SCARCERAZIONE BRUSCA: favorevoli e contrari

 

PIETRO GRASSO: NON C’È NESSUNA FORMA DI BUONISMO O PERDONO DA PARTE MIA NEI CONFRONTI DI GIOVANNI BRUSCA: oltre a tutto ciò che sapete, agli omicidi e alle stragi in cui ho perso colleghi e amici, avrei anche motivi strettamente personali per serbare rancore. Lui e altri collaboratori hanno raccontato, tra gli altri, due episodi che mi riguardarono direttamente: l’organizzazione di un attentato nell’autunno del 1993 che doveva farmi saltare in aria mentre andavo a trovare mia suocera a Monreale e la pianificazione del rapimento di mio figlio. Il dolore e la rabbia delle vittime e dei loro familiari lo comprendo e lo rispetto nel profondo. Eppure non vedo scandalo nella notizia di ieri, peraltro nota e attesa da molti anni. Con Brusca, infatti, lo Stato ha vinto non una ma tre volte. La prima quando lo ha arrestato, perchè era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia per numero di reati e ferocia. La seconda quando lo ha convinto a collaborare: le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne e hanno fatto emergere pezzi di verità fondamentali sugli anni in cui Cosa nostra ha attaccato frontalmente lo Stato. La terza ieri, quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai. Ora lo Stato dovrà proteggere Brusca: è un dovere perché è importante che Brusca resti vivo e possa andare a testimoniare nei processi. Oltre al punto morale c’è un interesse specifico, quasi egoistico, affinché le sue parole possano essere ripetute nelle aule di giustizia dove servono per condannare mandanti ed esecutori di omicidi e stragi. L’indignazione di molti politici che di codice penale e di lotta alla mafia capiscono ben poco mi spaventa. Se davvero facessero quello che dicono, ovvero ridurre gli sconti per chi collabora con la giustizia, diminuirebbe l’incentivo a pentirsi. Se a questo aggiungiamo che si sta cercando di limitare l’ergastolo ostativo, e lavorerò affinché questo non avvenga, potremo anche dichiarare chiuso il capitolo del contrasto a Cosa nostra. Al contrario, servono sconti di pena forti per chi aiuta lo Stato e prospettiva di ergastolo senza sconti per chi non collabora.

 

GIANCARLO CASELLI: “La legge sui pentiti è una vittoria: solo così la mafia è stata scalfita di Simona Musco Il Dubbio, 3 giugno 2021 Intervista a Gian Carlo Caselli, ex procuratore a Palermo nel periodo successivo alle stragi del 1992: “Grazie ai collaboratori i risultati delle indagini possono essere disastrosi per i mafiosi”. “Insieme al collega Alfonso Sabella (“Il cacciatore di mafiosi” nel titolo di un libro molto documentato che scriverà) ho partecipato ad alcune riunioni nella sala operativa della Questura di Palermo finalizzate alla cattura di Giovanni Brusca. Posso quindi dire di aver seguito molto da vicino l’operazione che pose fine alla sua latitanza. Come Procuratore capo di Palermo ho poi partecipato, con altri magistrati, ai primi interrogatori disposti non appena Brusca manifestò segnali (per altro all’inizio piuttosto ambigui e tortuosi) di disponibilità a collaborare. Ma i ricordi personali con le relative emozioni vorrei lasciarli da parte”. A parlare è Gian Carlo Caselli, che ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo nel periodo successivo alle stragi del 1992. La scarcerazione di Brusca ha diviso l’opinione pubblica, vittime comprese. In molti, per deprecarla, hanno citato Falcone, vittima di Brusca ma anche sostenitore della legge che oggi gli consente di stare fuori dal carcere. Come giudica, lei che è stato tra i primi a interrogarlo, la sua fuoriuscita dal carcere? È vero, Falcone, vittima di Brusca nella strage di Capaci, è stato uno dei principali sostenitori della legge che oggi consente al suo killer di essere scarcerato. Anzi, poiché la legge che egli chiedeva a gran voce (dall’alto della sua straordinaria competenza quasi la pretendeva) tardava ad essere approvata, ad un certo punto arrivò ad esprimere il sospetto che dietro la “perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo” si nascondesse la voglia di non “far luce sui troppo inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”. E attenzione: Falcone non parlava mai a vanvera, ma sempre a ragion veduta. Innanzitutto perché il suo capolavoro investigativo giudiziario, il maxi processo che ha segnato la fine del mito dell’invulnerabilità della mafia, lo ha costruito sulla base proprio delle rivelazioni dei pentiti Buscetta, Contorno, Calderone e Marino-Mannoia. Poi perché lavorando a stretto contatto con gli Usa sapeva bene che in questo come in moltissimi altri paesi l’uso dei pentiti nella lotta al crimine organizzato è pratica abituale. Con una differenza: che noi li processiamo e li condanniamo, sia pure a pene ridotte, mentre altrove (ad esempio proprio in Usa) i collaboratori possono godere di una completa immunità per i reati commessi. È una vittoria dello Stato, dunque? Se vogliamo chiamare vittoria l’applicazione di una legge dello Stato, ebbene è una vittoria. Ma di vittoria (volendo usare termini un po’ bellicistici) dovremmo piuttosto parlare con riferimento alla legge nel suo complesso. Per il semplice motivo che senza la legge sui pentiti di strada contro la mafia ne avremmo fatta e ne faremmo molto poca. Mi spiego con una metafora persino banale. Essendo fondato su vincoli associativi segreti, il gruppo mafioso può essere paragonato ad una roccia, rispetto alla quale le indagini senza “pentiti” appaiono come un semplice scalpello. Se non si rompe, lo scalpello riesce a scheggiare la superficie esterna della roccia ma non a penetrarci dentro. Invece, le indagini collegate alle ricostruzioni fornite dai collaboratori di giustizia riescono a trasformare lo scalpello in una sorta di carica esplosiva. Una carica posta all’interno della roccia, che la spacca mettendone a nudo la parte più segreta. Insomma, grazie all’apporto dei collaboratori di giustizia i risultati delle indagini possono essere disastrosi per la roccia, cioè per i mafiosi. E questo dato è quello che più dovrebbe interessare nel contesto della lotta alla mafia. E che poi porta a riflettere su una realtà ineludibile. Se allo Stato i pentimenti dei mafiosi sono utili (e lo sono), proprio per questo uno Stato responsabile deve incentivarli. Con misure previste da una legge ad hoc, senza i sotterfugi e le vischiosità che fisiologicamente caratterizzano la collaborazione dei semplici “confidenti”. I familiari delle vittime chiedono un controllo ferreo del suo comportamento fuori dal carcere. Molti pentiti lamentano, però, di essere abbandonati a se stessi. Si può potenziare il servizio centrale di protezione? Dico subito che i familiari delle vittime, vittime a loro volta di un continuo, immenso dolore dell’anima che non lascia respiro, meritano proprio per questo ogni rispetto. Non è pertanto accettabile che qualcuno (come invece è avvenuto), temendo un “approccio accentuatamente vittimo-centrico” ai problemi di mafia, arrivi a sostenere “che occorrerebbe creare un nuovo binario per la rieducazione delle vittime, da affidare alla competenza di eserti psicologici in gradi di aiutare ed elaborare il dolore con strumenti psicologicamente adeguati”. Ci mancherebbe solo questo… Quanto al controllo ferreo di Brusca in libertà, è persino ovvio pretenderlo. Non possiamo assolutamente consentirci altri Antonio Gallea: condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Livatino, di recente egli ha approfittato dei benefici penitenziari ottenuti per rientrare in posizioni di rilievo nella sua organizzazione criminale (Stidda). Se si ripetesse con Brusca sarebbe uno tsunami. Quanto al servizio di protezione, l’ideale sarebbe qualcosa che si avvicini al “Marshall service” Usa, la cui efficienza persino spietata ho personalmente constatato quando son dovuto andare in Usa per interrogare alcuni pentiti italiani. Ma il nostro Servizio centrale di protezione (pur funzionando bene) ha problemi di bilancio e di un numero molto elevato di persone da proteggere, problemi che in Usa non esistono. Per molti Brusca è un pentito controverso e due anni fa la Cassazione ha respinto la sua richiesta di poter scontare i suoi ultimi anni ai domiciliari, in quanto non avrebbe mostrato il necessario pentimento civile, oltre che processuale. Quanto ha davvero contribuito nella lotta alla mafia la sua collaborazione? Preferisco non rispondere a domande che riguardano il caso specifico di Brusca. In molti ora, gridando allo scandalo, chiedono di cambiare la legge sui pentiti. C’è davvero qualcosa da cambiare? La legge originaria del 1991, che ha funzionato benissimo, è stata modificata nel 2001, secondo me in senso peggiorativo. Non è un caso che da allora i pentiti (che prima erano stati letteralmente una slavina) siano decisamente diminuiti. Per cui, basta così con le modifiche. Abbiamo, come usa dire, già dato… Il vero problema è l’uso corretto dei pentiti. Non si chiedono analisi ai pentiti: si pretendono fatti, ricostruzioni, il racconto di vicende da verificare, da sottoporre al vaglio critico della ricerca di concrete e oggettive conferme. E se tutto funziona secondo le regole (in particolare quella che senza adeguati riscontri le parole non sono prove) il contributo dei collaboratori di giustizia è davvero insostituibile. Quanto sono ancora utili i pentiti nella lotta alle mafie? È vero che oggi si sono sviluppate in misura esponenziale le indagini basate su intercettazioni telefoniche e/o ambientali. Ma dove piazzare le “cimici”, quali siano i posti dove i mafiosi si trovano o si riuniscono, sono proprio i pentiti che possono indicarlo. Di nuovo: si tratta di segreti e senza la password fornita dai pentiti i segreti restano tali. La Consulta ha chiesto al Parlamento di legiferare affinché la collaborazione non sia l’unico criterio per ottenere dei benefici quando si sconta l’ergastolo ostativo, in quanto la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento. Che posizione ha a riguardo? Sull’ergastolo ostativo ho detto e scritto persino troppo. Rispetto ovviamente e senza mere clausole di stile l’orientamento della Consulta, anche se alcuni passaggi della motivazione mi lasciano dei dubbi. In ogni caso prendo atto che è la stessa Corte costituzionale che mette in guardia contro “il rischio di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. E la Consulta usa proprio questo “rischio” per spiegare il differimento di un anno dell’effettività della sua ordinanza di incostituzionalità in tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale. La Consulta inoltre afferma esplicitamente che il valore della collaborazione va salvaguardato. Rischio di interventi inadeguati e valore del pentimento sono dunque paletti di cui, secondo me, nell’anno a venire il Legislatore non potrà non farsi carico, salvo preferire che restino solo macerie e la soddisfatta allegria dei mafiosi. Non si tratta di giustizialismo manettaro, ma di semplice realismo. Per non finire come il don Ferrante di Manzoni, che discettava sulla peste che non esisteva mentre ne moriva.

 

ANTONIO INGROIA: ‘ho conosciuto tanti collaboratori ma Brusca non è un vero pentito’ (“La questione del ‘perdono’ riguarda Brusca e i familiari delle vittime che immagino escludano ogni ipotesi di perdono”. Così all’Adnkronos l’ex Procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia dopo la richiesta di perdono del pentito Giovanni Brusca ai familiari delle vittime. “Ho conosciuto sia Brusca che tanti altri collaboratori e qualcuno davvero “pentito”, e Brusca non fa parte di questa categoria – dice – Altra questione riguarda lo Stato, che fa un calcolo e in cambio di una collaborazione seria concede sconti di pena”. “Anche Brusca ha fatto i suoi calcoli ed è stato un collaboratore complessivamente leale con lo Stato e perciò ha diritto per legge agli sconti di pena che gli sono stati riconosciuti”, conclude Ingroia.

 

ROSY BINDI: (giá presidente Commissione parlamentare antimafia): «Verificare rottura definitiva con la mafia» È uscito dal carcere il 31 maggio Giovanni Brusca, capo del mandamento di San Giuseppe Jato ed esponente di spicco dei Corleonesi, condannato per oltre 100 omicidi, tra cui quello del 15enne Giuseppe Di Matteo, la cui unica colpa era essere il figlio del pentito Santino Di Matteo, strangolato e poi sciolto nell’acido, oltre che per la strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta. Arrestato nel 1996, collaboratore di giustizia dal 2000, è stato liberato proprio grazie alla legge sui collaboratori di giustizia (decreto-legge 15 gennaio 1991, convertito in legge 82/1991), promulgata proprio sulla spinta dei magistrati Giovanni Falcone e Antonio Scopellitti, che consente lo sconto di pena a quei mafiosi che, nel corso del tempo, decidono di fornire informazioni alla magistratura. È libero per aver scontato la sua pena, anche se, secondo quanto stabilito dalla Corte d’appello di Milano, resta sottoposto alla libertà vigilata per altri 4 anni. «Tutte le reazioni emotive alla scarcerazione di Giovanni Brusca sono giustificate perché sappiamo chi è, conosciamo le atrocità che ha commesso», dichiara al Sir Rosy Bindi, già presidente della Commissione parlamentare antimafia, ricordando proprio il ruolo di Brusca nella strage di Capaci e l’omicidio del piccolo Di Matteo. «Occorre, però, anche una riflessione ispirata alla razionalità – aggiunge – perché Brusca lascia il carcere non per dei privilegi o degli abusi ma perché, alla luce della legge sui collaboratori di giustizia, ha pagato i suoi debiti con la giustizia. Tutti sappiamo che la legge sui collaboratori di giustizia l’ha voluta Giovanni Falcone. Sappiamo anche bene che Brusca, essendo diventato collaboratore di giustizia, ha assicurato al carcere molti mafiosi ed è stato un collaboratore che ha aiutato a sconfiggere la mafia stragista, di cui lui era stato un grande protagonista. Questo era, in un certo senso, il contratto che lo Stato aveva fatto con lui». Da Bindi arriva quindi l’invito a «vigilare perché si deve verificare che la sua collaborazione con la giustizia sia davvero una rottura definitiva con l’appartenenza alla mafia, perché, altrimenti, non sfugge a nessuno che una persona del calibro di Brusca possa riorganizzare Cosa nostra e continuare a macchiarsi di atrocità. Dobbiamo fare giustizia e verità sul passato, – prosegue – ma non dobbiamo mai distrarci sulle mafie di oggi. Per onorare le vittime di Brusca e di tutte le mafie, di ogni tempo, credo sia necessario essere attenti ai mutamenti del fenomeno mafioso, alla capacità di fare affari delle mafie». In concreto, «riflettere meglio sulla legge sugli appalti, vigilare sugli investimenti che faremo con le enormi risorse che ci arriveranno dall’Europa, essere più attenti alle mafie internazionali, come quelle libiche o maltesi, che continuano a minacciare anche chi salva i migranti in mezzo al mare». Ancora, Rosy Bindi riflette sull’esigenza di «non avere cedimenti sul versante più legislativo e giurisprudenziale. Chi collabora con la giustizia – dichiara al Sir – ha diritto ad avere gli sconti di pena, chi non collabora con la giustizia non ci offre un criterio oggettivo per capire se ha rotto veramente o no con la mafia. E siccome si resta mafiosi a vita, fin quando non si muore o non si collabora con la giustizia, la nostra legislazione dedicata in maniera particolare a colpire i delitti di mafia e i mafiosi è sacrosanta, anzi, andrebbe esportata in altri Paesi». 3 giugno 2021 ROMA SETTE

 

SALVATORE BORSELLINO: “Scarcerazione ripugna, ma legge va accettata. All’Adnkronos il fratello di Paolo ucciso da Cosa nostra nella strage di via d’Amelio “La liberazione di Brusca, che per me avrebbe dovuto finire i suoi giorni in cella, è una cosa che umanamente ripugna. Però, quella dello Stato contro la mafia è, o almeno dovrebbe essere, una guerra e in guerra è necessario anche accettare delle cose che ripugnano. Bisogna accettare la legge anche quando è duro farlo, come in questo caso”. A dirlo all’Adnkronos è Salvatore Borsellino, fratello di Paolo ucciso da Cosa nostra nella strage di via D’Amelio, commentando la scarcerazione di Giovanni Brusca che dopo 25 anni lascia il carcere per fine pena. “Questa legislazione premiale per i collaboratori di giustizia – ricorda l’ideatore del Movimento delle agende rosse – fa parte di un pacchetto voluto da un grande stratega, Giovanni Falcone, per combattere la mafia, dentro ci sono l’ergastolo ostativo, il 41 bis. Va considerata nella sua interezza ed è indispensabile se si vuole veramente vincere questa guerra contro la criminalità organizzata”. “L’alternativa, in assenza dell’ergastolo ostativo – sottolinea ancora Salvatore Borsellino- sarebbe stato vedere tra cinque anni questa persona libera senza neppure aver collaborato con la giustizia e senza aver permesso di assicurare alla giustizia tanti altri criminali come lui”. Al pentimento di Brusca, però, Salvatore Borsellino non crede. “Anche perché la sua collaborazione con la giustizia è stata molto travagliata: in un primo tempo aveva cercato di fingere per minare le istituzioni. Non credo si sia veramente pentito, come, invece, ha fatto Gaspare Mutolo, assassino anche lui, che ha ucciso, strangolandole, 50 persone a mani nude, ma che oggi penso sia una persona veramente cambiata. Di Brusca non ho questa impressione”. Anche perché, è la tesi del fratello del giudice antimafia, “non ha raccontato neanche tutto quello che sa e che avrebbe potuto dire. Sicuramente, però, quello che ha detto è stato tanto e ha permesso di fare tanti processi, di assicurare tanti criminali come lui alla giustizia”. Il ritorno in libertà di Brusca può costituire un pericolo? “E’ fondamentalmente un criminale, di una persona che uccide un bambino e lo scioglie nell’acido dicendo che era come un cagnolino non ci si può fidare appieno. Ma non credo che possa costituire oggi un pericolo”.

“Dire perdono non basta, sua collaborazione incompleta” “Pentimento strumentale, ha detto solo quello che gli serviva. Brusca ha più paura dei Servizi che della mafia” “Non basta dire ‘perdono’. Il pentimento lo deve dimostrare, per esempio raccontando davvero tutto quello che sa mentre io sono convinto che la collaborazione di Brusca sia una collaborazione incompleta. Di certe cose non ha parlato, non ha detto tutto quello che sa sullo Stato deviato, probabilmente perché ha più paura della vendetta dei Servizi, magari di un ‘infarto’ come quello che è capitato a Faccia da mostro, piuttosto che della vendetta della mafia”. Così Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo ucciso da Cosa Nostra nella strage di via d’Amelio, commenta con l’Adnkronos l’intervista rilasciata 5 anni fa dall’ex padrino di San Giuseppe Jato a una tv francese. Un’intervista in cui Brusca chiede scusa ai familiari delle vittime e alla sua famiglia. Per il fratello del giudice Borsellino, il pentimento di Brusca è “strumentale”. “Ha raccontato solo quello che gli serviva per avere una riduzione della pena” sottolinea e aggiunge: “Da laico non capisco cosa voglia dire questo perdono. Posso perdonare chi mi pesta un piede, ma non questi assassini efferati che, nonostante le loro parole e le loro scuse, sono rimaste le stesse persone che hanno compiuto quei crimini”. “Vedo tanti sciacalli, tanti ipocriti. Uno spettacolo indegno che, purtroppo, ogni anno, per un motivo o per un altro, avviene sempre in prossimità delle celebrazioni per la strage di Capaci e di via d’Amelio. Resto nauseato dalle dichiarazioni di certi politici che da un lato si dichiarano sconvolti dalla scarcerazione di Brusca e dall’altro si apprestano ad approvare un provvedimento per modificare l’ergastolo ostativo” dice Salvatore Borsellino. Ieri Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni e presidente della Fondazione Giovanni Falcone, ha lanciato un appello proprio alla politica perché “trasformi l’indignazione per la scarcerazione di Brusca nella riforma della legge sull’ergastolo ostativo che la Corte Costituzionale ha già sollecitato”. “E’ una legge che va modificata – afferma Borsellino – ma va modificata nel senso giusto, non abolendo quello che ha fatto Falcone”. Per il fratello del giudice antimafia, “la collaborazione con la giustizia, e parlo di una collaborazione che sia totale, deve rimanere un punto fermo. Un elemento imprescindibile affinché i mafiosi possano accedere ai benefici”. E conclude: “Quale mafioso deciderebbe di collaborare se sa che può uscire dal carcere anche senza ‘parlare’, senza tradire quel giuramento al silenzio fatto a Cosa Nostra? ADNKRONOS

 

ROSARIA SCHIFANI: «Mia figlia studia legge, a lei come lo spiego?» L’ira della moglie dell’agente ucciso nella strage di Capaci: «Non si è pentito, collaborò per ottenere vantaggi materiali, senza una scelta profonda» di Felice Cavallaro Corriere della Sera – «Hanno veramente liberato quello che chiamavano “il maiale”, “u verru” nel loro siciliano stretto? Brusca? L’assassino di Falcone e di mio marito Vito? Il boia di Francesca Morvillo e dei colleghi di Vito, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo?». Scatta una somma di interrogativi sul filo del telefono non appena Rosaria Schifani apprende la notizia della liberazione di Giovanni Brusca. È sconvolta la vedova di uno dei tre agenti dilaniati a Capaci dalla bomba azionata da Brusca. È accaduto in anticipo, ma si sapeva da un po’ che sarebbe uscito… «Infatti, noi tutti che stiamo dalla parte opposta protestavamo da tempo. Ma che Stato è questo Stato che celebra con il presidente della Repubblica a Palermo il 23 maggio e, otto giorni dopo, manda a casa uno che fa saltare un’autostrada o fa sciogliere nell’acido un bambino per vendetta contro un pentito? È un regalo a Falcone? Il regalo di maggio?». Lei non c’era la settimana scorsa a Palermo davanti all’albero Falcone.  «Ma c’era mio figlio Emanuele, capitano della Guardia della Finanza. È tornato nella città dove ha perduto il padre a 4 mesi. In divisa, nell’aula bunker, davanti al presidente della Repubblica, davanti alle autorità di uno Stato che in questo modo non rende onore ai suoi caduti». Dicono che in qualche modo Brusca ha collaborato con alcuni magistrati? «E se lo tengano stretto da qualche parte, ma non lo restituiscano alla comunità civile, come sto ripetendo stasera a mia figlia Erika, 21 anni, nata dopo che a fatica ho tentato di ricostruire la mia vita. Studia Giurisprudenza, mi guarda inorridita e non so che cosa dirle, come spiegarglielo. Lei s’addentra adesso fra le regole del diritto, ma che idea si dovrà fare di questo modo di amministrare il diritto?». Fra le regole del diritto esistono i premi assegnati ai collaboratori di giustizia.  «Così si dimentica tutto quello che noi abbiamo passato, si affievolisce il ricordo dei drammi vissuti, il dolore diventa solo un fatto privato, non la leva per alimentare la crescita di un impegno civile». Durante i funerali fu lei a tuonare: «Vi perdono, ma inginocchiatevi».  «Perché, Brusca ha chiesto perdono?». Svelando alcuni particolari interni a Cosa nostra avrebbe aiutato a capire… «A capire cosa? Ha collaborato per trarre dei vantaggi materiali, permessi premio, vacanze. Furbo, scaltro. Senza una scelta intima, profonda». Considera questa notizia un grande errore? «Rispondo con una domanda: questa cosa orrenda è frutto di un’altra trattativa? Dici quattro cose e sei libero. Ma che Stato è?».

 

GIOVANNI PAPARCURI: così come ho detto altre volte, che non ho mai creduto al suo pentimento e mai ci crederò, al di là del coinvolgimento personale nella strage Chinnici, l’avrei fatto marcire in galera per tutta la vita per gli innumerevoli morti che ha sulla coscienza. Ma essendo in uno Stato di diritto e se la legge prevede che a questi assassini poi divenuti collaboratori spettano dei benefici, da buon soldato, ma a malincuore ne prendo atto e me ne faccio una ragione, anche se è molto dura… durissima. Dal profilo FB di GIOVANNI PAPARCURI, già stretto collaboratore dei giudici Falcone e Borsellino, ideatore e curatore del museo a loro dedicato presso le stanze da loro occupate al Tribunale di Palermo

 

CLAUDIO FAVA: Presidente regionale dell’Antimafia all’Ars: “Che Brusca, scontata la sua pena, venga scarcerato è un fatto normale. Quello che non è normale, invece, è che dopo 30 anni la verità sulle stragi sia ancora tenuta ostaggio di reticenze, viltà e menzogne”.

 

DON CIOTTI:  «L’USCITA DAL CARCERE DI BRUSCA È UNA VITTORIA DELLO STATO»  Per il sacerdote fondatore di libera «il dolore e il risentimento dei familiari è assolutamente comprensibile. Ma con la liberazione dell’ex boss mafioso si dimostra una giustizia che non è vendetta e che contempla la rieducazione del condannato» Don Luigi Ciotti, 76 anni, è stato uno dei primi in Italia a capire l’importanze di lavorare per costruire un’alternativa alla mafia. Da quando nel ’65 ha fondato a Torino il Gruppo Abele,- per l’inclusione e la giustizia sociale coniugando accoglienza e cultura, dimensione educativa e proposta politica – i cammini si sono ampliati e diversificati, Negli anni ’90 è nato il periodico “Narcomafie”, nel 1995 “Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”. Il 21 marzo 2014 il Papa ha celebrato messa con lui, per la Giornata in memoria delle vittime innocenti di tutte le mafìe. Don Luigi molte persone sono disorientate dalla liberazione di Giovanni Brusca, feroce killer di Cosa Nostra, poi collaboratore di giustizia…. «Bisogna pensare innanzitutto al disorientamento e, in certi casi, al risentimento dei famigliari delle vittime. Il loro stato d’animo è comprensibile e legittimo. La maggior parte di loro attende ancora verità e giustizia. Nei loro riguardi occorre dunque una maggior attenzione anche in termini di diritti. Riguardo invece la liberazione di Brusca, credo che si debba tenere presenti alcuni elementi». Quali? «Primo. Dalla scelta di collaborare di Brusca lo Stato ha tratto un innegabili vantaggi, come è stato riconosciuto da figure importanti della stessa magistratura. La sua confessione ha infatti permesso una grande quantità di arresti e un netto indebolimento della Cosa Nostra stragista dei “Corleonesi”. Secondo. Decidendo di collaborare Brusca sapeva bene a cosa andava incontro, conoscendo dall’interno l’organizzazione criminale di cui svelava i segreti. Andava incontro a una condanna a morte perché la mafia non perdona chi tradisce, a maggior ragione se il “traditore” è stato una figura non secondaria dell’organizzazione. Terzo. La legislazione sui “pentiti” e “collaboratori di giustizia” è stata voluta fortemente da Giovanni Falcone. Certo si è trattata di un’extrema ratio, ma si è rivelata efficace con la mafia così come si era rivelata efficace con il terrorismo politico. La giurisprudenza deve misurarsi a volte con vicende storiche che richiedono nuovi parametri perché ci pongono di fronte a mali che non possono essere combattuti con strumenti ordinari.Quarto elemento. Concordo con il Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho quando dice che l’uscita dal carcere di Brusca non è una sconfitta ma una vittoria dello Stato. Lo Stato deve dimostrare una levatura morale superiore a quella dei suoi avversari o attentatori, e questa superiorità si dimostra anche attraverso una giustizia che non sia vendetta, che garantisca da una parte una giusta pena, dall’altro uno spiraglio di speranza per chi sconta la pena e dimostra nei fatti di essere cambiato, di stare dalla parte della giustizia. Del resto si tratta di un principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione laddove si parla di pene che devono tendere alla “rieducazione” del condannato». E in base alla sua esperienza personale che considerazione fa? «È il quinto elemento, tratto dalla mia personale esperienza. Bisogna credere nel cambiamento delle persone, nella capacità di riscattarsi dal male, il male subito ma anche il male compiuto. In 56 anni d’impegno sociale ho visti percorsi di cambiamento e di conversione. Nessuno è irrecuperabile. Certo bisogna richiamare alle responsabilità e stimolare crisi di coscienza, delineando al contempo le opportunità offerte da un cambiamento radicale di vita non solo in termini di vantaggi materiali ma di libertà interiore, possibilità di vivere una vita più libera perché più giusta e più vera. Certo non è facile, e proprio nel mondo delle mafie le conversioni si contano sulle dita di una mano. Ma credo che si debba tentare. Mi auguro che Brusca si sia incamminato in questo cammino di ricerca di verità, non solo sui delitti di Cosa Nostra, ma sul suo esserne stato complice ed esecutore». Dal suo osservatorio come è cambiata la sensibilità, in Italia, su questo argomento nella comunità ecclesiale? «È cambiata in positivo, nel senso che in molti contesti la sensibilità è diventata consapevolezza e la consapevolezza impegno. Oggi sono aumentate le realtà ecclesiali impegnate a livello sociale, culturale, educativo. Missione della Chiesa è essere coscienza critica della società in cui vive e voce propositiva dei valori più alti e vitali, non limitandosi alla denuncia del fenomeno mafioso, ma rivolgendo il pressante appello, dando un vero aiuto alla conversione e, soprattutto, formando una nuova coscienza di fronte alla mafia. La strada è in salita perché, in generale, nella società è in aumento una sorta di normalizzazione: il fingere che il problema non esista o sia meno grave di quel che sembra, complice il suo manifestarsi in forme anche nuove e meno aggressive». Quali momenti, quali prese di posizione che hanno segnato questo tema? «Per rispondere occorrerebbero molte pagine. Mi limito a enunciarne alcune: già nel 1900 don Luigi Sturzo disse:” la mafia ha i piedi in Sicilia ma la testa forse a Roma. Risalirà sempre più crudele e disumana verso il Nord per portarsi al di là delle Alpi”. Il 3 settembre del 1982, ai funerali del Prefetto Dalla Chiesa, il cardinale di Palermo Pappalardo denuncia l’immobilismo e i ritardi della politica: “(…) mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti (…) quanto mai decise, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire”. Pochi giorni dopo, il 13 settembre, il Parlamento approverà il 416-bis, legge che per la prima volta parla esplicitamente di “associazione di stampo mafioso”. Nell’ottobre 1991 la Commissione Giustizia e pace della Cei, pubblica un importante documento: «Educare alla legalità». Un passaggio dice: “Il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale e di affermare i principi generali. Deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia”. E ancora, il 9 maggio 1993, dalla Valle dei Templi di Agrigento l’invettiva di Giovanni Paolo II dopo l’incontro con i genitori del giovane magistrato ucciso Rosario Livatino, oggi beato: “Non può l’uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”. Altro passo importante è stato il discorso di Benedetto XVI a Palermo nel 2010 quando definì la mafia come “strada di morte” e soprattutto le parole di Papa Francesco nell’omelia della Santa Messa celebrata il 21 giugno 2014 alla Piana di Sibari in Calabria, quando definì la mafia “adorazione del male” e dunque i mafiosi “scomunicati”, non in comunione con Dio. Molto importanti sono il documento della Conferenza Episcopale Calabra “Per una nuova evangelizzazione della pietà popolare”, il documento dei Vescovi della Capitanata sulla mafia foggiana:” Giustizia per la nostra terra”, il documento contro il fenomeno della camorra dei Vescovi della Conferenza Episcopale della Campania: “Per amore del mio popolo non tacerò (1982)”, la lettera dei Vescovi di Sicilia a 25 anni dall’appello di San Giovanni Paolo II: ”Convertitevi!”. Ma, accanto al positivo, permangono come detto eccessi di prudenza, rigidità, zone d’ombra. E l’idea che si possa essere cristiani senza un impegno per la giustizia sociale né un forte senso delle responsabilità civili dà luogo, in certi casi, a inquietanti forme di indulgenza – e perfino di copertura – verso forme di religiosità del tutto strumentali, come quelle esibite da alcuni esponenti delle cosche mafiose. Ecco allora la necessità, per la Chiesa, di continuare a saldare con forza il Cielo e la Terra, la dimensione spirituale con l’impegno sociale e, pur nella specificità del proprio ruolo, di far sentire la sua voce contro le mafie e tutte le forme di “mafiosità” – corruzione, egoismo, indifferenza – che spianano la strada al potere delle organizzazioni criminali». Formazione ad intra, catechesi, e annuncio come sono state coniugate su questo tema? «Dopo un lungo e spesso faticoso cammino sta emergendo la consapevolezza che parole esplicite su questo tema debbano essere pronunciate nel Catechismo, nel Compendio della Dottrina sociale della Chiesa e nel Diritto canonico. Lacuna più che mai da colmare dal momento che una Chiesa che parla al mondo non può non prendere posizione di fronte a un male ormai globalizzato come quello delle mafie. Mi auspico che nell’annunciato Sinodo della Chiesa Italiana vengano affrontati anche i temi legati a mafie e corruzione». Quali cammini di collaborazione con uomini e donne di buona volontà, anche di altre comunità di fede? «I cammini nell’arco degli anni si sono intrecciati e moltiplicati man mano che cresceva, anche grazie all’opera riformatrice di papa Francesco, la consapevolezza che la fede implica un’etica, cioè un impegno della Chiesa e del credente nel mondo e per il mondo. Con altre confessioni religiose come la Chiesa Avventista del Settimo Giorno, la Chiesa Ortodossa Rumena, l’ Unione Induista Italiana, la Comunità Islamica, l’Unione Comunità Ebraica Italiana, l’ Unione Buddista Italiana, la Chiesa Valdese, si sono creati legami stabili e, in certi casi, di lunga data». FAMIGLIA CRISTIANA

 

ROBERTO SCARPINATO: PENTITI SCORAGGIATI E IL CASO BRUSCA La questione dell’accettabilità sociale della liberazione di Brusca dopo l’espiazione di 25 anni di carcere e un’ampia collaborazione con la giustizia, sembra ormai appartenere a una stagione storica del passato in via di progressiva liquidazione a seguito delle sentenze della Corte Edu e della Corte costituzionale che hanno posto le premesse per consentire l’uscita dal carcere dopo 26 anni (che possono ridursi a 21 per l’ulteriore sconto dovuto alla liberazione anticipata) anche ai cosiddetti “irriducibili”, cioè capimafia ed esponenti di rango delle mafie condannati all’ergastolo, i quali, pur essendo a conoscenza di informazioni preziose per impedire che i loro complici rimasti in libertà continuino a uccidere, a “mafiare” e per accertare gli autori di gravi reati, si rifiutano di collaborare con i magistrati. L’effetto di tali decisioni è infatti, al di là delle migliori intenzioni, una forte disincentivazione alla collaborazione. Facendo una comparazione costi-benefici, ci si chiede perché mai un mafioso condannato all’ergastolo dovrebbe accollarsi per accedere al beneficio della liberazione condizionale gli elevati costi di una collaborazione, autoaccusandosi di ulteriori reati con conseguente aggravamento delle pene già inflittegli, rivelando l’esistenza di tutto il suo patrimonio occulto sfuggito alle confische, esponendosi al rischio di rappresaglie, quando può ottenere lo stesso risultato semplicemente dissociandosi e dimostrando di non essere più pericoloso. Spero di sbagliarmi, ma è ragionevole presumere che a seguito di tali decisioni, si sia ridotta ai minimi termini nell’immediato ogni residua speranza di una futura collaborazione dei capi di Cosa Nostra condannati all’ergastolo per le stragi del 1992-1993 e depositari di segreti scottanti su complici sino a oggi rimasti occulti. A parte tali e altre significative ricadute negative sul piano dell’efficacia della risposta statale alla criminalità mafiosa, occorre poi prendere atto che se oggi a fronte delle diffuse perplessità della pubblica opinione sulla giustificabilità etico-sociale della liberazione condizionale di Brusca può efficacemente argomentarsi che occorre tuttavia tenere conto dei grandi vantaggi assicurati alla collettività dalla sua collaborazione con la giustizia, domani sarà arduo giustificare l’accettabilità sociale della liberazione dopo appena ventuno anni degli “irriducibili”, senza alcun vantaggio per la collettività e semplicemente avallando le giustificazioni poste da costoro a fondamento del loro rifiuto di collaborare con la giustizia, che, in estrema sintesi sono di tre tipologie: paura di ritorsioni, rifiuto morale di accusare altri in cambio dell’accesso alla liberazione condizionale, pentimento interiore equivalente a cessazione della pericolosità. Quanto al rifiuto di accusare altri mafiosi per timore di ritorsioni, vi è da chiedersi quale credibilità possa avere uno Stato che, per un verso, giustifica per questo motivo la liberazione di pluriassassini, ammettendo così la propria incapacità di fornire adeguata protezione e, per altro verso, quasi schizofrenicamente, sollecita privati cittadini, vittime di estorsioni e testimoni di giustizia, ad accusare mafiosi garantendo efficace protezione. Il secondo motivo ritenuto idoneo a giustificare l’accesso alla liberazione condizionale senza collaborazione, e cioè la ripugnanza morale ad accusare altri divenendo così un “infame”, sembra equivalere a uno sdoganamento morale della cultura dell’omertà o, quantomeno, a una equivalenza valoriale tra cultura della legalità secondo cui un collaboratore non è un infame, e subcultura mafiosa secondo cui invece un collaboratore è un infame. Il terzo motivo e cioè la valorizzazione del pentimento interiore al posto di una attiva collaborazione, equivale a stabilire la prevalenza dell’etica dell’intenzione rispetto all’etica della responsabilità, prevalenza pienamente condivisa dal mondo mafioso che ha sempre sostenuto che ciò che conta è pentirsi dinanzi a Dio e non dinanzi agli uomini rovinando “i cristiani”. L’accertamento dell’autenticità o della dissimulazione del pentimento interiore imporrà al magistrato di sorveglianza di avventurarsi negli abissi della psiche, divenendo palombaro dell’anima e psicoanalista, a meno che non voglia realisticamente attenersi solo agli indici esteriori di tale pentimento interiore, indici esteriori che la collaudata e sofisticata intelligenza del collettivo mafioso è in grado di costruire nel tempo in modo quanto mai ingegnoso. La Stampa – 3 giugno 2021

 

MARIA FALCONE: “Subito la riforma dell’ergastolo senza benefici per condanne di mafia” La sorella del magistrato ucciso nel 1992: “Nessuno può essere più addolorato e indignato di noi davanti alla scarcerazione di uno degli individui peggiori che la storia del Paese abbia conosciuto” “In questi giorni ho evitato sovraesposizioni mediatiche e dichiarazioni rabbiose rispettando una legge che è stata e continua a essere fondamentale nella guerra contro Cosa nostra, ma nessuno può essere più addolorato e indignato di noi davanti alla scarcerazione di uno degli individui peggiori che la storia del Paese abbia conosciuto”. Lo dice Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia e presidente della Fondazione Giovanni Falcone in merito alla scarcerazione di Giovanni Brusca dopo 25 anni. “Ho ascoltato – continua Maria Falcone – moltissime dichiarazioni di politici e assistito a un’ondata di indignazione dell’opinione pubblica che dimostra quanto la coscienza dei nostri concittadini sia mutata e maturata in questi 29 anni. Voglio lanciare un appello alla politica affinché traduca lo sdegno espresso per la liberazione di Giovanni Brusca in un impegno reale per un’approvazione veloce della riforma della legge sull’ergastolo ostativo sollecitata dalla Corte Costituzionale. Voglio dire a tutti i nostri parlamentari e a tutte le forze politiche, molte delle quali peraltro votarono la legge sui pentiti voluta da mio fratello, che oggi hanno l’occasione per dimostrare che la lotta alla mafia resta una priorità del Paese e che possono, al di là delle parole, attraverso una normativa giusta, evitare scarcerazioni e permessi a boss che mai hanno interrotto il loro perverso legame con l’associazione mafiosa. Concedere benefici a chi neppure ha dato un contributo alla giustizia sarebbe inammissibile e determinerebbe una reazione della società civile ancora più forte di quella causata dalla liberazione, purtroppo inevitabile, del “macellaio” di Capaci”. “Il prossimo 23 maggio – ha concluso – saranno trascorsi 30 anni dall’attentato in cui persero la vita mio fratello Giovanni, sua moglie Francesca, Antonio, Vito e Rocco: sarà il momento in cui tirare le somme sull’azione della politica nella lotta alla mafia e capire chi alle parole ha fatto seguire i fatti”. PALERMO TODAY

MARIA FALCONE: “Quello che temevamo da tempo si è avverato: Giovanni Brusca, il ‘macellaio’ che ha premuto il telecomando a Capaci, è libero. Lo prevede la legge, una legge che ha voluto mio fratello e che rispettiamo, ma restano il dolore, la rabbia e il timore che un individuo capace di tanto male possa tornare a delinquere. La sua collaborazione con la giustizia è piena di ombre, la stessa magistratura lo ha detto più volte. ‘U Verru’, il porco, così lo chiamavano i suoi complici, ha nascosto molte verità, specie sulle sue ricchezze che, sono convinta, non sono state confiscate interamente. Ci auguriamo che la magistratura e le forze dell’ordine vigilino: sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Rocco, Antonio e Vito che possa tornare indisturbato a godere di soldi che grondano sangue”.

 

LUCIANO VIOLANTE: L’ex presidente della commissione Antimafia dopo la scarcerazione del pentito: “Alla radice di quelle leggi che ci hanno consentito di smantellare prima le Br e poi gran parte di Cosa Nostra c’è un calcolo anche da parte dello Stato che ha il compito di salvare vite umane in pericolo”

 

SEBASTIANO ARDITA:«Retorica fra gli indignati, il punto è che i pentiti sono finiti» Il componente del Consiglio Superiore della Magistratura esprime il suo parere sulla scarcerazione di Giovanni Brusca Brusca, Ardita: «Retorica fra gli indignati, il punto è che i pentiti sono finiti» Catania – Sebastiano Ardita, qual è la prima sensazione che ha provato per la scarcerazione di Brusca? «Ho temuto che la gente non avrebbe capito e che avrebbe avuto un’inevitabile forma di ripugnanza, che è quella che provo anch’io da cittadino. Ma, anche se non si tratta di una situazione semplice da spiegare, lo Stato ha pagato un debito per avere ottenuto qualcosa in cambio, ed era un impegno assunto sulla base di una legge». Pur essendo una notizia scontata, da più parti – istituzioni, politica, antimafia – si levano parole d’indignazione. Sono un esercizio di retorica? «Io credo davvero che si tratti un massima parte di retorica, anche se nessun ergastolo potrebbe mai ripagare la tortura e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Ed è retorica perché questa indignazione arriva anche da chi aveva salutato con favore la sentenza europea che apre la strada alla concessione degli stessi benefici per i mafiosi che non collaborano con la giustizia. Allora così capisci che in questo caso specifico per costoro il problema non è la concessione dei benefici in sé, ma il fatto che siano dati a chi ha collaborato con la giustizia». La sorella di Giovanni Falcone, Maria, a caldo, ha detto: «Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata». «È un’affermazione che sottoscrivo. Se si fosse potuto fare a meno dei collaboratori di giustizia per venire fuori dal dominio che la mafia aveva sui nostri territori, sarei stato il primo a dire che non bisognava togliere neppure un giorno di carcere a chi aveva sparso morte e terrore. Ma purtroppo senza i collaboratori la mafia avrebbe continuato a spadroneggiare nelle nostre città in modo arrogante, diverso da quello più discreto e meno visibile con cui ancora comunque si manifesta». Da alcune parti politiche, Salvini e non solo, emerge la proposta di cambiare la legge sui pentiti. Secondo lei ci sarebbe bisogno di un tagliando? «Sono normative nate da condizioni molto particolari, per le quali un adeguamento ai tempi che cambiano in sé non guasterebbe. Il vero problema è che ogni proposta oggi sembra finalizzata a ridurre gli strumenti e a limitare le indagini. Essere garantisti è giusto, lo è di meno mettere la testa sotto la sabbia e rinunciare a scoprire la verità». Oltre al profilo giuridico c’è quello umano. Chi è responsabile di decine di omicidi di mafia può davvero avere una “second life” dopo 25 anni? «Questo dipende da ciascuna persona e dal suo percorso individuale. Ho visto uomini cambiati dal carcere e desiderosi di rifarsi un’esistenza, e altri che hanno brigato per potere tornare a delinquere e a seminare terrore». Brusca, da collaboratore di giustizia, ha avuto un ruolo anche nella ricostruzione delle stragi. Ma, dopo quasi trent’anni, su quelle vicende rimane un grande alone di mistero. Si riuscirà mai a scoprire tutta la verità? «Qualcosa si è già scoperto e su tutto il resto chi è attento si è fatto un’idea. Personalmente credo che la verità alla lunga venga sempre fuori. È solo questione di tempo, quello che ci vuole affinché vengano meno le “protezioni” che impediscono ai fatti di essere conosciuti». Nella metamorfosi della mafia di oggi, che lei ha riscontrato nelle sue indagini e raccontato nei suoi libri, com’è cambiato il ruolo dei pentiti? «È cambiato il fatto che sono finiti i pentiti. Il fenomeno non è più d’interesse, la normativa li scoraggia, l’esecutivo non li coltiva. Cosa nostra segmenta le comunicazioni, evita gli omicidi e i reati che potrebbero condurre a pene elevate. Quando dirigevo l’ufficio detenuti mi preoccupavo che il trattamento penitenziario potesse produrre, tra le conseguenze previste dalla legge, anche un numero adeguato e qualificato di collaboratori». Spesso anche sul 41-bis ci sono state polemiche. Il carcere duro resta un caposaldo della lotta alla mafia? «Il 41-bis rimane uno strumento importante nei confronti dei capi di cosa nostra. Più in generale il carcere riesce a conseguire i suoi scopi solo se si mantiene un equilibrio tra sicurezza e condizioni di vita dei reclusi. Ed è per questo che ho sempre ritenuto che i peggiori collaboratori sono quelli che avevano come loro unico scopo l’uscita dal carcere. La collaborazione dovrebbe essere la punta avanzata del trattamento di chi ha commesso reati gravi, una scelta di vita, anche se fatta per interesse, ma che sia definitiva e che serva anche allo Stato per sradicare e sconfiggere fenomeni criminali devastanti. E invece oggi non è più nulla di tutto ciò: non vedo né progetti né una formazione come ve ne era un tempo. E i magistrati più esperti, quelli che gestirono le collaborazioni con le quali è stato messo a terra il gotha di Cosa Nostra, sono oramai anziani o già in pensione». LA SICILIA

 

LEONARDO GUARNOTTA: «Sulle stragi di mafia non è stato detto tutto» Un amico dell’Abruzzo, che lo ha più volte insignito del Premio Borsellino, ma soprattutto un fraterno amico di Giovanni Falcone, che ha affiancato nel pool antimafia di Palermo. Inevitabile chiedere a Leonardo Guarnotta come ha vissuto la liberazione di Giovanni Brusca per “fine pena”, l’ex braccio destro di Totò Riina che il 23 maggio del 1992 stringeva tra le dita il timer di Capaci. Qual è stata la sua prima reazione a questa notizia? «Diciamo che non ci ha colto di sorpresa. La liberazione di Brusca è dovuta a un decreto legge del ’91 pensato per contribuire a rompere il velo di omertà sui fatti gravissimi di quegli anni. Certo, parlare di “permesso premio” in questo caso fa un certo effetto, soprattutto se pensiamo ai familiari delle vittime. Anche in considerazione del fatto che l’uomo d’onore può collaborare, per convenienza o altro, ma non si pente mai. Da Cosa nostra si esce solo con la morte». Già, ma come si racconta ai ragazzi delle scuole un personaggio che si è autoaccusato di aver sciolto nell’acido un bambino di 11 anni? «Nel caso di Brusca è tanto più esecrabile se si pensa che lui ha ammasso di aver tenuto sulle sue ginocchia il piccolo Giuseppe Di Matteo quando aveva l’età di 5 anni. Solo una belva può fare una cosa del genere. Ecco perché oggi la sua liberazione appare un provvedimento ingiusto. Dall’altra parte c’è l’esigenza dello Stato di tutelare gli interessi generali e i collaboratori hanno consentito di fare un salto di qualità nella lotta alla mafia e al terrorismo». Qual è il pezzo di verità ancora da scrivere sulle stragi del ’92? «Non è stato detto tutto. Il 23 maggio sono stato come ogni anno sotto l’albero di Falcone. La mia speranza è che qualcuno depositi un giorno la verità che dobbiamo a Giovanni, Paolo e tanti altri. Occorre scoperchiare quel vaso di Pandora che passa anche anche da una certa omertà dello Stato».

 

FEDERICO CAFIERO DE RAHO:  «La liberazione di Giovanni Brusca? Una vittoria dello Stato» Antonio Maria Mira mercoledì 2 giugno 2021 AVVENIRE Il procuratore nazionale antimafia analizza l’importanza della collaborazione del pentito: «Senza questo aiuto non si sarebbe arrivati né si potrà arrivare a scardinare i clan». La pena dei familiari L’uscita dal carcere di Giovanni Brusca per fine pena non è una sconfitta dello Stato. Invece tutta la vicenda è una vittoria dello Stato contro le mafie. È la vittoria dello Stato di diritto, della legge. E questo è l’esatto contrario delle mafie». Ne è convinto il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho che analizza l’importanza della collaborazione di Brusca e più in generale dello strumento della collaborazione, ma non dimentica il dolore di chi ha subito la violenza del mafioso. «Un dolore che facciamo nostro perché il dolore degli altri è anche il nostro dolore. E lo Stato lo deve vivere così». Procuratore perché è una vittoria? In primo luogo bisogna analizzare i risultati. Avere collaboratori che consentono di ricostruire vicende criminali di straordinaria gravità come quelle sulle quali Brusca ha reso dichiarazioni, credo che sia una vittoria. Aver approvato una legge che consente di adottare uno strumento di contrasto alle mafie che è l’unico che realmente consente di entrare nelle mafie, conoscerle e sconfiggerle, è una vittoria. Fermarsi solo alla vicenda di Brusca non affronta il vero problema che sono le mafie che vanno sconfitte. E quindi sono necessari strumenti sempre più efficaci per batterle non solo quando usano la violenza per raggiungere il controllo dei territori o per condizionare lo Stato, ma anche per impedire di infiltrarsi nell’economia e nella politica. Ma questa non è l’unica vittoria.Ce n’è un’altra? Il nostro è uno Stato di diritto, il che vuol dire che la legge va applicata sempre. Anche applicando ai collaboratori di giustizia i benefici previsti dalla legge. È un valore che non può trovare alcun compromesso. È quello che ci ha permesso di battere i terroristi. Lo Stato non ha tentennato, non ha pensato di adottare leggi liberticide ma ha continuano ad applicare sempre le leggi in modo uguale per tutti. Applicare il diritto anche nei confronti della mafia, questa è la vittoria dello Stato. La mafia viene battuta e indebolita applicando la legge. Quanto è stata utile la collaborazione di Brusca? È stata una collaborazione eccezionale. Ha consentito di ricostruire le stragi del 1992 a Palermo e del 1993 a Roma, Firenze e Milano, chi aveva partecipato e il vertice di cosa nostra che aveva dato il comando. Proprio questo ha determinato una condanna che non è stata l’ergastolo, pur essendo stato responsabile di fatti gravissimi. Ora la pena è stata completamente scontata. Non si tratta di benefici penitenziari o di convertire la pena del carcere in misure alternative. Oramai doveva essere necessariamente scarcerato. Quando avvengono questi fatti si torna a discutere dei collaboratori di giustizia. Quanto sono stati importanti e quanto lo sono ancora? Dobbiamo ricordare che l’omertà è uno degli elementi che connotano le mafie ed è il risultato dell’intimidazione. Così l’acquisizione di elementi utili per ricostruire un’organizzazione mafiosa è molto difficile. Gli unici strumenti che abbiamo sono le intercettazioni e i collaboratori. Ma le intercettazioni fotografano un segmento, in un determinato soggetto in un determinato momento. Invece i collaboratori ricostruiscono l’organizzazione, ne fanno un quadro dall’interno. È come aprire un libro e leggere come opera. Le mafie si batteranno anche con la partecipazione dei cittadini, di una società civile che collabora e denuncia, ma al momento gli unici strumenti effettivi sono le intercettazioni e i collaboratori. In questo momento c’è amarezza tra i familiari delle vittime delle mafie, si riaprono ferite soprattutto per chi ha subito la violenza di Brusca. Cosa vuol dire loro? Lo Stato è vicino a tutti coloro che hanno subito la violenza delle mafie e in particolare ai familiari delle vittime. E si impegna per individuare i responsabili e applicare nei loro confronti le sanzioni che la legge prevede in uno Stato di diritto in cui non vale la vendetta. È chiaro che chi ha subito la perdita di un familiare continuerà a serbare nel proprio animo un dolore e una lontananza da coloro che ne sono stati autori, anche quando collaborano. Quindi le manifestazioni di amerezza sono più che legittime ma è anche vero che senza i collaboratori non si sarebbe arrivati né si potrà arrivare a scardinare le mafie. E d’altro canto mettere in discussione il sistema della protezione e quindi anche dell’applicazione di benefici, non può essere fatto in un momento come questo in cui le mafie continuano a operare, scegliendo la strategia della mimetizzazione per la grande pressione che lo Stato ha potuto esercitare nei loro confronti quando hanno utilizzato l’omicidio e le stragi come forma di condizionamento della politica. Si dice che «dalle mafie ci si dimette solo con la morte». Come fare per evitare che Brusca ritorni a fare il mafioso? Nel momento in cui si collabora, automaticamente si resta fuori e si diventa nemici della mafia che ha sempre voluto uccidere i collaboratori. Chi collabora deve mantenere poi una segretezza assoluta, deve muoversi con circospezione, deve fare in modo da non attirare l’attenzione. La mafia non dimentica, è sempre pronta a vendicarsi. Quindi chi fa questa scelta è esposto nel suo futuro. Ma collaborazione non sempre è sinonimo di vero ravvedimento. È mafioso chi aderisce e partecipa all’organizzazione non chi si comporta da mafioso. Pensare che chi è uscito dall’organizzazione e ha collaborato, continui a essere mafioso, non corrisponde alla realtà. Noi diciamo che quando si aderisce a un’organizzazione mafiosa non se ne può uscire, ma proprio per questo esiste un sistema di protezione per i collaboratori di giustizia. Sicuramente Brusca sarà tenuto sotto stretto controllo anche per tutelare la sua vita. I collaboratori di giustizia sono persone che hanno fatto una scelta molto seria e lo Stato si deve impegnare.

 

GIUSEPPE AJALA: “Giovanni Brusca è disgustoso, ma con quella legge lo Stato ci guadagna” “Le norme sui collaboratori di giustizia volute da Falcone. Chi grida ‘Vergogna’ cerca facile consenso” “Da un punto di vista personale provo disgusto per questo individuo che non riesco a chiamare neanche bestia, per rispetto nei confronti degli animali. Poi però, se mi spoglio di questo aspetto, non posso non sottolineare che la legge sulla collaborazione dei mafiosi ha portato vantaggi allo Stato”. La normativa di cui parla Giuseppe Ayala, magistrato che fu pubblico ministero al maxiprocesso di Palermo, è quella che fu fortemente voluta da Giovanni Falcone, di cui Ayala era amico. Così come lo era di Paolo Borsellino. Si tratta di una legge – “definiamola cinica, opportunistica, se vogliamo”, dice l’ex magistrato – che consente ai mafiosi che collaborano con la giustizia di ottenere dei benefici. Degli sconti di pena, come nel caso di Giovanni Brusca, che ha lasciato il carcere ieri. E Ayala – che tolse la toga poco prima degli omicidi di Falcone e Borsellino perché eletto in Parlamento, per poi rimetterla anni dopo, a L’Aquila – all’indomani della scarcerazione del killer che azionò il telecomando della strage di Capaci, dell’assassino che non si fece scrupolo di ammazzare un ragazzino, Giuseppe Di Matteo, perché suo padre aveva parlato con la giustizia, parlando con HuffPost guarda ai fatti con la lucidità di chi riesce a separare l’aspetto emotivo da quello razionale. Il primo non viene sopito, né scalfito dal tempo. Solo chi ha vissuto in prima persona gli anni più difficili della lotta alla mafia, chi ha dovuto piangere davanti a corpi di amici e colleghi, può capire perché. Il secondo aspetto, però, aiuta a rimettere in fila i fatti, ciò che è successo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. E, lontano dalla retorica acchiappa like di chi urla allo scandalo, spiega perché la legislazione fortemente voluta da Falcone sia stata fondamentale nella lotta alla mafia. Anche a costo di rimettere in libertà – in ogni caso dopo decenni – un criminale efferato come è stato Brusca. Dottor Ayala, ieri sera Giovanni Brusca ha lasciato il carcere di Rebibbia. Uscito per fine pena, lo aspettano anni di libertà vigilata. Qual è stata la sua reazione alla notizia? Non posso non distinguere lo stato d’animo personale dal resto. Ecco, da un punto di vista emotivo io per questa persona provo e ho provato profondo disgusto. È il soggetto – e mi arrabbio anche quando lo chiamano bestia, perché mancano di rispetto agli animali – che ha ucciso Giovanni, la moglie, Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro, giovane poliziotto della scorta con cui avevo un bellissimo rapporto. Non posso mettere da parte l’emotività, credo sia comprensibile. Lo è. Giovanni Falcone era suo amico, oltre che collega. Provare ancora rabbia per la sua morte è più che normale, soprattutto dalla sua posizione. Provando, però, ad andare oltre l’aspetto più umano, personale, Brusca è stato scarcerato in funzione di una legge, quella sui collaboratori di giustizia. Una legge voluta da noi, da Falcone soprattutto. La normativa sulla collaborazione può essere considerata cinica, opportunistica, ma ha portato grossi risultati. Volendo ragionare su un piano di costi e ricavi possiamo pensare che il costo è il riacquisto della libertà da parte di un criminale, ma il ricavo – per lo Stato – è un grosso vantaggio processuale. Ecco, in termini molto pragmatici, possiamo dire che questa legislazione ha portato dei ricavi notevolmente superiori ai costi. Un ragionamento in termini opportunistici probabilmente viene fatto anche da chi sceglie di collaborare, proprio perché ottiene “in cambio” benefici penitenziari. Certo, opportunismo è il termine giusto. Io chiamo i soggetti che decidono di parlare con gli inquirenti sempre collaboratori di giustizia e mai pentiti. Non sono pentiti affatto, nella mia vita io credo di averne conosciuto uno solo di mafioso che ha collaborato perché davvero pentito. Non possiamo sapere se Brusca si sia mai pentito, nel suo animo, o no. Certo è che ha confessato reati efferati, 150 omicidi. Quanto sono state utili le sue dichiarazioni? In generale posso dire che la forza repressiva dello Stato nei confronti della mafia, senza le tante collaborazioni che ci sono state, sarebbe stata meno incisiva. Quanto a Brusca, per farle capire quanto sia stato importante che abbia scelto di parlare le faccio un esempio: durante il maxi processo io gli contestavo l’associazione mafiosa. Solo quella. Il quadro probatorio c’era, ma il giudice di primo grado non lo ha ritenuto sufficiente, tant’è che è stato assolto. Successivamente è stato condannato, grazie alle impugnazioni. Ma ripeto, noi in quel momento di Brusca conoscevamo solo il fatto che fosse affiliato alla mafia. È stato grazie alla sua scelta di collaborare che abbiamo scoperto tutto il resto. E c’è chi dice che non abbia detto tutto. Questo non lo so, non ho elementi per dirlo. Certamente non posso escluderlo. Posso però dire che sicuramente quello che ha raccontato è stato importante da un punto di vista processuale. Le dirò di più: secondo noi, ai tempi del maxi processo, neanche Tommaso Buscetta aveva detto tutto. Però quello che ha raccontato ha portato a condanne che mai lo Stato aveva ottenuto contro la mafia. Prima ha detto una frase forte: “Non sono affatto pentiti”. Secondo lei è così improbabile che anche il più efferato dei mafiosi cambi in carcere, con il passare del tempo? Non sono uno di quelli che sposa la tesi che queste persone cambino. Certo, in alcuni casi può accadere. Del resto, 25 anni di detenzione (quelli scontati da Brusca, ndr) in astratto possono sembrare insufficienti. In concreto non sono affatto pochi. La scarcerazione di Brusca ha suscitato varie reazioni. Di fronte a quella composta e lucida di Maria Falcone ci sono quelle indignate della politica. Proprio in virtù di tutto quello che ho detto sulla legge sulla collaborazione resto molto perplesso davanti a chi parla di “Vergogna di Stato”. Troppo facile parlare così. È un modo per cercare consenso. Brusca esce dal carcere pochi giorni dopo il 29esimo anniversario della morte di Giovanni Falcone. Che ricordo ha di quei giorni terribili? Io ero a Roma, ovviamente mi sono fiondato a Palermo e sono andato direttamente alla camera mortuaria. Ricordo che sono usciti tutti, mi hanno lasciato solo con Giovanni. Sembrava dormisse, aveva solo un graffio sul sopracciglio. Ho pianto tanto, e non mi vergogno a dirlo. Poi per un attimo ho stretto le sue mani. Questo ricordo, nonostante il passare del tempo, riaffiora spesso nella mia mente. HUFFPOST

 

CATERINA CHINNICI : “È stata applicata una legge che ha portato dei risultati ma sul cui rapporto costi-benefici per lo Stato nella lotta alla mafia forse andrebbe oggi riaperta una riflessione in chiave attualizzata. È una legge vigente, ma naturalmente sotto il profilo umano questa consapevolezza convive con quel dolore senza fine che per me, come per tutti gli altri parenti delle vittime di mafia, torna oggi a farsi sentire con tutto il suo enorme peso”. ADNKRONOS

 

mons. MICHELE PENNSI (Monreale), “non fare confusione tra pentito e conversione “Una cosa è la conversione cristiana, un’altra la collaborazione con la giustizia. Non bisogna fare confusione tra pentito e convertito”. Lo dice al Sir l’arcivescovo di Monreale, mons. Michele Pennisi, al lavoro nella commissione creata da Papa Francesco in Vaticano per la scomunica delle mafie, alla luce della scarcerazione di Giovanni Brusca. Non entrando nel merito della vicenda, anche perché “non si conoscono i sentimenti di Brusca”, il presule si pone “emotivamente dalla parte delle vittime che hanno bisogno di verità di giustizia”. “Conosco la scia di sangue e dolore che ha lasciato dietro di sè. Molti dei suoi delitti sono stati commessi nel territorio della mia diocesi”, ricorda mons. Pennisi. Nelle sue parole l’invito al collaboratorie di giustizia a “fare penitenza per tutta la vita per gli atroci delitti commessi, riparare al male fatto, chiedere perdono ai familiari delle vittime e applicare la giustizia riparativa”. “La questione centrale di fronte alla sua scarcerazione è profonda e non attiene solo alle norme del diritto. Riguarda la verità”. Parlando con il Sir, il presule aveva già ribadito che “purtroppo non è facile una vera conversione dei mafiosi che hanno fatto un giuramento pseudoreligioso di appartenenza a una struttura che di fatto è antagonista della Chiesa”. “Una vera conversione esige una giustizia riparativa – ha sottolineato -. La conversione dei mafiosi non può essere ridotta a un fatto intimistico ma deve avere una dimensione pubblica, essere seguita da una riparazione del male fatto, da una richiesta di perdono alle vittime e dall’abbandono della criminalità organizzata”. AGENSIR

 

VITTORIO TERESI: Giovanni Brusca sarà scarcerato perché ha finito scontare la pena. Ha iniziato 25 anni fa una più che proficua collaborazione con la giustizia ed ha fornito in tutti questi anni un apporto di conoscenze che è risultato fondamentale per individuare altri mafiosi, responsabili di gravissimi delitti, delle stragi, dei depistaggi, ecc… Grazie alle sue dichiarazioni sono stati celebrati numerosissimi processi ed assicurati alla giustizia moltissimi mafiosi e fiancheggiatori. La legge sui collaboratori di giustizia fu fortemente voluta, attesa e poi scritta da Giovanni Falcone, che venne ucciso anche per questo motivo. Per una incredibile e beffarda coincidenza la sua morte avvenne proprio per mano di Brusca (tra gli altri), che poi però fece luce (in parte) su quell’attentato. Siamo in condizioni di scindere, in questa ingarbugliata vicenda, il piano giudiziario da quello etico? Lo Stato ha sottoscritto un patto con Brusca (così come con tutti gli altri collaboratori), gli ha offerto un piano di assistenza e protezione ed ha preteso in cambio dichiarazioni vere e riscontrabili, tali da trasformarle in prove giudiziarie. In questi anni ha rispettato la sua parte di accordo. Oggi con la scarcerazione lo Stato rispetta la propria. Non esiste spazio per chiedersi quali siano le ragioni della sua collaborazione: pentimento autentico? Interesse personale? Vendetta? Non ci interessa. Ritengo di gran lunga più grave la questione del rischio scarcerazione di mafiosi in servizio permanente effettivo come Graviano o Bagarella, che potrebbero uscire grazie alla pronuncia della Corte Costituzionale e alla prossima legge che entro un anno il Parlamento dovrà approvare. Eppure su tale questione non si sono sentiti gli stessi segnali di sdegno. Il paese non sarà meno sicuro con la scarcerazione di Brusca, lo sarà certamente con la revoca dell’ergastolo ostativo. Le persone offese non si devono sentire tali da questa scarcerazione, ma dalla minaccia di diverse altre. Vittorio Teresi Presidente del Centro studi Paolo e Rita Borsellino Già PM a Palermo e collega di Falcone e Borsellino

 

 POLITICA INDIGNATA per la scarcerazione di Brusca

ENRICO MENTANA: Vorrei fare una riflessione a freddo sul “caso” del ritorno in libertà di Giovanni Brusca. Si sa del clamore che ha suscitato, della valanga di reazioni sorprese e indignate. Queste reazioni sono comprensibili da parte di chi ne viene a conoscere la storia solo oggi (“feroce boss mafioso che uccise Falcone, fece strangolare e sciogliere nell’acido il figlio dodicenne di un pentito e si macchiò di centinaia di altri delitti torna libero dopo soli 25 anni”). Ma sono inaccettabili da parte di TUTTI gli esponenti politici e gli “addetti ai lavori”, partecipi del patto con lo stesso Brusca e tutti i collaboratori di giustizia. Giovanni Brusca fu arrestato nel 1996. Dopo quattro anni il Comitato del Servizio Centrale di Protezione gli conferì lo status di collaboratore di giustizia, su richiesta dei magistrati che indagavano su Cosa Nostra. Era l’8 marzo del 2000. Tutte le istituzioni conoscevano la situazione, a cominciare dal governo D’Alema, dove erano ministri Sergio Mattarella, Enrico Letta, Pierluigi Bersani, dove c’era anche Dario Franceschini, e dove sottosegretario alla giustizia era un ex grande pm di Palermo, Giuseppe Ayala. Poche settimane dopo Giuliano Amato prese il posto di D’Alema alla guida di un governo immutato, ma l’anno successivo a Palazzo Chigi tornò Silvio Berlusconi, con Gianfranco Fini, Umberto Bossi, Roberto Calderoli, Giancarlo Giorgetti, l’attuale presidente del senato Casellati nella squadra di governo. Tutti conoscevano quello e altri “contratti” dello Stato con i pentiti delle organizzazioni mafiose. Come non potevano non conoscerli coloro che ebbero di lì in poi responsabilità di governo, da Matteo Renzi a Giorgia Meloni, da Matteo Salvini, all’intero stato maggiore dei 5 stelle. Nessuno ha mai sollevato l’argomento, nessuno ha mai proposto modifiche alla legislazione sui pentiti, tutti sapevano che Brusca era vicino al “fine pena”. E allora, per dirla tutta, le ipocrite reazioni dei giorni scorsi servivano solo al consueto scopo: entrare in sintonia con le reazioni dell’opinione pubblica, lisciare il pelo allo sconcerto non informato, fingendo sorpresa e indignazione, per elemosinare qualche consenso in più. Il tutto dopo aver onorato, pochi giorni prima, la memoria di Falcone, che per primo aveva voluto quelle misure sui pentiti, l’arma vincente contro Cosa Nostra

 

“C’è stata troppa indulgenza dai magistrati” L’ex Guardasigilli: “Inaccettabile premiare uno stragista, negli Usa molto più severi”

«Io sono tutto tranne che un giustizialista, ma trovo che la scarcerazione di un criminale come Giovanni Brusca sia inaccettabile, è qualcosa che lascia un senso di profonda ingiustizia che rasenta lo sgomento». Claudio Martelli ha vissuto in prima persona gli anni delle stragi mafiose da ministro della Giustizia, a stretto contatto con Giovanni Falcone nella lotta a Cosa nostra, anche con l’introduzione del carcere duro per i boss con un decreto del ’92 che porta il suo nome. «Se fosse successo trent’anni fa mi sarei incatenato al ministero per protestare, ma questo è uno dei rari casi in cui il tempo non cambia la situazione, vedere oggi Brusca che esce dal carcere mi fa lo stesso identico effetto di trent’anni fa».

Quello di un’ingiustizia. Che però deriva da una legge sui cosiddetti pentiti. «Brusca non è un pentito, è un criminale che ad un certo punto ha deciso per i suoi interessi di collaborare con i magistrati che lo interrogavano. Ha parlato e ha raccontato alcune cose. Quante, del repertorio dei suoi delitti, non è dato sapere. Ma per sua ammissione è responsabile di almeno 150 omicidi, di stragi, e io ricordo che nei casi di stragi le indagini non si possono mai prescrivere, questo significa che c’è qualcosa che non può essere superato. Ai miei tempi il ministero si chiamava di Grazia e Giustizia, Cossiga volle forzarmi a concedere la grazia a Renato Curcio, ma io dissi di no. Se fossi ancora ministro l’ultima cosa che farei è dare la grazia a Brusca, uno che si è macchiato di crimini efferati, ha ucciso bambini, giudici».

Però ha collaborato con la giustizia. «Ma fino a che punto? La sua collaborazione è stata così fondamentale da giustificare un trattamento di riguardo? Nel ’96 ha cominciato a parlare, a rate, è diventato una sorta di jukebox per cui se metti dentro uno sconto di pena lui parla. É una procedura che dà luogo ad abusi e consente al collaboratore di giustizia un grande margine di discrezionalità. Già Falcone metteva in guardia dai rapporti intimistici, così diceva lui, tra pentiti e pubblici ministeri, perché il rischio è che si crei un rapporto confidenziale in cui è il collaboratore a usare il magistrato. Se capisce cosa vuole il pm, lui glielo dà, ma non è detto che sia la verità».

Sta dicendo che i magistrati sono stati troppo indulgenti con Brusca? «Mi piacerebbe poter valutare tutte le carte, ecco. Capire quale è il contributo che Brusca che ha dato alle indagini, e in secondo luogo quanti sconti gli sono stati concessi. La collaborazione è stata così preziosa da annullare tutti gli ergastoli che meritava? Mi sembra sproporzionato che il responsabile di una strage possa essere libero dopo 25 anni. È stato tutto perfettamente legale o c’è stata molta indulgenza, forse troppa, anche nella concessione dei permessi a Brusca, 45 giorni di libertà ogni sei mesi. E perché è stato escluso dal 41 bis? Mi chiedo se tra suoi i meriti rientrino anche le calunnie che ha fatto nei confronti di molti, tra cui Violante e me».

Va cambiata la legge, come chiedono alcuni non solo nel centrodestra? «Il problema non è nella legge ma nella sua applicazione. A me risulta che negli Stati Uniti sugli sconti ci vadano molto prudenti e molto attenti. La tenaglia stringe solo se ha due denti: gli sconti di pena e il carcere duro. Credo che in Italia invece sia prevalente l’indulgenza».

La Consulta recentemente ha definito il carcere a vita anche per i mafiosi «incompatibile con la Costituzione». «Ma è evidente che il crimine organizzato vada trattato in modo diverso, più severo, rispetto al crimine occasionale. La recidività, il carattere sistematico dei clan genera un pericolo sociale molto maggiore di cui il legislatore deve tenere conto. Ricordo che quando fu introdotto il 41-bis l’allora presidente Scalfaro ebbe delle riserve, ma il presidente della Corte Costituzionale mi suggerì di renderlo temporaneo. Poi da allora è stato sempre rinnovato fino a diventare permanente, ma la Consulta non ha avuto nulla da ridire. Il doppio binario per i mafiosi va mantenuto. Brusca non è un criminale normale e non va trattato come tale». IL GIORNALE

 

L’ex boss, attentatore di Capaci, è tornato in libertà dopo 25 anni. Rabbia e incredulità nei commenti dei politici.  Per Enrico Letta è “un pugno nello stomaco”, per Matteo Salvini “non è giustizia”, per Giorgia Meloni “è un affronto per le vittime”. “Una vergogna senza pari” per la vicepresidente del Senato Paola Taverna e Virginia Raggi, “inaccettabile” per Mara Carfagna. Dal Pd a Fratelli d’Italia, dalla Lega al M5S. La politica reagisce con indignazione alla scarcerazione dell’ex boss mafioso Giovanni Brusca,  fedelissimo del capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina, prima di diventare un collaboratore di giustizia ammettendo il suo ruolo nella strage di Capaci e nell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. Brusca ieri ha lasciato il carcere romano di Rebibbia dopo 25 anni per fine pena, con 45 giorni di anticipo rispetto alla scadenza della condanna.Di pari passo monta la polemica sulla legge premiale per i pentiti introdotta per combattere i boss. Tina Montinaro, moglie di Antonio caposcorta di Giovanni Falcone, difende il pm: “Non mi piace il fatto che oggi si voglia dire che è una legge che ha voluto Falcone. Indubbiamente l’ha voluta lui, ma Falcone aveva pochi pentiti. Dopo di lui, invece, sono arrivati altri mille collaboratori di giustizia, ma la verità sulla strage ancora non si conosce. Vuol dire che qualcosa non ha funzionato. Lo Stato in questa vicenda vacilla e dimostra un fallimento. E se la verità ancora dopo decenni non si conosce, significa che questa legge bisogna cambiarla”. La scarcerazione di Giovanni Brusca “è stato un pugno nello stomaco che lascia senza respiro e ti chiedi come sia possibile – ha commentato questa mattina il segretario del Pd, Enrico Letta, intervistato a Rtl 102.5 – La sorella di Falcone ricorda a tutti che quella legge applicata oggi l’ha voluta anche suo fratello, che ha consentito tanti arresti e di scardinare le attività mafiose”, ha aggiunto, “ma è un pugno nello stomaco”. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ieri sera a caldo, ha detto: ”Autore della strage di Capaci, assassino fra gli altri del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido perché figlio di un pentito. Dopo 25 anni di carcere, il boss mafioso Giovanni Brusca torna libero. Non è questa la ”giustizia” che gli Italiani si meritano”. E questa mattina in tv a Mattino 5 su Canale 5 ha aggiunto: “Una schifezza. Con tutto il rispetto delle norme, ma bisogna cambiare questa legge. Brusca è una bestia che non può uscire dalla galera. Se c’è l’ergastolo a chi dovremmo darlo se non a lui? Io da essere umano non riesco a esser così buono: per lui ergastolo e lavoro obbligatorio in carcere”. Incredula Giorgia Meloni:“Lo ‘scannacristiani’ che ha commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti, ha fatto saltare in aria il giudice Falcone e la sua scorta e ha ordinato di strangolare e sciogliere nell’acido il piccolo Di Matteo, è tornato libero. È una notizia che lascia senza fiato e fa venire i brividi. L’idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile, è un affronto per le vittime, per i caduti contro la mafia e per tutti i servitori dello Stato che ogni giorno sono in prima linea contro la criminalità organizzata. 25 anni di carcere sono troppo pochi per quello che ha fatto. È una sconfitta per tutti, una vergogna per l’Italia intera”. “Un sistema premiale per i mafiosi che collaborano in carcere deve esistere – sostiene il vicepresidente della Camera e presidente di Italia Viva Ettore Rosato – Serve ad ottenere informazioni che altrimenti impiegheremmo più tempo ad avere, serve a capirne meglio gli intrecci, a colpire la criminalità organizzata nel modo più efficace. Ancor più se a parlare sono boss del calibro di Giovanni Brusca. Ma è evidente che vederlo tornare in libertà dopo soli 25 anni di carcere a fronte degli innumerevoli delitti e omicidi commessi (Capaci e il piccolo Di Matteo tra tutti) scuote le coscienze. Quella alla mafia è una guerra complicata, e non sempre le decisioni più istintive sono quelle giuste. Voglio ringraziare Maria Falcone, sorella di Giovanni, per le sue parole: ‘Questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata’”. Per il M5S si è fatta sentire la sindaca di Roma, Virginia Raggi: ”Brusca libero? Non voglio crederci. È una vergogna inaccettabile, un’ingiustizia per tutto il Paese. Sempre dalla parte delle vittime e di chi lotta e ha lottato contro la mafia’. E la vicepresidente del Senato Paola Taverna: “La scarcerazione di Brusca riapre una ferita dolorosa per tutto il Paese. Una vergogna senza pari, un insulto alla memoria di chi è caduto per difendere lo Stato. Serve subito una nuova legge sull’ergastolo ostativo. Nessun passo indietro davanti alla Mafia”, ha scritto su Twitter. ”La libertà vigilata di Brusca colpisce le nostre coscienze ma è tornato in libertà perché ha scontato la sua pena, calcolata tenendo conto della sua collaborazione con la Giustizia e del suo contributo alle indagini, in virtù di un percorso di legge fortemente voluto dallo stesso Falcone che credeva nella forza dello Stato democratico quando applica le leggi e persegue la Costituzione – dichiarano i parlamentari M5S della commissione Antimafia – Piuttosto, questo episodio deve spingere tutti noi ad agire in fretta per scongiurare il pericolo – originato della pronuncia della Corte Costituzionale sul cosiddetto ergastolo ostativo – che molti boss mafiosi potrebbero godere di benefici e uscire dal carcere (dopo un periodo di piena detenzione analogo a quello di Brusca) senza aver mai collaborato, senza aver mai dato alcun contributo all’accertamento della verità, essendosi peraltro macchiati di reati analoghi a quelli di Brusca. Ci auguriamo che lo sconforto di oggi spinga tutte le forze politiche a ragionare sulla riforma dell’ergastolo ostativo, su cui abbiamo presentato una proposta di legge negli scorsi giorni”. Sui social la reazione di Mara Carfagna, ministra per il Sud e la Coesione territoriale: “È un atto tecnicamente inevitabile ma moralmente impossibile da accettare. Mai più sconti di pena ai mafiosi, mai più indulgenza per chi si è macchiato di sangue innocente. Sono vicina ai parenti delle vittime, oggi è un giorno triste per tutti”. Per Forza Italia, è intervenuto anche il coordinatore nazionale Antonio Tajani: “È impossibile credere che un criminale come Brusca possa meritare qualsiasi beneficio. La sua uscita dal carcere fa venire i brividi. Questa non è giustizia giusta. Vicino alle famiglie delle vittime dei suoi efferati omicidi di mafia”. E il senatore Maurizio Gasparricomponente del Comitato di Presidenza di FI: “Sarà pure avvenuta in base al rispetto delle leggi vigenti, ma la notizia della scarcerazione di Brusca inorridisce tutte le persone perbene. Rinnoviamo la condanna imperitura della mafia, di tutte le forme di criminalità organizzata, di personaggi come Brusca che non meritano di circolare tra i cittadini. La rabbia, l’amarezza e lo sconcerto di alcuni familiari delle vittime sono i sentimenti che albergano nel cuore di tutti i cittadini onesti”. LA REPUBBLICA

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco