Due eroi civili che nessuno può dimenticare

Mancini 300

 

di Lionello Mancini

Capita, a volte, di rileggere storie (nemmeno troppo lontane) che, mentre raccontano la difficile “normalità” e i prezzi pagati dall’impresa in certi territori, permettono anche di misurare analogie e distanze con la realtà attuale.
La storia è quella dell’uccisione di due manager, avvenuta nei dintorni di Catania il 31 ottobre 1990. Uno, Francesco Vecchio, siciliano, 52 anni, era direttore del personale dell’Acciaieria Megara; l’altro, Alessandro Rovetta, 33 anni, bresciano, era amministratore delegato e comproprietario dell’importante industria catanese. Quella sera di 23 anni fa, poco lontano dallo stabilimento, la Peugeot 505 su cui viaggiavano Vecchio e Rovetta era diventata il bersaglio di centinaia di proiettili. La solita telefonata anonima aveva avvertito la Polizia dell’agguato, ma i soccorsi erano stati inutili. Che cosa avevano fatto Vecchio e Rovetta per essere condannati a un’esecuzione mafiosa così devastante e plateale? Nulla, se non il proprio mestiere.

Sul finire degli anni 80 l’Acciaieria aveva avviato un processo di ammodernamento tecnologico, per il quale aveva ottenuto circa 60 miliardi di lire dalla Regione Sicilia. Proprio per dar corso alla ristrutturazione la Megara aveva affidato alcuni lavori a società esterne, che utilizzavano personale proprio. Fino a tre mesi prima, Vecchio si era occupato della gestione del solo personale interno, ma da agosto, con l’uscita dall’azienda del direttore tecnico, si era preso in carico anche la gestione delle maestranze e delle aziende dell’indotto (un centinaio di persone). Dopo alcuni controlli sulle attività di queste ditte, Vecchio – «con il rigore, l’attenzione e la professionalità che tutti ben conoscevano», riportano le cronache dell’epoca – aveva deciso di applicare anche ai dipendenti esterni le modalità di controllo-presenze in uso per il personale Megara. Poco dopo erano iniziate le minacce telefoniche e le intimidazioni in azienda, puntualmente riferite alle forze dell’ordine, che infatti avevano cominciato a sorvegliare le abitazioni dei due manager. Il duplice delitto è tuttora un caso irrisolto, anche se le indagini sono state da subito indirizzate sul versante dell’interesse mafioso ai fondi regionali e al controllo dell’azienda, come su quello della gestione dei rapporti con le ditte e le maestranze dell’indotto.

Quella di Vecchio e Rovetta è una storia importante di per sé, così come lo è il caso Ambrosoli od ogni altra vicenda in cui un eroe civile – senza averlo scelto – si è trovato a testimoniare con la vita la banale idea di compiere il proprio dovere. Per fortuna in questi anni le cose sono cambiate. Gli strumenti di contrasto e la stessa cultura antimafia hanno elaborato linee nuove e per lo più efficaci (quando applicate). Resta la lezione dei manager Megara: non c’è nulla che indebolisca il crimine organizzato come la determinazione nello svolgere al meglio i propri compiti. Se è ben vero che dovrebbero essere le leggi a garantire serenità alla società, è altrettanto vero che ogni passo indietro, compromesso o aggiustamento, anche individuale, è uno spazio di libertà ceduto e subito occupato dal malaffare.

Sole 24 Ore 28.10.2013

Editoriali precedenti