CALOGERO MANNINO e la TRATTATIVA STATO MAFIA

 

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QUANDO UOMINI DELLE ISTITUZIONI TRATTARONO CON COSA NOSTRA 


Calogero Mannino, detto Lillo, originario di Sciacca, si trasferisce fin da giovane nel capoluogo siciliano per sostenere gli studi universitari. Conseguita infatti la maturità classica nel giugno del 1957 e l’abilitazione magistrale nell’ottobre dello stesso anno, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Nel 1961 consegue la laurea, ma procede negli studi laureandosi anche in Scienze Politiche.  Tanti saranno i settori di interesse che vedono Mannino attivo fin da giovane: dirigente della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, presidente del Circolo ACLI, dirigente della CISL sia a livello provinciale (Agrigento) sia a livello regionale, avvocato e presidente dell’Associazione degli Avvocati di Sciacca. La carriera politica del giovane Mannino prosegue con l’elezione a consigliere comunale di Sciacca nel 1961 e di consigliere provinciale di Agrigento. Nel 1971 viene eletto deputato all’Assemblea regionale siciliana e, nel luglio dello stesso anno, diviene Assessore regionale alle Finanze rimanendo in carica fino al febbraio del 1976.[1] Nel 1976 è eletto deputato nazionale tra le file della Democrazia Cristiana nel collegio Sicilia occidentale, rieletto nel 197919831987 e 1992Nel 1979 viene eletto Vice Presidente del Gruppo Parlamentare alla Camera dei deputati. Nel luglio 1980, durante il Governo Forlani, viene nominato sottosegretario al Tesoro con il ministro Beniamino AndreattaNel luglio del 1981 entra a far parte del Governo Spadolini I come Ministro della marina mercantile. Nel dicembre 1982, con il Governo Fanfani V, diviene Ministro dell’agricoltura e delle foreste, rimanendo in carica fino al luglio del 1983. Quell’anno è nominato da De Mita commissario della DC siciliana. Nel 1987, durante il Governo Goria, torna al governo come Ministro dei trasporti. Nel marzo del 1988, con il Governo De Mita, viene nominato ministro per l’Agricoltura: viene confermato per il VI Governo Andreotti, ma nel luglio del 1990, insieme con Sergio Mattarella e ad altri ministri compagni di corrente, si dimette per dissenso nei confronti della Legge Mammì sull’emittenza televisiva. Torna però al governo, insieme con Martinazzoli e Misasi, che pure si erano dimessi, nel febbraio del 1991, nel VII dicastero Andreotti, nel quale viene nominato ministro per gli interventi straordinari del Mezzogiorno. Non è rieletto alle politiche del marzo 1994, dove si presentò al Senato con la lista civica “Scudo Democratico”. Dopo dodici anni di assenza dalla vita politica aderisce nel 2006 all’UDC e viene eletto senatore nella circoscrizione SiciliaNelle elezioni del 2008 viene eletto alla Camera dei deputati con l’UDC nella circoscrizione Sicilia 1, che si presenta al di fuori dagli schieramenti e si pone all’opposizione rispetto al Governo Berlusconi IV.  L’abbandono dell’UDC  A settembre 2010, insieme con i deputati meridionali Saverio RomanoGiuseppe DragoGiuseppe Ruvolo e Michele Pisacane, entra in polemica con il leader dell’UDC Pier Ferdinando Casini e il 28 settembre 2010 aderisce al Gruppo misto e fonda con loro la componente Popolari per l’Italia di Domani (PID).[2] I 5 deputati abbandonano quindi il ruolo di opposizione, per il quale erano stati eletti nell’UDC, e si schierano a sostegno della maggioranza parlamentare di centrodestra di Silvio Berlusconi; come primo atto votano la fiducia al Governo.[3] Mannino assume la presidenza del PID, mentre Romano ne diventa il coordinatore nazionale.[4] Il 14 marzo 2011 Calogero Mannino annuncia l’abbandono del partito per lavorare alla fondazione di Iniziativa Popolare. A detta di Mannino «il PID non ha mai preso consistenza. È stato purtroppo attraversato dalla conclusione della dolorosa vicenda giudiziaria di Totò Cuffaro, ma più ancora è stato riassorbito dall’esigenza di Berlusconi di organizzare un gruppo parlamentare per fronteggiare l’emorragia dei finiani». Questi giudizi vengono accompagnati dall’esigenza di un riavvicinamento all’UdC e all’MpA.[5] Il 14 ottobre 2011 Mannino afferma che non avrebbe mai più votato la fiducia al Governo Berlusconi IV[6]L’8 novembre 2011, è uno dei deputati della maggioranza che non vota il Rendiconto Generale dello Stato 2010 portando alla crisi del governo BerlusconiIl 17 gennaio 2012 aderisce come indipendente alla componente del gruppo misto “Repubblicani-Azionisti “, all’interno della quale rimane sino alla fine della legislatura. Non si ripresenta più alle elezioni politiche del 2013, ponendo fine al suo impegno politico.  Produttore vinicolo Calogero Mannino associa all’attività politica quella di produttore viti-vinicolo. A Pantelleria è titolare dell’azienda vinicola Abraxas, il cui prodotto principe è il passito naturale, che nel 1999 ha ricevuto la medaglia d’oro alla fiera Vinitaly. Nel dicembre 2012 l’azienda è fatta bersaglio di un attentato che provoca la perdita di 700 ettolitri di passito, in pratica le intere annate 2010-2011 e parte di quella 2012.[7]

Procedimento per rapporti con la mafia Nel 1991, sulla base delle dichiarazioni del pentito Rosario Spatola, il sostituto procuratore di Trapani Francesco Taurisano aprì un procedimento contro Mannino per rapporti con uomini d’onore, ma nell’ottobre dello stesso anno la procura di Sciacca, a cui erano state inviate le dichiarazioni, archivia il caso.[8] Taurisano denunciò delle pressioni da parte del procuratore Antonino Coci. Il CSM trasferì d’ufficio entrambi. Il 24 febbraio 1994 la Procura di Palermo avvia un’inchiesta nei suoi confronti con la notifica di un avviso di garanzia; viene arrestato il 13 febbraio 1995 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa: secondo l’accusa, poi rivelatasi insussistente, Mannino avrebbe stretto un patto con la Mafia per avere voti in cambio di favori. Dopo un periodo di detenzione (nove mesi di carcere e tredici di arresti domiciliari), durante il quale si mette in moto un’ampia mobilitazione sostenuta anche da una raccolta di firme per la scarcerazione motivate dalle sue precarie condizioni di salute, nel gennaio del 1997 viene rimesso in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare. Nel 2001 Mannino è assolto in primo grado perché il fatto non sussiste.[9][10][11] L’assoluzione viene impugnata dal pubblico ministero e la corte d’appello di Palermo, nel maggio 2003, lo riconosce colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa fino al 1994, e condanna Mannino a 5 anni e 4 mesi di reclusione. Nel 2005 la corte di cassazione annulla la sentenza di condanna riscontrando un difetto di motivazione, rinviando ad altra sezione della corte d’appello.[12] Nell’occasione il procuratore generale presso la corte di cassazione, nel chiedere l’annullamento della sentenza di condanna, così si esprime: “Nella sentenza di condanna di Mannino non c’è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c’è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta…”.[13][14][15][16]Il 22 ottobre 2008, riprendendo la sentenza di primo grado, i giudici della seconda sezione della corte d’appello di Palermo assolvono Mannino perché il fatto non sussiste.[17] La procura generale di Palermo in seguito impugna l’assoluzione, facendo ricorso in Cassazione.[18]Il 14 gennaio 2010, la corte di cassazione assolve definitivamente l’ex ministro democristiano, confermando le tesi contenute nella sentenza d’appello.[19]

Richiesta di risarcimento allo Stato da parte di Mannino Dopo l’assoluzione Mannino fa causa allo Stato chiedendo un risarcimento per ingiusta detenzione[20], ma nel maggio 2012 i giudici della Corte d’appello di Palermo rigettano la richiesta[21] in quanto Mannino è stato riconosciuto consapevole di ricevere appoggio elettorale da un boss mafioso.[22]

Processo sul coinvolgimento nella trattativa tra Stato e mafia È indagato nell’ambito della trattativa tra Stato e mafia.[23][24] Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, con il Pm Antonio Ingroia ha chiesto il rinvio a giudizio di Mannino e altri 11 indagati. In tale inchiesta Mannino è accusato di violenza o minaccia verso un corpo politico dello Stato. Nel 2012 Mannino chiede e ottiene di procedere al processo tramite rito abbreviato; la requisitoria è affidata ai pubblici ministeri Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi. Il 4 novembre 2015 il giudice dell’udienza preliminare di Palermo, Marina Petruzzella assolve Mannino dall’accusa a lui contestata per “non aver commesso il fatto”.[25] Sentenza di assoluzione confermata, in appello, il 22 luglio 2019.[26] wikipedia


PROCESSO TRATTATIVA, CASSAZIONE CONFERMA ASSOLUZIONE MANNINO Confermata dalla Cassazione l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, nello stralcio del processo sulla trattativa tra Stato e mafia. I giudici della sesta sezione penale di Piazza Cavour hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Palermo contro la sentenza pronunciata il 22 luglio del 2019 della Corte d’Appello che aveva scagionato l’ex esponente democristiano dall’accusa di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Mannino era stato già assolto in primo grado nel novembre del 2015.

Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione i giudici di secondo grado scrivevano che “non è stato affatto dimostrato che Mannino” fosse “finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”. I giudici di secondo grado sottolineavano inoltre come “la tesi della procura” fosse “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.      Adnkronos 11.12.2020


Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione i giudici di secondo gradopresieduti da Adriana Piras, scrivevano che “non è stato affatto dimostrato che Mannino” fosse “finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”. I giudici di secondo grado sottolineavano inoltre come “la tesi della procura” fosse “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

Nella ricostruzione dell’accusa, Mannino era il primo anello della trattativa: temendo per la sua incolumità, grazie ai suoi rapporti con l’ex capo del Ros Antonio Subranni, nel ’92, avrebbe fatto pressioni sui carabinieri perché avviassero un “dialogo” con i clan. In cambio si sarebbe adoperato per garantire un’attenuazione della normativa del carcere duro. L’ex ministro si è sempre difeso negando ogni coinvolgimento nelle vicende che gli sono state contestate.


Trattativa Stato mafia, confermata in Cassazione l’assoluzione dell’ex ministro Calogero ManninoL’ex ministro democristiano era accusati di violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato. Era stato assolto in primo e in secondo grado. I giudici della VI sezione penale di Piazza Cavour hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Palermo contro la sentenza pronunciata il 22 luglio del 2019 della Corte d’appello. Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione i giudici di secondo grado scrivevano che “non è stato affatto dimostrato che Mannino” fosse “finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”. I giudici di secondo grado sottolineavano inoltre come “la tesi della procura” fosse “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

La Suprema Corte ha accolto la richiesta del pg formulata con requisitoria scritta nei giorni scorsi di dichiarare inammissibile il ricorso della Procura generale di Palermo. È ancora in corso invece il processo d’appello per gli imputati che hanno scelto di essere giudicati con il rito ordinario. In primo grado gli imputati – tra cui Marcello Dell’Utri e l’ex generale del Ros Mario Mori – erano stati condannati.  IL FATTO QUOTIDIANO 11.12.2020

Trattativa, le motivazioni dell’assoluzione di Mannino: “Estraneo a tutte le contestazioni. Tesi dell’accusa illogica ed incongruente”

 

Il processo Mannino e le leggi che cambiano. Una risposta a Francesco Merlo che si chiede se sono i giudici a dover essere condannati  DI GIAN CARLO CASELLI. Su Repubblica del 15 dicembre Francesco Merlo si chiede:  “l’assoluzione di Mannino condanna i giudici che l’hanno inquisito?” .  Per il processo relativo al “concorso esterno in associazione mafiosa” ero io il “capo” degli inquisitori palermitani e quindi sarei io che dovrei subire il massimo della pena.  Senonché, gentile direttore, mi dichiaro… innocente. A  discolpa mia e dei colleghi della procura di Palermo che hanno lavorato sul caso chiedo di poter esibire come prova l’iter stesso del processo.  Che fu iniziato (com’era doveroso)  in base all’orientamento giurisprudenziale della Cassazione vigente in quel momento. Ma poi, annullando con rinvio la condanna inflitta a Mannino in appello, la Cassazione (Sezioni unite) operò una svolta. Se prima bastava provare l’esistenza di un patto tra mafia e accusato, fu deciso  di alzare l’asticella probatoria, richiedendo  anche la prova di un “ritorno” del patto in termini effetti­vamente e significativamente incidenti. In corso d’opera cambiano le regole: come se nel bel mezzo di una partita di calcio si stabilisse che per vincere bisogna segnare non uno ma quattro gol in più.

Qualcosa di simile a quanto successo col falso in bilancio: un’infinità di processi comincia perché il fatto è punito come reato ma poi  la depenalizzazione  cancella tutto. Dovremmo condannare anche  quel migliaio circa di giudici che sono stati obbligati ad assolvere? Tralasciando il fatto che la svolta del processo Mannino ha suscitato le critiche di garantisti doc come il prof Fiandaca, secondo il quale la magistratura di merito è stata messa di fronte “all’alternativa o di rinunciare a perseguire al­cuni casi di pur palese contiguità, ovvero di flessibilizzare in maniera anche surrettizia gli impegnativi criteri causali codi­ficati dalla pronuncia Mannino”. A questo punto, credo, potrei quanto meno chiamare in correità i magistrati della Cassazione. In ogni caso, invoco… la clemenza della corte.

Quanto poi alla tesi che “Andreotti non andava processato”, ne prendo atto. Ma vorrei ricordare  ancora una volta  che la cassazione ha confermato in via definitiva il dispositivo della  corte d’appello di Palermo, secondo cui l’imputato ha “commesso fino alla primavera del 1980” il reato ascrittogli. Soltanto la prescrizione ha impedito che al “reato commesso” seguisse l’altrimenti inevitabile condanna. Per cui non per Mannino  dovrei essere condannato, ma semmai per Andreotti: laddove non lo avessi inquisito per un “ reato commesso”.

La replica di Merlo

È sorprendente che un magistrato del rango e della carriera di Gian Carlo Caselli  si senta oltraggiato dall’innocenza di un imputato e senta il bisogno di difendersi e di assolversi. Sarebbe invece doveroso che usasse la sua brillante ironia e la sua polemica intelligenza per spiegarci la mostruosità del caso Mannino, la barbarie di un uomo non perseguito ma perseguitato e distrutto in nome della giustizia. Per ammetterlo non c’è neppure bisogno del famoso coraggio civile di Caselli, basta l’aritmetica: Calogero Mannino fu inquisito per la prima volta nel 1991 e, alla fine di una sfilata di processi e di imputazioni, l’ultima assoluzione, quella definitiva della Cassazione, è del dicembre del 2020.

Caselli scrive che “in corso d’opera  hanno cambiato le regole”. Ma non ci sono regole che in Italia durino più di trent’anni quali che siano le opere in corso, e l’innocenza di un uomo non è un’opera in corso. Peraltro non  è vero che sono cambiate le regole, come nell’esempio inappropriato del falso in bilancio, ma è soltanto cambiato un orientamento giurisprudenziale. Ed evidentemente questo nuovo orientamento non è stato condiviso dai magistrati  i quali, con accanimento, hanno infatti tenuto in vita i processi sino ad oggi.

Sicuramente nessuna Cassazione ha deciso che i mafiosi vanno assolti o che per vincere una partita di calcio non basti più segnare un gol. Ancora, io penso, confortato dai migliori storici e dai migliori scrittori d’Italia, che sia innegabile la contiguità che c’è stata tra la mafia e la Dc in Sicilia, o meglio ancora, l’innervatura dell’una nell’altra. Ma tra le mostruosità del caso Mannino c’è anche questo: la giustizia, proponendosi come tribunale della storia d’Italia, è riuscita a trasformare in un martire italiano un protagonista proprio di quella Democrazia cristiana. Caselli ne sente la responsabilità?

Infine, neppure l’ironia di Caselli riuscirà a coinvolgermi nel conflitto stantio e ormai insopportabile  tra il giustizialismo forcaiolo e il garantismo peloso. La verità è che anche questa lettera di Caselli conferma che Mannino non andava assolto perché non andava processato.La Repubblica 15.12.2020


Processo Stato-mafia, Mannino assolto in CassazioneE’ stata confermata dalla Cassazione l’assoluzione dell’ex ministro della Dc Calogero Mannino, difeso da Grazia Volo, nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. I supremi giudici della Sesta sezione penale hanno dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla Procura generale di Palermo contro il proscioglimento di Mannino, emesso dalla Corte di Appello di Palermo il 22 luglio 2019

Nel documento veniva rappresentata “un’eccezione di legittimità costituzionale” e si evidenziava la “manifesta illogicità della motivazione” quando la Corte d’Appello non ha tenuto conto dei “fatti rimasti accertati nel procedimento” in cui l’ex segretario regionale Dc fu assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa, ma che sarebbero comunque “indicativi di pluriennali rapporti con importanti esponenti mafiosi”.

Certo era difficile aspettarsi un esito diverso nel terzo grado di giudizio, specie nel momento in cui lo stesso Pg di Cassazione ha chiesto di dichiarare il ricorso, in cui si contestava la logicità e la conformità alla legge della sentenza d’appello, inammissibile. 

L’impianto accusatorio nei confronti di Mannino è noto così come il reato contestato disciplinato dagli articoli 338 e 339 del codice penale, ovvero violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Secondo l’accusa avrebbe dato lui il primo input, dopo l’omicidio Lima, al dialogo che, tramite i carabinieri del Ros, ha visto protagonisti pezzi delle istituzioni e mafiosi.

Il processo, in tre gradi di giudizio, ha visto l’assoluzione del politico Dc. 

Ovviamente già è iniziato il solito “battage mediatico” di commenti volto a minare il procedimento in corso in ordinario e che vede altri imputati, nonché ben altra mole di prove, acquisite anche nel corso dello stesso dibattimento. 

C’è chi parla di “persecuzione”, chi di “nuovo colpo alla tesi della trattativa”, chi di “storia politica falsata”, dimenticando che l’ex ministro, che era accusato di minaccia a Corpo politico dello Stato, è stato assolto, tanto in primo grado quanto in secondo, “per non aver commesso il fatto”, ovvero in base all’articolo del codice di procedura penale 530 comma secondo. Una formula che ricalca la vecchia assoluzione per “insufficienza di prove” e che viene applicata quando la prova del reato “manca, è insufficiente o è contraddittoria”. 

Ciò significa che il fatto esiste, che il “teorema trattativa” (così come lo chiamano i solidi denigratori) è tutt’altro che distrutto.

In attesa di leggere le motivazioni della sentenza appaiono comunque discutibili e illogiche alcune conclusioni a cui erano giunti i giudici di secondo grado.

La Corte d’Appello, infatti, nelle motivazioni della sentenza aveva affermato che “con certezza può escludersi che non ci fu alcuna ‘promessa tradita, collusione o contiguità mafiosa’ da parte di Mannino”.

Eppure, nel 2014, i giudici della Corte di Cassazione che respinsero la richiesta di risarcimento di Mannino per ingiusta detenzione avevano scritto nero su bianco che l’ex ministro Dc aveva “accettato consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (il boss Antonio Vella, ndr) e, a tale fine, gli aveva dato tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento”.

Nonostante il verdetto finale di assoluzione, ciò non significava che fosse stato arrestato ingiustamente. Ed anzi vale la pena ricordare che diversi riscontri “giustificavano, secondo la corte territoriale, il convincimento che il Mannino avesse consapevolmente intrattenuto rapporti con il mafioso Vella per motivi elettorali e avesse, in particolare, accettato che costui divenisse un suo procacciatore di voti, con l’effetto di ingenerare nella mafia agrigentina la convinzione che egli fosse soggetto disponibile per gli interessi dell’organizzazione”.

Senza considerare che la storia processuale dell’ex ministro Dc ha attraversato anche il cambio che la Cassazione diede sul concorso esterno.

Lo aveva ben spiegato l’ex magistrato Gian Carlo Caselli, nel 2015, ricordando come fosse “un dato di fatto che all’assoluzione di Mannino (del 2005, ndr) si arriva perché la Cassazione – a processo in corso – modifica il proprio orientamento rispetto a quello vigente all’inizio del processo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Mentre prima per il delitto di concorso esterno era sufficiente provare l’esistenza di un patto tra mafia e accusato, col nuovo orientamento la Cassazione richiede anche la prova di un ‘ritorno’ del patto in termini di effetti favorevoli all’imputato”.l

Ma di questo, ovviamente, nessuno tiene conto e così si continua a parlare della persecuzione nei confronti di Mannino.

Alquanto grave, poi, è l’intervento a gamba tesa dei giudici di secondo grado sul processo che si sta celebrando in appello, con il rito ordinario. 

Gli stessi giudici, infatti, hanno espresso pareri sulla sentenza della Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto che condannò i boss mafiosi (Leoluca Bagarella, Antonino Cinà), gli ufficiali del Ros (Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno), ed i politici (l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri). Considerazioni assurde nel momento in cui, in quel dibattimento, gli argomenti sono stati approfonditi con un’istruttoria molto più lunga e pregnante.

Gravità ancor più grande nel momento in cui la Corte d’appello è andata oltre il ruolo dell’imputato Mannino (oggi assolto definitivamente) valutando anche le posizioni degli altri coimputati e addirittura affermando che Paolo Borsellino sarebbe stato a conoscenza dei contatti tra Vito Ciancimino ed i carabinieri. Un dato che neanche gli ufficiali del Ros hanno mai rappresentato nei procedimenti aperti nei loro confronti.

I commenti. La sentenza è stata ovviamente commentata da Mannino che ha parlato di “lunga via crucis durata trent’anni” e di “ossessioni di certi pm” (come se l’accertamento della verità dei fatti non fosse anche un proprio interesse).   Diametralmente opposta la considerazione dell’ex pm Antonio Ingroia, oggi avvocato, che avviò l’inchiesta sulla trattativa. “Leggeremo le motivazioni dell’assoluzione definitiva di Calogero Mannino, ma vorrei dire subito che il giudizio abbreviato è un’altra storia. Perché i giudici non hanno avuto la possibilità di sentire direttamente le fonti di prova e farsi un’idea – ha commentato all’Adnkronos -. Rivendico di avere per primo aperto il processo Trattativa e poi di averlo portato avanti fra gli scetticismi dei miei superiori del tempo e i fatti mi hanno dato ragione: condanna di tutti gli imputati alla fine del dibattimento di primo grado quando i giudici hanno potuto sentire dal vivo le fonti di prova e si sono fatti un’idea”. Infine ha concluso: “La vicenda giudiziaria di Mannino, parallela al processo principale, è stata condizionata dal giudizio negativo sull’attendibilità di Massimo Ciancimino che i giudici della corte d’Assise di Palermo sono riusciti a tenere ben distante dal giudizio sulla colpevolezza degli imputati, comunque riconosciuta a prescindere dai dubbi su Ciancimino. Nel processo Mannino così non è stato. E questo è il risultato finale, inevitabile”. 

Ogni commento ulteriore risulta superfluo e sullo sfondo resta l’amarezza per l’ennesima assoluzione di un ex potente. La fotografia di uno Stato che la verità sugli anni delle stragi non la vuole raggiungere. ANTIMAFIA DUEMILA 11.12.2020 ARON PETTINARI


Mannino, il recordman della giustizia italiana: 15 assoluzioni in 25 anni. “Mai citata l’amicizia con Falcone per difendermi”. La decisione della Cassazione nel processo “Trattativa Stato-mafia” chiude un lungo iter giudiziario. L’ex ministro: “Non si dovrebbe attendere così tanto per avere giustizia”. Quindici assoluzioni in 25 anni di processi. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino è entrato oggi nel guinness dei primati della giustizia italiana. L’ultima assoluzione, oggi, della Corte di Cassazione, nel processo in abbreviato per la “Trattativa Stato-mafia”, che pure ha visto delle condanne pesanti col rito ordinario per altri autorevoli rappresentanti dello Stato: gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, accusati di aver intavolato un dialogo segreto con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. L’accusa sosteneva che Mannino si sarebbe rivolto ai carabinieri dopo le minacce della mafia. E che i mafiosi avrebbero cambiato obiettivi da eliminare: non più i politici, ma i magistrati come Falcone e Borsellino. Tesi spazzata via in tutti i gradi di giudizio.

Prima ancora, Mannino era stato assolto anche dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, processo per cui era finito in carcere. Assoluzione pure nel processo per la Tangentopoli siciliana. E nel processo per le misure di prevenzione. Oggi, Mannino parla di “via crucis”: «In un paese civile nessun imputato dovrebbe aspettare un periodo così lungo per essere assolto. Venticinque anni sono davvero tanti, troppi. Il mio impegno nella vita politica è stato interrotto. Il tema della giustizia resta centrale nel nostro Paese». Mannino parla comunque di “giudici liberi”. Resta però l’amarezza: «Da assolto ho già scontato una pena troppo lunga», dice. In carcere ci restò per nove mesi, altri tredici li trascorse agli arresti domiciliari. Alcuni pentiti parlavano delle “amicizie pericolose” di Mannino. Ma alla fine del processo arrivò la prima assoluzione, “perché il fatto non sussiste”.  E quando in Cassazione arrivò invece la pronuncia di altri giudici, questa volta di condanna, il procuratore generale ribadì: “Nella sentenza di condanna di Mannino non c’è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c’è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta”. Per una condanna non bastavano le voci, non bastavano i de relato dei pentiti, non bastavano neanche le frequentazioni con personaggi equivoci.

I giudici d’appello del processo Trattativa sono andati anche oltre, riscrivendo la narrazione della figura di Mannino che emergeva dai verbali dei pentiti: “Non è stato affatto dimostrato – hanno scritto – che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”.

Mannino uomo dei record per le assoluzioni. Ma ne ha battuto anche un altro di record fra gli imputati di mafia: non ha mai citato l’amicizia con Giovanni Falcone o con altre vittime eccellenti della mafia per difendersi. Mai. Solo di recente ha raccontato in un’intervista all’AdnKronos: “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si ritrovò me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore, ma anche al Csm, e voleva andare all’Onu, a Vienna. Cossiga lo fermò e gli disse che doveva continuare ad occuparsi di mafia”. Ma neanche questa volta Mannino ha parlato del rapporto di amicizia con il giudice Falcone per sostenere le ragioni della sua difesa. 11 DICEMBRE 2020. di Salvo Palazzolo LA REPUBBLICA


 L’ASSOLUZIONE DELL’EX MINISTRO MANNINO: “TESI DEI PM INFONDATA E ILLOGICA”  Le motivazioni della corte che ha assolto anche in appello l’ex esponente democristiano. “Non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”. Lo dicono i giudici della prima sezione penale della Corte di appello di Palermo – presidente Adriana Piras, Maria Elena Gamberini relatrice – nelle motivazioni della sentenza del 22 luglio scorso con cui hanno confermato l’assoluzione dell’ex ministro Dc, Calogero Mannino, accusato di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato.

“Insomma, indimostrato il dato fattuale, la tesi della procura con riguardo alla posizione del Mannino (in ordine all’input della trattativa ed allo specifico segmento della veicolazione da parte sua della minaccia allo Stato attraverso il Di Maggio) si appalesa non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare”, scrivono i giudici. Mannino, 80 anni, che aveva scelto il rito abbreviato, era stato già assolto in primo grado a novembre 2015 dal gup Marina Petruzzella. L’assoluzione in secondo grado era stata emessa a luglio scorso. Ieri il deposito delle motivazioni da parte del collegio presieduto da Adriana Piras, giudice relatrice Maria Elena Gamberini. “Dunque, neppure il contesto in cui la Pubblica Accusa ha inserito la condotta, indimostrata, del Mannino, si attaglia – sostengono i giudici – alla configurazione dell’illecito penale per come contestatogli, prestandosi, come ogni macro evento storico, a chiavi di lettura opinabili, certamente inidonee ad offrire interpretazioni inequivocabili che garantiscano quella certezza, al di la di ogni ragionevole dubbio, richiesta invece dal giudizio penale di responsabilità personale”.
Mannino aveva scelto il rito abbreviato nel processo clone di quello principale, sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, in cui la Corte di assise, nel maggio 2018, ha condannato a 12 anni di carcere l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni; stessa pena per Antonino Cina’, medico e fedelissimo di Toto’ Riina; 8 anni di reclusione per l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno e 28 per il boss Leoluca Bagarella; 8 anni per Massimo Ciancimino (per la calunnia all’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro). “Pacifiche e pubbliche, poi, le minacce subite dal ministro Mannino – prosegue la Corte nel capitolo dal titolo ‘La valutazione complessiva della tesi dell’accusa, sotto il profilo fattuale e sotto quello logico’ – il suo timore e l’attivazione di tutte le forze di pubblica sicurezza e di intelligence dello Stato italiano a tutela della sua persona, ivi compreso il Ros (dei Carabinier, ndr) e i servizi segreti, cui lo stesso ebbe pure a rivolgersi, cio’ non di meno e’ rimasto parimenti indimostrato che tali contatti, per nulla occulti, fossero finalizzati all’avvio di una trattativa con Cosa nostra”.


Mannino,assoluzione? Sentenza monumentale. “Grande stampa è venuta meno a dovere informazione”

“Andando a leggere questa sentenza gigantesca, non per il numero delle pagine ma per la dimensione intellettuale e morale della ricostruzione di fatti e circostanze, dell’interpretazione corretta dei fatti, si ha proprio la convinzione che finalmente c’è un atto giudiziario sul tema, anche se per quanto mi riguarda, tutti gli atti giudiziari precedenti erano stati sentenze di assoluzione”. Lo dice in un’intervista al sito LiveSicilia l’ex ministro Calogero Mannino commentando le motivazioni della sentenza d’appello che lo aveva assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato.

L’ex politico, assolto anche in primo grado, era stato processato in uno stralcio del procedimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

  Mannino specifica di essere stato assolto “dall’accusa dl 416 bis quattro volte, più assolto nelle misure di prevenzione relative, sia ad Agrigento sia alla Corte d’appello di Palermo, e sono sei. Due assoluzioni nel processo della tangentopoli siciliana. Due sulla trattativa e son dieci. Due al tribunale dei ministri e sono dodici”. “Tutti i processi secondo me – aggiunge – denotano una volontà specifica di qualche pubblico ministero di mettermi sotto accusa ad ogni costo. Questa sentenza, ad esempio, parla di assoluta illogicità, non solo di infondatezza, si parla di accuse incongruenti. Un errore giudiziario che si ripete e che si amplifica”.

  Sul possibile ricorso in Cassazione da parte dell’accusa Mannino dice: “La procura generale di Palermo potrà andare anche in Cassazione. Per quel che mi riguarda, non credo che ci siano problemi, dopo due assoluzioni. Poi, se vogliono fare risparmiare soldi allo Stato, visto che ne hanno sprecati così tanti… La sentenza di primo grado era di 800 pagine, ora 1.245 pagine, questi giudici hanno dovuto esaminare una quantità di carte infinite. E lo hanno fatto con estremo scrupolo, ripeto, questa è una sentenza monumentale

“. Sulla frase avere “fiducia nella magistratura” l’ex ministro spiega: “È una frasetta ipocrita. Sui grandi giornali nazionali, non c’è notizia di questa sentenza. Giornali che hanno riservato pagine intere all’accusa stanno venendo meno al dovere dell’informazione. E questo è determinato da questo combinato circuito mediatico-giudiziario che è un problema politico grave, serio, che un giorno questo Paese dovrà affrontare. Io vedo un ruolo sussidiario di certa stampa rispetto alle azioni giudiziarie” ANSA 16.1.2020


La lezione Mannino: la storia non l’hanno mai scritta i giudici L’ipotesi della trattativa è labile. Altrettanto labile l’ipotesi della strage di via D’Amelio come conseguenza. Calogero Mannino aveva 52 anni ed era ministro del Mezzogiorno quando fece il suo ingresso nel magico mondo degli indagati e degli imputati e dei detenuti in attesa di giudizio, e ne ha 81 oggi che ne esce, definitivamente, assolto per la millesima volta. Ventinove anni a disposizione o sotto sequestro della magistratura sono un tempo che avrebbe ispirato a Solženitsyn qualche pagina sul tono di quelle dedicate alle sclerotiche istruttorie staliniste dell’Arcipelago Gulag, ma le considerazioni sull’indegnità di uno Stato sedicente di diritto, in costante abuso di forza e di potere, in boriosa e castale inosservanza del patto sociale, sembrano ai più una questione di molto laterale, non il cuore del funzionamento di una democrazia basata sull’uguaglianza dei cittadini e sulla loro intangibilità, fino a prova contraria e in tempi ragionevoli. Passano come una difesa del blasone, e di questo o quello, stavolta di Mannino. E infatti non è tanto di Mannino o solo di Mannino che bisognerebbe parlare, ma di quanto la vicenda di Mannino insegna sul rapporto fra i poteri, e sulla totale intangibilità di un potere, il giudiziario, di impadronirsi per decenni della vita di un uomo – oggi Mannino, domani io, dopodomani tu – con una specie di silente e pressoché plebiscitario salvacondotto della politica, della stampa e dei cittadini. Una tacita approvazione che stabilisce il disinteresse per la nostra democrazia liberale e dunque la sua bancarotta.

Non mi aspettavo che un caso così sesquipedale aprisse, come piace dire, una riflessione. E non me lo aspetto ora – me lo sarei aspettato dieci o venti anni fa, ora non me lo aspetto più. E’ saltata qualsiasi logica, qualsiasi prudenza, qualsiasi sensibilità, è una dissennata rinuncia al Diritto – mentre si invocano diritti – in cambio dell’estasi della punizione e dell’ordalia. La perfetta e tribale logica della vittima sacrificale e purificatrice.

Ora torno a Mannino, ma pensate all’incredibile gestione del caso dell’uxoricida di Brescia, assolto non per gelosia, come è stato sostenuto ovunque (assolto per gelosia è dizione inesistente nei codici), ma perché incapace di intendere e di volere. E assolto non significa pacca sulla spalla, vai e ammazza tranquillo, significa ricovero coatto e indeterminato in case di cura. Come ha scritto qui Giorgio Varano, alla perizia della difesa dell’assassino, persuasa dell’incapacità di intendere e di volere, l’accusa ne ha richiesta una propria, ed è andata allo stesso modo: incapace di intendere e di volere. Nonostante la doppia indicazione scientifica, la procura ha chiesto comunque l’ergastolo, e la corte d’Assise ha sentenziato: incapace di intendere e di volere. Ha prevalso la collettiva sete di punizione e di ordalia, cioè lo scandalo per l’omicida assolto. Non era la storia di un (ex) potente democristiano, era la storia drammatica di un povero spostato e della sua povera moglie ammazzata.

Fra i pochi commenti dedicati all’assoluzione di Mannino, mi ha colpito quello di Attilio Bolzoni, valoroso cronista di Repubblica, di cui ancora ricordo l’articolo vibrante di rabbia e commozione in racconto della macelleria di Capaci, macellati Giovanni Falcone, moglie e scorta. Ieri sosteneva che, quando si scrive la storia della mafia, non ci si può più affidare alla magistratura. Nel mio angoletto, lo penso da sempre. Toglierei quel “più”, toglierei anche “mafia” e scolpirei nel marmo quel che resta: quando si scrive la storia non ci si può affidare alla magistratura. La storia la scrivono gli storici. La magistratura scrive le sentenze. Le sentenze sono un elemento della miriade cui lo storico attinge. Fine.

All’inizio degli anni Novanta, la classe politica su cui si era poggiato il paese per il mezzo secolo scarso successivo alla Seconda guerra mondiale – Dc e alleati di centrosinistra, socialisti, liberali, repubblicani, socialdemocratici – mostrava il fianco. Erano stati decisivi (con i comunisti) nella stesura della Costituzione antifascista e antitotalitaria, sulla Costituzione avevano fondato l’alleanza con le democrazie occidentali, avevano ricostruito il Paese, lo avevano reso ricco e moderno, ma il nuovo mondo successivo al crollo del blocco sovietico li aveva colti impreparati. Nasceva il web, nasceva Schengen, nasceva la competizione globale, e la nostra classe dirigente, da mezzo secolo salda sulla scialuppa americana, in quel mare non sapeva nuotare. Sarebbe stata sostituita da nuove formazioni politiche con nuove idee, e invece le grandi inchieste del 92-94 furono incaricate di fare piazza pulita e di stabilire la verità storica: che il pentapartito era corrotto al Nord e mafioso al Sud. C’era del vero, ma non era la verità storica. La verità storica, per come l’ho imparata io, è che un ciclo era finito e la disinvoltura corruttiva era il sintomo dell’aggravarsi della malattia. La verità storica non la redigono i giudici ma tantomeno la redigono le procure, e per anni si sono spacciate non le sentenze ma addirittura le inchieste – col loro addobbo di retorica salvifica – per verità storica, col risultato di cancellare i meriti della democrazia italiana e di concedere a tutti noi il ridicolo alibi: dopo anni di vacche grasse eravamo ridotti a pane e non sempre companatico perché la casta ci aveva rubato i soldi ed era interamente mafiosa. Lo stile di vita di un intero popolo – dedito all’assenteismo, all’assistenzialismo, all’evasione fiscale – derubricato a effetto collaterale. La responsabilità collettiva di un popolo nei destini del suo Paese, dimenticata. Piuttosto comico.

Per concludere, più nei dintorni di Mannino, la sua ultima assoluzione attiene al ruolo, che non ebbe, nella trattativa Stato-mafia. La verità storica raccontata da quasi trent’anni di inchieste, è che Paolo Borsellino fu fatto saltare in aria perché alla trattiva si opponeva. Venne arrestato un rubagalline (Vincenzo Scarantino), raccontato come un mafioso di rango, torturato, costretto a parlare, e sulle sue deposizioni si costruì un processo concluso con dovizia di ergastoli, e successivamente, in un’altra sentenza, chiamato “il più colossale depistaggio della storia della Repubblica italiana”. A distanza di anni, infatti, saltò fuori un altro pentito, Gaspare Spatuzza, stavolta spontaneo, con un racconto lineare e verificabile, e il primo processo venne cancellato: gli ergastolani liberati. La teoria che Borsellino fosse stato ammazzato per l’ostilità alla trattativa si indebolì, e ora si fa quasi inconsistente, stabilito che alla trattativa Mannino non prese parte, e l’ipotesi della trattiva perde ulteriore vigore.

Ecco, l’ipotesi della trattativa è labile. Altrettanto labile l’ipotesi della strage di via D’Amelio come conseguenza alla trattativa. E allora perché Borsellino morì? E perché si cercò di darne una spiegazione con un processo rinominato “più colossale depistaggio della storia della Repubblica italiana”? Chi ingannò e chi si lasciò ingannare? Che parte ebbe la polizia? Quale parte la magistratura? Chi e perché voleva morto Borsellino? Da chi fu coperto? Forse un giorno avremo un’accettabile verità processuale. Forse. Forse, fra molti anni, avremo anche una verità storica, scritta da uno storico lontano dalle nostre implicazioni emotive, e libero dalla minaccia ritorsiva di un potere giudiziario in costante abuso di forza e di potere. MATTIA FELTRI HUFFPOST 12.12.2020


Calogero Mannino, inammissibile il ricorso. Per la giustizia è assolto.La Cassazione, considerando inammissibile il ricorso presentato dai procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, ha sigillato la sentenza di assoluzione. L’accusa nei sui confronti si rifaceva all’articolo 338 del codice penale, ovvero “minaccia a corpo politico dello Stato”. Si tratta della stessa accusa che è stata fatta nei confronti degli ex ufficiali dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, così come nei confronti dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Per Mori, De Donno e Dell’Utri, in questo momento, si sta celebrando il processo d’appello

I giudici della VI° sezione penale hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Palermo contro la sentenza, pronunciata il 22 luglio del 2019 della Corte d’Appello, che aveva scagionato Calogero Mannino, ex esponente della Democrazia Cristina dall’accusa di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Confermata quindi, dalla Cassazione, l’assoluzione dell’ex ministro nello stralcio del processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Calogero Mannino era stato già assolto in primo grado nel novembre del 2015.

Si conferma quindi quando già evidenziato e motivano nella sentenza di assoluzione i giudici di secondo grado.

Nelle motivazioni i giudici scrivevano che “non è stato affatto dimostrato che Mannino” fosse “finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute, ad esempio quella del buon esito del primo Maxiprocesso ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno“.

Sottolineavano inoltre come “la tesi della procura” fosse “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti“.

L’ex ministro Dc Calogero Mannino ha così commentato: “E’ riconosciuta la mia estraneità alla cosiddetta trattativa Stato-mafia ma soprattutto è ricostruita la lunga fase della mia vita politica dal 1979 al 1992 che è stata caratterizzata da un impegno di contrasto alla criminalità e dalla piena mia adesione alla linea che lo Stato andava apprestando per affrontare il problema della mafia”. “Mannino – aggiunge – doveva essere ucciso perché aveva lottato la mafia: questo è il passaggio decisivo della ricostruzione che la sentenza della corte d’appello ha fatto. La resistenza opposta dai magistrati della Procura generale di Palermo è stata priva di consistenza sul piano fattuale e ancor più immotivata se non artificiosa e pretestuosa sul piano del diritto”.

La Cassazione, considerando inammissibile il ricorso presentato dai procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, ha sigillato la sentenza di assoluzione. L’accusa nei sui confronti si rifaceva all’articolo 338 del codice penale, ovvero “minaccia a corpo politico dello Stato”.

Si tratta della stessa accusa che è stata fatta nei confronti degli ex ufficiali dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, così come nei confronti dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Per Mori, De Donno e Dell’Utri, in questo momento, si sta celebrando il processo d’appello.  Calogero Mannino è l’unico degli imputati del processo sulla Trattativa Stato-mafia ad aver scelto il rito abbreviato. WORDNEWS 13.12.2020


Stato-Mafia: la consapevolezza di Mannino e le prove di Riccio  Nella sentenza sulla trattativa l’ulteriore conferma della ricostruzione dei Pm. E’ inequivocabile il titolo del capitolo 35: “L’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Michele Riccio. Dopo interi decenni di attacchi scomposti nei confronti dell’ex ufficiale dei Carabinieri che ha combattuto le Br al fianco del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, arriva un’ulteriore conferma dell’onestà delle sue dichiarazioni. Che – per la loro imponenza – avevano già portato scompiglio all’interno dell’Arma dei Carabinieri e in determinati Palazzi della Repubblica. La mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso (Pa) nel 1995? Riccio aveva raccontato di una “non volontà” da parte del Ros a catturare il superlatitante e soprattutto di una “sconcertante inefficienza” da parte di chi stava coordinando l’operazione e cioè Mario Mori. Per comprendere l’importanza storica delle dichiarazioni di Michele Riccio basta ripartire dal significato dell’omicidio del Maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, avvenuto il 4 aprile 1992. “Non può essere dubbio – si legge nel documento – che l’uccisione del M.llo Guazzelli, possa avere accresciuto nello stesso Gen. Subranni la sensibilità verso i temi della sicurezza di persone a lui in qualche modo e a vario titolo vicine e possa, quindi, averlo indotto ad assumere, sollecitare o avallare quell’iniziativa dei suoi subordinati Mori e De Donno finalizzata ad instaurare una interlocuzione con i vertici mafiosi”. Per i Giudici si tratta di “una conferma” che “seppure di carattere logico-deduttivo, si fonda su dati di fatto accertati e su una valutazione complessiva degli stessi”. Una “conferma” che giunge “anche da una annotazione rinvenuta sulle agende del Col. Riccio a proposito di una confidenza che il collega Sinico (Umberto, ndr) ebbe a fargli”.

Quelle confidenze di Luigi Ilardo che il Ros non voleva  “Sin dai primi approcci – scrivono i Giudici – e sino al 2 maggio 1996, lo scopo perseguito dal Riccio e condiviso da Ilardo fu, prima di dare corso in una fase successiva alla collaborazione con la Giustizia, quello di pervenire alla cattura di latitanti dell’associazione mafiosa ‘Cosa nostra’, tanto che, in effetti, vennero in sequenza individuati e arrestati, sulla scorta delle indicazioni del medesimo Ilardo, numerosi latitanti di primo piano”. Poi però viene sottolineata una gravissima anomalia da parte del Ros: “è del tutto evidente che le informazioni fornite dal confidente che consentirono di pervenire a quei risultati giammai furono trasfuse in informative di reato (l’unica ‘informativa’ fu redatta in data 11 marzo I996 ad uso esclusivamente interno del R.O.S.) e, quindi utilizzate nell’ambito di un qualsiasi procedimento penale, prima del rapporto c.d. ‘Grande Oriente’ del 30 luglio 1996, sul punto della ricerca dei latitanti pressoché meramente riepilogativo”. “Neppure le informazioni fornite dall’Ilardo riguardo all’incontro di Mezzojuso – si legge nella sentenza – cui avrebbe partecipato Provenzano, furono in alcun modo utilizzate dal R.O.S al quale le informazioni medesime erano pervenute tramite il Col. Riccio, in quel frangente e per molto tempo ancora, per indagini a carico dello stesso Ilardo ovvero dei soggetti da questi indicati in quel contesto non ancor procedimentale”. Ed erano state proprio le dichiarazioni di Luigi Ilardo sui mandanti esterni delle stragi del ’92 e del ’93 a terrorizzare i vertici dell’Arma (e non solo). Con dovizia di particolari Michele Riccio aveva spiegato che Ilardo era stato alquanto esplicito quando aveva dichiarato a Mario Mori: “Molti attentati che sono stati addebitati esclusivamente a Cosa Nostra, sono stati commissionati dallo Stato e voi lo sapete”. Il col. Riccio aveva ribadito quindi l’indicazione avuta dallo stesso Ilardo su Marcello Dell’Utri quale persona di riferimento di Cosa Nostra nel periodo in cui era stato deciso di appoggiare la nascente Forza Italia. Dietro le quinte era rimasto il ruolo ibrido della Massoneria “deviata” e di tutte quelle entità esterne a Cosa Nostra che il confidente aveva avuto modo di conoscere. Poi però Ilardo era stato assassinato dopo che una “talpa” istituzionale aveva fatto trapelare la sua decisione di diventare collaboratore di giustizia. La sentenza del 19 luglio scorso pone quindi un punto fermo sul granitico valore delle dichiarazioni di Michele Riccio. Dichiarazioni così esplosive da contribuire a distruggergli la carriera, segnando profondamente la sua vita privata. In un altro Paese Riccio avrebbe ricevuto encomi solenni per il suo coraggio e la sua abnegazione a favore della verità e della giustizia. In un altro Paese, appunto.

L’ombra di Calogero Mannino. E’ un’immagine ibrida quella dell’ex ministro democristiano che traspare dalle pagine della sentenza. Poco importa la sua assoluzione al processo in abbreviato sulla trattativa Stato-Mafia del 4 novembre 2015. E’ un percorso fatto principalmente di logica, buon senso e riscontri oggettivi quello intrapreso dalla Corte d’Assise. Esattamente ciò che era mancato nella sentenza del Gup Petruzzella, che gli stessi pm avevano definito “percorsa da un singolare furore demolitorio”.

“Tornando temporalmente alla prima metà dell’anno 1992 – scrivono i Giudici – possono ritenersi effettivamente provati tanto il timore (se non il terrore) di Calogero Mannino, subito dopo l’uccisione di Salvo Lima, di subire anch’egli la punizione o la vendetta di ‘Cosa nostra’ per non essere riuscito a raggiungere il medesimo risultato preteso nei confronti di Salvo Lima o quanto meno per avere voltato le spalle a ‘Cosa nostra’ nel momento di maggiore difficoltà di questa dopo avere per molti anni instaurato con alcuni suoi esponenti rapporti che, seppure, con apprezzamento ex post, in concreto non avevano avuto una effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione mafiosa”. La Corte evidenzia i suoi “comprovati rapporti con esponenti mafiosi quali risultano dalle sentenze pronunziate nei suoi confronti”. Rapporti che, al di là della sua assoluzione in abbreviato “apparivano in ogni caso ai mafiosi di buona ‘convivenza’”. A dimostrazione di ciò vengono citate diverse “prove dichiarative”. Tra i collaboratori di giustizia vengono chiamati in causa: Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè, Francesco Onorato. E’ la volta poi di Riccardo Guazzellie di Giuseppe Tavormina. “In tale contesto di acquisizioni probatorie del tutto univoche – si legge nel documento – sorprende che la difesa degli imputati Subranni e Mori abbia contestato addirittura la stessa sussistenza di una preoccupazione dell’On. Mannino per la propria vita nei mesi che seguirono l’uccisione dell’On. Lima”. A conferma della ricostruzione della figura ambigua di Mannino vengono ricordate di seguito le pregnanti dichiarazioni dell’ex vicedirettore dell’Espresso Antonio Padellaro e della giornalista del Fatto Quotidiano Sandra Amurri.

La consapevolezza di Mannino  “Tutte le fonti di prova esaminate, seppure di eterogenea natura (dichiarazioni di collaboranti di Giustizia, dichiarazioni testimoniali e risultanze documentali), convergono univocamente sulla logica conclusione che l’On. Mannino, ben consapevole della vendetta che ‘Cosa nostra’ intendeva attuare anche nei suoi confronti per non essere egli riuscito a garantire l’esito del maxi processo auspicato dai mafiosi, si sia rivolto, non già a coloro che avrebbero potuto rafforzare le misure già adottate per la sua sicurezza, bensì ad alcuni Ufficiali dell’Arma ‘amici’ e, innanzitutto, tra questi, al Gen. Subranni, al quale lo legava, essendo questi conterraneo, un rapporto di risalente conoscenza”. Per i Giudici vi è un ulteriore dato oggettivo: “Il Gen. Subranni, allora a capo del R.O.S., non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a preservare l’ On. Mannino da eventuali attentati ed, infatti, non risulta che si sia adoperato, direttamente e quale Comandante del R.O.S. ovvero intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o rafforzare le misure di protezione per I’ On. Mannino medesimo. Costituisce, allora, logica ed inevitabile conclusione che l’intendimento dell’On. Mannino allorché ebbe a rivolgersi al Gen. Subranni non fosse quello di ottenere un miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che, d’altra parte, come detto, nel  suo pensiero, non lo avrebbero comunque ‘salvato’), ma quello diverso di attivare un canale che,  per via info-investigativa, potesse, sì, acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di ‘Cosa nostra’, ma, inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla Polizia di Stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato”.

Muro contro muro. “Ora – sottolineano i Giudici -, non è dato sapere come sia stata recepita ed attuata da Subranni quella più o meno esplicita sollecitazione del Mannino”, ma “è un dato di fatto incontestato che, dopo la strage di Capaci, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 1992, un ufficiale del R.O.S., l’odierno imputato De Donno, autorizzato – rectius, sollecitato dai suoi superiori Subranni e Mori – contatta Vito Ciancimino ed inizia a porre le basi di quel discorso che bene può racchiudersi in quella frase che, poi, ad un certo punto, sarebbe stata rivolta dal Col. Mori a Vito Ciancimino: ‘Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro, contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Il riferimento esplicito è a quel passaggio riportato nella sentenza della Corte d’Assise di Firenze del 6 giugno 1998. “Si tratta, – evidenziano i Giudici – di un approccio del tutto coerente con l’intendimento più o meno chiaramente esplicitato dal Mannino con la sua condotta fattuale, laddove, non può essere dubbio che l’approccio col Ciancimino nella sua qualità di possibile referente dei vertici mafiosi (perché questa, dichiaratamente, era la ragione di quel contatto all’indomani della strage di Capaci) costituiva un oggettivo invito all’apertura di un possibile dialogo con i vertici medesimi e, quindi l’accantonamento della strategia mafiosa nell’ambito della quale si collocava anche la possibile uccisione dell’On. Mannino”. Per la Corte d’Assise di Palermo quindi “la valutazione logica dei fatti” porta alla seguente conclusione: “anche le preoccupazioni dell’ On. Mannino non siano state estranee nella maturazione degli eventi poi definiti come ‘trattativa Stato-Mafia’”. Siamo di fronte ad “un quadro probatorio già formato” in merito alla “esistenza dei fatti nei loro aspetti essenziali”, con tanto di prove “dirette”, o “indirette”, così come di “deduzioni di tipo logico”.“Può ragionevolmente ritenersi – scrivono i Giudici – che anche tale omicidio (del M.llo Guazzelli, ndr) si pone come antecedente logico-fattuale dell’iniziativa che di lì a poco Subranni, unitamente a Mori, avrebbe deciso di intraprendere per tentare un contatto diretto con i vertici dell’associazione mafiosa nelle persone dei suoi capi assoluti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. A futura memoria.  AMDuemila  22 Luglio 2018. di Lorenzo Baldo


Note

  1. ^ Copia archiviata, su ars.sicilia.it. URL consultato il 2 maggio 2016(archiviato il 1º giugno 2016).
  2. ^ Romano: “Nasce Popolari per l’Italia di Domani”, in Giornale di Sicilia, 28 settembre 2010. URL consultato il 1º ottobre 2010 (archiviato dall’url originale il 20 dicembre 2013).
  3. ^ Berlusconi ottiene la fiducia grazie ai voti di Mpa e Fli [collegamento interrotto], in lineasicilia.it, 29 settembre 2010. URL consultato il 1º ottobre 2010.
  4. ^ Il dopo Udc parte senza Cuffaro Romano:” candidati=”” under= ” – Repubblica.it » Ricerca, su ricerca.repubblica.it. URL consultato il 26 marzo 2011 (archiviato il 2 novembre 2013).
  5. ^ Mannino, addio al Pid: “Nascerà movimento di ispirazione cattolica”, in Giornale di Sicilia, 14 marzo 2011. URL consultato il 26 marzo 2011 (archiviato il 17 marzo 2011).
  6. ^ Mannino: “Non voterò la fiducia al governo, Paese a rischio. Sono contrario alle elezioni anticipate” [collegamento interrotto], in SiciliaInformazioni, 13 ottobre 2011. URL consultato il 16 ottobre 2011.
  7. ^ Attentato alla cantina di Mannino persi 700 ettolitri di vino pregiato – Palermo – Repubblica.it, in Palermo – La Repubblica. URL consultato il 24 novembre 2018 (archiviato il 2 gennaio 2013).
  8. ^ Mannino non è mafioso e il caso viene archiviato, su ricerca.repubblica.it. URL consultato il 26 gennaio 2011 (archiviato il 30 marzo 2019).
  9. ^ Mafia, assolto l’ex ministro Mannino «perché il fatto non sussiste», l’imputato: un atto eroico, i pm mi volevano al rogo., su archiviostorico.corriere.it. URL consultato il 3 agosto 2010 (archiviato il 14 dicembre 2015).
  10. ^ “… Il 5 luglio del 2001 Mannino è stato assolto”
  11. ^ Mafia, assolto l’ex ministro Mannino, su archiviostorico.corriere.it. URL consultato il 3 agosto 2010 (archiviato il 16 maggio 2014).
  12. ^ Mannino, sentenza della Cassazione “Da rifare il processo per mafia”, in la Repubblica, 12 luglio 2005. URL consultato il 20 maggio 2012 (archiviato il 5 marzo 2016).
  13. ^ MANNINO: UN’ ASSOLUZIONE CLAMOROSA, IGNORATA DAI GIORNALI – il Velino/AGV – Agenzia Giornalistica il Velino[collegamento interrotto]
  14. ^ Mannino, sconfitta dell’Antimafia – Politica – iltempo
  15. ^ Caso Mannino, una sentenza che zittisce i pm – IlGiornale.it
  16. ^ Tgcom – Articolo Tgcom, su tgcom24.mediaset.it. URL consultato il 1º maggio 2013 (archiviato dall’url originale il 5 marzo 2016).
  17. ^ Motivazioni della sentenza di appello1 pag. 176, centro.Archiviato il 2 luglio 2008 in Internet Archive.
  18. ^ RaiNews24, 7 giugno 2009
  19. ^ Mannino assolto in Cassazione[collegamento interrotto]
  20. ^ Salvo PalazzoloE Mannino fa causa allo Stato “Due anni in cella senza motivo”, in la Repubblica, 29 maggio 2011. URL consultato il 20 maggio 2012 (archiviato il 4 marzo 2016).
  21. ^ Mafia: nessun risarcimento a Mannino per ingiusta detenzione[collegamento interrotto], in ASCA, 19 maggio 2012. URL consultato il 20 maggio 2012.
  22. ^ Risarcimento negato a Mannino, i giudici: «Accettò l’appoggio elettorale di un boss», in Corriere della Sera, 26 maggio 2012. URL consultato il 28 maggio 2012 (archiviato il 4 marzo 2016).
  23. ^ Salvo PalazzoloTrattativa, indagato Mannino I pm: “Pressioni sul 41 bis”, in la Repubblica, 24 febbraio 2012. URL consultato il 20 maggio 2012 (archiviato il 20 giugno 2012).
  24. ^ “L’ex ministro Calogero Mannino indagato per la trattativa fra Stato e mafia” | Redazione Il Fatto Quotidiano | Il Fatto Quotidiano, su ilfattoquotidiano.it. URL consultato il 12 marzo 2012 (archiviato il 7 luglio 2014).
  25. ^ , su huffingtonpost.it. URL consultato il 4 novembre 2015 (archiviato il 6 novembre 2015).
  26. ^ Salvo PalazzoloTrattativa Stato-mafia, Mannino di nuovo assolto. In appello confermata la sentenza del gup, in la Repubblica, 22 luglio 2019. URL consultato il 22 luglio 2019.

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco