21.4.1996 «La mia vita nella scorta un matrimonio con la paura»

 

«La mia vita nella scorta matrimonio con la paura» «La mia vita nella scorta matrimonio con la paura» Dopo le stragi del ’92, sua moglie ebbe due minacce di aborto, per fortuna senza conseguenze. Il bambino è nato, è cresciuto e sta bene. Lui, all’indomani della morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e i suoi otto colleghi trucidati dalla mafia, non pensò nemmeno per un attimo a lasciare l’ufficio scorte della questura di Palermo. «Sarebbe stato come tradire il giuramento che si fa il giorno del matrimonio, quando si promette di restare insieme nella buona e nella cattiva sorta. Il tradimento di un ideale per il quale i miei colleghi erano morti. L’ideale e la battaglia che portano avanti gli uomini che proteggiamo, ieri Falcone, oggi gli altri. Quindi sono rimasto. Che cosa ha detto mia moglie? Non ne abbiamo parlato». Lavora da dieci anni nel più grande e più impegnato ufficio scorte d’Italia. Prima faceva l’antiterrorismo al Nord, è tornato a Palermo nell’86, per il primo maxi-processo, e c’è rimasto. Adesso giornali e tv hanno dato in pasto al Paese il presunto tradimento di uno di loro, uno che – come il nostro interlocutore – è «transitato» per alcuni mesi nella scorta di Falcone. «Siamo stati colti alla sprovvista. E naturalmente ci siamo rimasti male. Amareggiati, dispiaciuti. Ma attenzione: come ha detto il questore, tra quella persona a la morte di Falcone non c’è alcuna relazione. In qualsiasi ambiente possono esserci fenomeni del genere, ma sono casi isolati, circoscritti, non ne farei una patologia. Anche perché, di fronte a comportamenti che siano minimamente sospetti, noi riferiremmo immediatamente ai superiori e immediatamente si prenderebbero le contromisure». A lei e mai capitato in questi dieci anni? «No, mai». Il nome del «nostro agente a Palermo» rimane segreto per ovvi motivi di sicurezza. Ha 33 anni, e per lavoro vive attaccato ad uno dei magistrati antimafia più in vista di Palermo. «La molla che me lo fa fare non è il denaro e non sono le gratifiche successive ai conflitti a fuoco. E’ il rapporto umano che si crea con la persona che ci affida la sua sicurezza; un rapporto quasi simbiotico, di carattere personale e difficile da spiegare, fatto di mille discorsi che vanno al di là del lavoro, di relazioni coi rispettivi familiari, di sensazioni condivise. Non ci sono orari o straordinari non pagati che possano incrinarlo. E tantomeno la paura». Paura che non c’è, «semmai c’è la consapevolezza della responsabilità e della delicatezza del servizio: la protezione della vita che ci è stata affidata e anche della nostra, alla quale, le assicuro, teniamo moltissimo», dice l’«angelo custode» di professione. E non c’è tensione, «semmai attenzione, sempre alta, sempre al massimo. Naturalmente i momenti più rischiosi e difficili sono negli spostamenti. E quando si deve andare in posti che non conosciamo. Che sia sconosciuto al momento dell’arrivo con la persona da proteggere, comunque, non accade quasi mai. Un ristorante, una casa, o qualsiasi altro posto li visitiamo in anticipo, “bonifichiamo l’ambiente”, come diciamo noi». Sempre con discrezione, facendosi notare il meno possibile. «E’ una delle regole principali: sul piano operativo, più si passa inosservati e meglio è». L’ufficio «è attrezzato a sufficienza, anche se le macchine e gli altri mezzi non sono mai troppi». E quando si scoprono nuovi piani della mafia per colpire? I missili aria-aria, i bazooka custoditi negli arsenali delle cosche? «Eh, quando si trova un bazooka siamo contenti, così non ce l’hanno più loro. Dopo il ’92 sappiamo bene di che cosa è capace la mafia, i duelli del Far West ce li siamo dimenticati da un pezzo. E ci siamo attrezzati, per quello che è possibile». Il lavoro va avanti così, tutte le ore del giorno e a volte qualcuna della notte; «andiamo a dormire quando ci va lui». Senza nessuna invidia per i colleghi investigatori, o quelli che appaiono sul giornale con nome e cognome. «Certo, per loro la gratificazione può essere più immediata, ma dire che noi non ne abbiamo sarebbe una bugia. Anche perché sappiamo tutti di partecipare, ciascuno coi suoi compiti, ad una battaglia comune». Giovanni Bianconi LA STAMPA