si ritirarono e tornarono in paese. Poco dopo, un gruppo di dimostranti smise di zappare la terra e si recò davanti al municipio, per chiedere di parlare col sindaco. Fu risposto che il signor Giuffrè era ammalato e che nessun assessore era presente nella casa comunale. Dal balcone del municipio si affacciò, invece, il segretario comunale Antonino Oddo, che disse: «Picciotti, chi c’è carnivalata?». Una provocazione bella e buona, che irritò molto i contadini presenti, «che ben sapevano di quante usurpazioni era responsabile proprio lui», racconta il sacerdote Giuseppe Guarnieri. Ciò nonostante, i manifestanti si lasciarono alle spalle il municipio per tornare sui campi a zappare insieme ai loro compagni. Ma quest’ultimi, essendo ormai mezzogiorno, avevano sospeso di lavorare e stavano tornando in paese. Sulla via Vittorio Emanuele erano, però, schierati i soldati, i carabinieri e due guardie comunali, con l’intenzione di impedire che i due gruppi si ricongiungessero. Il tenente Guttalà ancora una volta cercò di convincere i contadini a disperdersi e a tornare nelle proprie abitazioni, ma qualcuno tra i manifestanti lanciò un sasso contro la truppa, che fece esplodere due colpi in aria. Gli spari, però, non intimidirono i contadini, che continuarono ad avanzare, lanciando altre pietre contro le forze dell’ordine. A questo punto, si udirono altri colpi, poi una fitta scarica di fucileria e diversi contadini caddero a terra in un lago di sangue. Otto contadini furono uccisi sul colpo, ventisei rimasero feriti, ma, di questi, tre morirono nei giorni successivi. Ecco i nomi dei caduti e la loro età: Giovanni Ariano di 54 anni, Giuseppe Bonanno di 28, Calogero Di Stefano di 22, Vincenzo Guarnieri di 18, Mariano Guggino di 45, Niccolò Iannè di 60, Giuseppe Modaro di 34, Giuseppe Renna di 30, che persero la vita all’istante; Francesco Inglese di 68 anni, Salvatore Castronovo di 43, Pasquale Cirrito di 17. «A dare inizio alla sparatoria fu, pare, secondo la testimonianza del figlio del segretario della società operaia, a Caltavuturo analogamente a quanto accadrà altrove, uno dei tipici strumenti della violenza di classe dei borghesi dei municipi, indicati come tali già dalle inchieste: la guardia municipale Peppe Fuante». Era il 20 gennaio 1893, il giorno di San Sebastiano. E infatti, «in un primo tempo, la popolazione, nell’udire gli spari, pensò che si trattasse di mortaretti fatti scoppiare in onore di San Sebastiano, ma ben presto fu chiara la tragica realtà di una inumana ed inutile strage, che poteva e doveva essere evitata», scrive ancora don Guarnieri.

I manifestanti rimasti illesi fuggirono sulle montagne, ma alle quattro di pomeriggio arrivò da Palermo una compagnia di fanteria, che scatenò una vera caccia all’uomo, arrestando parecchi contadini. I cadaveri rimasero sulla strada fino al pomeriggio del 21 gennaio, “presidiati” dalle forze dell’ordine, che impedirono ai familiari di avvicinarsi, ma non riuscirono ad evitare che i cani randagi ne facessero scempio.

Ma perché i contadini di Caltavuturo occuparono le terre di Sangiovannello? Quale diritto accampavano su di esse? Per capirlo, bisogna fare un salto indietro e tornare al 1812, l’anno in cui fu abolito il feudalesimo in Sicilia. Fino ad allora, per concessione reale, gli abitanti del paese avevano il diritto di recarsi sui feudi per raccogliere legna e verdura. Abolito il feudalesimo, invece, il duca di Fernardina, proprietario di oltre 6.000 ettari di terreno (più della metà dell’intero territorio comunale) provò ad impedire che la povera gente continuasse a fruire degli “usi civici”, suscitando le ire dell’intera popolazione. La “vertenza” durò anni, fino a quando non si raggiunse un accordo, in base al quale il duca si impegnava a cedere al Comune 250 ettari di terra in contrada Sangiovannello, in cambio della rinuncia agli “usi civici”. Purtroppo, i cittadini di Caltavuturo caddero dalla padella alla brace. Infatti, avuto il terreno del duca, l’amministrazione comunale doveva quotizzarlo e distribuirlo alla popolazione, che aspettava con ansia di venire in possesso di un pezzo di terra per sfamare la famiglia. Ma gli amministratori e i “quattro pezzi grossi” del paese rinviavano continuamente l’operazione. I primi perché aspiravano ad appropriarsene personalmente e i secondi perché erano interessati a tenere nella fame la povera gente, che così era costretta a restare manodopera a basso costo per le loro aziende.

Nell’autunno del 1892, i contadini erano tanto convinti che la distribuzione della terra ormai fosse imminente, che si erano preparati, mettendo da parte mezza salma di grano a testa, da utilizzare come semente. L’organizzazione di questa forma embrionale di movimento contadino fu incoraggiata da Bernardo Comella e Giovanbattista Vivirito, dirigenti della società operaia, che raggruppava alcuni artigiani, da cui poi sarebbe nata la sezione del Fascio contadino. Era già passata metà gennaio del 1893, ma il sindaco Giuffré e i suoi assessori non avevano ancora provveduto a dividere la terra, col rischio che anche per quell’annata agraria non si facesse più in tempo a seminarla. La sera del 19 gennaio si tenne un’affollata assemblea contadina per discutere sul da farsi. Alcuni erano dell’idea di fare subito una dimostrazione di forza, occupando Sangiovannello. Altri suggerivano, invece, di soprassedere ancora qualche giorno. A prevalere fu il parere dei “moderati”, ma, nottetempo, gli “intransigenti” si recarono di casa in casa e convinsero tutti a partecipare alla manifestazione dell’indomani mattina. «All’alba del 20 gennaio il contadino Muscarello al suono di un grosso corno chiamava a raccolta i contadini…». Del precipitare degli eventi ebbero sentore i caporioni del paese, che si organizzarono. Informarono l’esercito e i carabinieri, ma inviarono anche degli infiltrati tra i contadini. Probabilmente, la sassaiola contro militari e carabinieri fu iniziata proprio da questi, con l’obiettivo di costringere le forze dell’ordine a sparare. E c’è anche chi sostiene che i primi colpi non furono i militari a spararli, ma qualcuno “in borghese”.

L’eccidio di Caltavuturo ebbe vasta eco in tutta l’Isola e nel Continente. Si mobilitarono i fasci contadini, guidati dai dirigenti più prestigiosi, come Rosario Garibaldi Bosco, Bernardino Verro e Nicola Barbato, che promossero una colletta per aiutare le famiglie delle vittime, che «fruttava la somma di 2.600 lire che veniva consegnata con una particolare manifestazione ed un comizio tenuto a Caltavuturo il 23 aprile 1893». Fioccarono le interrogazioni parlamentari, tra cui quella di Napoleone Colajanni, che attaccò duramente il governo. Ma il fascio contadino di Caltavuturo ebbe vita breve, anche perché nel gennaio 1894 sulla Sicilia calò la repressione del governo Crispi, tutte le organizzazioni contadine furono sciolte d’autorità e i loro capi arrestati, processati e condannati da i tribunali militari. Solo alcuni anni dopo, una parte del feudo Sangiovannello fu distribuito ai contadini di Caltavuturo: un ettaro a testa del terreno peggiore. Poi fu il silenzio e, per un secolo, nessuno parlò più del giorno di San Sebastiano.

Furono tante le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei contadini di Caltavuturo assassinati nella strage del 20 gennaio. Una si svolse a Corleone il 29 gennaio, organizzata da Bernardino Verro, che scrisse il volantino: «Compagni! Alle ore 2½ p.m. di oggi una rappresentanza del “Fascio dei lavoratori” e della “Nuova Età” si porterà al Camposanto per deporre una ghirlanda di fiori in onore dei dieci martiri di Caltavuturo, saziati di piombo per aver chiesto pane e lavoro. Ogni socialista prenderà parte alla pia e mesta cerimonia, riflettendo che i caduti sotto la tirannica mitraglia erano poveri contadini e non ricchi banchieri o ladri senatori. Corleone 29 Gennaio 1893. Il Presidente: F.to Bernardino Verro».

A ricostruire dal punto di vista storico l’eccidio di Caltavuturo sono stati i saggi di F. S. Romano e di F. Renda, da noi ampiamente citati. Ad accendere i riflettori su di esso è stato, invece, il film del regista siciliano Pasquale Scimeca, “Il giorno di San Sebastiano”. Il lungometraggio venne presentato nel 1993 alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione “Vetrina del Cinema Italiano”, cento anni dopo la strage, e vinse il “Globo d’oro”. Insieme ai “Briganti di Zabut“ (1998) e a “Placido Rizzotto” (2000), quest’opera di Scimeca costituisce la “trilogia” che il regista originario di Aliminusa ha voluto dedicare al mondo contadino. «Lo sentivo come un dovere morale nei confronti degli umili, che pure hanno contribuito a fare la storia», ha detto Scimeca. «Abbiamo fatto un lungo lavoro di ricerca, per ricostruire una vicenda che a Caltavuturo, tranne quattro-cinque anziani contadini, non ricordava più nessuno», ha raccontato Rosario Calanni, direttore di produzione, che nel film ha impersonato “Saro”, uno dei contadini assassinati nella strage. «Per l’occasione – ha aggiunto – abbiamo anche rifatto la processione di San Sebastiano, che, per volontà dei padroni del paese, dal lontano 20 gennaio 1893 era stata abolita». L’annuale appuntamento della processione, infatti, richiamava l’intero popolo. E questo per “lorsignori” era da evitare, perché poteva far ricordare la strage e il dolore e la rabbia dei contadini. Cancellarla significò, quindi, evitare altre “tentazioni” alla rivolta. Meglio metterci una pietra sopra, dunque. E così è stato per cento lunghi anni. Il film di Scimeca ha avuto il merito di rompere quel silenzio. Negli ultimi anni un gruppo di giovani, animatori del circolo Arci “20 Gennaio”, in collaborazione con la Cgil e l’Arci, ha ricordato con cortei e dibattiti la strage di allora e il contesto in cui è maturata. LA REPUBBLICA  di Dino Paternostro


Aemilia: la lotta alla mafia passa anche per il lavoro del sindacato    “Non illudetevi, non è finito niente”. Antonio Valerio, pentito eccellente del clan di ‘ndrangheta cutrese Grande Aracri, da decenni solidamente impiantato a Reggio Emilia e dintorni, lo aveva detto esplicitamente al termine del mega-processo Aemilia. Che pure si concluse – nel primo grado del rito ordinario (ora è in corso l’appello) e con sentenza definitiva nel troncone in rito abbreviato – con centinaia di condanne a migliaia di anni di reclusione.

Da allora inchieste e processi, variamente scaturiti e intrecciati a quel filone principale di Aemilia, sono proseguiti senza tregua. Non solo in Emilia, anche nella bassa Lombardia e in Veneto.

Plotoni di arrestati, indagati, condannati, in parte per conclamata appartenenza alla consorteria mafiosa con il corredo tipico di incendi dolosi, violenze fisiche, minacce, estorsioni, usura. E in numero ancora maggiore per un ricco campionario di illegalità economiche e fiscali, nelle quali la ‘ndrangheta in salsa padana si è particolarmente specializzata, trovando sbocco in un ampio mercato di professionisti e imprenditori compiacenti, spesso non affiliati, ma assai disponibili ai “servizi” offerti dal clan mafioso.

L’ultimo (per ora) capitolo della lunga storia si sta scrivendo in questi giorni. E’ il secondo atto della operazione denominata Billions, che già due anni fa aveva portato in carcere alcune persone e molte di più al rinvio a giudizio. Adesso ci risiamo. Di nuovo – ad opera della polizia e della guardia di finanza, con il coordinamento della procura di Reggio Emilia – oltre duecento tra arrestati e indagati, nonché sequestri di beni per molti milioni di euro.

Nella rete sono finiti, insieme a personaggi già noti alla cronaca nera e giudiziaria, incensurati mediatori e prestanome, imprenditori e professionisti. In gran parte italiani, alcuni di nazionalità straniera. Molti di origine calabrese, ma anche tanti reggiani doc e altri residenti in varie parti d’Italia, che facevano riferimento a una decina di cellule territorialmente e gerarchicamente organizzate.

Tra i capi d’accusa, anch’essi centinaia, spiccano la frode fiscale, la bancarotta fraudolenta, il riciclaggio. In alcuni casi, per non farsi mancare nulla, c’è pure la

riscossione truffaldina del reddito di cittadinanza. Al momento, non è invece ipotizzato l’articolo 416 bis del codice penale (associazione di tipo mafioso), tuttavia i nomi di alcuni arrestati – già condannati in primo grado nel processo Aemilia, o in via definitiva per tentato omicidio durante una guerra di ‘ndrangheta avvenuta quasi trent’anni fa – rinviano direttamente a quel terreno di coltura.

Il tasto più dolente, comunque, è l’ennesima conferma di quanto siano vasti la ragnatela di illegalità nella vita economica e la conseguente evasione fiscale, quantificata soltanto per questa inchiesta in 24 milioni di euro, per un giro di operazioni fittizie e movimentazioni di denaro dieci volte superiore e ramificato in molte regioni.

Altra conferma è che Il territorio reggiano – un tempo incline all’illusione di avere sufficienti “anticorpi” grazie alla propria storia democratica e solidale – ha un ruolo notevole in quella ragnatela. Soprattutto nel business delle cosiddette società cartiere, che producono e smistano fatture false per operazioni inesistenti, con tornaconto economico sia per i gestori che per i beneficiari del traffico illecito.

Va per altro aggiunto, a parziale conforto, che a gettare luce su questa realtà sono proprio l’esperienza e la capacità nella azione di contrasto che magistratura e forze dell’ordine hanno maturato sul campo. Come ha sottolineato, venendo appositamente a Reggio, il direttore centrale anticrimine della Polizia di Stato, dott. Francesco Messina. E a proposito di apprezzamenti, questa volta un contributo è venuto anche dalle banche, attraverso la segnalazione alle autorità competenti di numerose operazioni sospette.

Un elogio per “il prezioso lavoro” degli inquirenti viene anche dai sindacati Cgil, Cisl e Uil dell’Emilia Romagna. “La criminalità organizzata, che sia oppure no di stampo ‘ndranghetista – dicono i sindacati – è ancora fortemente radicata nel nostro territorio, attraverso sofisticatissime capacità di frodare il fisco tramite un intricatissimo utilizzo di società fasulle create ad hoc.

Sono davvero impressionanti i capitali sottratti alla legalità e la capacità di fare soldi da parte di questi criminali senza scrupoli. Ed è molto grave che una parte malata dell’imprenditoria, anche con il concorso di professionisti, non abbia scrupoli a rivolgersi alla criminalità organizzata, a discapito dei tantissimi imprenditori onesti del nostro territorio”.

Che fare, allora, per non lasciare soltanto a magistrati e forze dell’ordine una battaglia così importante e complessa? I sindacati sollecitano una riflessione attenta e un più forte impegno sulla applicazione della normativa antiriciclaggio, sulla attuazione della vigilanza da parte del sistema bancario e del sistema fiscale, E propongono che la difesa della legalità sia “un punto centrale del futuro Patto per il lavoro e per il clima in corso di definizione da parte della Regione Emilia Romagna”.

Al di là di tutte le (sacrosante) misure preventive e repressive, resta naturalmente la questione di fondo: accrescere tra i cittadini la consapevolezza che questa partita non ammette spettatori neutrali, riguarda i loro diritti, la loro sicurezza e anche le loro tasche. Ovviamente mica solo a Reggio e in Emilia: in tutta Italia.  26 SETTEMBRE 2020|IN INCHIESTA|DI STEFANO MORSELLI STRISCIA ROSSA

 

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco