Alle 17,58 del 23 maggio 1992 Antonio Vassallo aveva 24 anni e si trovava sul terrazzo della sua abitazione a Capaci che dista 300 metri dall’autostrada. Ancora non poteva sapere che nel giro di qualche secondo un evento epocale gli avrebbe cambiato per sempre la vita.
Antonio aveva iniziato il suo impegno quattro anni prima, quando con un gruppo di coetanei aveva fondato il “Gruppo 88”, un’associazione che tra un’attività ludica e una passeggiata in bicicletta sollevava i problemi che attagliavano la nostra comunità, come la speculazione edilizia che si stava mangiando il territorio.
“Eravamo un gruppo di ragazzi innamorati del nostro territorio, e in quanto innamorati lo difendevamo” dice Antonio, che per farsi intervistare mi accoglie nel suo studio fotografico sul corso principale di Capaci. Una passione, quella della fotografia, iniziata dopo la leva militare e divenuta ben presto un mestiere. E proprio una fotografia sarà al centro di una vicenda inquietante che avrà Antonio come protagonista.
Tutto inizia il 23 maggio 1992, alle 17,58, quando una carica di 500 chili di tritolo esplode, distruggendo un pezzo di A29 e uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Schifani, Montinaro e Dicillo.
A 32 anni dalla strage, Antonio Vassallo ha raccontato a Compaesano la sua testimonianza del 23 maggio.
“Allora abitavo – e abito tutt’oggi – a 300 metri da dove avvenne la strage, a metà strada tra quel pezzo di autostrada cancellata e la collinetta da cui fu azionato il telecomando che provocò l’esplosione. Il 23 maggio del 1992 mi trovavo a casa, sul terrazzo che si affaccia sulla parte a valle verso il mare, verso quell’autostrada, quando alle 17,58 ho sentito una fortissima esplosione.
Non posso descrivere che rumore fanno 500 chili di esplosivo, so solo che la montagna che sovrasta Capaci riversò sia l’onda d’urto che il suono”.
I cittadini di Capaci pensarono che fosse successo qualcosa nel deposito esplosivi di un cava che in quegli anni era attiva e che più volte al giorno con delle piccole esplosioni estraeva pietre dalla montagna.
“A me bastò girare lo sguardo verso l’autostrada da cui proveniva questo nuvolone di fumo e detriti che si era alzato altissimo nel cielo. Afferro la macchina fotografica che era già pronta perché la sera avrei avuto un compleanno e salto sul mio scooter 50”.
Mentre percorre quei 300 metri che lo distanziano dal luogo della strage, con la macchina fotografica che gli sballottola sul petto e l’adrenalina che gli pompa dentro il petto, la sua mente si riempie di domande sulla causa dell’esplosione.
“Pensavo che fosse saltata i aria un’autocisterna piena di gas: non pensavo che per uccidere un uomo si progettasse di far saltare in aria un’autostra con 500 chili di tritolo. Lì accanto casa mia”.
L’esplosione è così violenta che oltre all’asfalto e ai guardrail, si sradicano pure gli alberi d’ulivo secolari, che con tutte le radici saltano in aria ricadendo al contrario.
“Sono costretto ad appoggiare il mio scooter al tronco di un albero e proseguo a piedi perché la strada era impraticabile e mi ritrovo davanti questo’autpstrada che non c’era più: c’era una voragine larga decine di metri.
La mia attenzione è subito attirata da questa macchina bianca in bilico sull’orlo del cratere: sostanzialmente integra, solo con il vano motore danneggiato e con un principio di incendio. Decido di scalare la collinetta e da lì mi rendo conto che le macchine coinvolte sono molte di più”.
Quel 23 maggio è un bel sabato di primavera e i palermitani lasciano la città per raggiungere le zone di villeggiatura: saranno circa 20 i civili coinvolti nell’esplosione.
Circondato da feriti ancora storditi, l’attenzione di Antonio è sempre attirata da quella macchia bianca perché alla guida c’era un uomo incastrato gravemente ferito alle gambe e al torace. L’uomo ha il viso ricoperto di sangue ma Antonio si rende conto che è ancora in vita.
“Era cosciente e aveva gli occhi aperti: anche se distavamo cinque-sei metri, per un attimo ho incrociato quegli occhi e i suoi hanno incrociato i miei.
Ci siamo cercati e ci siamo trovati. Ancora oggi, dopo tutti questi anni, mi chiedo cosa avrà pensato il Dottor Falcone in quegli istanti guardandomi: probabilmente ha pensato che fossi uno del comando pronto a finirlo”.
Non potremo mai sapere cosa ha pensato Falcone in quegli istanti, ma che Vassallo potesse essere un uomo del commando lo ha pensato anche qualcun altro: dalla seconda macchina di scorta, quella che finisce quasi per tamponare la Chroma di Falcone, scendono due dei tre agenti di scorta sopravvissuti all’esplosione. Sono storditi e confusi ma fanno scattare il dispositivo di protezione a “Monza 500”, il nome in codice di Falcone: mitra in mano, proteggono l’auto del giudice e intimano a Vassallo di non avvicinarsi.
“Fui costretto a scappare: uno di loro, agitandomi il mitra contro, mi urlò di allontanarmi , cosa che io feci istintivamente”.
Vassallo ritorna dopo dieci minuti: a quel punto non è più solo, è arrivata gente per prestare soccorso, in lontananza si sente il suono delle sirene delle ambulanze in arrivo. Ed è a quel punto che Antonio ricorda di avere al collo la macchina fotografica e in tasca il tesserino rilasciato dalla Polizia di Stato.
“Non ero un fotografo di cronaca nera, io ancora oggi faccio il fotografo di cerimonie, però in quel momento sento fortissimo il dovere di documentare il tutto fotograficamente.
Comincio con delle fotografie panoramiche, poi mi avvicino sempre pia al luogo interessato dall’esplosione, fino a fotografe il folto gruppo di persone che intorno a quella Croma bianca avevano difficoltà a estrarlo fuori, perché i detriti erano caduti attorno alla macchina di Falcone rendendone difficoltosa l’apertura”.
In quel momento giunge la notizia del ritrovamento della prima Croma, quella che apriva il corteo, con a bordo i tre agenti di scorta Schifani, Montinaro e Dicillo.
Se inizialmente si era pensato che l’auto fosse scampata all’esplosione riuscendo a raggiunge la città per chiamare aiuto, ben presto ci si dovette ricredere: l’auto blindata con i tre agenti di scorta, infatti, fu quella investita in pieno dall’esplosione, che la proiettò in aria facendola atterrare a una distanza di circa 80 metri nelle campagne circostanti.
L’auto atterrò sottosopra, con l’abitacolo ridotto a uno spessore di dieci centimetri. I tre saranno tirati fuori da lì a pezzi.
“Io mi mantengo a distanza e faccio due o tre scatti con la mia macchina fotografica. A questo punto vengo avvicinato da due uomini in abiti civili che mi dicono essere poliziotti. Mi sventolano in faccia un tesserino così velocemente da non farmi capire se fosse della Polizia o della piscina, chiedendomi di consegnare il rullino fotografico. Allora io con orgoglio esibisco il tesserino da fotografo chiedendo solo di completare quel rullino di 36 pose.
Loro se ne fregano, mi afferrano il braccio esercitando una leggera violenza e rinnovandomi l’invito a consegnare il rullino: a quel punto l’ho consegnato”.
Ancora non gli è chiaro quello che sta succedendo e a cui sta assistendo. Non sarà fino al suo ritorno a casa, guardando l’ennesima edizione speciale del telegiornale, che scoprirà che quell’uomo con cui aveva incrociato lo sguardo era Giovani Falcone. Poi, arriverà la notizia della morte del giudice e della moglie.
C’è una naturale conseguenza alle brutture della Storia, alla miseria umana, all’orrore della carneficina: una naturale, spontanea e necessaria ribellione, un atto di resistenza per rompere il silenzio. Nelle ore successive Antonio si riunisce con gli altri del Gruppo 88 per discutere e decidere cosa fare. Non ci stanno, vogliono reagire, vogliono far sapere che Capaci non è solo la tomba di Falcone, Capaci è anche riscatto e voglia di cambiamento.
Discutono tra di loro finché notano che la Statale 113 che attraversa Capaci era completamente intasata a causa dell’esplosione in autostrada: una lunga colonna di auto proprio al centro del paese.
Recuperano quindi dei cartelloni e dei pennelli che avrebbero dovuto usare per una iniziativa che si sarebbe dovuta tenere alcuni giorni dopo e istintivamente iniziano a scrivere frasi contro la mafia.
“Frasi banali, ma che onoravano la figura di Falcone.
Frasi che mandavano a quel paese i mafiosi. Cartelloni che ricordavano quanto fossero merde i fiancheggiatori e i sostenitori che ruotano intorno alla mafia.
Riempimmo tutti i sessantaquattro ficus bellissimi che fanno da cornice alla Statale 113 che attraversa Capaci con questi cartelli. Il giorno dopo Antonino Caponnetto arrivò da Roma con il cuore a pezzi: alle prime luci dell’alba attraversò Capaci e si rincuorò alla vista dei cartelli appesi agli alberi del paese.
Giunto a Palermo incontrò Paolo Borsellino e gli raccontò dei cartelli. Un mese dopo fu Borsellino a chiamare Caponnetto per dirgli che attraversando Capaci aveva visto anche lui i cartelli, fortunatamente ancora appesi. Questo lo abbiamo letto in un libro dello stesso Caponnetto, quindi da allora, ogni anno, riempiamo i sessantaquattro ficus con dei cartelli. È un impegno che ci siamo presi e che rispetteremo finché ci saremo e che speriamo di tramandare ai giovani”.
La reazione di Antonio e degli altri del gruppo non si manifesta solamente simbolicamente, ma vuole essere concreta e di aiuto alle indagini.
D’altronde, oltre a conoscere il paese e aver notato strani movimenti nelle settimane precedenti il 23 maggio, Antonio non ha dimenticato quel rullino sequestratogli quel pomeriggio dai due uomini identificatisi come poliziotti.
“Per lungo tempo ho pensato che le mie fotografie avrebbero fatto un percorso normale finendo nelle mani degli investigatori e rivelandosi utili per le indagini. Magari mi avrebbero pure chiamato per ringraziarmi. Invece non chiamò nessuno”.
Questa vicenda cade quasi nel dimenticatoio finché sette mesi dopo i ragazzi del Gruppo 88 decidono di recarsi a Caltanissetta per rendere dichiarazioni spontanee a Ilda Boccassini, magistrata e amica di Falcone che si era fatta trasferire presso quella procura per seguire le indagini sulla strage di Capaci. Ed è proprio durante questa chiacchierata alla procura di Caltanissetta, sette mesi dopo la strage, che Antonio Vassallo scopre che le sue fotografie, sulla scrivania della Boccassini, non sono mai arrivate.
Il giorno dopo l’incontro con la Boccassini, Vassallo viene convocato da Arnaldo La Barbera, il poliziotto nominato Questore di Palermo dopo le stragi ma al contempo uomo dei servizi segreti deviati con il nome in codice “Ruttilius”, al centro della sparizione dell’agenda rossa di Borsellino e della “creazione” del falso pentito Scarantino.
“Il Questore La Barbera sostanzialmente si scusa con me, dicendomi che le mie fotografie erano state dimenticate in un cassetto per sette mesi.
Non me le fa vedere, ma mi assicura che proprio in quelle ore erano state mandate agli investigatori della procura di Caltanissetta. Ma quando si aprì il processo per la strage di Capaci scopro che le mie fotografie non erano agli atti. Mi amareggio ancora di più e mi incuriosisco, volevo sapere perché le mie fotografie erano di nuovo sparite.
Da piu parti venni invitato alla prudenza, perché probabilmente avevo fotografato qualucuno o qualcosa che non dovevo fotografare: ancora oggi mi chiedo chi. Forse quelle persone che sono già sul posto, si fingono soccorritori e devono fare un altro mestiere, per esempio uccidere i feriti fingendo di soccorrerli oppure fare sparire dei documenti importanti come è accaduto in Via D’Amelio. Anche a Capaci è stata sottratta la ventiquattro ore di Falcone che conteneva due agende. Però non c’è una fotografia che lo documenta.”
Vassallo racconta di aver svolto delle ricerche durante la pandemia e di aver scoperto una relazione di servizio datata 23 maggio 1992 e firmata dall’Ispettore Santo Catani, tra i primi ad arrivare a Capaci.
“In questa relazione l’Ispettore Catani dice di ricevere dai tre agenti sopravvissuti la ventiquattro ore di Falcone e che a sua volta la consegna ad Arnaldo La Barbera. Probabilmente ho fotografato tutto questo”.
Chissà se le fotografie di Vassallo spunteranno mai fuori da qualche archivio rimasto chiuso per tutto questo tempo.
Tempo in cui Antonio è diventato uomo, ha messo su famiglia, ha continuato a lavorare come fotografo di cerimonie ma anche come attivista.
Quelli successivi alla strage sono anni di maggiore impegno e di rinnovata speranza che investe diversi comuni siciliani: Antonio si candida al consiglio comunale di Capaci dove farà il consigliere di opposizione per 25 anni (“Perdendo orgogliosamente tutte le tornate elettorali”, specifica con un sorriso). Dopo aver smesso con la politica si è dedicato ad accogliere le scolaresche in visita a Capaci e raccontare loro la sua testimonianza.
Un lavoro di memoria che ogni giorno diversi volontari di Capaci trasmettono alle nuove generazioni. Sarà proprio questo esercizio sulla memoria a permettere ad Antonio di recuperare un pezzo del puzzle che per anni aveva completamente rimosso. Si tratta di un episodio che lo aveva visto protagonista quel 23 maggio: il momento in cui uno degli agenti di scorta sopravvissuti, con il mitra in mano, gli urlò di allontanarsi dall’auto di Falcone.
“Per lungo tempo ho rimosso questa storia, forse perché traumatica. La rimuovo per 17 lunghissimi anni”.
Finché proprio nel diciassettesimo anniversario della strage, nel maggio 2009, viene organizzato un raduno motociclistico in un parco cittadino confiscato al boss Tano Badalamenti e a cui vengono invitati i tre agenti di scorta della Quarta Savona Quindici sopravvissuti: Gaspare Cervello, Antonio Capuzza e Angelo Corbo.
Quando arriva lì Antonio vede tanta gente e dal palco sente Gaetano Curreri cantare quella che secondo lui è una delle canzoni più belle su quella stagione di bombe: “Per la bandiera”, scritta insieme a Francesco Guccini.
Antonio allora si avvicina ai primi due agenti di scorta: vuole capire se anche loro si ricordano di lui. Ma entrambi allargano le braccia perché nessuno dei due si ricorda di Antonio, che a quel punto si avvicina al terzo agente, Angelo Corbo. Bastano poche parole di Antonio che Corbo collega subito, lo interrompe e gli dice:
“Antonio, sono diciassette anni che mi chiedo chi era quella persona presente sul luogo della strage negli istanti successivi all’esplosione, con un oggetto nero in mano. Tu oggi mi dici che era una macchina fotografica, ma in quel momento di stordimento non potevo saperlo. Quel giorno hai fatto bene a scappare: avevo il dito sul grilletto che aveva già fatto mezza corsa”.
“Dopo questa parole” spiega Vassallo “Angelo Corbo è diventato il fratello che non ho mai avuto. Ma soprattutto realizzai che grazie al dito sul grilletto che si era fermato, da quel 23 maggio avevo della vita avanzata. Ed è per questo che quando qualcuno me lo chiede, ritaglio un pezzo di quella vita avanzata e racconto la mia verità di contrabbando di un 23 maggio poco rassicurante”.