FIAMMETTA BORSELLINO – Rassegna Stampa – 2020

 

5.6.02020 – Chiesta archiviazione per Palma e Petralia Fiammetta Borsellino.: “Questo Paese è incapace di onorare i suoi morti”


20 giugno 2020 Depistaggio Borsellino: i dubbi di Fiammetta sui pm Palma e Di Matteo Dalle carte della procura di Messina. Dalle carte della richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Messina, nell’ambito del depistaggio sulle indagini della strage di via D’Amelio (per cui erano indagati i pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia), dalla pagina 47emerge anche una deposizione inedita di Fiammetta Borsellino, sentita il 25 marzo 2019.

Sono passaggi delicati, in cui la figlia del magistrato ucciso in quel tragico 19 luglio 1992 passa in rassegna i suoi ricordi e avanza qualche dubbio sui pmche si occuparono delle indagini.  Già nell’incipit della deposizione si capisce il forte dolore di Fiammetta per una verità negata ormai da quasi 28 anni: Io ho deciso di uscire allo scoperto… mio padre mi ha insegnato che lo si fa quando si hanno delle cose certe da dire, sennò si diventa urlatori e basta”. E la procura di Messina elogia infatti la “compostezza e determinazione con le quali i familiari del Dottor Borsellino hanno contribuito, e tutt’ora contribuiscono al ricordo di un Uomo la cui figura è di esempio per tutta la magistratura e per la nazione, per impegno e rettitudine”.  L’approccio di Fiammetta alla ricerca della verità è passato attraverso anni di lettura approfondita delle carte processuali, soprattutto grazie al cognato, Fabio Trizzino il marito di Lucia… abbiamo fatto questo lavoro di conoscenza, di apprendere quante più cose possibili… lui mi ha aiutato molto in questo lavoro di sintesi insomma”. Trizzino è il loro difensore di parte civile.

Oltre ai passaggi già noti sui colloqui in carcere coi fratelli Graviano, Fiammetta parla anche dei pm Palma e Di Matteo.

I RICORDI SU ANNA MARIA PALMA Fiammetta racconta che «la Palma nasce come amica di famiglia, ma poi perché mio padre, mischina, l’aiutò a fare un po’ di carriera (…) quando fu messa a Caltanissetta, a me sembrava una persona competente avendola vista a casa; poi leggo le deposizioni e lei stessa dichiara che non si era mai occupata di mafia. (…) Lei era una di quelle che frequentava casa nostra». 

Fiammetta rivela che un giorno la Palma «fece un po’ incavolare» suo padre, perché «dopo che è morto Falcone addirittura la Palma ad un certo punto lo invitò per San Pietro e Paolo a casa di Giammanco. Tant’è che mio padre gli disse: “Ma scusa non non lo sai che a questo fra poco lo arrestiamo?” …Poi la Palma è stata anche una grande frequentatrice di salotti palermitani cosa che insomma mio padre non ha mai fatto. Quindi, comunque, nella vicinanza c’era anche una enorme distanza».

Poi si sofferma sulla mancata verbalizzazione del sopralluogo effettuato da Scarantino con la polizia dove sarebbe stata rubata la Fiat 126: «Non esiste un verbale – lamenta Fiammetta – ho letto le deposizioni della signora Palma al processo “Borsellino quater” quando gli viene chiesto» il motivo della mancanza del verbale «e lei risponde “Mh mh”, “non lo so”, “forse non mi ricordo”… cioè addirittura a volte si autoaccusa di non essere lei abbastanza preparata, non sapendo proprio cosa dire (…) il suo mutismo, il non sapere dare una risposta, diciamo, fa acquisire come dato di fatto che probabilmente le cose sono avvenute, insomma, non so».

In effetti, dagli atti del processo “quater”, la Palma dichiarava: «Non mi sono posta assolutamente il problema, devo dire forse sarò stata ignorante». 

I DUBBI SU NINO DI MATTEO Fiammetta riferisce poi che il pm Di Matteo aveva un rapporto confidenziale con sua sorella Lucia Borsellino. Di Matteo «in una fase più finale entra in questo rapporto di enorme confidenza con Lucia tanto che io spesso ho chiesto a Lucia “Ma com’è che…” perché poi questa vicinanza, alla luce tutto quello che è successo ti fa anche pensare un po’ male, no? Nel senso, diciamo, sei vicino e ci metti in guardia o sei vicino perché questo è, ad un certo punto funzionale, a questo percorso che stai intraprendendo?… cioè sto pensando ad alta voce mi vengono tanti dubbi».

La grande confidenza con Di Matteo «poi si è interrotta improvvisamenteperché fino a quando la famiglia è educata accondiscendente e va tutto bene, quando invece poi è successo un episodio, che pare sia l’inizio della frizione, anche io ho cercato diciamo facendo un lavoro quasi da psicologa di capire anche con Lucia e Fabio cosa fosse successo con Nino Di Matteo tanto da provocare una rottura e loro mi raccontano che tutto inizia, è una frizione, una incomprensione profonda che inizia quando Lucia decide di fare l’assessore di mettere a disposizione le sue competenze tecniche diciamo per questa missione. Allora a quanto pare Nino ha da ridire su questa cosa, non capendo quasi da alto valore morale con cui Lucia, che non è un politico si accingeva, a fare questo opera lì c’è l’inizio di una rottura». Il riferimento è agli anni in cui Lucia Borsellino accetta di fare l’assessore alla Sanità nella Giunta regionale di Rosario Crocetta.

Una deposizione – quella di Fiammetta – che dunque torna a sollevare interrogativi sui pm che gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino.

Oggi, dopo quasi 28 anni da quella strage, i punti oscuri sono ancora troppi. Intanto a Caltanissetta prosegue il processo ai tre poliziotti (Mario Bo’, Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo) unici indagati per il depistaggio. IL SICILIA



11.6.2020 – FIAMMETTA BORSELLINO SENTITA A MESSINA PER L’INCHIESTA DEPISTAGGI STRAG
I Tra i testi sentiti dai pm della Procura Messina nell’inchiesta sul depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio c’è stata anche Fiammetta Borsellino, figlia del giudice assassinato il 19 luglio del 1992 insieme agli agenti della scorta. Fiammetta Borsellino, che da anni combatte una battaglia per arrivare alla verita’ sulla morte del padre, ha raccontato ai magistrati del suo incontro in carcere con i boss Giuseppe e Filippo Graviano, capimafia di Brancaccio condannati per l’attentato. La figlia del magistrato, che due anni fa ebbe il permesso di andare a colloquio coi due padrini stragisti, definisce l’incontro “un percorso personale”, ma non nasconde di aver sperato che da quel colloquio arrivasse un contributo alla verita’ pur nella consapevolezza che sarebbe stato molto difficile vista la caratura criminale dei due boss. Fiammetta Borsellino racconta dei tentativi di Graviano di discolparsi, tentativi “grotteschi”, dice ai pm. E riferisce di aver replicato al boss Giuseppe, che l’aveva accolta in vestaglia: “ah, vedi che c’e’, sono fortunata, oggi sono davanti a un Santo che e’ qui a scontare una pena non si sa perche’…”. Graviano avrebbe tentato di addossare la colpa del depistaggio delle indagini ai magistrati. “L’unica cosa che mi sono limitata a dire e’ che spostare la responsabilita’ su altri non serviva ad eludere le sue di responsabilita’, soltanto questo”, ha raccontato ai pm. Diverso sarebbe stato invece il tono del colloquio con Filippo Graviano che si sarebbe presentato “in uno stato di dolore e prostrazione visibile”. “Una persona – ha detto Fiammetta Borsellino – che non aveva imparato la lezioncina a memoria, cioe’, li’ c’e’ stato spazio per parlare di dolore, di insicurezze, del fatto che lui, appunto, non rinnegava quello che aveva fatto”.11 Giugno 2020  MESSINA OGGI


05.06.2020 – VIA D’AMELIO E QUEI GIUDICI CHE NON C’ERANO E SE C’ERANO, DORMIVANO  Per le non-indagini sulla strage di Via D’Amelio, “uno dei maggiori depistaggi della storia repubblicana”, chiesta l’archiviazione dei pm. Borsellino è servito Ma i magistrati, possono mai entrarci qualcosa, con un’indagine preliminare? Perciò: si archivi. Ancora, a cercare “verità”? Cara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, 28 anni sono passati: non lo capisci? Siamo in Sicilia. Anzi Italia. Non tira più. Basta… Va bene così. I Pubblici Ministeri potevano non sapere. Ce lo dice un altro Pubblico Ministero. E non se ne parli più. Anche se le non-indagni sulla strage di Via D’Amelio costituiscono “uno dei maggiori depistaggi della storia repubblicana” (secondo la sentenza che ha concluso il Processo Borsellino quater), nè il Capo, nè i Sostituti della Procura di Caltanissetta del tempo, videro, seppero, vollero alcunché. Di ingiusto, di illecito, s’intende. Solo giustizia. Al più, qualche “anomalia”. Lo dice, anzi, lo scrive, la “Collega” Procura di Messina. Notizia fresca fresca. È tutto chiarito. E che volete? Mica erano Ministri? O, generalmente, “politici”? Magistrati erano; addetti alla direzione e al coordinamento delle indagini con al centro il collaborante Scarantino; e chi ne sa niente, di una fonte di prova? Quale magistrato assegnatario delle indagini, può mai sapere nulla di una fonte di prova? Ma qui si vuole forse scherzare? La Polizia, odorosa di “politica”: lei sí, che sa. Ma i magistrati, possono mai entrarci qualcosa, con un’indagine preliminare? Perciò: si archivi. Che poi, a parte Fiammetta Borsellino, la quale, diciamocelo, pare che non voglia capire come si sta al mondo, con tutte le sue domande, a chi interessa, di suo padre Paolo, e dei giovani agenti fatti a pezzi? Sono cose vecchie. Ancora, a cercare “verità”? 28 anni sono passati, Fiammetta: non lo capisci? Sicilia, Italia? Non tira più. Basta. Peraltro, tutto quello che dovevano fruttare, le stragi, lo hanno fruttato. Si deve distruggere un uomo? E che ci vuole? Abbiamo pure un Codice Antimafia. Basta la parola “mafia” e comincia il divertimento. Gli sequestrano tutto: due lire, se ha due lire, mille, se ne ha mille; non occorre nemmeno mandarlo in galera. Basta far sapere che il suo nome è “iscritto”, ed è già un paria. L’ebreo in un ripristinato III Reich. Nessuno lo guarda come un uomo; ma ciascuno è in diritto, anzi, “in dovere”, di scansarlo come un rognoso, un infetto. Perché, “è” un rognoso, un infetto. È “un iscritto”. La P.A. lo esclude da ogni contatto. I vicini, i conoscenti, se non vogliono finire pure loro male, si girano dall’altra parte. Le banche? Non ne parliamo nemmeno. Già hanno ricevuto la notificazione dei sequestri, e chi si ci mette, a “distinguere”? Qui si parla di “soldi”. E, se si parla di “soldi”, schiere di decenni, legioni di “pubblicazioni”, eserciti di “pensieri critici” e di “elaborazioni consapevoli”, si ergono a scovare il maligno Capitale, la sentina di ogni nequizia, il germe della “disuguaglianza”. Ci esercitiamo da un secolo, “noi”, con simili schifezze: hai voglia a “mascherarti”, sporco capitale, “noi” ti riconosceremo sempre. L’Armata della Retorica Palingenetica, del “levati di qua, che mi ci metto io”, ha sostituito “ricco” (qualsiasi cosa s’intenda: anche un auto, due smart-phone e un appartamento incolore in comunione dei beni), con “mafioso”; e “l’accumulazione primitiva” col “denaro di provenienza illecita”. Si vuole “difendere”, “il sudicio mercante/mafioso”? Faccia pure: sempre che facciano entrare il suo avvocato in Tribunale (con il Covid è richiesto il passaporto e il visto all’ingresso, a parte la play-legal-station, così carina da usare come narcotico collettivo verso l’ingombrante presenza della sofferenza in carne ed ossa), in ogni caso deve provare lui di “non essere”. Non di non aver fatto, detto, agito; ma di “non essere mafioso”: giacché, ogni parola, azione, non valgono per sè, ma solo quale “sintomo” di uno status, di una “condizione”; anche se l’azione è lecita o, addirittura, evidentemente imposta, come il prezzo di un’estorsione, o la rata di un “prestito” usurario. Non importa. La “condizione” qualifica l’atto e, da bianco, lo rende nero. E la condizione si stabilisce “per contatto”. Non è magnifico? Non è un sistema perfetto? E sapete perché? Perché “la mafia” ha fatto le stragi, e ognuno che sia “sospettato”, porta in sè tutto il carico di quell’abominio. Il “contatto rende complici”. Una moltitudine di “non possono non sapere” è posta, suo malgrado, ad alimentare un Apparato votato alla perennità, che si bea, lui solo e alla faccia vostra, della opposta “regola”: non potevano sapere. E chi lo smonta? Ciascun buono a nulla, ciascun frustrato e parassita, ciascun imbecille che abbia imparato a memoria il suo piccolo Mein Kampf Antimafia, può aspirare ad ogni sorta di carriera, togato-dirigenziale, avvocatesco-ministeriale, giudiziario-narrativa, sceneggiatrice, fictional, prodiga di lubríco appagamento materiale e morale. Può definire “società giusta” un sistema che non chiede mai scusa, che afferma immoralmente di non sbagliare mai; perché se rovina, “c’era il sospetto”, e se il sospetto risulterà farneticante o anche solo inconsistente, “c’è l’assoluzione, che vuole ancora?”; che pone “una regola” e la divide in due, come una mela; e di qua, staranno quelli della “metà sbagliata”, e di là, quelli della “metà giusta”. Che ha capito come fottere il prossimo alla grande: in nome della Legge. Perciò, a chi interessa, sapere “la verità”, questa sopravvalutata? A cialtroni finiti a fare i petrolieri? A mestatori che per trent’anni, in prime time, hanno lanciato ogni specie di avventuriero togato? Che hanno chiesto a folle di fanatici se erano pubblicamente entusiaste di un omicidio? A saltafossi che hanno sputato sul cadavere di Falcone, “a futura memoria”, e poi passando il resto della vita ad illustrarsi del suo sangue, come fosse un cosmetico cannibalesco? Ai “fustigatori della casta”, 5000 Euro a pezzo, capaci di fare le pulci a tutto quello che sa “di politica”, fino al consigliere di quartiere, ma mai, mai, leggere la busta-paga di un magistrato (e non parliamo delle sue “progressioni in carriera”)? Sulle “stragi” si sa tutto. Sappiamo anche che chi le ha fatte finire, incastrando i colpevoli, è stato messo sulla graticola, e ve lo hanno fatto rimanere senza sosta da oltre vent’anni, nonostante la catasta delle assoluzioni e delle archiviazioni ormai sia venuta raggiungendo altezze himalayane. E si deve capire, insomma; il Generale Mori e i suoi collaboratori rischiavano di rompere l’Apparato/Giocattolo. E come avrebbero fatto, allora, tutti quei “decenni”, di “pubblicazioni”, di “elaborazioni” condotte sin dai tempi della “partitocrazia”, a farsi mestiere, rendita, sopraffazione sistemica, culturale, istituzionale, politica? Come avrebbero fatto, a sostituire ai partiti democratici, il Partito Unico, immune dal “peccato del voto”, dalla turpitudine del consenso democratico? Come avrebbero fatto, poverini? È stata legittima difesa. D’altra parte, “la difesa è sempre legittima”, sappiamo. E sappiamo anche che la menzogna rende forti: alla stessa maniera di come “il lavoro rende liberi”. di Fabio Cammalleri LA VOCE DI NEW YORK 5.6.2020


6.03.2020 – LA FIGLIA DI BORSELLINO AIUTA UN ASSASSINO DEL PADRE  Il rancore è un sentimento distruttivo e non serve a risolvere le cose: questo è il pensiero che Fiammetta Borsellino ha nei confronti di chi ha contributo nel 1992 all’omicidio di suo padre, il magistrato Paolo Borsellino.

“Solo per avere provato ad aiutarmi lo ringrazierò per tutta la vita”, dice la figlia del magistrato quasi trenta anni dopo la strage. Fabio Tranchina, l’autista della strage di via d’Amelio, oggi collabora con la giustizia e ha incontrato la donna. “Tranchina mi ha parlato del suo dolore – spiega Fiammetta – mi ha raccontato la sua gioventù difficile, la sua voglia di cambiare vita e le difficoltà enormi che sta incontrando”. In quel momento, un anno fa, Fiammetta Borsellino decise che lo avrebbe aiutato.

L’attuale compagna di Tranchina è la ex-moglie di un boss e ha lasciato la famiglia mafiosa per cambiare vita. “Non hanno praticamente di cosa vivere”, dice Fiammetta. La donna non può tornare nella sua città per paura di essere ammazzata. La figlia di Paolo Borsellino sta cercando in tutti i modi di trovarle un lavoro. In questi mesi ha scritto lettere, fatto telefonate e incontrato dirigenti e amministratori pubblici per risolvere questa situazione. “Ho parlato con il sindaco Orlando e con i suoi funzionari, spiegando la situazione”, racconta. “Ho ribadito che questo è un caso importante, ho parlato anche con il servizio centrale di protezione, lo Stato dovrebbe farsi carico di chi ha accettato di sostenere la ricerca della verità”. Una battaglia per cui la donna non si dà per vinta.  


6.3.2020 – FIAMMETTA BORSLLINO: “Perché sto aiutando un assassino di papà”. Fabio Tranchina e la sua compagna hanno gravi difficoltà economiche Lui è l’ex autista del boss Graviano e oggi collabora con la giustiziaDurante una pausa dell’ultimo processo per le bombe del 1992, sono rimasti a parlare per quasi un’ora. Da una parte Fabio Tranchina, l’ex autista del boss Giuseppe Graviano che ha curato i preparativi della strage di via d’Amelio e oggi collabora con la giustizia, dall’altro la figlia del procuratore aggiunto Paolo Borsellino, che il 19 luglio fu ucciso con cinque poliziotti della scorta. «Tranchina mi ha parlato del suo dolore – spiega oggi Fiammetta – mi ha raccontato la sua gioventù difficile a Brancaccio, mi ha giurato in lacrime che non sapeva cosa doveva accadere in via d’Amelio. Mi ha raccontato soprattutto della sua voglia di cambiare vita, e delle difficoltà enormi che sta incontrando». In quel momento – era quasi un anno fa, nell’aula bunker di Firenze – Fiammetta Borsellino decise che avrebbe aiutato quell’uomo in lacrime. Questa è la storia di una figlia che non smette di cercare la verità sulla morte del padre: «Le liturgie di certa antimafia nei giorni delle commemorazioni stanno diventando insopportabili – dice – io voglio capire cosa è accaduto veramente». Questa è anche la storia di un’altra donna, l’attuale compagna di Fabio Tranchina, che ha lasciato il marito, un boss ergastolano, per seguire l’uomo con cui ha immaginato un futuro diverso, e per questa scelta è stata rinnegata dalle figlie: «Adesso, sta attraversando un problema che non rende serena la famiglia, non hanno praticamente di cosa vivere», spiega Fiammetta. Lei è una dipendente del Comune di Palermo, prima precaria, poi di recente è stata assunta, ma non è mai potuta ritornare in servizio, perché abita lontano dalla Sicilia. «Una soluzione deve pur esserci», dice la figlia di Paolo Borsellino, che in questi mesi ha fatto decine di telefonate, ha scritto tante lettere. «Potrebbe prendere servizio nel Comune in cui si trova». Ma il Comune di Palermo dovrebbe farsi carico di pagare lo stipendio. «Ho parlato con il sindaco Orlando e con i suoi funzionari, spiegando la situazione – dice Fiammetta – ho ribadito che questo è un caso importante, ho parlato pure con il servizio centrale di protezione, lo Stato dovrebbe farsi carico di chi ha accettato di sostenere la ricerca della verità». Dopo mesi, la situazione sembrava essersi sbloccata. Ma, poi, lo spettro di un intervento della Corte dei Conti ha bloccato tutto. «Se non può il Comune, allora intervenga lo Stato – dice il legale di Tranchina, l’avvocatessa Monica Genovese – c’è una legge che impone di assistere i familiari dei collaboratori di giustizia». L’ex boss di Brancaccio ha dato un contributo importante per svelare molti dei segreti attorno alla strage, aveva accompagnato due volte Graviano in via d’Amelio, è stato condannato in appello a 7 anni e 6 mesi. «O, forse, devo pensare che si vogliono disincentivare le collaborazioni con la giustizia? – dice ancora Fiammetta – Perché questo è il segnale che sta passando. La compagna di Fabio Tranchina chiede solo di poter fare quello per cui è stata assunta: lavorare. Ma sembra che sia impossibile». Due giorni fa, un sms del sindaco Orlando ha chiuso anche l’ultima possibilità: «Carissima Fiammetta, mi dispiace. Tutte le istituzioni interpellate hanno escluso una possibilità di intervento a carico del Comune. Tale posizione ostativa è anche quella del prefetto competente per territorio». Ma Fiammetta non si arrende: «Perdere quel posto di lavoro sarebbe come dire che lo Stato ha abbandonato un uomo che ha fatto una scelta coraggiosa di rottura con il suo passato», dice. «La gente deve sapere come viene trattato un collaboratore importante e una donna che lo sostiene». Fabio Tranchina ha mandato un messaggio a Fiammetta: «Solo per averci provato la ringrazierò per tutta la vita, chi mi ha deluso profondamente sono coloro a cui ho consegnato la mia vita». Lei ha risposto: «Oggi, anche la famiglia Borsellino si sente tradita e delusa da una parte delle istituzioni».  Salvo Palazzolo  La Repubblica


3.02.2020 – Depistaggio strage via d’Amelio, il duro commento di Fiammetta Borsellino “Nessun vuol fare emergere verità” “Penso ci sia una enorme difficoltà a fare emergere la verità. Non ho constatato da parte di nessuno la volontà di dare un contributo, al di là la delle proprie discolpe, a capire cosa è successo”. Lo ha detto, a margine dell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio, Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso il 19 luglio 1992 commentando la deposizione dell’ex pm Nino Di Matteo. “Penso che nessuno di questi magistrati abbia capito niente di mio padre”, ha aggiunto. “Sembra che quello che riguarda Scarantino e il depistaggio delle indagini sia avvenuto per virtù dello spirito santo. Si tende a stigmatizzare la vicenda Scarantino come un piccolo segmento di una questione più grande. Io non penso che quello di Scarantino sia un segmento così piccolo” ha aggiunto.
“Ci si riempie la bocca con la parola pool ma io di pool non ne ho visto nemmeno l’ombra – ha aggiunto – perché quando ai magistrati si chiede come mai non sapessero dei colloqui investigativi, della mancata audizione di Giammanco, cadono dalle nuvole”. BLOG SICILIA   


3.2.2020 BORSELLINO, LA RABBIA DI FIAMMETTA. “VERITÀ TACIUTA DAI PM” «Delusa e amareggiata perchè vedo che c’è una enorme difficoltà a fare emergere la verità». Lo ha detto Fiammetta Borsellino, parlando con i giornalisti e commentando la deposizione del consigliere del Csm Nino Di Matteo al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. A Messina sono indagati Annamaria Palma e Carmelo Petralia che con Di Matteo erano tra i pm di Caltanissetta che si occuparono della strage di via D’Amelio. «Non ho constatato da parte di nessuno – ha proseguito – la volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe a capire che cosa è successo. Penso che nessuno di questi magistrati abbia capito niente di mio padre». «Ci si riempie molto la bocca con la parola pool – è lo sfogo di Fiammetta Borsellino – ma io di pool non ne ho visto neanche l’ombra, perchè tutte le volte che a tutti i magistrati si chiede come mai non sapessero dei colloqui investigativi o sulle mancata audizione dell’ex procuratore Giammanco, cadono dalle nuvole». La figlia del giudice, presente per tutta l’udienza, incalza: «Io capisco che si possa arrivare dopo rispetto alle indagini che sono già state fatte ma – ha spiegato – questo non significa non potersi informare su quello che è stato fatto prima o fare integrazioni di indagini. Invece quello che sento dire sempre è di essere arrivati in un momento successivo e sembra che tutto quello che riguarda Scarantino, il depistaggio e le stragi sia avvenuto per virtù dello spirito santo». GIORNALE DI SICILIA


9.10.2020  DEPISTAGGIO BORSELLINO, FIAMMETTA ALL’ATTACCO: “INDAGINI FATTE MALE, ARCHIVIAZIONE SUI PM PREMATURA”21.10.2020 DEPISTAGGIO BORSELLINO / PALMA E PETRALIA, SI ARCHIVIA TUTTO?La figlia del giudice trucidato, Fiammetta Borsellino, ha più volte puntato l’indice contro i tre magistrati: Palma, Petralia e Di Matteo. Una delle più brutte pagine della nostra storia. La strage di via D’Amelio dove persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. E poi il vergognoso depistaggio di Stato, che ha impedito – fino ad ora – di scoprire i killer e i mandanti, rimasti sempre a volto coperto. Il 18 ottobre, infatti, è stata discussa al tribunale di Messina la richiesta di archiviazione presentata dalla procura per i magistrati Annamaria Palma e Carmine Petralia, indagati per calunnia aggravata nell’ambito dell’inchiesta per depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Il gip Simona Finocchiaro si è riservata la decisione sulla richiesta avanzata dalla procura di archiviare il fascicolo. Nel corso dell’udienza, i pm Vito Di Giorgio, procuratore aggiunto, e Liliano Todaro, sostituto della Direzione Distrettuale Antimafia, hanno illustrato una memoria integrativa alla richiesta di archiviazione. Già a giugno i due pm avevano chiesto di archiviare il tutto, non essendo – a loro parere – emerso nulla di rilevante sotto il profilo penale e tale da consentire di indagare ancora sui comportamenti tenuti da Palma e Petralia. Al centro di tutto il giallo del depistaggio c’è il teste taroccato Vincenzo Scarantino, le cui dichiarazioni hanno sviato il corso delle indagini, portando addirittura alla condanna di imputati del tutto innocenti per quella vicenda. E solo le successive verbalizzazioni di Giuseppe Spatuzza hanno permesso di accertare che Scarantino era un pentito del tutto fasullo e le sue verbalizzazioni costruite a tavolino da cima a fondo. Quali gli autori del taroccamento di Scarantino e, quindi, del depistaggio? Imputati, in un altro processo, i poliziotti che hanno fatto parte del team guidato dall’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera (che non può più difendersi dalle accuse perché è morto quindici anni). I quali però – di tutta evidenza – non potevano non eseguire ordini ricevuti. Da chi? Dal solo La Barbera che a questo punto avrebbe avuto l’ardire di agire in perfetta autonomia? La catena di comando, è ovvio, porta ai superiori, ossia ai magistrati che coordinavano all’epoca le indagini, quindi Palma e Petralia; ai quali, dopo alcuni mesi, si è aggiunto Nino Di Matteo, poi diventato un’intoccabile icona antimafia. O chi mai altro è intervenuto dall’alto? La figlia del giudice trucidato, Fiammetta Borsellino, ha più volte puntato l’indice contro i tre magistrati: Palma, Petralia e Di Matteo. Si riuscirà ad arrivare ai primi bagliori di luce? Stiamo adesso a vedere cosa decide il tribunale di Messina su quella richiesta di archiviazione .LA VOCE DELLE VOCI21.10.2020


16.9.2020″MAFIA: FAMIGLIA BORSELLINO DIFFIDA EX PENTITO, “FIDUCIA IN PACI” La famiglia di Paolo Borsellino si scaglia contro l’ex pentito Vincenzo Calcara, autore di tre missive contro il pm Gabriele Paci, impegnato nella requisitoria al processo sul boss Matteo Messina Denaro. “Diffidiamo il signor Calcara dall’utilizzare strumentalmente qualunque riferimento alla vedova e ai figli del giudice Borsellino a sostegno di qualunque sua iniziativa e ribadiamo – dice l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei familiari del giudice – la totale fiducia nei confronti della Procura di Caltanissetta e in particolare del dottor Gabriele Paci di cui in questi anni ha avuto modo di constatare una totale abnegazione e correttezza nella difficile ricostruzione e ricerca della verità sulla Strage che ha condotto alla morte del nostro congiunto, dottor Paolo Borsellino”. Nel carteggio, tra l’altro, l’ex pentito ricorda di aver iniziato la sua collaborazione con il magistrato Paolo Borsellino, affermando di essersi rifiutato di eseguire un attentato contro il giudice, ordinato da don Ciccio Messina Denaro, padre di Matteo. Paci aveva definito Calcara “uno di quelli che inquinavano i pozzi”. (AGI) 


Tre missive scritte da un ex pentito contro i pm Gabriele Paci saranno trasmesse per competenza al Tribunale di Catania. Lo ha disposto la corte d’Assise di Caltanissetta nel processo in corso contro il latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere il mandante delle Stragi di Capaci e via d’Amelio. Il carteggio, composto da due lettere ed un esposto scritti dall’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, è stato ricevuto dalla Corte presieduta dal giudice Roberta Serio, che ne ha dato notizia in apertura d’udienza senza acquisirlo agli atti del fascicolo. Il contenuto delle tre missive si riferisce alla requisitoria condotta dal procuratore aggiunto Paci, nel corso della quale definì l’ex pentito “uno di quelli che inquinava i pozzi’, riferendosi ad alcune omissioni riscontrate nei suoi verbali. “Le dichiarazioni del Calcara, in questo processo, sono già state valutate nel corso della requisitoria”, ha detto il pm che, dopo aver preso visione delle tre lettere, ha chiesto la trasmissione degli atti al Tribunale di Catania, competente per i fatti che riguardano i magistrati in servizio nel distretto di Caltanissetta. Nel carteggio, tra l’altro, l’ex pentito ricorda di aver iniziato la sua collaborazione con il magistrato Paolo Borsellino, confessando di essersi rifiutato di eseguire un attentato contro il giudice, ordinato da don Ciccio Messina Denaro. (AGI)


11.12.2020 – DEPISTAGGIO VIA D’AMELIO – FIAMMETTA BORSELLINO: PER NOI QUESTA RIMANE E RIMARRÀ UNA FERITA APERTA   Paolo Borsellino non era soltanto il magistrato. Non era soltanto l’uomo che con coraggio affrontò fino all’estremo sacrificio il suo cammino. A raccontare l’uomo – descritto nel libro del giornalista Salvo Palazzolo – è la figlia Fiammetta. Sono trascorsi quasi trent’anni dalla strage di Via D’Amelio. Un tempo lunghissimo che spesso riteniamo sia sufficiente a lenire il dolore di qualunque ferita. A dirci che non è così, sono lo sguardo e le parole di Fiammetta Borsellino, che seppur nascoste dietro il suo sorriso, lasciano trasparire un dolore sordo che nulla potrà mai sopire.  L’amore di una figlia verso il padre, a tal punto da pensare – a soli cinque anni, uscendo da casa e temendo una scarica di proiettili – di potersi mettere dinanzi al suo papà e fargli da scudo con il suo corpicino.

Il ricordo di mille attimi. Il ricordo di una famiglia unita e dei mille aneddoti di quella vita terminata troppo presto e in maniera tanto brutale. Al ricordo e al dolore si aggiunge la delusione e la rabbia per “un’attività orientata non alla verità ma all’allontanamento dalla verità”: Il depistaggio!

È Fiammetta Borsellino che parla del problema che esiste nel momento in cui si celebra un processo, e uomini delle istituzioni chiamati a deporre fanno scena muta o dicono di non ricordare il loro operato relativo a quello che definisce uno dei processi più importanti della storia giudiziaria di questo Paese. Scene alle quali ha personalmente assistito, con magistrati e poliziotti che chiamati a testimoniare dicevano ripetutamente di non ricordare.

La figlia di Paolo Borsellino ricorda l’interessamento del padre al dossier mafia-appalti, che portò alla strage nella quale perirono il giudice e gli uomini della sua scorta. Ricorda come proprio suo padre chiedesse a gran voce l’assegnazione di quelle indagini, tanto da convocare, poco prima che morisse, una riunione in Procura di cui ci sono pure le disposizioni, chiedendo conto e ragioni in merito alla conduzione di quelle indagini. Eppure, per tanti anni, il dossier mafia-appalti è rimasto l’argomento da non toccare.

Si chiede dunque perché ci sono magistrati che continuano a negare l’interessamento del Giudice Borsellino al dossier-mafia appalti, quando era risaputo il suo interesse a quell’inchiesta.

Il riferimento è al rapporto del Ros, stilato il 16 febbraio 1991 – inviato a Giovanni Falcone e ai Sostituti Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone  – relativo alle indagini che vedevano “Cosa Nostra” fare il salto di qualità, passando da organizzazione parassita che viveva del “pizzo” pagato dalle ditte, all’acquisizione delle stesse o al loro controllo. Quell’indagine voluta da Giovanni Falcone, e alla sua morte da Paolo Borsellino, che individuava proprio nell’inchiesta condotta da Mori e De Donno la causa della strage di Capaci. Una pista investigativa – quella degli appalti – che aveva già suscitato l’interesse anche di altri magistrati dei quali scriveremo successivamente.

Eppure, “continuano ad esserci magistrati tipo Scarpinato, il quale dice che mio padre non era interessato a un dossier che probabilmente è stato la causa pure della sua morte” – afferma Fiammetta Borsellino.

Non usa mezze parole nel ricordare come suo padre dicesse sempre che “politica, istituzioni e mafia, sono poteri che agiscono sul controllo dello stesso territorio, per cui o si fanno la guerra o si mettono d’accordo. Quando si mettono d’accordo la lotta nei confronti della mafia è debole. La lotta nei confronti della mafia è debole nel momento in cui c’è un procuratore Giammanco, che era il procuratore all’epoca che arrivano le informative dei Ros sull’arrivo del tritolo a Palermo e non informa mio padre. Allora lì si muore! Si muore perché si è completamente soli!”

 Alternando il ricordo di Paolo Borsellino uomo, padre e magistrato, offre a chi la ascolta un insegnamento che è l’eredità morale lasciatale dal padre:

“Questo non vuol dire che non bisogna avere fiducia nelle istituzioni. Questo è il più grande errore che si possa compiere. Mio padre era un uomo delle istituzioni. Ha creduto nelle istituzioni fino alla fine. Ha creduto fino alla fine nell’idea di una magistratura sana e onesta, fino all’estremo sacrificio della propria vita, e oggi non avere fiducia nelle istituzioni, sarebbe come disattendere la principale eredità morale che ci ha lasciato”.

Non trascura però l’aspetto che ha riguardato i tanti anni di processi che non hanno portato alla verità sulle stragi, che l’hanno allontanata grazie ai depistaggi, chiedendosi come ci possano essere magistrati, oggi assolti dalle procure, che hanno ritenuto di omettere di chiamare testi prima che morissero o gli venisse l’Alzheimer. “Bisognava chiedere i testimoni al tempo giusto. Bisognava acquisirli ai processi – continua Fiammetta Borsellino – Mentre tutto questo non è stato fatto. Oggi i magistrati che non l’hanno fatto sono i magistrati più scortati. Sono i magistrati che presentano libri nei teatri, sui processi che fanno, ancora non finiti. Cosa che mio padre non avrebbe mai fatto”.

Anni di indagini e processi  fatti male, fino ad arrivare al Borsellino Qater che ha sancito il depistaggio dal quale si doveva ripartire per arrivare finalmente alla verità. Quel depistaggio che vede a Caltanissetta inquisiti i poliziotti che gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino, mentre per i magistrati titolari di quelle indagini, indagati dalla Procura di Messina, è stata disposta l’archiviazione.

La figlia di Paolo Borsellino non entra nel merito del processo per rispetto delle istituzioni. Quel rispetto che costituisce la vera eredità morale che il Giudice ha lasciato ai suoi figli. Ma, com’è giusto che sia, puntualizza che la famiglia Borsellino ha fatto ricorso contro quell’archiviazione nei confronti dei magistrati titolari di quello che definisce uno dei più colossali errori giudiziari della storia di questo Paese.

La voce di Fiammetta è limpida, sul suo volto un sorriso con il quale cerca di celare quel turbinio di emozioni che deve sconvolgerla dentro mentre alterna il ricordo del padre, dell’uomo, del magistrato.

“Io sono qui per rivolgermi principalmente ai giovani, perché è l’unica cosa che mi spinge a fare questi interventi dove metto in moto tanta emotività… nonostante ci sia stato qualcuno che dopo 30 anni ci considera dei cretini a piangere i nostri familiari”. Parla delle affermazioni dell’ex magistrato Silvana Saguto, della quale fa il nome, ricordando che quella loro è una ferita ancora aperta.

“Mio padre ha portato con sé tutta la sua famiglia non ci siamo mai tirati indietro Per noi è stata l’unica strada possibile. Abbiamo pagato il prezzo di questo e stiamo continuando a pagarlo, soprattutto mia sorella Lucia in termini di salute”.

Una ferita profonda e quanto mai attuale. Non aggiunge null’altro. Il dolore non ha bisogno spiegazioni e quello della Dottoressa Fiammetta è un dispiacere al quale mi associo augurando alla sorella la più pronta guarigione.

Di recente, un falso pentito noto alle cronache di questo giornale – del quale non val la pena neppure di citare il nome per non sporcare le emozioni – non ha esitato ad accanirsi contro l’Avvocato Fabio Trizzino, difensore dei Borsellino e marito di Lucia Borsellino, sol perché, avendo tentato di condizionare il processo che ha visto condannato a Caltanissetta Matteo Messina Denaro  per le stragi del ’92, gli è stato impedito, evitando l’ennesimo tentativo di depistaggio.

Ascolto ancora le parole, la voce di Fiammetta Borsellino, quell’urlo sommesso di chi cerca soltanto la verità. Quella voce che ti entra dentro come una lama. Guardo quel sorriso che è un urlo di dolore che ti prende, ti avvolge. Quel dolore che non ha fine. Soltanto la verità potrebbe contribuire a lenirlo un po’. Ma tutti vogliono la verità? Gian J. Morici 11.12.2020


11.12.2020 – L’amarezza di Fiammetta Borsellino: “Un Paese senza verità non può avere futuro” La figlia del giudice Paolo, ucciso nella strage di via D’Amelio del 1992, è intervenuta a un webinar dell’Università di Messina. Il ricordo: “Mio padre era un uomo comune, che ha fatto il proprio dovere con la ‘pratica antimafia quotidiana’. Mai ha pensato di lasciare la Sicilia” “Un Paese che non è in grado di far luce su quanto avvenuto non può aver futuro e da oltre 25 anni non si riesce a colmare un vuoto insostenibile. La sentenza Borsellino Quater sul depistaggio aveva rappresentato un barlume di speranza e doveva essere un punto di partenza, non di arrivo. Ne sono scaturiti alcuni processi ed altrettante archiviazioni, che rappresentano una ferita aperta,  alle quali abbiamo fatto ricorso”. Sono le parole di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo ucciso nella strage di via D’Amelio del 1992, intervenuta al webinar trasmesso in diretta streaming sulla pagina Facebook dell’Università di Messina – nell’ambito del ciclo di eventi della Rassegna 100 Sicilie 2019-2020 “Eroi. Costruttori di bellezza” sul tema della legalità e bellezza.  “Sono qui – ha esordito la figlia del magistrato – esclusivamente per rivolgermi ai giovani, gli unici che mi spingono a compiere questi interventi che, ogni volta, per me sono portatori di tanta emotività. Non sono a mio agio a parlare dietro ad uno schermo e sono abituata a rivolgermi a loro perché dai loro sguardi scorgo tanta energia. E’ importante continuare fare memoria, ovvero, a far proprio il patrimonio morale di questi uomini”. Fiammetta Borsellino ha tratteggiato il ritratto del padre. Un “uomo comune – ha sottolineato – che ha fatto il proprio dovere con la ‘pratica antimafia quotidiana’ e non c’è niente di meglio dell’esempio per trasmettere un messaggio ai ragazzi. Sono loro stessi che, spesso, mi domandano cosa possono fare ed io rispondo loro che per lottare contro la mafia devono studiare e prendere coscienza del fatto che la nostra terra non è un favore che ci viene elargito, ma un diritto. Proprio per la nostra terra ha lottato mio padre. Una volta mi disse: ‘Palermo non mi piaceva, per questo ho scelto di amarla’. Fu un atto per affermare la sua idea di bellezza. Il suo manifesto. Nacque nel quartiere della Kalsa (zona Magione), che nel dopoguerra era uno dei più poveri. Giocava a pallone coi figli dei mafiosi più in vista e, insieme anche a Falcone, avrebbe potuto incamminarsi su una cattiva strada. Ma entrambi scelsero il bene, vollero fare qualcosa per rendere più bella la loro Sicilia. Mai, neppure una volta, mio padre pensò di abbandonarla, neanche nei momenti più difficili. Aveva paura, ma la superò anche per noi oltre che per sé. Raccontava barzellette e cercava di superare tutto con il gioco e con il suo carattere che ci permise di superare l’anormalità delle cose”.    Tra gli altri interventi, quello del procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, per il quale “i sacrifici del 1992 segnano una svolta nel contrasto dello stato di diritto a Cosa nostra. Diverse cose sono state fatte, ma altre non sono state condotte nel modo corretto e rappresentano una macchia con la quale bisogna fare i conti. Seppur per poco, ho conosciuto Paolo; per me come per altri colleghi rappresentava un campione della prima squadra ammirato dai pulcini ai primi calci. Ricordo una sua lezione in cui non parlò di diritto, ma ci esortò a non chiedere e non accettare mai favori perché altrimenti, prima o poi, avrebbero preteso il conto. La magistratura non è riuscita a superare il vuoto della ricostruzione storica di via D’Amelio e, pensando anche a questo episodio, credo che si tratti di una enorme sconfitta che, per me, rappresenta un grande tormento”. PALERMO TODAY


Sono passati quasi 30 anni dalla strage di via D’Amelio, é  da una stagione difficile per il Paese. E adesso che l’Italia vive un’altra crisi, FIAMMETTA BORSELLINO ci dà una lezione sul coraggio, ovvero “la capacità di raccontarsi una storia diversa”  L’INTERVISTA A “VANITY FAIR”  Fiammetta Borsellino: «Il futuro passa da qui»  Sono passati quasi 30 anni dalla strage di via D’Amelio, e da una stagione difficile per il Paese. E adesso che l’Italia vive un’altra crisi, Fiammetta Borsellino ci dà una lezione sul coraggio, ovvero «la capacità di raccontarsi una storia diversa»  All’epoca in cui le regioni d’Italia virano sempre più al rosso, e i contagi totali hanno superato il milione di casi, Fiammetta Borsellino esce di casa ogni mattina con la mascherina per accompagnare Felicita, 10 anni, e Futura, 7, alla scuola steineriana che «anche in una realtà complessa come Palermo, esiste». Sembra quasi estate, anche se siamo a novembre, nel quartiere della Kalsa, a pochi metri dalla casa in cui nacque, il 19 gennaio 1940, suo padre Paolo. Nonostante la sua vita sia stata sconvolta il 19 luglio 1992 dalla strage di via D’Amelio, non ha mai pensato di abbandonare questo posto. «Era una città che papà amava visceralmente. All’inizio non gli piaceva, ed era per questo che, diceva, poi se ne era innamorato così tanto».

Come passa le sue giornate?  «Ci sono le restrizioni per la pandemia, la sera non si esce. La giornata è assorbita completamente dagli impegni delle bambine, tra scuola, attività sportive e musica. Adesso ci stiamo riorganizzando. Se sarà possibile, nel fine settimana con mio marito continueremo ad andare nella casa in mezzo al bosco a Cefalù, un’oasi di benessere».

Ha paura del virus? «Seguo le regole e il buonsenso. Abbiamo avuto dei conoscenti malati, ma per fortuna nessun morto. La serenità di fondo che ho, mi deriva dal fatto di avere vissuto esperienze forti e dolorose. Ognuno di noi ha un rapporto personale con la morte».

Anche lei non riuscì a salutare suo padre, proprio come i parenti dei malati di Covid non riescono a salutarli se in ospedale non ce la fanno.  «Quel 19 luglio ero in vacanza in Indonesia con una famiglia di amici, e ho sempre pensato che se non fossi stata lì probabilmente sarei morta, perché sarei andata anche io a trovare la nonna in via D’Amelio, con papà, dopo il mare. Che era morto l’ho saputo invece da una telefonata. Per questo capisco bene chi vede andar via i genitori, e li perde senza poterli nemmeno abbracciare. In più, mio padre aveva 52 anni: non abbiamo avuto molto tempo insieme. Tra l’altro è una pena che provo ancora adesso, la sto vivendo con mia sorella Lucia, che vive a Roma. Ha una grave malattia, è immunodepressa e posso metterla in pericolo, non posso starle vicino. L’ho vista a settembre dopo molti mesi, oggi spostarsi è ancora più complicato».

Lei che rapporto ha con la morte? «Sin da quando ero bambina è sempre stata una di famiglia. Vedere mio padre con la scorta, vedere morire i suoi amici, colleghi, giornalisti… ha fatto sì che per me fosse un pensiero sempre presente. Allo stesso tempo ho interiorizzato quello che diceva mio padre, ossia che bisogna comunque vivere. La paura è un fatto umano, ma bisogna farsi forza e andare avanti, perché la paura non diventi un ostacolo».

Non teme proprio nulla?  «Avendo vissuto un clima di perdita perenne, posso solo dire che mio padre è stato bravo a prendere le cose con ironia, a scherzarci su, a farci vivere una normalità nell’anormalità degli anni ’70 e ’80. Le paure di oggi sono più che altro delle preoccupazioni sul futuro dei figli».

Da qualche anno ha iniziato a girare le scuole e le università, per chiedere la verità sulla morte di suo padre. Non ha paura anche che, dopo di lei, nessuno ne parli più? «Più che paura è sofferenza, il dolore che può provocarmi l’idea che tutto finisca nell’oblio, nel silenzio. Che questa possa diventare l’ennesima tragedia italiana che molto probabilmente rimarrà nel mistero. Mi riferisco ovviamente alla ricerca della verità, perché se parliamo della memoria, le vie e le piazze che vengono intitolate a mio padre, i ragazzi delle scuole, quella c’è ed è molto viva. Ma non basta. Occorre che accanto alla memoria ci sia la ricerca della giustizia, e la giustizia passa attraverso la verità. Se non c’è la verità è come fare morire due volte Paolo Borsellino, uno Stato che non riesce a far luce su queste ferite non ha futuro e non hanno futuro neanche i nostri figli. Non ha possibilità di progresso, che passa soprattutto sul far luce su fatti gravi che hanno segnato tutto il popolo italiano».

La sua vita, dopo quel 1992, ha avuto due fasi. Una prima parte di cui non si sa molto di lei, poi a 25 anni dalla strage è diventata più visibile, per chiedere, appunto, la verità. «Ho fatto il mio dovere, quello che mio padre diceva sempre di fare. A 19 anni il mio dovere era studiare, perché attraverso la cultura si combatte la mafia. E creare le basi per crescere, essere uomini e donne maturi. Non mi sono bloccata a quell’evento, come i miei fratelli».

Sua sorella Lucia diede un esame universitario poche ore dopo la morte di suo padre.  «Era appunto il miglior modo di mettere in pratica gli insegnamenti di mio padre».

Dopo aver studiato, che cosa ha fatto?  «Dopo la laurea in Legge ho lavorato 17 anni al Comune di Palermo come funzionario dei servizi educativi. Con la nascita della mia prima figlia ho però scelto di cambiare vita e dedicarmi totalmente a lei. Adesso che invece le bambine sono più grandi ho di nuovo cambiato vita. E ora che sono più consapevole, dopo anni a seguire le udienze e studiare i processi, ho deciso di impegnarmi per chiedere che cosa davvero è successo. Non avrei potuto farlo a 19 anni».

Se avesse la certezza che le rispondessero la verità, quale domanda farebbe  «Le sentenze ci dicono chi è stata la mano armata della strage, chi materialmente, appartenendo all’organizzazione criminale denominata mafia o Cosa Nostra, ha ucciso. Quello che oggi non si sa è la verità su quel fatto, quali sono state le menti che hanno voluto che ciò accadesse e che quindi hanno dato un contributo fondamentale all’attuazione della strage. Se quindi dovessi fare una domanda, questo presupporrebbe un contributo di onestà dalle istituzioni. Chiederei che queste fossero chiare e non reticenti, perché è stato penoso vedere in tribunale poliziotti e magistrati che difendevano la loro posizione senza dare alcun contributo alla ricostruzione dei fatti».

Ai processi molti ora dicono «non ricordo», «non c’ero», «sono passati 28 anni». C’è ancora chi sa? «Sì, c’è assolutamente. Non sono tutti morti, e comunque le persone non agiscono da sole, gli alti vertici non potevano non sapere. Certo, più passa il tempo più la verità si allontana, ogni giorno che passa si sgretolano le prove».

Lei dopo i quattro processi sulla strage, ha denunciato il depistaggio in ogni sede. È cambiato qualcosa? «Il“Borsellino quater”si è concluso nel 2017 con una sentenza che sanciva il depistaggio. Si è aperto un nuovo processo nei confronti di alcuni poliziotti che aveva preso un buon ritmo, ma la pandemia ha rallentato tutto. Per i magistrati invece è stata chiesta l’archiviazione, abbiamo fatto ricorso e stiamo aspettando».

Che cos’è per lei il coraggio?  «Credo che sia la capacità di andare avanti nonostante gli ostacoli che possono essere un freno a ideali o progetti. Coraggio è andare contro la corrente, la capacità di raccontarsi delle storie diverse da quelle che circolano».

Si sente simile a suo padre? «Avevamo un rapporto speciale, ero la piccola di casa, anche se poi abbiamo avuto i nostri screzi. Ricordo in particolare una litigata bestiale e una tensione che durò diverse settimane perché lui non mi fece andare a un concerto dei Duran Duran per cui mi avevano regalato dei biglietti. Del carattere di papà mi è arrivato molto, soprattutto la serenità di parlare di cose dolorose, di saperle condividerle. Lui era anche un po’ frivolo, amava l’ironia, il bello, giocare con i bambini, provocarli, insegnargli per gioco le parolacce, fare il bambino lui stesso, essere goliardico, strafottente. Era un cane che non aveva padroni, ho sempre detto. Mio fratello Manfredi ha più quel modo di fare, scherzoso. Non credo che abbiamo voluto emularlo, credo però che abbiamo assorbito molto di lui, i pochi anni che abbiamo vissuto insieme sono stati molto intensi, ed equivalgono a una vita intera».

Che cosa ha raccontato, alle sue figlie, di suo padre? «Non ho bisogno di raccontare, da quando sono nate sono cresciute a “pane e nonno Paolo”. Ne parliamo tanto, raccontiamo come se fosse accanto a noi, ci sono foto, libri che rimandano ai nonni. Le mie figlie hanno saputo sempre tutto, sia la parte felice sia quella dolorosa. Sono serene, anche se hanno la tristezza per non averlo potuto conoscere, e sono soprattutto orgogliose di avere avuto un nonno che era anche un esempio».

Perché le ha chiamate Felicita e Futura?  «Felicita è un nome legato a mio padre, che, essendo un cultore della letteratura – adorava Dante che citava a memoria, era autodidatta della lingua tedesca –, tra i tanti amava anche Guido Gozzano. In particolare la poesia La signorina Felicita, ovvero la felicità. Me l’aveva fatta imparare a memoria e mi faceva anche esibire, sulla sedia, davanti agli altri, gli piaceva come la recitavo. Quando ho scoperto, al parto, che era una femmina, questo era uno dei nomi prescelti. Futurainvece si chiama così perché è il nome di una canzone di Lucio Dalla che amiamo particolarmente».

Liliana Segre, a 90 anni, ha deciso di terminare la sua testimonianza pubblica. Lei ha mai pensato di smettere?  «Per ora non mi sono data una scadenza, non so come sarò tra cinque o sei anni, bisogna fermarsi se non si sta più bene. Ho avuto momenti difficili e di stanchezza. Ero passata da essere una madre iperpresente a una assente, stavo sempre fuori casa, giravo per l’Italia, avevo sempre la valigia in mano ed ero sempre in un aeroporto. Ho cercato un equilibrio. Non è facile raccontare i propri fatti personali e dolorosi davanti a un pubblico. Da una parte ti dà un benessere infinito, dall’altra un’enorme fatica».

Riesce a trattenere le lacrime?   «È capitato che ho pianto, ma nel 90 per cento dei casi mi trovo a gestire le lacrime degli altri e riesco a mantenere la calma. È come se mi uscisse una determinazione, come se capissi che bisogna parlarne con il sorriso, solo così riesci a far breccia, a trasmettere la forza di questa storia. Se la prendi per quella che è, genera sconforto. Invece porsi in maniera decisa, con energia, è meglio, genera la volontà di andare avanti. E forse anche perché piangere lo vivo come una sconfitta. Sono convinta che noi, alla fine, con le nostre domande, ne usciamo vincitori. Sono altri che sono morti. Sono ancora vivi, ma sono morti dentro». 19 NOVEMBRE 2020 di SILVIA BOMBINO VANITYFAIR



 

FIAMMETTA BORSELLINO

RASSEGNA STAMPA INCONTRI

 

24 SETTEMBRE 2020 – FESTIVAL DELLA LEGALITA’ Collegamenti 2020

30 AGOSTO 2020 – SIRACUSA- a FIAMMETTA BORSELLINO IL PREMIO CUSTODI DELLA BELLEZZA”

 
23 GIUGNO 2020 – CREMA “In cerca di giustizia con Fiammetta Borsellino.
 
31 MARZO 2020 – ROMA – Fiammetta Borsellino a “LA LINEA D’OMBRA”
22 GENNAIO 2020 – GENOVA– 
22 GENNAIO 2020 – SAVONA  Cerimonia per Paolo Borsellino. La figlia: “La mafia esiste ma sarà sconfitta, impegno nella verità e fiducia nello Stato” 

A CURA DI CLAUDIO RAMACCINI DIRETTORE CENTRO STUDI SOCIALI CONTRO LE MAFIE – PROGETTO SAN FRANCESCO