di Lionello Mancini
Gli arresti che hanno coinvolto l’Expo hanno scalzato dai titoli di testa la vicenda di Genny ‘a carogna, con la pantomima mediatico-istituzionale che l’ha accompagnata. Eppure le dinamiche all’origine di questi due clamorosi eventi sono analoghe.
Quel sabato 3 maggio, bande organizzate hanno imperversato a Roma armate di spranghe, bombe carta, coltelli, pistole; ne è seguito l’immediato scaricabarile tra autorità e società sportive che hanno stigmatizzato i violenti, senza tuttavia aver mai rinunciato a intrattenere con i loro capi e gregari rapporti di convenienza e tolleranza. Non una denuncia, nessuna vera presa di distanza, anzi…Nei fatti le società sportive non disdegnano la compagnia di questi banditi, li riforniscono di biglietti, pagano i loro striscioni e le coreografie da spalto. L’aria sorpresa e indignata è d’obbligo quando i delinquenti diventano gladiatori feroci contro le forze dell’ordine, devastano treni, infrangono vetrine. Tutto il resto, purché non si veda, è almeno tollerato. Quando la giustizia sportiva punisce un team o un impianto, i lai sono alti, i ricorsi certi, l’assunzione di responsabilità assente. Il bene comune da preservare sarebbe lo sport, ma la sua difesa viene ipocritamente delegata ai reparti della celere, al loro impegno stressante e dispendioso per ogni cittadino che non evada le tasse. Mentre Federazioni, dirigenti e calciatori chinano il capo timorosi: «Anche con noi diventano violenti». La Digos arresta, fotografa, infligge Daspo; i reparti reggono violentissimi corpo a corpo con le bande e il tema mediatico diventa in un lampo la repressione insufficiente (oppure troppo ruvida); le Procure sono così costrette a perdere tempo su nuove “trattative”, mentre sull’onda di paura e sdegno, i ministri annunciano vacui Daspo sempiterni, altre forze in divisa, schedature di massa. Tutta scena, ormai lo sappiamo. «Noi non siamo poliziotti» dicono i club, a significare che i delinquenti vanno trattati da delinquenti, ma – attenzione – solo da Polizia e giudici, mentre continuano sottobanco blandizie, selfie, favori e prebende, scansando i doverosi investimenti in sicurezza. L’opposizione politica punta (ovviamente) il dito sul Governo, specie con elezioni alle viste, e non mancheranno annunci di norme che non vedranno la luce oppure, se la vedranno, renderanno più complicati i processi. Se, ora, al “bene calcio” sostituiamo il “bene economia” e alle orde tatuate i mafiosi e i colletti bianchi, il parallelo diventa cogente, perché le radici culturali della defaillance sono le stesse. Paesi come la Gran Bretagna, che con fermezza e largo assenso hanno asfaltato gli hooligans ripartendo responsabilità e costi sui soggetti interessati (società calcistiche in primis), dimostrano che l’obiettivo è alla portata. Come lo è stato unificare due Germanie e disinquinare città irrespirabili. Ma così funzionano solo gli Stati governati senza opache stanze di compensazione, dove i politici che falliscono si dimettono, gli evasori fiscali vanno in galera, concorsi e appalti vanno solo ai migliori. Sono Stati formati da cittadini indirizzati da norme chiare e dall’esempio di chi li governa. L’Italia, con ogni evidenza, non è ancora uno di questi Stati, ma può e deve diventarlo.
Sole 24 Ore 19.5.2014