La corruzione è l’habitat ideale per le mafie

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di Lionello Mancini

 

 

di Lionello Mancini

 

Quanto ci costano le mafie? Non è il caso di dare i numeri: quelli sparati alla grossa per spuntare un titolo di giornale non aiutano. Una risposta seria – perciò articolata, non eclatante né condensabile in cifre monstre – è stata ricercata nei cinque giorni della Summer school organizzata dal dipartimento di Scienze sociali e politiche della Statale di Milano.

Il corso, coordinato da Nando dalla Chiesa e intitolato “La tassa mafiosa: i costi economici e sociali della criminalità organizzata”, ha fornito un contributo interdisciplinare di qualità attraverso le analisi e le ricerche di economisti, storici, magistrati, sociologi. Idea centrale della Summer school: la necessità di comprendere a fondo «i rapporti tra la criminalità organizzata e la vita quotidiana dei cittadini, delle istituzioni e delle imprese», quantificandone le conseguenze sui territori infestati e gli influssi sempre più evidenti sull’assetto socio-economico complessivo del Paese. Perché, finché si tratta di contare i killer o i picciotti arrestati, il plauso sociale è forte. Ma quando si comincia a entrare nell’area grigia delle collusioni, dei favori, dello scambio forzoso o interessato tra mondo criminale e mondo “normale”, il giudizio si complica, diventa terreno di polemiche e persino di critiche feroci all’apparato repressivo. Magistrati in testa.

La ricerca scientifica dice che esiste un intreccio profondo tra l’espansione del fenomeno mafioso e la corruzione. Corruzione in senso lato, che vede stravolte le regole del mercato, compromessa la selezione delle classi dirigenti, deviati i flussi di denaro pubblico, rese le “amicizie” vincenti sulle competenze.

In questo habitat paludoso, senza trasparenza né vincoli legali, prospera la mafia con i suoi interessi depauperanti per antonomasia, poiché incamera il grosso del denaro sottratto alla collettività, distribuendone una piccola parte a professionisti, imprenditori, politici, funzionari pubblici infedeli che tali proventi rendono possibili, camuffano, fanno circolare in sicurezza: l’area grigia. E sarà difficile ai magistrati, codice penale alla mano, dimostrare che il commercialista sapeva, l’imprenditore colludeva, l’avvocato favoriva, il sindaco è tale grazie all’influenza del boss locale.

Le analisi più avanzate hanno ricostruito network di contropotere in cui le armi poco contano, tanto che se il boss finisce in galera la rete non smette di operare, perché ormai dotata di vita propria, con un funzionamento socialmente accettato e al quale appare conveniente essere inclusi per avere successo o anche solo lavorare. E i costi? I costi sono nascosti nella bassa qualità di infrastrutture e servizi pubblici, nelle grandi opere mal eseguite e superfatturate, nel denaro pubblico necessario a ripulire i rifiuti mal sversati, nel mercato del falso, la fuga degli imprenditori seri, quella dei giovani talenti che devono cedere il passo ai ben ammanicati.

Una congerie di elementi che, alle aree dominate o contaminate dalla mafia, costano percentuali di Pil di svantaggio sul resto del Paese. E al Paese, ancora privo di una legge che colpisce le nuove forme di corruzione, un ritardo avvilente sul resto dell’Europa e del mondo.

 

Sole 24 Ore 17 settembre 2012