PAOLO FAMIGLIA testimonianze – LA FAMIGLIA

Fiammetta ok

 

Fiammetta ok

 FIAMMETTA BORSELLINO  

Molte persone definiscono mio padre un eroe però gli eroi sono persone che vivono in modo diverso e hanno abilità soprannaturali, mentre mio padre era una persona assolutamente normale. Una persona che svolgeva in modo corretto il proprio dovere». 

Mio padre appena aveva del tempo libero, andava nelle scuole a parlare ai giovani perché lui diceva che si poteva vincere la mafia solo grazie alla cultura.

In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr).

Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse spa rato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me.

Io e mio padre avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati.ersone che vivono in modo diverso e hanno abilità soprannaturali, mentre mio padre era una persona assolutamente normale. Una persona che svolgeva in modo corretto il proprio dovere». 

 

Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre. Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra. La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo. «Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile.

Lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita.

L’estate del ‘92 volevo andare in Africa, ma un po’ per le apprensioni di mio padre e un po’ per la tragedia di Giovanni Falcone trovammo un compromesso: mi lasciò partire per l’Indonesia insieme alla famiglia del suo migliore amico, Alfio Lo Presti. Un altro spicchio di normalità, ritagliato nel momento più buio. Telefonavamo a casa ogni volta che potevamo, ma spesso non lo trovavamo, per lui erano giorni di lavoro incessante. Ho ancora davanti a me l’immagine di Alfio chiuso in una cabina che sbatte la cornetta contro il telefono e scoppia in lacrime, quando venimmo a sapere della strage. Poi l’incubo del ritorno verso casa. Il giorno in cui morì eravamo riusciti a parlare con papà quando in Italia era ancora molto presto, ma nella mia mente i ricordi si sovrappongono. Di sicuro ho cominciato a pensare, e lo penso ancora oggi, che quel viaggio potrebbe avermi salvato la vita. Perché se fossi stata a Palermo, dopo la domenica trascorsa al mare, probabilmente l’avrei accompagnato dalla nonna, e sarei morta con lui. Invece sono sopravvissuta, e per essere la donna che sono diventata ho dovuto affrontare un lungo percorso, seguendo il principale insegnamento di papà: fare il proprio dovere. Ho continuato a studiare, ho costruito il mio futuro gettando le basi per mettere su una famiglia. A 19 o 20 anni non puoi avere gli strumenti per comprendere appieno quello che ti sta accadendo intorno, il che non significa delegare ad altri la domanda di verità: noi quella l’abbiamo sempre chiesta, a partire dal 20 luglio 1992. Ma ci sono consapevolezze che si acquisiscono nel tempo.

Dopo la strage ho terminato gli studi all’università, ho cominciato a lavorare con una dedizione che non mi concedeva molto spazio per l’impegno civile. Insieme ai miei fratelli abbiamo seguito mia madre nella sua lunga malattia, e siamo rimasti in rispettosa attesa nei confronti delle istituzioni giudiziarie che dovevano darci delle risposte. In fondo anche questo è stato un insegnamento di nostro padre: avere fiducia nell’amministrazione della giustizia. C’erano i processi, abbiamo aspettato che si concludessero. Nel frattempo ho messo al mondo due bambine, Felicita e Futura, che oggi hanno 8 e 6 anni e rappresentano il mio paradiso: sono loro a darmi la forza di guardare l’inferno che s’è spalancato davanti ai miei occhi quando ho scoperto i depistaggi fabbricati da alcuni investigatori, di fronte ai quale i magistrati non hanno sorvegliato o si sono voltati dall’altra parte. Ora che le mie figlie sono cresciute mi posso permettere di dedicarmi anche ad altro, la mia famiglia mi concede il tempo e il sostegno necessario a studiare le carte processuali e girare l’Italia per denunciare uno scandalo di cui ancora non si vede la fine. Forse in passato qualcuno ha scambiato la nostra educazione e il nostro rispetto verso le istituzioni per superficialità e buonismo, ma ha sbagliato i suoi calcoli. Prima la nostra casa era sempre piena di amici, falsi amici, mitomani, controllori che volevano verificare le nostre reazioni e tenerci buoni; adesso non ci cerca più nessuno, siamo soli. Ma non importa, abbiamo ugualmente la forza per andare avanti.

A forza di studiare verbali, perizie e sentenzemi sono fatta una certa competenza, e posso dire che la responsabilità dei depistaggi portati alla luce dal pentito Gaspare Spatuzza nel 2008 (si autodenunciò per la strage smascherando il falso pentito Vincenzo Scarantino, ndr) non è solo degli investigatori che hanno costruito a tavolino una falsa verità. I pubblici ministeri che negli anni Novanta hanno condotto le indagini e sostenuto l’accusa nei processi, non hanno visto o non hanno voluto vedere. A parte il balletto delle ritrattazioni e controritrattazioni, dopo un confronto tra Scarantino e un collaboratore del calibro di Salvatore Cancemi che implorava i magistrati di non credere alle bugie di quel personaggio, hanno evitato di depositare le trascrizioni lasciando che il depistaggio proseguisse. E chi s’è accorto che qualcosa non andava s’è limitato a un paio di lettere messe agli atti. Mio padre nel 1988 denunciò pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia, e per questo rischiò di finire sotto processo disciplinare davanti al Csm; è stato lui a insegnare a me, ma prima ancora ai suoi colleghi, che le ingiustizie vanno svelate.

Il male non lo commette solo chi uccide, anche l’indifferenza è colpevole. Sulla strage di via D’Amelio c’è stata una regia occulta per sviare le indagini agevolata dalle sentinelle rimaste in silenzio. È come se un medico vedesse una cartella clinica palesemente falsa e non dicesse nulla. La cosa più incredibile di questa vicenda non è che qualcuno abbia depistato, perché questo purtroppo è accaduto più volte nella storia d’Italia, ma che nessuno si sia messo di traverso nonostante le carte parlassero da sole, fin da subito. Nella migliore delle ipotesi i magistrati sono stati funzionali al depistaggio con la loro incapacità o insipienza, e ancora oggi non ho sentito nessuno ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa.

Sono andata in carcere a trovare gli assassinie ho capito i veri morti erano loro, perché non possono vedere crescere i figli, stare con le loro mogli. Personalmente credo che questa sia veramente la punizione peggiore».

Quando ho chiesto e ottenuto di incontrare in carcere i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (due dei capimafia responsabili della strage di via D’Amelio, ndr) l’ho fatto per l’urgenza emotiva di condividere il dolore non solo con le persone vicine e affini, ma anche con chi quel dolore ha provocato. Guardarli e farmi vedere in faccia. E seppure non ci sono stati risultati tangibili, penso che per loro trovarsi di fronte a una vittima qualche effetto l’abbia provocato. Giuseppe è stato arrogante e quasi offensivo chiamando Paolo Borsellino “la buonanima di suo padre”, e ho notato una certa strafottenza mentre si vantava del figlio che è riuscito ad avere durante il “carcere duro”. Ma sono convinta che ad uscire rafforzata da quei colloqui sono stata io, non loro; loro sono i veri morti di questa storia, non io che vivo insieme a mio padre in ogni momento della mia esistenza. Ho fatto un salto nel buio che è servito a farmi sentire più forte, più determinata a chiedere spiegazioni. Io non cerco altre risposte precostituite, voglio solo ricostruire gli anelli di una catena. Lo ritengo un mio dovere, se ognuno avesse fatto il suo in questi anni oggi non saremmo a questo punto. Mio padre ha fatto tutto ciò che ha potuto non solo per processare i mafiosi ma anche per sconfiggere la cultura mafiosa, senza mai smettere di parlare ai giovani che sono la speranza per il futuro. È quello che provo a fare anch’io, perché in fondo pure le coperture e l’omertà istituzionale che hanno avallato i depistaggi rientrano nella cultura mafiosa.

E’ importante ricordare i fatti successi, così poi, quando ricapiteranno tu sarai libero di scegliere. I mafiosi non hanno avuto scelta, non avevano alternative.

Ma non impiccherò la mia vita a questa storia, non voglio rimanere inchiodata all’ingiustizia subita. La verità sulla strage di via D’Amelio e quello che è successo dopo non riguarda solo la nostra famiglia, ma l’intero Paese. E anche se non arriveremo a ricostruirla per intero, e dopo 27 anni so bene che è molto difficile, avrò comunque la consapevolezza di non dovermi rimproverare nulla. A differenza di altri.

Cerco di trasmettere ai giovani l’esempio di mio padre. Condivido con loro la mia esperienza personale che sento come un dovere civile. La scuola è un importante avamposto educativo dove far lievitare la consapevolezza della legalità e del rispetto delle regole. Quando parlo ai ragazzi colgo la loro attenzione, il loro desiderio di costruire una società migliore. Vado spesso anche nelle parrocchieche aprono le loro porte ai cittadini perché credo sia indispensabile poter dialogare nella maniera più ampia possibile per scuotere le coscienze e arrivare al cuore della gente. Bisogna abbattere il muro dell’omertà, della paura.

L’eredità lasciata da Paolo Borsellino ha tracciato un solco indelebile per edificare un futuro migliore, nell’ attesa che venga fatta chiarezza sui punti oscuri che ancora avvolgono la strage di via D’ Amelio.

I lunghi anni delle indagini e dei processi hanno scandito l’inesorabile passare del tempo, che in casi come questo compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità. Ma non si deve smettere di tendere a essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. Non è ammissibile. 

Mio padre era un cristiano vero, un fervente cattolico, ma soprattutto era una persona credibile, che ha fatto dell’impegno costante e quotidiano nell’ antimafia la sua ragione di vita. Io porto dentro i valori positivi che mi ha insegnato: il senso di giustizia, la legalità, la comprensione dell’uomo. È questa la vera strada da seguire per diffondere e far sentire il fresco profumo della libertà a chi si oppone all’ onestà.

Mio padre amava usare il rasoio a mano per farsi la barba anziché il rasoio elettrico perché in questo modo era costretto ogni mattina a guardarsi allo specchio. Guardandosi in faccia tutti i giorni, se mai ce ne fosse stato bisogno, lo aiutava a convincersi che certe cose non si possono proprio fare.

Vi fu un intreccio molto forte fra mafia e istituzioni, un intreccio che passa anche per quelli che erano i forti poteri economici di allora: uno dei pallini di mio padre era il dossier mafia e appalti, che fu prontamente chiuso pochi mesi dopo l’eccidio di via D’Amelio. Per far luce davvero su tutto, ci vorrebbe un grande contributo di onestà da quegli uomini delle istituzioni che sanno.

Mio padre giocava a calcio con i figli dei mafiosima ha deciso di cambiare strada. Palermo non gli piaceva e per questo ha deciso di amarla perché il vero amore è amare le cose che non ci piacciono e cambiarle.

 È avvenuto tutto questo per indifferenza, perché molti si sono girati dall’altra parte per non avere problemi, per paura di opporsi al sistema, per ansia di carriera, per trovare subito una risposta usando anche la scorciatoia più breve. Noi possiamo soltanto chiedere che si faccia chiarezza.

Mio padre era quello che ogni sera si guardava allo specchio e si chiedeva se quel giorno avesse meritato lo stipendio.

Mio padre ancora vive con noi, nella mia famiglia, nella società, nelle esperienze belle e coinvolgenti. Sono invece loro che sono morti : quelli che da 27 anni restano chiusi in carcere nel loro mutismo, senza collaborare con gli organi che dovrebbe scoprire la verità su quanto accaduto in quel periodo buio per la Sicilia e l’Italia.

I pentiti sono attendibili ? , “Alcuni si Spatuzza ha aperto il proprio cuore nonostante i delitti commessi , e si è veramente pentito rilevando cose importanti. Altri invece no, come per esempio quello Scarantino che fin da subito ha depistato le indagini, facendo anche inquisire molte persone che con l’attentato di via D’Amelio non c’entravano nulla. Quindi bisogna andare avanti con determinazione – ha aggiunto – e fare in modo che tutti operino per chiarire i fatti, magistrati compresi.

Mio padre cercò sempre la verità ma dopo la sua morte questa ricerca non è stata perseguita. Tutti sapevano e mio padre si definì un morto che camminava, ma nulla fu fatto per tutelare la sua incolumità. Dietro questa inerzia ci sono stati solo trasferimenti, molti testimoni non furono sentiti al processo per la sua morte e per quella degli uomini della scorta.

Abbiamo convissuto tutta la vita con il pericolo. Sapevamo che quella era l’unica strada percorribile e questo ci ha dato la forza di combattere e di vincere la paura. In quei 57 giorni (il periodo fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, ndr) si distaccò da noi, era avvolto in una tristezza di fondo, la tristezza di chi andava incontro al sacrificio.

Mio padre e Falcone non erano santi ma uomini comuni che compievano il loro dovere». Una curiosità: «Mio padre era appassionato di linguaggi: sapeva interpretare le allusioni, le ambiguità, i silenzi e i gesti della Sicilia e dei siciliani, dove spesso le parole significano altro. Con Giovanni Falcone capì che per muoversi nella giungla del linguaggio mafioso bisognava parlare la stessa lingua, che lui stesso aveva appreso sin da ragazzo nel quartiere palermitano La Kalsa, giocando con i figli dei mafiosi. Apprese quel linguaggio e lo utilizzò negli interrogatori. Buscetta fu come un insegnante di lingua straniera.

La morte di mio padre arrivò al culmine dell’odio della compagine mafiosa contro coloro che combattevano l’illegalità». L’isolamento di Falcone e Borsellino. «Quando mafia e Stato si mettono d’accordo gli uomini come mio padre restano isolati. Dalle istituzioni, dai colleghi, dalle persone. Lo strumento mafioso più potente è l’omertà che si combatte con lo studio e la cultura.

Mio padre diceva sempre ‘morirò quando la mafia avrà assoluta certezza che sarò rimasto da solo e quando altri lo permetteranno.

Mi piace innanzitutto ricordare un uomo e un padre meraviglioso, sempre presente, arguto, Paolo Borsellino, di cui voglio conservare un ricordo intimo e riservato. Ma voglio rammentare anche il giudice Paolo, proprio attraverso le parole che egli ha dedicato ai giovani – forse le frasi più belle e ricche di significati perché lui amava i ragazzi – che oggi devono costituire un monito per ciascuno di noi. La lotta alla mafia prima di tutto è un movimento morale e culturale che deve abituare tutti a sentire il profumo della libertà, in opposizione al puzzo, al marciume delle infiltrazioni mafiose. Mafia e politica rappresentano due poteri che agiscono per il controllo dello stesso territorio e, pertanto, o si fanno la guerra oppure scendono a compromessi. I libri, non le pistole servono per combattere la mafia, non dobbiamo ricorrere alle conoscenze giuste ma possedere la giusta conoscenza che solo la scuola ci può dare. Siamo invitati a fornire esempi concreti e a porre in essere azioni visibili per realizzare e onorare gli ideali perseguiti da mio padre, promuovendo la legalità, i principi di buona amministrazione e di non complicità con le organizzazioni malavitose. 

Anche nei momenti più difficili non smetteva mai di sorridere anche utilizzando come antidoto alla paura l’ironia, che permetteva di sdrammatizzare. Il 19 luglio 1992 noi eravamo ragazzi adolescenti, tra i 19 e i 22 anni. A quell’età è facile lasciarsi un po’ andare e se non si trovano delle risorse interiori. Abbiamo scelto la strada della vita, se non avessimo fatto così avremmo totalmente sconfessato quelli che sono stati gli insegnamenti di mio padre”.

Aveva capito molto del marcio che c’è all’interno delle istituzioni e, ahimè, anche all’interno della sua stessa categoria. Nonostante ciò ha lottato sino alla fine per dare un’immagine diversa della magistratura e conoscendo la sua ironia probabilmente ora si sta facendo una bella risata. Gli hanno intitolato vie, piazze e aule di tribunali, ma l’unico modo concreto per rendergli onore era fare giustizia e invece si è lavorato in direzione opposta.

Gli esempi di questi uomini, il loro vissuto anche se conclusosi tragicamente, deve essere patrimonio comunee ci insegna che nella vita è importante dire da che parte stiamo e se scegliamo di stare dalla parte giusta, compiamo un atto d’amore nei confronti della nostra terra e dei nostri simili. È ciò che fece mio padre, mise la sua esistenza, il suo operato, a disposizione della sua gente, per liberarla dalla schiavitù della mafia, che non è altro che un organizzazione criminale che segue la via della ricchezza acquisita attraverso affari illeciti.

Ma la mafia è anche nella mentalità che portiamo dentro. Ognuno di noi è un po’ mafioso, quando cediamo alle scorciatoie e usiamo la prepotenza e la sopraffazione per raggiungere degli obiettivi. Spesso le organizzazioni criminali, si nutrono proprio del consenso dei giovani, e quando questi ultimi smetteranno di essere solidali e compiacenti, si comincerà a respirare un’aria di libertà.

La mafia si alimenta della paura di chi non ha il coraggio di denunciaremio padre ha sempre creduto nello stato e nonostante fosse cresciuto in un quartiere popolare di Palermo, dove frequentava anche i figli dei mafiosi, già da piccolo scelse da che parte stare e maturò molto presto, la necessità di fare qualcosa per la sua terra, diventando un giovane magistrato.

Si occupò di mafia dopo che il capitano Basile e sua figlia piccola, furono uccisi, in un periodo storico durante il quale, molti innocenti persero la vita, a dimostrazione che tutti siamo vittime di questo sistema e tutti paghiamo un prezzo.

Soltanto la scuola, la cultura, la verità, la libertà, che sono diritti che nessuno può violare «possono darci la consapevolezza dei nostri doveri e la lotta alla mafia, si può fare con la conoscenza giusta, denunciando i soprusi e superando la paura.

Paolo Borsellino non era un eroe ma un uomo che voleva meritare il suo stipendio, come tutti noi, anch’egli aveva spesso paura, ma è necessario che insieme ad essa, conviva anche il coraggio.

Ha avuto sempre la sua famiglia accanto e anche quando i pericoli erano concreti, non gli abbiamo chiesto di fermarsi.

Mio padre sapeva che sarebbe mortonel momento in cui le istituzioni deviate lo avrebbero permesso e i suoi principali nemici, oltre alla mafia stessa, erano collocati proprio all’interno delle istituzioni, che non ebbero la reale volontà di combattere questo mostro. E mio padre, nonostante non si fosse mai sentito solo, in quel preciso momento fu abbandonato, non venne protetto, e la mancanza di responsabilità morale, prese il sopravvento, segnando il suo destino. 

 Mio padre è morto con dignità, perché è anche vissuto con dignità. Però credo anche che possa vivere e morire con dignità chi, avendo fatto del male, riconosce il danno che ha fatto alle famiglie e alla società e ripara il danno. Credo che la giustizia in sé non sia un giudizio eterno e incontrovertibile, si configura come un equilibrio di molteplici poteri e verità. Avendo delle figlie, so che una verità non è davvero sensata se non può essere spiegata a una bambina di 8 anni. Io dico sempre alle mie figlie che non bisogna mai smettere di sognare, forse io stessa sono una bambina che crede nel cambiamento, quello vero, delle coscienze.”

 

 

bORSELLINO MANFREDI

MANFREDI BORSELLINO

 

Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi. Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo. 

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.  MANFREDI BORSELLINO

Il ricordo degli istanti immediatamente successivi la Strage di Capaci (23 maggio 1992): «Ero a casa a studiare per l’università e mio padre era andato dal barbiere, a piedi, da solo, eludendo la sorveglianza della sua scorta. Lì ricevette una telefonata da un collega. Poco dopo sentii mio padre bussare alla porta, molto affannato, con delle tracce di schiuma da barba sul viso. Io guardavo la televisione impietrito. Non saprei descrivere l’espressione del suo viso. Si diresse nella sua stanza come se non mi avesse visto. Non gli chiesi nulla, lo vidi cambiarsi. In una situazione del genere non si sarebbe mai presentato vestito male, mi ricordo che indossò una giacca, una camicia, come se stesse andando al lavoro. Trovò soltanto il tempo di dirmi di non muovermi di casa. E uscì in fretta… Mia sorella Lucia lo raggiunse in lacrime al centro di medicina legale. Mio padre la prese fra le braccia: “Non piangere Lucia, non dobbiamo dare spettacolo davanti a tutti ora…”. Il giorno dopo fu aperta la camera ardente in un’aula del tribunale, ho trascorso gran parte della giornata con mio padre lì per vegliare i resti di Falcone, accanto a quelli della moglie e della sua scorta. Mi ricordo che non ho fatto altro che piangere. Vedevo mio padre allontanarsi da noi. La notte, poi, sognavo attentati, autostrade che saltavano in aria, edifici sventrati… La vittima era sempre sconosciuta, e mi svegliavo tutto sudato. (2012)

La mattina del 19 luglio (1992), complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive. Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano, “mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii”

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii e ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino e a grande velocità ci recammo in via D’Amelio […]. La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta e abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza se e senza ma a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in ‘familiari superstiti di una vittima della mafia’, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva Paolino sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

Alla luce di ciò che è accaduto dopo è facile pensare che non si sia fattotutto il possibile, perché questa tragedia sievitasse. Noi lo gridiamo a gran voce daanni, perché sono note a tutti le molteistanze di mio padre che non riteneva chela scorta fosse il metodo più sicuro perpoter tutelare la propria incolumità, ancheperché si metteva a rischio quella di ragazzi che avevano la mia età, perché Emanuela Loi aveva la mia età, ma nonostante
tutto mio padre invocò l’aiuto dello Statoperché venissero rafforzate le misure diprotezione, in particolare per quanto riguarda i siti dove più spesso si recava, comequello dell’abitazione della madre. A partequesto episodio che racconto per far comprendere la nostra consapevolezza non solodi quei giorni, ma di quegli anni, mio padre
ebbe la scorta in occasione dell’uccisionedel capitano Basile e quindi nei primi anni’80, per cui tutta la mia infanzia e quelladei miei fratelli è stata vissuta con la costante presenza di persone che hanno fattoquesto lavoro con onestà, con amore, con
dedizione e con trasporto umano assolutamente ricambiato, per cui posso dire diaver avuto una famiglia allargata da questopunto di vista.” 
Estratto da un’audizione di Lucia Borsellino in commissione antimafia, 12 luglio 2016.

LUCIA BORSELLINO

(…) «Non si è nemmeno accorto che sono nello studio, seduta nella poltrona sistemata nell’angolo della stanza, mentre scrive questa lunga lettera (indirizzata alla Professoressa di Padova, n.d.r.). Mi chiede se mi piacerebbe trascorrere quel giorno al mare, a Villagrazia. “Magari riuscirò a vederti un po’ abbronzata, l’esame che avrai domani ti ha costretto finora a non fare neanche un bagno”. Fa il programma della giornata: subito Villagrazia, poi insieme io e lui a prendere la nonna in Via d’Amelio per portarla dal cardiologo, infine a casa: io a studiare, lui a lavorare. Rispondo di no: devo andare da una collega di università per l’ultimo approfondimento di studio, e poi è il giorno del suo compleanno, mi ha invitata a pranzo. “Ma quando li chiuderai, questi libri?”, protesta.  Scuoto la testa: “Papà, non posso venire con te”. È inutile dire che non mi sarei preoccupata dell’esame, se solo avessi sospettato che quel suo viso dolce e sereno l’avrei rivisto solo qualche ora più tardi, dopo aver sentito, mentre studiavo a casa della mia amica, un boato in lontananza». 

(…) «Sono lì da una settimana quando decido di passeggiare, di esplorare un po’ quest’isola dove ci hanno spedito lontano dal pericolo di vendetta della mafia. È il momento che mi rendo conto che nemmeno all’Asinara possiamo stare tranquilli. 

(…) Mi invidiano molto, i miei amici, quando si accorgono quale confidenza, amicizia, complicità c’è tra lui e noi. Anche loro, mi confessano, desidererebbero avere un padre come il mio. Ma, non lo nascondo, ho paura di deluderlo. Quante volte gli chiedo: «Da laureata in farmacia, come posso rendere la mia vita significativa?». È un chiodo fisso, per mio padre, quello del significato della vita. E a ogni occasione: «Se muoio adesso, il mio compito l’ho svolto. Ho dato alla luce e fatto crescere tre figli come voi, l’educazione e gli insegnamenti che potevo darvi li ho trasmessi. Ho la fortuna di non essere una persona sconosciuta, se pronunci il mio nome la gente sa chi sono, cosa ho fatto. Ho svolto il mio lavoro onestamente, ho saputo dare tanto amore alla mia famiglia, sono contento perché credo di essere stato un buon figlio, un buon marito, un buon padre». E aggiungo io, anche una persona disponibile con chi ha bisogno. Riesce a occuparsi di tutti, siano essi parenti o estranei, talvolta chiede sacrifici anche a noi pur di aiutare gli altri. Siamo contenti che lui ci coinvolga: «Non è bene che un padre si chiuda nell’egoismo familiare. C’è tanta gente che ha bisogno di amore e di aiuto. 

(…) Quante volte in vita mia mi sono pentita di quella passeggiata: nell’attimo in cui metto un piede fuori dal giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati, cercando di non farsi vedere da noi. Mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro.  Da quell’attimo mi passa la voglia di passeggiare, di fare qualsiasi cosa. Mi rinchiudo in camera per cinque giorni di fila. Non ho più fame. Ogni giorno che passa è sempre peggio. Mio padre capisce subito cosa sta succedendo. Io no: quando mi chiede “Perché non mangi?” non so dargli risposta. Gli dico che vorrei tornare a casa.  Papà sa che il rischio è altissimo, ma non sente ragioni: prende me e Fiammetta, ci infila in gran segreto in elicottero e ci accompagna fino a Palermo. Restiamo con i nonni a Villagrazia, lui torna all’Asinara dove rimane con mamma e Manfredi fino ai primi di ottobre. Ultimata la stesura della sentenza di rinvio a giudizio del maxiprocesso, l’emergenza sembra passata. Sono ridotta a uno scheletro quando papà torna a Palermo. Da quel momento papà non mi lascia un secondo.  Da “Paolo Borsellino” di Umberto Lucentini

La giovane figlia del giudice assassinato, Lucia Borsellino, intervistata dal Tg5 – “C’ è una frase che papà ci ripeteva sempre e che ha influenzato tutto il mio stile di vita. Era: è bello morire per ciò in cui si crede”. 

Un uomo e un padre fantastico, di una bontà infinita. Lucia ha ricostruito con voce affaticata dall’ emozione il loro ultimo colloquio. “Domenica mattina mi aveva proposto di andare al mare con lui e con mio fratello Manfredi. Ma io gli dissi che non potevo, che dovevo andare a studiare a casa di una collega di università perchè avevo gli esami in vista. Lui c’ era rimasto male. Mi chiese il numero di telefono della casa dove dovevo andare. Glielo diedi, ma lo dimenticò sulla scrivania. Verso il pomeriggio, non mi ricordo che ora fosse, ho sentito da casa della mia collega un rumore, poi sono cominciate ad arrivare le prime notizie, e sono scappata via….”.

La famiglia Borsellino era molto legata a quella Falcone (“Vissi la tragedia di Capaci come sto vivendo quella di mio padre”) alla quale era accomunata “oltre che dalla forte stima, anche da una sorte comune, facevamo una vita simile”. Tanto che dopo l’agguato a Falcone, il giudice Borsellino “aveva cominciato a cautelarsi di più, a stare attento a cose alle quali prima non dava peso, per far stare noi più tranquilli”. Sì, il magistrato sapeva che ci poteva essere un nuovo attentato, “se lo aspettava”; no, non lo diceva, “con noi non ne aveva mai parlato chiaramente”; sì, “mio fratello conosceva i ragazzi della scorta”; no, Lucia non li ha mai conosciuti personalmente. E poi arriva la volta del ricordo dell’isolamento all’ Asinara. “All’ inizio non mi sembravano momenti troppo difficili, il posto era bellissimo. Ma poi abbiamo cominciato ad avvertire, giorno dopo giorno, una grande solitudine. Percepivamo che quella che facevamo non era una vita normale e non vedevo l’ora di venir via, di tornare a casa mia”. Non si sottrae ad alcuna domanda Lucia Borsellino, ma con la forza di una figlia che per anni ha temuto la morte violenta del padre dice, quasi a rendergli un ultimo omaggio: “E’ sempre stato un uomo fiducioso, sempre. E infatti è morto per questo: credeva troppo in quel che faceva. Il futuro? Vivere normalmente, secondo i suoi insegnamenti”. ‘ Occorrono giudici senza ombre’  DI STRAGE IN STRAGE – ATTILIO BOLZONI, 21 LUGLIO 1992

 Borsellino Agnese

Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare. Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta, niente altro. Non è mai cambiato in questo.

Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. “Forse ci fu cosa?”. “Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu. Amore mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo, telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.” Un giorno fummo invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si vantavano: «Mio padre, il senatore»; «Mio padre, il principe»; «Mio padre, il professore di università». Vedevo che Paolo era insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno». E fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla battuta di Paolo. «Perché l’hai fatto?” gli chiesi. «Li conosco quei ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università». Erano quegli stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o le scarpe bucate.

Mi diceva: “Sorrido a fratello sole, perché oggi ci donerà un’altra bella giornata”. E accarezzava i nuovi germogli: “Sai, Agnese,” sussurrava, “sono un uomo fortunato, perché alla mia età riesco ancora a emozionarmi”. Si emozionava per le piccole cose della vita, nonostante i momenti difficili che viveva. Poi diceva: “In ciascuno di noi alberga il fanciullino di pascoliana memoria”. E cominciava un’altra giornata. Intanto, i ragazzi si svegliavano, uno dopo l’altro. Manfredi e Fiammetta erano dei veri dormiglioni, amavano rigirarsi sotto le coperte. Lucia, invece, era già vestita. Allora Paolo iniziava a battere le mani, e alzava le serrande delle stanze dei bambini. 

Tante vite ho vissuto. Prima e dopo Paolo Borsellino, mio marito, il padre dei miei figli. Me l’hanno portato via una domenica di luglio di vent’anni fa, ma è come se fosse ieri. Lo sento ancora avvicinarsi: mi sorride, mi fa una carezza, mi dà un bacio, poi esce accompagnato dagli agenti di scorta. E non c’è più, inghiottito da una nuvola di fumo che vorrebbe ingoiare tutta la città. Subito dopo il suo assassinio mi invitavano spesso a incontri e ricevimenti organizzati in tanti luoghi importanti delle istituzioni: al Quirinale, al Senato, alla Banca d’Italia, e in altri palazzi romani. Anche al Vaticano mi invitavano. Io me ne stavo seduta in un angolo. Silenziosa, annichilita. Come fossi una bella statuina. Fra me e me dicevo: “Mi cercano perché sono la moglie di Paolo Borsellino, mi stanno vicini per la memoria di mio marito, un magistrato che ha sacrificato la sua vita per lo stato”. Mi facevano anche tanti doni preziosi quegli uomini del potere.

Accanto ho i miei tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta. Sono la reincarnazione del padre, non posso che andare orgogliosa di loro, soprattutto perché servono lo stato, quello stesso stato che non pare avere avuto solo la colpa di non avere protetto il loro genitore. Accanto ho gli amati nipotini, e poi mia nuora Valentina, i miei generi Fabio e Antonio, che sono come dei figli per me. Tutti loro continuano a rendere viva questa casa, che qualcuno avrebbe voluto far precipitare in un baratro di morte e rassegnazione. E invece no, questa famiglia continua a vivere, a lottare, a discutere, a gioire, a domandarsi il perché delle cose. Accanto ho anche tanti amici, di alcuni non conosco neanche il nome. Eppure, mi donano la vita: con le piastrine del loro sangue sopravvivo a questo male subdolo, imprevedibile. Qualche mese fa, in ospedale, è venuto un frate per darmi l’olio dell’estrema unzione.   Ma io continuo a vivere, e vivo per l’amore di tante persone. E amore cerco di donare anch’io. Con le parole mie e tutte le parole di Paolo che ricorderò. Ogni giorno, poi, Manfredi e mio nipote Luigi mi portano un bel po’ di fogli, sono tutti i messaggi arrivati al gruppo che è stato creato per sostenermi. Un gruppo che si trova in un posto dal nome strano, almeno così appare ai miei occhi. Mi hanno spiegato che si chiama Facebook, dicono che in italiano voglia dire “faccialibro”, è buffo e straordinario per una signora della mia età, che ha scoperto solo da qualche tempo l’esistenza di una cosa altrettanto strana che si chiama Internet. Ma a me sono sempre piaciute le cose nuove, soprattutto quelle che fanno i ragazzi. Perché, in fondo, non ho mai smesso di sentirmi giovane. E faccio bene, perché “faccialibro” e Internet mi hanno permesso di conoscere davvero tantissime persone, di tutte le età e senza questa magia sarebbe stato impossibile per una persona come me, che ormai non esce più di casa, se non per brevissime passeggiate. Mi scrivono da tutta Italia, per raccontarmi di un paese che resiste ogni giorno nel nome di Paolo Borsellino e di tutti gli altri martiri della mafia. Resiste al malaffare dei politici corrotti, alle mafie e ai loro insospettabili complici. Resiste con coraggio e indignazione, come avrebbe fatto Paolo. Resiste con gioia e ironia. Per me è come essere ogni giorno in viaggio per questa Italia che non si arrende e pensa a costruire un domani bello.  

I nomi che con Paolo abbiamo dato ai nostri figli sono proprio il simbolo della speranza e di un passato nobile che resta immortale, proiettato nel futuro: Manfredi, l’ultimo re di Sicilia; Lucia è la creatura di Alessandro Manzoni; Fiammetta è uno dei personaggi amati dal Boccaccio. Sento che Paolo è ancora qui con me, vivo. Aveva visto giusto mentre accarezzava i suoi germogli. Oggi sarà un’altra giornata bellissima. Con le battaglie di tante donne e tanti uomini che non si rassegnano. Oggi aspetto soprattutto i miei nipotini: Agnese, Vittoria, Merope, Paolo, Fiammetta e Felicita. E un altro nipotino o nipotina, ancora non sappiamo, è nel grembo di Fiammetta. Le loro vocine allegre riempiranno questa casa. E mi sembrerà di sentire la voce di Paolo che accoglie a braccia aperte i suoi nipoti e a ognuno racconta una storia bellissima. Nessuno di loro ha conosciuto questo nonno così speciale. Ecco un altro motivo per cui ho deciso di scrivere, perché i miei bambini possano portare sempre nel cuore la gioia e la forza di nonno Paolo. Tutti i bambini del mondo dovrebbero crescere con la gioia e con la forza nel cuore. La gioia e la forza di una storia a cui si sono appassionati. Se non ce l’hanno ancora, proverò io a raccontargliela.

Ricordo un bellissimo presepe di cartapesta, che mi fu regalato da un presidente della repubblica. Ricordo un enorme mazzo di rose, non ne avevo mai viste tante in vita mia tutte insieme, le contai, erano cinquanta. Ricordo tanti oggettini d’oro, che anche un po’ mi imbarazzavano, ma li accettavo perché ritenevo che fossero tutti doni offerti a Paolo Borsellino. In quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sui progetti che aveva, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano tante domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano quelle cose mi sembrava come se tutti mi stessero osservando, anche se facevano altre cose: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano. Era una strana sensazione quella che provavo mentre continuavano a chiedermi di Paolo. Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo. Volevano capire se mio marito mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. Evidentemente, erano preoccupati. Me ne sono resa conto quando ho appreso, attraverso le notizie lette sui giornali, cosa avevano scoperto i magistrati di Caltanissetta e Palermo. 

Ho letto del depistaggio attorno alle indagini che sin da subito avrebbero dovuto fare luce sulla morte di Paolo e dei ragazzi della sua scorta, la cara Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Ho letto dell’inchiesta sulla trattativa fra lo stato e la mafia, che sarebbe avvenuta fra le bombe di quella terribile estate. E allora, tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Come non mai. Voglio ritrovarle tutte le parole di Paolo. Parole di amore, di verità, di rabbia, di indignazione. Voglio ritrovare anche le sue parole di paura, di amarezza, di tristezza, che poi erano accompagnate sempre da altre parole: di coraggio, di speranza, di gioia, di ironia, di forza. Lo so che non sarà facile ritrovare le parole del mio amato Paolo, ma ci voglio provare, ripercorrendo dentro di me tutte le vite che ho vissuto. Prima e dopo di lui. Perché le mie vite sono state scandite dalle parole di Paolo. Scandite, accarezzate, sostenute. Ho cominciato allora a guardare fra i suoi appunti, fra le carpette.

Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora. Ho bisogno delle parole di Paolo, perché mi sento persa senza di lui, soprattutto adesso che mi trovo ad affrontare un male incurabile. Quanto sto soffrendo. Sono tappezzata di bende, non posso più neanche fare dei piccoli passi in casa, e mi ritrovo su una sedia a rotelle. Le mie sofferenze sono atroci. Ma quelle parole che tante volte mi hanno confortato, mi hanno dato coraggio, alleviano la mia sofferenza.

Ma non si può vivere solo di ricordi, e il mio amore per Paolo è diventato amore per questo Paese, per i giovani. E’ un amore che si rinnova ogni giorno, come lui mi ha insegnato. Mi piaceva sentirglielo ripetere. E allora gli chiedevo come fosse la prima volta: “Come si mantiene sempre fresco l’amore?” Lui sorrideva e mi diceva: “Ogni giorno con una novità, che non è solo un fiore o un regalo. Perchè tutto passa. Io ogni giorno devo farti innamorare di me. E tu devi fare la stessa cosa. Tutti e due dobbiamo inventarci sempre qualcosa di diverso”. Era ormai diventato un delizioso rituale quel dialogo sull’amore.
Gioia mia anche adesso che non ci sei continuo ad inventarmi qualcosa di diverso ogni giorno. Come se tu fossi qui, come se non ti avessero mai portato via da me… 

Paolo diceva, rivolgendosi ai giovani, “non arrendetevi mai, abbiate sempre il coraggio di lottare”. Siamo arrivati al 2012. Sono passati 20 anni da quel tragico 19 luglio. Mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato a rispettare le istituzioni. Lui credeva nelle istituzioni. Credeva nello Stato.  Mi rivolgo a voi come ai soli in grado di raccogliere davvero il messaggio che mio marito ha lasciato, un’eredità che oggi, malgrado le terribili verità che stanno mano a mano affiorando sulla morte di mio marito, hanno raccolto i miei tre figli, di cui non posso che andare orgogliosa soprattutto perché servono quello stesso Stato che non pare avere avuto la sola colpa di non avere fatto tutto quanto era in suo potere per impedire la morte del padre. 

Leggendo con i miei figli (qui in ospedale dove purtroppo affronto una malattia incurabile con la dignità che la moglie di un grande uomo deve sempre avere) le notizie che si susseguono sui giornali, dopo alcuni momenti di sconforto ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese, perché mi rendo conto che abbiamo il dovere di rispettarle e servirle come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato, non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato attorno a lui. Oggi voglio rendere omaggio a tutte quelle persone che hanno creduto in mio marito e nel lavoro di mio marito.

Voglio rendere omaggio a coloro che dimostrano ogni giorno di amare mio marito per ciò che ha fatto per la Sicilia e per l’intero Paese. Paolo non ha fatto un solo passo indietro di fronte al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato intorno a lui. E’ andato avanti, nel nome del lavoro che amava. Pur tra mille difficoltà è andato avanti, a testa alta. Io e i miei figli non ci sentiamo persone speciali, non lo saremo mai, piuttosto siamo piccolissimi dinanzi la figura di un uomo che non è voluto sfuggire alla sua condanna a morte, che ha donato davvero consapevolmente il dono più grande che Dio ci ha dato, la vita.   Io non perdo la speranza in una società più giusta ed onesta. Voi giovani costituite il futuro della nostra società. Per un domani migliore. Sono convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia. 

E allora, tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Come non mai. Voglio ritrovarle tutte le parole di Paolo. Parole di amore, di verità, di rabbia, di indignazione. Voglio ritrovare anche le sue parole di paura, di amarezza, di tristezza, che poi erano accompagnate sempre da altre parole: di coraggio, di speranza, di gioia, di ironia, di forza. Lo so che non sarà facile ritrovare le parole del mio amato Paolo, ma ci voglio provare, ripercorrendo dentro di me tutte le vite che ho vissuto. Prima e dopo di lui. Perché le mie vite sono state scandite dalle parole di Paolo. Scandite, accarezzate, sostenute.

Ricordo le parole di Paolo: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Anche questa era una buona novella che mio marito mi annunciava ogni giorno. Perché a differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare. La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è viscido.

L’ultima occasione in cui ho visto veramente sorridere Paolo è stato il Capodanno 1991, ad Andalo. Era particolarmente felice perché ci aveva raggiunto suo fratello Salvatore con la moglie e i figli. Fu una festa, l’ultima per la nostra famiglia. In quelle piacevoli serate, Paolo non si limitava a intrattenere la sua famiglia, ogni tanto si allontanava per una sigaretta. E scompariva. Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo in mezzo a una comitiva di giovani sciatori mentre raccontava di Palermo e delle gesta del pool antimafia.

Nel fine settimana organizzavamo delle occasioni conviviali con qualche altra giovane coppia. Le mogli dei colleghi di Paolo si pavoneggiavano: «L’altro giorno mio marito mi ha regalato delle rose bellissime». Oppure: Mio marito mi ha regalato una collana splendida. Guardate. Qualcuna, con un tono ancora più accorato, mostrava il suo abito: Questo me lo ha regalato lui. Ovvero, ancora una volta, il marito. Io, invece, non potevo esibire niente. E neanche potevo aspettarmi qualche gesto galante da Paolo. Almeno non nel senso inteso generalmente. Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. Allora mi faceva finire di parlare, poi mi chiedeva: «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata». Faceva una pausa e mi diceva ancora: «Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella».La prima volta che me lo disse rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. Erano lacrime di felicità. Mentre lui continuava: «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò».Paolo adorava raccontare la lieta novella, i fatterelli umani. E i protagonisti erano i più diversi, anche mafiosi incalliti, che però nel racconto assumevano una luce davvero particolare e unica. Era un racconto sempre affascinante il suo. Aveva una storia sempre diversa da narrarti. Mi diceva: «La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore». Faceva una pausa e sussurrava: «Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco». Mi guardava, con il suo solito sorriso sornione, e con aria severa mi chiedeva: «Agnese, tu lo sai come si mantiene fresco l’amore?» Non provavo neanche a indovinare la risposta, perché mi piaceva troppo sentirlo parlare. «L’amore si mantiene fresco con una novità ogni giorno. Che non è il fiore, o un regalo qualsiasi. Perché tutto passa. Io ogni giorno mi devo reinnamorare di te. E tu di me. Inventandoci qualcosa di diverso».Questa è stata la mia vita con Paolo, una lieta novella. Nonostante le difficoltà immani che abbiamo dovuto affrontare per la scelta che aveva fatto. Ma io ho condiviso tutto con lui. E non gli ho chiesto mai niente. Perché la lieta novella che mi raccontava ogni giorno era già tutto per me. E anche le giornate pesanti diventavano allegre con le sue parole.

Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima volta che me lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno.”

“Mentre sorgeva il sole, lui si accorgeva di un nuovo germoglio nelle piante sistemate con cura sul balcone della nostra casa di via Cilea. Sorrideva, rideva anche di gusto. Quante volte l’ho guardato strano in quelle mattine. Gli chiedevo: “Paolo a chi sorridi”? Mi diceva: “Sorrido a fratello sole, perché oggi ci donerà un’altra bella giornata”. E accarezzava i nuovi germogli: “Sai Agnese, sono un uomo fortunato, perché alla mia età riesco ancora ad emozionarmi”  

Spesso o quasi sempre alla stessa ora, mio marito usciva da solo per comprare le sigarette o il giornale, come se volesse mandare un messaggio ai suoi carnefici, perché lo uccidessero quando lui era da solo e non quando si trovava con i suoi angeli custodi. Lui diceva sempre: il mio scudo è Giovanni Falcone quando non avrò più questo scudo, avverrà la mia fine. Io ritengo che mio marito sia stato abbandonato al suo destino di morte.

Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler essere baciato né da me né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio, mi disse: “Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta”. Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. << Per me è finita. Agnese non facciamo programmi. Viviamo alla giornata>>. Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi, e altri a permettere che ciò potesse accadere. Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima avevi chiamato al palazzo di giustizia Padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, Sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.

‘A Palermo, ma non solo a Palermo, bisogna avere, si deve avere il coraggio di evitare o troncare amicizie, frequentazioni o semplici contatti con persone importanti o altolocate chiacchierate da cui si possono trarre favori più o meno leciti; si deve avere la forza di rinunciare a coltivare rapporti con persone che nel tempo hanno intrapreso un’altra strada, la strada della contiguità e della complicità con il malaffare e la delinquenza in genere.” Questo Paolo ha insegnato ai figli. La sua stessa vita è stata una continua rinuncia: una rinuncia ai divertimenti, alla vita mondana, ad amicizie risalenti ai tempi della scuola o dell’università con persone che egli stesso si era ritrovato a indagare e perseguire, anche per fatti molto gravi. 

Se mi dicono perché l’hanno fatto, se confessano, se collaborano con la giustizia, perché si arrivi ad una verità vera, io li perdono. Devono avere il coraggio di dire chi glielo ha fatto fare, perché l’hanno fatto, se sono stati loro o altri, dirmi la verità, quello che sanno, con coraggio, con lo stesso coraggio con cui mio marito è andato a morire, di fronte al coraggio io mi inchino, da buona cristiana dire perdono, ma a chi? Io perdono coloro che mi dicono la verità ed allora avrò il massimo rispetto verso di loro, perché sono sicura che nella vita gli uomini si redimono, con il tempo, non tutti, ma alcuni si possono redimere è questo quello che mi ha insegnato mio marito. 

Poi, la verità bisognerebbe chiederla a tanti uomini delle istituzioni, che sanno, ma non parlano. Lo dovrebbe fare tutta la società civile. Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo. Sono sicura che esiste ancora quell’agenda. Non è andata dispersa nell’inferno di via D’Amelio, perché era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e soldi. Quell’uomo sappia che io non gli darò tregua. Nessun italiano deve dargli tregua. Ecco perché è importante che la gente partecipi alla vita civile e non si giri dall’altra parte. Perchè le domande di ognuno sono fondamentali per trovare la verità. 

Le parole di Paolo Borsellino servono anche alla nostra Italia, oggi più che mai. In questo periodo mi sembra di rivivere i giorni terribili che precedettero la terribile estate del 1992, l’estate delle stragi: la situazione del paese resta difficile e poi, soprattutto, i nostri magistrati sono vicini a scoprire qualcosa di importante. Quello che Paolo aveva capito dopo la morte del suo amico Giovanni: pezzi dello stato dialogavano con i vertici della mafia. Oggi, tante cose sono state già verificate, altri importanti riscontri –ne sono sicura –arriveranno presto. E così potremo capire più chiaramente il contesto in cui è maturata la strage che ha ucciso il mio Paolo, e le ragioni per cui quel 19 luglio 1992 in via d’Amelio è stata trafugata la sua agenda rossa. Per queste delicate indagini, davvero un momento di svolta dopo vent’anni, minacciano i magistrati, anche solo con delle stupide lettere anonime, che servono a trasmettere paura e angoscia, così da rendere più difficile il lavoro di inchiesta. Ecco perché i nostri magistrati vanno protetti, non soltanto con degli uomini armati. La vera protezione è un’altra, quella che può dare solo il sostegno delle istituzioni e della società civile. Anche Paolo doveva essere protetto, e non lo fu. Ecco perché scrivo. Ecco perché ho deciso di ripercorrere le tante vite che ho vissuto, prima e dopo Paolo Borsellino. Perché se altro sangue fosse versato, ne morirei. Ma già adesso mi indigno per le parole d’insulto pronunciate verso chi cerca senza sosta la verità. Mi indigno e mi arrabbio. Perché nessuno più, dentro i palazzi delle istituzioni, si indigna e si arrabbia? So di non essere sola in questo percorso che ho deciso di fare. Un percorso che è già un racconto, una preghiera, ma soprattutto una battaglia quotidiana contro le tante storture –politiche, economiche e sociali –che affliggono il nostro paese. È la mia battaglia, perché io non smetterò di indignarmi e di arrabbiarmi. 

“C’è il segreto di Stato, cose atipiche per cui trovare la verità non è facile. Via D’Amelio non solo ha distrutto l’immagine dell’Italia, ma ha distrutto la mia vita. Io sono tra la vita e la morte. Questo è bene che sappiano le persone. Perchè non sono una vedova come le altre, che si sono ricostruite bene o male una vita. Io ci soffro da vent’anni e in silenzio. Io e tutta la mia famiglia. Che parole vuole che ci siano? Piango anche se di lacrime ne ho versate tante. Mi vergogno di essere italiana, spero che queste notizie facciano il giro del mondo”. E nella sua ultima intervista al Corriere della sera: “Bisogna cambiare questa Italia di corrotti e corruttori, di ricattati e ricattatori, tutti che si tengono per mano come bambini in girotondo. Al centro schiacciano l’Italia. Si tengono fra loro stritolando un Paese. Ecco perché non ne posso più di sentire parlare di antimafia e di legalità in bocca a troppi che non potrebbero fiatare. La gogna ci vorrebbe, anche per chi riceve una comunicazione giudiziaria. Parlo della gogna del ridicolo, delle vignette, insomma un metterli a nudo invece di ritrovarceli protagonisti della vita pubblica. Non ho il titolo nè la competenza per commentare conflitti di attribuzioni sorti tra poteri dello Stato, ma sento di avere il diritto, forse anche il dovere di manifestare tutto il mio sdegno per un ex ministro, presidente della Camera e vice presidente del Csm, che a più riprese nel corso di indagini giudiziarie, che pure lo riguardavano, non ha avuto scrupoli nel telefonare alla più alta carica dello Stato, cui oggi io ribadisco tutta la mia stima, per mere beghe personali. “Non sorprende che l’attenzione dei media si sia riversata sul Quirinale, ma il protagonista di questa triste storia è solo il signor Mancino, abile a distrarre l’attenzione dalla sua persona e spregiudicato nel coinvolgere la Presidenza della Repubblica in una vicenda giudiziaria, da cui la più alta carica dello Stato doveva essere tenuta estranea. 

Oggi io, moglie di Paolo Borsellino, mi chiedo: chi era e quale ruolo rivestiva l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino, quando il pomeriggio del primo luglio del ’92 incontrò mio marito? Perchè Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?. Mancino, se proprio voleva, doveva telefonare a Loris D’Ambrosio a casa, incontrarlo al bar, ma non chiamarlo al Quirinale mettendo nel mezzo quel galantuomo di Napolitano. È gravissimo il comportamento di Mancino. Non mi fido di lui. Perché ricordo cosa mi disse mio marito: ‘Al Viminale ho respirato aria di morte’. E Mancino non ricorda di averlo visto nei suoi uffici nel luglio ’92”. Tanta rabbia ma anche una forte determinazione: “Ho fiducia nel tempo. Non voglio vendetta, voglio sapere la verità, perchè è stato ucciso, chi ha voluto la sua morte e perchè lo hanno fatto e non voglio nient’altro. Ho tanta pazienza e tanta fiducia. Magari subito no, ma con il tempo la verità si saprà, perchè gli italiani come me vogliono sapere perchè è stato ucciso un uomo che era il simbolo della bontà.

Sono convinta che fin da quei primi anni ottanta Paolo avesse capito chi erano i suoi veri nemici. Non i mafiosi assassini, ma quegli insospettabili che i magistrati del pool avevano individuato in certi ambienti altolocati di Palermo. Sono convinta che anche oggi i magistrati di Palermo e Caltanissetta sanno, sanno chi vorrebbe ostacolare per sempre il loro lavoro. Non è solo la mafia, è anche qualcuno dentro lo stato. Ecco allora bisogna cercare senza sosta la verità sulle stragi, non mi stancherò mai di ripeterlo. Lo ripeterò finché mi resterà un filo di voce. E anche quando non ci sarò più, questa mia richiesta di verità dovrà risuonare sempre viva. Sono sicura che tanti giovani la ribadiranno al mio posto, con tutto il fiato che hanno in gola. Perché questa è una battaglia difficile, difficilissima. Tanti, troppi rappresentanti delle istituzioni fanno finta di non sentire. 

Innanzitutto, bisognerebbe aprire gli archivi di Stato. E guardarci dentro. Perché, purtroppo, tante verità sono ancora dentro i palazzi delle istituzioni”. “La verità bisognerebbe chiederla a tanti uomini delle istituzioni, che sanno, ma non parlano. A loro non voglio rivolgere un appello. Sarebbe tempo perso. Perché loro sono degli irriducibili. Questi uomini si devono mettere solo alla berlina, si devono sbeffeggiare, come avrebbe fatto oggi Paolo Borsellino. 

Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo. Sono sicura che esiste ancora quell’agenda. Non è andata dispersa nell’inferno di via d’Amelio, ma era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e soldi.    

In quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano altro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano. Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora. 

Paolo era sempre il primo ad arrivare in ufficio, di buon mattino, e prendeva una delle adorate papere della collezione di Falcone. Poi aspettava che Giovanni se ne accorgesse. Magari, Paolo si divertiva pure a fargli sorgere il dubbio: «Ma ci sono proprio tutte le tue paperelle? Ne sei sicuro?». Quegli scherzi erano un modo per allentare la tensione. A un certo punto, Paolo lasciava di nascosto un biglietto nella stanza di Giovanni: “Se vuoi riavere la tua papera cinquemila lire mi devi portare.

Mi ricordo come fosse oggi quando il primo luglio tornò da Roma e mi disse: «Ho respirato aria di morte». Il pomeriggio era stato al Viminale, per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Quel giorno aveva anche ascoltato il nuovo pentito Gaspare Mutolo, che gli aveva parlato dei rapporti intrattenuti da alcuni uomini delle istituzioni con Cosa nostra.

“Io non cerco vendetta, voglio sapere perché è morto il mio Paolo. Non importa quanto ci vorrà, fosse anche un’eternità. Io, di certo, non vivrò abbastanza per conoscere la verità. Non importa. E’ importante, invece, che i cittadini italiani sappiano la verità. Tutti dovrebbero pretenderla a gran voce”. verità. “Innanzitutto, bisognerebbe aprire gli archivi di Stato. E guardarci dentro. Perché, purtroppo, tante verità sono ancora dentro i palazzi delle istituzioni”, “La verità bisognerebbe chiederla a tanti uomini delle istituzioni, che sanno, ma non parlano. A loro non voglio rivolgere un appello. Sarebbe tempo perso. Perché loro sono degli irriducibili. Questi uomini si devono mettere solo alla berlina, si devono sbeffeggiare, come avrebbe fatto oggi Paolo Borsellino”.    “Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo. Sono sicura che esiste ancora quell’agenda. Non è andata dispersa nell’inferno di via d’Amelio, ma era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e  soldi. 

Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito,. Al punto da non voler essere baciato né da me né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio, mi disse: <<Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta>> . Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. << Per me è finita. Agnese non facciamo programmi. Viviamo alla giornata>>. Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi, e altri a permettere che ciò potesse accadere. Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima avevi chiamato al palazzo di giustizia Padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, Sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.

La storia di via D’Amelio mi ha distrutto la vita. È una situazione apocalittica, mio figlio non vuole più che legga i giornali, che senta queste cose perché giustamente mi dice mamma, gli ultimi giorni che ti restano ti avveleni la vita più di quanto te la sia avvelenata. A me resta solo piangere, anche dopo vent’anni. Perché per me è come fosse stato ieri». Alle feste – racconta la signora Agnese – guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima volta che me lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò. La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore. Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco 

A Palermo, ma non solo a Palermo, bisogna avere, si deve avere il coraggio di evitare o troncare amicizie, frequentazioni o semplici contatti con persone importanti o altolocate chiacchierate da cui si possono trarre favori più o meno leciti; si deve avere la forza di rinunciare a coltivare rapporti con persone che nel tempo hanno intrapreso un’altra strada, la strada della contiguità e della complicità con il malaffare e la delinquenza in genere.” Questo Paolo ha insegnato ai figli. La sua stessa vita è stata una continua rinuncia: una rinuncia ai divertimenti, alla vita mondana, ad amicizie risalenti ai tempi della scuola o dell’università con persone che egli stesso si era ritrovato a indagare e perseguire, anche per fatti molto gravi. 

Mentre sorgeva il sole, lui si accorgeva di un nuovo germoglio nelle piante sistemate con cura sul balcone della nostra casa di via Cilea. Sorrideva, rideva anche di gusto. Quante volte l’ho guardato strano in quelle mattine. Gli chiedevo:”Paolo a chi sorridi”? Mi diceva: “Sorrido a fratello sole, perché oggi ci donerà un’altra bella giornata”. E accarezzava i nuovi germogli: “Sai Agnese, sono un uomo fortunato, perché alla mia età riesco ancora ad emozionarmi”  “Sono convinta che fin da quei primi anni ottanta Paolo avesse capito chi erano i suoi veri nemici. Non i mafiosi assassini, ma quegli insospettabili che i magistrati del pool avevano individuato in certi ambienti altolocati di Palermo. Sono convinta che anche oggi i magistrati di Palermo e Caltanissetta sanno, sanno chi vorrebbe ostacolare per sempre il loro lavoro. Non è solo la mafia, è anche qualcuno dentro lo stato. Ecco allora bisogna cercare senza sosta la verità sulle stragi, non mi stancherò mai di ripeterlo. Lo ripeterò finché mi resterà un filo di voce. E anche quando non ci sarò più, questa mia richiesta di verità dovrà risuonare sempre viva. Sono sicura che tanti giovani la ribadiranno al mio posto, con tutto il fiato che hanno in gola. Perché questa è una battaglia difficile, difficilissima. Tanti, troppi rappresentanti delle istituzioni fanno finta di non sentire” “Rifiutare sempre i compromessi. 

Era una festa che si ripeteva con il solito gioioso rituale. Paolo tirava via le coperte, magari apriva anche la finestra, primavera o inverno non faceva differenza, ma Fiammetta e Manfredi erano ancora aggrappati al cuscino. E protestavano per quel trattamento. Mi sembra oggi. Sento l’odore del caffè, che Paolo adorava. Sento la sua voce allegra mentre racconta le solite barzellette. A un certo punto, la voce si fa seria, Paolo chiede ai ragazzi delle cose di scuola. Poi squilla il campanello di casa, sono gli uomini della scorta. Paolo mette sul fuoco un’altra caffettiera. Quegli agenti sono come dei figli per lui, li tratta con il massimo delle attenzioni. Dopo il caffè, ci saluta tutti con un bacio, ed esce velocemente, perché ci tiene ad arrivare in ufficio alle 8 in punto. Mentre Lucia, Manfredi e Fiammetta scorrazzano ancora per casa sistemando le ultime cose da mettere dentro lo zaino. “Sbrigatevi, si è fatto tardi,” dico all’allegra brigata. E intanto un sole bellissimo entra dalle finestre del salone di casa nostra. Sono una mamma felice, che non smette di sperare e di lottare in silenzio.

 

                                                         TI RACCONTERO’ TUTTE LE STORIE che potrò di Agnese Borsellino

A differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: “Voi siete come me, avete un’anima,  come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti”. Loro gli rispondevano: “Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie”. E lui insisteva: “No, anche voi avete i sentimenti, solo che non sapete di possederli. Allora, è venuto il momento di tirarli fuori”. Mi chiedo quale sia oggi il magistrato che interroga in questo modo

Mi disse, Via dAmelio è stata da colpo di Stato. E mise giù il telefono. Un mese dopo, Cossiga morì. Cosa volesse dirmi esattamente con quelle parole non lo so. Però, la voce di Cossiga non la dimenticherò mai. Evidentemente, voleva togliersi un peso”.

 Due giorni prima che lui morisse Paolo mi ha detto: Io non vedrò i risultati del mio lavoro, li vedrete voi dopo la mia morte, perché la gente si ribellerà, si ribelleranno  le coscienze degli uomini di buona volontà “.

Perdonare gli autori della strage di via DAmelio? Forse sembra incredibile, ma nessuno me lo ha mai chiesto sarebbe stato facile, durante una cerimonia pubblica, approfittando di un messaggio in televisione, dire ”io vi perdono”. Ma no, non è questo il punto…”. No, non è il perdono il punto Io ancora oggi voglio capire chi e perché ha ucciso mio marito, intendo conoscere le singole responsabilità a ogni livello. Lo spero anche per la società: bisogna sapere cos’è successo allora. E poi, il perdono non deve fare da contraltare al desiderio di giustizia che coltiviamo ormai da troppo tempo”.

Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.

MARIA PIA LEPANTO mamma di Paolo Borsellino

Non voglio un monumento ma un segno che ricordi la vita. Era l’aprile del 1993 quando Maria Pia Lepanto, madre di Paolo Borsellino, guardando una voragine sull’asfalto di via D’Amelio ancora dilaniata dall’esplosione che poco più di un anno prima uccise il figlio insieme agli agenti della scorta, espresse alla figlia Rita il desiderio di colmare quel vuoto con una piantina d’ulivo che venne piantumata ad un anno dall’eccidio. Lentamente, quella piccola piantina è diventata un albero, simbolo di rigenerazione, di solidarietà, d’impegno civile e soprattutto di pace.

Quando Maria, la madre di Borsellino, sentì l’esplosione, in cuor suo sapeva che quella era la bomba destinata al figlio. Ma si volle convincere che si trattava di una fuga di gas e si affrettò per quattro rampe di scale per andare fuori. Superò i corpi di suo figlio e delle guardie del corpo, ma più tardi disse, al vigile del fuoco che la portò in ospedale, di non averli visti. Non vide nessun segno del massacro.
Lucia, la figlia di Borsellino, che stava studiando a casa di un amico, sentì il boato dell’esplosione a una certa distanza da lì. Arrivò presto in Via D’Amelio.
Un lenzuolo che copriva il corpo di suo padre fu sollevato per permetterle di vederlo; Lucia tenne la sua testa tra le braccia. In seguito, tornò a casa e trovò la forza di dire a sua madre: «Avessi visto com’era serena l’espressione del babbo».
A terra, davanti al sedile posteriore c’era la valigetta di pelle di Borsellino: era intatta. All’interno, la Polizia trovò le sue chiavi di casa, un pacchetto di sigarette e un costume da bagno bianco ancora umido. Ma non c’era traccia di una grande agenda rilegata in pelle rossa sulla quale scriveva regolarmente e che non aveva mai fatto leggere a nessuno. Sua moglie Agnese lo aveva visto impegnato a scrivervi quel pomeriggio, poco prima di lasciare la casa al mare.
Borsellino morì a cinquantadue anni, come aveva previsto, proprio come suo padre e suo nonno.
Più tardi Agnese confidò: «Paolo cominciò a morire quando morì Giovanni».

LA NUOVA SARDEGNA  Allora, Manfredi Borsellino era un ragazzino poco più che tredicenne.. “Ricordo di avere trascorso quasi un mese in una sorta di paradiso terrestre e di essermi sentito protetto come poche volte nella vita. Credo che questa sensazione fosse comune anche ai miei genitori e alle mie sorelle. Non avevo ancora compiuto 14 anni per cui, rispetto a Lucia, avvertii meno il peso di quella vacanza forzata, direi quasi di deportazione. É una esperienza che già allora segnò indelebilmente oltre a mia sorella Lucia anche il sottoscritto e la più piccola Fiammetta. No, non era tanto la presenza sulla stessa isola di pericolosi criminali (comunque rinchiusi in strutture inaccessibili) a turbarci, bensì l’assoluto isolamento in cui eravamo costretti».

Qual’era lo stato d’animo? «Ci adattammo presto all’isolamento e capimmo che (allora) le istituzioni, soprattutto quelle romane, ci erano vicine. Mi piace ricordare la figura di Nino Caponnetto (il capo del pool antimafia, ndc), senza il quale quello che passerà alla storia come il maxiprocesso non si sarebbe mai celebrato. Ma soprattutto nostro padre e Giovanni Falcone avrebbero perso la vita già allora. Fu lui, infatti, a volere (e organizzare) fortemente quel tempestivo trasferimento sull’isola, proteggendo i due giudici come fossero suoi figli. Questa figura non è più esistita e chi nell’estate del 1992 avrebbe potuto – oltre che dovuto – adottare decisioni drastiche per salvare la vita a nostro padre e non solo, non le adottò ma non fece nulla perché altri le adottassero». Accadde tutto in fretta, vi trovaste nell’insolita situazione di convivere in un’isola-carcere popolata anche di mafiosi… «É una esperienza che già allora segnò indelebilmente oltre a mia sorella Lucia anche il sottoscritto e la più piccola Fiammetta. No, non era tanto la presenza sulla stessa isola di pericolosi criminali (comunque rinchiusi in strutture inaccessibili) a turbarci, bensì l’assoluto isolamento in cui eravamo costretti».

Suo padre e Falcone non presero bene quel trasferimento. Lo considerarono una perdita di tempo che poteva mettere a rischio il maxiprocesso. É vero? «Mio padre all’inizio subì maggiormente quello spostamento improvviso, sapeva delle ripercussioni negative che avrebbe esercitato sulla primogenita e non avrebbe mai voluto strapparci ai nostri giochi e ai nostri amichetti. Con il passare dei giorni però si creò un clima speciale, ci sentivamo come a casa. Il luogo d’improvviso ci sembrò familiare e accogliente. E questo grazie all’allora direttore del carcere Francesco Massidda e a un agente di custodia, un ragazzo allora, Gianmaria Deriu, che non smetteremo mai di ringraziare per l’amore, la spontaneità e la professionalità con cui si prese cura di tutti noi. Nascondendo i suoi stessi disagi derivanti dalla lontananza dalla famiglia».

Alla fine il meno triste fu proprio lei? «Gianmaria mi fece conoscere il mondo delle motociclette, ci salii sopra per la prima volta, abbozzai qualche percorso. Ero un bambino (lo sono ancora oggi per certi versi) molto curioso, ogni giorno che trascorrevo su quell’isola per me era un giorno nuovo, mai uguale agli altri. Ero affascinato dalla natura, dagli animali e dalla poca gente che l’abitava: persone semplici, schiette, che sul continente è difficile incrociare».

Non furono facili però quei giorni sull’isola-carcere, anche con Falcone… «É vero, ma con Giovanni Falcone a parte qualche screzio iniziale vi fu un rapporto di complicità, tanto che mio padre si assentò per qualche giorno rientrando con Lucia a Palermo e lui sentì quasi di farne le veci. Giovanni forse non era abituato per così tanti giorni a dividere lo stesso tetto e convivere con dei bambini, penso che poche volte nella vita si sentì di fare parte di una famiglia allargata come in quell’estate».

Lo Stato presentò il conto del soggiorno, 415.800 lire , lo ricorda? «Nostro padre ci scherzava sù, raccontava l’episodio con ironia. Non mi meraviglia se non chiese il rimborso. D’altra parte era solito pagare di tasca propria il carburante delle autovetture blindate di Stato che, tra l’altro, sovente guidava di persona non avvalendosi di autisti». Due ricordi su tutti, il più bello e il più brutto che si porta dietro a distanza di trent’anni… «Il più bello quando eravamo riuniti intorno ad un tavolo per pranzo e cena, regnava una grande armonia e pareva veramente che ci si fosse dati appuntamento in un paradiso terrestre. Un paradiso dei giusti. Il più brutto lo anticipo al momento in cui fummo prelevati dalla villa dei nonni materni per essere portati in aeroporto e partire poi per l’Asinara. Eravamo frastornati, i vicini di casa piangevano come se non ci dovessero mai più vedere. Mio padre stesso, che pareva tenere sempre ogni situazione sotto controllo, lo vedevamo per la prima volta non padroneggiare l’evento. Insomma, brutti momenti, solo in parte compensati dai giorni che seguirono sull’isola».